CONSIDERAZIONI SU “PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO
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CONSIDERAZIONI SU “PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO
CONSIDERAZIONI SU “PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO” Riccione 12/6/08 Cara Mariangela, caro Cesare, ho cercato un qualche ordine del discorso a partire dal vostro Fratello rotto, che ho rievocato attraverso la versione video, ritrovando le emozioni di una grande esperienza spettatoriale; era come – ripensando a un febbrone infantile – ricordarne i postumi: le gambe rotte (appunto) della convalescenza, lo stordimento, la debolezza… insomma niente che possa fare senso, riflessione, ordine del discorso. Vi dovrete dunque accontentare di un disordine del discorso, una breve privatissima catena di libere associazioni, che poi chissà chi ci garantisce che sono libere davvero, se è il potere totalitario dell’inconscio che le ammette o le respinge… Comunque… Prima di tutto quell’estate a Forte dei Marmi. Cinquantuno? Cinquantadue? Avevo quattro o cinque anni? L’estate che ho scoperto il cinema e il teatro. Una notte tiepida, un’arena estiva di cui non ricordo il nome. Biancaneve e i sette nani di Disney è (e credo di non essere il solo) il primo film della mia vita. L’emozione scopica è fortissima, ma continuamente interrotta dall’ansia di mio padre che – ogni volta che appare la Strega nella sua versione grifagna – temendo che l’immagine sia troppo forte, mi mette davanti al volto il suo cappello di paglia per impedirmi la visione: un vecchio panama bianco, intriso del sudore di più e più estati, perché allora, nell’era preconsumistica, gli oggetti e i capi di vestiario avevano una longevità infinita. Così per me, originariamente, il cinema è soprattutto un’esperienza olfattiva: un acuto, acre, ma esaltante odore di sudore, il sudore di mio padre. Ma quella stessa estate, qualche giorno prima o qualche giorno dopo, spostandomi di una manciata di chilometri dalla costa verso le Alpi Apuane, in una radura in mezzo a un bosco, ho incontrato il teatro. Sotto la forma dei Cantamaggio contadini, che mettevano in scena – in versi cantati, con l’accompagnamento di un organetto e un violino – le canzoni di gesta. Era il tramonto e l’ultimo sole balenava sulle corazze di Rinaldo e Sacripante… ma la cosa che più mi colpì – lo ricordo come se fosse ora – erano le decorazioni di quelle corazze, fatte con i tappi della Cedrata Tassoni e del Chinotto. Senza saperlo eravamo già in piena pop art! Vi chiederete, mi chiederete: ma che c’entrano questi ricordi con Fratello rotto? Be’, davvero credete che non ci sia una relazione tra gli animali di Cesare e quelli di Disney? Perché non accettare l’idea che il modello disneyano – o comunque la suggestione antropomorfica dei cartoni animati – ha fatto il nido nella creatività di Cesare e da lì ha prolificato i suoi magnifici mostri di scena? Perché non ammettere che il linguaggio dei rumori che producono ed emettono non è per niente lontano dal linguaggio brechtiano onomatopeico di Donald Duck e Mickey Mouse? E mentre mi scorrevano davanti le immagini e i suoni del video di Fratello rotto vi confesso che mi sono trovato, per un lungo attimo, a fantasticare una storia tra le bestioline, il Macellaio e l’Oracolo: una fiaba bellissima e nerissima come tutte le fiabe, alla quale (forse proprio per quello) io aggiungevo il personaggio di un’oca molto molto bianca. Non offendetevi per questa appropriazione indebita, per questo vero e proprio stupro dell’immaginario. D’altra parte ogni esperienza spettatoriale intensa e felice si fonda sull’arbitrarietà, su una amorosa violenza nei confronti dell’originale. Lo sappiamo, ogni opera d’arte è figlia di due madri: quella naturale degli autori e quella adottiva degli spettatori. E mentre stavo appunto adottando Fratello rotto quei corpi segnati e disegnati, vestiti e rivestiti, quelle membra intonacate di biacca e istoriate di segni come una partitura musicale mi riportavano irresistibilmente a quel tardo pomeriggio di tanti anni fa, sulle Alpi Apuane, a quei tappi di bibita sulle corazze dei Cavalieri… e ancora una volta fantasticavo: fantasticavo di viaggi in Terrasanta, dove i MaggiCavalieri incontravano una tribù indigena tutta formata dai vostri personaggi: stregoni e sciamani e fratelli siamesi e vittime sacrificali, tutti agghindati per il rito. Quale rito? Non importa quale. Insomma, ancora una volta mi costruivo il mio testo a partire dal vostro… Del resto non è proprio questo il dispositivo su cui si è basato l’intervento di Mariangela nella stesura della sua partitura poetica? Partendo da una situazione scenica pre-esistente, dall’incontro con un corpus scenico, gestuale e sonoro già definito a priori? Ma lo sapete com’è nato Il Circolo Pickwick di Dickens? Da una ventina di illustrazioni che un disegnatore aveva preparato per un racconto a puntate di un altro scrittore, che poi non aveva rispettato la consegna. Quelle illustrazioni mica si potevano buttare. Ecco allora che Dickens si mette a inventare una sua storia a partire dai personaggi che si trova tratteggiati nei disegni. Si mette a fantasticare e a dar vita a delle figure già morfologicamente definite… così Mariangela si mette a dar voce a quelle presenze che Cesare stava plasmando in scena. Vi confesso che questa divisione del lavoro tra voi due mi ha sempre molto incuriosito e appassionato: lui che si occupa dei corpi e lei della parola, delle anime… ma, in realtà, quanta meravigliosa, spudorata spiritualità emana da quelle figure, da quei corpi e quanta fisiologica materia abita quei versi, che – tutti fioriti di neologismi e onomatopee – sembrano eretti come i muri a secco che delimitano le proprietà. Anche se in verità quel termine “proprietà”, attribuito a un’opera di Cesare e Mariangela, è davvero fuori luogo. In tutti i sensi. Nel senso del possesso, perché mai, neppure per un attimo, si riesce ad associare la loro pratica creativa a una qualsiasi forma o accezione di “proprietà letteraria”, quasi che non esistesse una unità di misura per definirne il perimetro o il peso. Quanti acri misura il vostro campo? Quanti quintali di bellezza produce? Forse proprietà nel senso del francese “propre”, pulito, in ordine… infatti, alla fine di ogni vostra rappresentazione, la mia sensazione è quella di trovarmi in un cantiere a fine giornata e di rimanere ammirato per come il capomastro e i suoi manovali lasciano quel luogo dello spirito perfettamente in ordine. Perché il vostro teatro produce e impone un nuovo ordine, mentale ed emotivo, una nuova – questa volta sì – proprietà di linguaggio. Questa è la grande forza del vostro fare teatro, se vogliamo chiamarlo teatro. Anche se la tentazione di trovargli un altro nome è forte. Perché ogni volta che mi accosto a quel che fate, alle vostre pratiche creative, non mi sembra di trovarmi di fronte a una delle tante possibili varianti della teatralità contemporanea, ma di fronte a una lingua sconosciuta, a un’organizzazione dello spazio e del tempo assolutamente inediti. Un po’ come capitava – fino al secolo scorso – agli antropologi che scoprivano una tribù primitiva e si trovavano di fronte a sistemi di parentela diversi da quelli dominanti nelle società evolute. Così avviene con voi, con i vostri sistemi drammaturgici, con le vostre fantastiche ritualità, che invariabilmente mi saziano di domande senza risposta. Perché il più delle volte le domande intorno al bello non hanno risposta. È giusto così. È giusto che continuiamo a farcele, quelle domande, e che continuiamo a non risponderci. Così come, da praticante appassionato di video teatrali, di fronte alle preziose sinopie video di Fratello rotto mi viene di ricorrere ancora una volta a una domanda senza risposta, che mi suggeriscono due versi del grande Giorgio Caproni. Due versi che, nella loro forma interrogativa, mi sembrano dire tutto, o quasi tutto, sul rapporto tra il teatro e la sua riproducibilità tecnica: Si può in un bicchiere vuoto Bere il ricordo del vino? Giuseppe Bertolucci