LA RADIO ITALIANA E LA SUA IMPORTANZA LINGUISTICA

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LA RADIO ITALIANA E LA SUA IMPORTANZA LINGUISTICA
LA RADIO ITALIANA E LA SUA IMPORTANZA
LINGUISTICA
Mirela AIOANE
Universitatea „Al. I. Cuza”, Iaşi
L’articolo presenta l’importanza della radio per la diffusione dell’italiano tra
il popolo della penisola italiana. I mass-media, ancor prima dell’avvento del
piccolo schermo, il cinema e la radio, hanno diffuso cultura e modelli linguistici.
Per certi aspetti, l’Italia appariva come una terra vergine e inesplorata rispetto
all’italiano standard, parlato solo in Toscana e dagli stratti sociali più elevati, che
potevano contare su un grado di istruzione che garantiva l’accesso alle fonti del
sapere. L’alto tasso di analfabetismo, la non omogenea diffusione della cultura
rendevano problematico l’accesso al sapere trasmesso tradizionalmente attraverso
la parola scritta. La “buona lingua” e la cultura “alta” rimanevano patrimonio e
appannaggio degli strati privilegiati della popolazione, prevalentemente, maschile.
“La radio e la televisione stanno diventando sempre più mezzi di unificazione
linguistica. Nei primi decenni del Novecento, l’immensa maggioranza degli scambi
linguistici della nazione era affidata alla lingua scritta, o più esattamente a quella
stampata. Ora la radio e la televisione sono venute a sconvolgere radicalmente
questo stato di cose. In un casolare sperduto della campagna, dove forse non è mai
giunto un uomo che parlasse un buon italiano, dove arrivano pocchissimi libri e
pochi giornali, giunge invece spessissimo la voce della radio. […] Sono poste cioè
le principali premesse perché una pronunzia corretta e relativamente uniforme
giunga dapperttutto. Non è passata una generazione da quando la radio è entrata
nella consuetudine di tutte le famiglie, e già è possibile sentire che le persone
giovani del Settentrione e del mezzogiorno, quando parlano italiano hanno un
accento meno dialettale di quello delle persone anziane.” (Migliorini 1990: 21-22).
La prima trasmisione radiofonica andò in onda in Italia per la prima volta nel
1924, ma le trasmissioni regolari iniziano soltanto nel 1925, sotto l’egida dell’ente
che aveva ottenuto il monopolio del nuovo mezzo, L’Unione Radiofonica Italiana
(nel 1927 viene trasformata in EIAR, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, poi,
nel 1944, Rai, Radiotelevisione italiana) (Cortelazzo 2000: 40).
Un indicatore dell’evoluzione del linguaggio giornalistico è il problema del
tempo. L’invenzione della radio rappresenta una tappa fondamentale
dell’evoluzione del concetto di tempo. Siamo di fronte alla pura parola e possiamo
dire che c’è stato un forte ritorno alla tradizione orale dopo la scoperta di Marconi.
Il mezzo radiofonico fu usato durante la ditttatura nazzista con Goebbels, dalla
dittatura fascista con Mussolini, dalla democrazia americana, dal presidente
Roosvelt. La radio ebbe un’importanza straordinaria nella diffusione delle notizie
attraverso transistori tra gli arabi e beduini nel deserto. All’inizio la radio fu solo
uno strumento di élite, per i costi alti degli apparecchi o dell’abbonamento, ma a
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partire dagli anni trenta, il regime fascista si rese conto delle sue potenzialità per
l’organizzazione del consenso e cominciò a promuovere l’allestimento di centri di
ascolto collettivo nelle piazze, nelle case del fascio, neocentri rurali, nelle scuole e
la radio divenne di conseguenza mezzo di comunicazione e, allo stesso tempo,
strumento di socializzazione. Si può dire che solo dopo la seconda guerra
mondiale, la radio diventa mezzo di intrattenimento e di informazione nell’ambito
domestico. Michele Cortelazzo indica una cifra di 2 milioni di abbonati (rispetto a
soli 500000 nel 1935 e 1 milione nel 1939) (Cortelazzo 2000:41).
De Mauro afferma che nel 1963, circa 69% della popolazione italiana
ascoltava la radio. Negli anni Settanta si verifica un mutamento strutturale della
radiofonia italiana con l’aggiunta alla radio nazionale pubblica di all’incirca 4000
radio private, locali che trasmettono musica e piccola pubblicità, notiziari locali e
interventi degli ascoltatori, e anche di altri emittenti privati nazionali.
Il pubblico del giornale stampato è ovviamente diverso da quello del
giornale radio. I lettori dei quotidiani hanno una velocità di lettura regolata da loro
stessi, quello che non può succedere per gli ascoltatori della radio. Il linguaggio
dell’informazione non è assistito da espedienti grammaticali presenti nel
linguaggio scritto: l’uso delle iniziali maiuscole, le virgolette ecc. Nel 1948,
Antonio Piccone Stella (Faustini 1998: 148) scriveva in un manuale edito dalla Rai:
“Le notizie del giornale radio sono dette. Bisogna non stamparle, ma parlarle.
L’impostazione, l’ordine delle singole parti, il ritmo e la durata del periodo, la
scelta delle parole si ispirano a questa fondamentale esigenza. Il miglior modo di
redigere una notizia per la radio è suppore di raccontarla al primo che si incontri
per la strada. Ogni notizia è un dialogo con l’ascoltatore: un dialogo che sottintende
le domande ma dà le risposte. La notizia ‘a domande sottintese’ segue uno
svolgimento piuttosto psicologico che logico. I particolari del fatto sono disposti
non in ordine di tempo, ma di importanza. Tenere conto che l’ascoltatore, al
contrario del lettore, non può tornare indietro per rileggere quello che lì per lì non
ha capito. La notizia radiofonica deve essere sempre comprensibile. Lì per lì.
Altrimenti, fosse la più importante del mondo, sarà come non detta”. Nel manuale
di Piccone Stella (Faustini 1998: 140) ritroviamo anche altre regole pratiche quali:
“Occorre ripetere spesso il soggetto. Lo stile parlato esige periodi brevi, costrutti
semplici, legami agili. Abolire i superlativi. […] Non adoperare termini stranieri,
termini tecnici, formule scientifiche, espressioni di gergo professionale, forme
arcaiche e metaforiche, frasi fatte. Ridurre al minimo i sostantivi in -zione, gli
avverbi in -mente, i suffissi in -ismo e in -istico. […] Gli elementi letterari e
oratorii, concepiti come ornatezza stilistica sono i più lontani dal chiaro, semplice
corretto linguaggio radiofonico. Lo scrittore alla radio deve dimenticare di scrivere.
L’uso del microfono rassomiglia più a quello del telefono che dell’altoparlante.
Come una conversazione si scrivo in modo che sembri parlata, così si legge al
microfono in modo che sembri detta.”
Nel 1953 Carlo Emilio Gadda, ricordato da Sergio Lepri nel suo Medium e
messaggio, aveva redatto una guida dal titolo Norme per la redazione di un testo
radiofonico e si occupò delle conversazioni e non dell’informazione giornalistica:
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“Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In
realtà si tratta di persone ‘singole’, di monadi ovvero unità, separate le une dalle
alre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di pochi
intimi. Seduto solo nella propria poltrona, dopo avere inserito in bilancio la
profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua
segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio
radio lo catechizza. E bene perciò che la voce, e quindiil testo affidatole, si astenga
da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di un’allocuzione compiaciuta, di
un insegnamento impartito, di una predica, di una predica, di un messaggio
dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il
cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al
radioascoltatore in qualità di maestro, di pedagogo, e tanto meno di giudice o di
profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. […]
astenersi dall’uso della prima persona “io” che ha carattere esibitivo. Sostituire
all’“io” il “noi”, evitare l’autocitazione. […] Evitare le parentesi, gli incisi, gli
infarcimenti e le sospensioni sintattiche. [...] Evitare le allitterazioni involontarie,
sia le vocaliche sia le consonantiche o comunque la ripetizione continuata di un
medesimo suono. Le allitterazioni sgradevoli costituiscono inciampo a chi parla,
moltiplicano la fatica e la probabilità di errore (papera)” (Faustini 1998: 144).
Umberto Eco si chiedeva chi potesse essere l’italiano medio “incontrato per
strada” di cui parlava Piccone Stella nel suo manuale ed e arrivato a questa
conclusione: la RAI ha contribuito per molti anni a far sì che l’italiano medio
fosse, per sensibilità politica e culturale, molto somigliante all’ascoltatore medio
scelto dai grandi “network” comerciali americani: quattordicenne, di scarsa
istruzione. Quindi tendenzialmente molto influenzabile. Quindi scarsamente
reattivo. Nel classico “codice linguistico” di Piccone Stella c’erano anche altre
regole di un carattere diverso. Eccone alcune: “Le notizie su disordini, incidenti o
conflitti di natura politica sono trasmesse quando abbiano una effettiva gravità,
nella forma più concisa e obiettiva, con le debite cautela.”, oppure “Le notizie sugli
scioperi sono trasmesse quando riguardino vaste categorie di lavoratori, subito
dopo il loro inizio.” “La cronaca nera è esclusa dal giornale radio, a meno che certe
notizie di delitti o suicidi non acquistino un evidente interesse sociale o olitico. Lo
stesso vale per processi” (Faustini 1998: 145).
Nella comunicazione radiofonica manca l’interazione fra emittente e
destinatario, tipica dei mezzi di comunicazione di massa, manca qualsiasi supporto
visivo e tutto questo ha determinato una grande standardizzazione del parlato
radiofonico tanto dal punto di vista lessicale, quanto al punto di vista fonetico e
sintattico. La radio, malgrado l’uso del’oralità si è decisa per verso il modello
scritto dell’italiano, al meno fino agli anna Settanta: notizie radiofoniche, testi di
teatro, domande dei giochi a quiz e altro erano tutti testi scritti, letti al microfono.
Erano testi programmati, molto elaborati, pianificati, ma ordinati secondo criteri
precisi per aiutare la ricezione dei messaggi orali, quali: periodi brevi, scarsa
subordinazione, mancanza di inversioni sintattiche, la ripetizione del soggetto
(Cortelazzo 2000: 52). Michele Cortelazzo afferma che il monolinguismo del
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parlato radiofonico tradizionale veniva accentuato dall’uniformità della pronuncia,
veniva allontanata qualsiasi variazione regionale e se a volte si faceva presente
qualche ‘colore locale’ era sentito come un errore. Neanche i dialoghi, le interviste
di argomento quotidiano riuscivano a rispecchiare la vera realtà linguistica. Il
dialetto era ogni tanto usato, ma soltanto per scopi umoristici. Tutti i tratti tipici del
parlato erano eliminati: gli riempitivi, le ripetizioni, le frasi cortesi che “alla radio
danno una noia terribile” (Francastoro Martini 1951: 77). Una trasmissione
innovativa poteva essere considerata il dibattito radiofonico tra esperti su temi
culturali o di attualità che, in qualche modo, avrebbe portato elementi della lingua
parlata, ma il registro era comunque alto, formale. Le radiocronache, soprattutto
quelle sportive, favorivano una libertà linguistica. Altre volte, presentatori molto
vivaci e brillanti riuscivano a uscire da questi schemi (Cortelazzo 2000: 53).
Negli anni Settanta del Novecento la situazione comincia a cambiare: le
trasformazioni strutturali del sistema radiofonico determinano anche un profondo
mutamento linguistico. Il plurilinguismo della società italiana si rispecchia a poco a
poco nel parlato radiofonico e si avverte benissimo la cittadinanaza concessa ai più
diversi tipi di parlato, illustrando la grande complessità sociolinguistica italiana.
Questa nuova tendenza si manifesta nelle diverse forme della radio pubblica statale
e nelle reti locali private.
Le trasmissioni culturali continuano a usare un modello scritto, di livello
linguistico alto, letto al microfono: le notizie radiofoniche offrono una varietà di
pronuncia, data la provenienza geografica dei giornalisti radio, e inseriscono le
strutture nominali che ricordano le techiche usate durante la seconda guerra
mondiale dalla sezione italiana della BBC (Francastoro Martini 1951: 42). Le
trasmissioni di musica per i giovani introducono nella presentazione forme del
parlato colloquiale, elementi del linguaggio giovanile, l’uso dei forestierismi,
soprattutto anglicismi. Gli interventi diretti, effettuati al telefono,con il pubblico
portano nelle trasmissioni radiofoniche espressioni spontanee del parlato comune.
Le reti radiofoniche locali rispecchiano il repertorio linguistico dell’ambiente
geografico specifico, con una tendenza verso i registri piuttosto bassi della lingua
italiana: la presenza dei tratti dialettali, mistilinguismo, forme dell’italiano
popolare (Cortelazzo 2000: 54).
La radio italiana ha compiuto ormai, 86 anni. E molti italiani dicono di aver
imparato più dalla radio che dalla tv, perché la radio è lo specchio della realtà
linguistica o, come afferma Gian Luigi Beccaria, è lo specchio della stratificazione
linguistica, dei registri (Beccaria 2006: 100). Alla radio si ascolta di tutto: uno può
chiamare e usa il suo accento regionale, un altro si esprime in una maniera
elementare o anzi, adopera un linguaggio formale, raffnato se si tratta di uno
scrittore o di un tecnico. Diciamo insieme a Beccaria che la radio ha funzionato
come una scuola di lingua italiana in un paese nella sua quasi totalità dialettofono.
Negli anni trenta del Novecento la radio nasce come servizio pubblico. È più
rilassante della tv, è solo pura voce, non è imperiosa, non ha bisogno di colori, di
scenari che si possono immaginare. La voce rimane qualcosa di misterioso e di
personale. Quindi, si riesce a mettere in evidenza quello che si dice, il
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ragionamento, il contenuto, senza una presenza fisica vera e propria. La radio ha
certamente contribuito al livellamento del lessico italiano e della pronuncia e anche
a semplificare la sintassi (Beccaria 2006: 101). L’indice di comprensibilità
diminuisce sensibilmente quando le frasi sono troppo lunghe e la subordinazione
prevale sulla coordinazione.
In quanto all’evoluzione della radio negli ultimi decenni, il parlato si
presenta come spontaneo; girando tra i vari canali radiofonici italiani, si ha
l’impressione di una continua chiacchiera indistinta (Antonelli 2007: 120). E
questo l’effetto dovuto alle somiglianze nello stile comunicativo dei network
privati con cui la RAI lotta per l’audience radiofonica. Secondo i sondaggi ISTAT
(Antonelli 2007: 121), nel 2000, la radio era il mezzo di comunicazione più usato
dai giovani tra i 14 e i 24 anni. E molti, più di 80%, dichiaravano di ascoltare la
radio almeno una volta a settimana. Nelle fasce successive di età i livelli di ascolto
risultano progressivamente sempre più bassi1.
I network più ascoltati utilizzano tutti una programmazione di flusso che si
basa sul concetto della rotazione: “Non è il pubblico a doversi adeguare a orari
precisi: l’emittente gli viene incontro ripetendo la programazione (con modifiche
dovute soltanto al diverso ‘clima’ dei diversi momenti della giornata) in cicli
periodici” (Menduni 2002: 130-131). Il tempo della radio di flusso ha cicli che
durano di solito un’ora (clock) segmentati al loro interno da sequenze fisse di
musica, di informazioni, pubblicità, intrattenimento. Le radio di flusso vengono
riconosciute dalle siglette (i jingle) che indicano il passaggio da un momento
all’altro del clock e dalla ripetizione continua del nome della radio. Si usano
spesso i giochi di parole: Kisseloricorda (Radio Kiss Kiss) il Rinoceronte (RIN,
Radio Italia Network).
Un’altra maniera di riconoscibilità delle radio di flusso viene affidata a un
particolare timbro della voce o a una dizione speciale dei dj. Possiamo citare con
Giuseppe Antonelli, la “r” francesizzante di Radio Montecarlo (“la radio di gran
classe”) (Antonelli 2007: 122) oppure l’uso di parole straniere che trasformano il
loro italiano in uno difficile, stentato, come succede con la Radio Dimensione
Suono. Il filo conduttore del clock è realizzato dalla voce del dj. Il linguaggio è
sempre uno standard, ritmico, spontaneo e pieno di dialogicità. La differenza che
un ascoltatore può fare tra la radio di flusso e la radio “normale”, di palinsesto, è
proprio il ritmo sostenuto, senza pause. C’è sempre una musica di sotoofondo che
accompagna la voce del dj, ma anche la trasmissione delle notizie, le previsioni
meteorologiche, i messaggi promozionali. Il parlato pare “messo in forma”
(Ibidem). Il conduttore deve evitare tempi morti, silenzi; imprime al discorso un
andamento accelerato con salti intonativi. La lingua, insieme al ritmo e alla musica,
è una delle componenti principali dell’immagine che la radio vuole dare alla sua
audience. Quindi, si cercano gli effetti per trasformare un parlato programmato
(basato su “scalette” scritte) in un parlato spotaneo. Si vuole diminuire la distanza
con l’ascoltatore e per questo si cerca di parlare in una modo che rispecchi le sue
abitudini e che rispetti le sue aspettative. Peppino Ortoleva afferma che “Molta
radio di flusso sembra voler smentire ogni sospetto di mancanza di spontaneità e
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ricorre a un registro conversativo ostentato. Finisce quindi con il creare
paradossalmente propri standard che si potrebbero definire ‘iper-orali’ e con
l’applicarli altrettanto ossessivamente di una grammatica accademica” (Ortoleva
1994: 17, 29; 24-25). Si tratta di un italiano piuttosto corretto, velocità di eloquio,
variaziaoni intonative iperboliche, ripetizione di parole chiave, esclamazioni,
interiezioni, l’uso di parole straniere, soprattutto inglesi, ricorso a gergalismi o al
turpiloquio, il desiderio di cercare la battuta spiritosa. Per poter ottenere questo
effetto di parlato spntaneo, il dj parla come se si trovasse impegnato in un continuo
dialogo, un dialogo implicito. L’interlocutore reale è sempre assente. Quindi, il
pronome allocutivo con cui si rivolge all’ipotetico pubblico ascoltatore è il voi
indifferenziato. Fa spesso uso di interrogative destinate ad aspettare una risposta, il
feedback del pubblico. A volte questo dialogo immaginario si trasforma in uno
reale, nel caso delle telefonate in diretta. Oggi, le telefonate sono diventate molto
più rare, la voce degli ascoltatori “arriva” tramite e-mail o sms, e diventa una
citazione o una prafrasi nel commento del conduttore radiofonico. Il dialogo vale
mantenuto comunque, la dialogicità essendo molto importante e si ricorre a un altro
espediente: i conduttori (conosciuti e riconosciuti dal pbblico) conversano fra loro
oppure con rappresentanti del mondo dello spettacolo; cantanti, attori, imitatoti,
ospiti in studio. Il risultato è che la radio di flusso tende ormai a parlarsi addosso,
in uno scambio di messaggi sempre più autoreferenziale (Antonelli 2007: 123).
Ci sono ancora canali radiofonici italiani su cui si può veramente sentire il
parlato spontaneo e si tratta dei canali RAI o delle reti all neuws, Radio 24 - il Sole
24 Ore. Le telefonate in diretta esistono ancora e anche le interviste con contenuto
culturale sono in voga. Nelle telefonate, il pubblico ascoltatore rivolge delle
domande a giornalisti, politici ecc.
Nicoleta Maraschio (1997: 834) ha analizato linguisticamente tre ore di
programmi trasmessi da Radiouno nell’11 febbraio del 1994 (programmi
informativi, varietà, fiction, pubblicità) (Antonelli 2007: 124) e ha sentito parlare in
quell’occasione: “una signora giapponese che sta in Italia da trent’anni ma ancora
parla un italiano approssimativo, alcuni ragazzini che frequentano una scuola (…[ a
Bardonecchia, alcuni politici, il funzionario ministeriale, l’avvocato penalista, e
quello civilista, il cardiologo, il romanziere di successo – Tabucchi –, il cantautore
milanese Gianni Svampa ]…), il camionista e il contrabandiere napoletano,
l’amministratore locale bolognese: tutti hanno portato in radio la loro lingua per un
tempo più o meno lungo.”
Lo stile ufficiale dell’informazione radiofonica ha subito un’importante
evoluzione e, di conseguenza, giornale radio oggi è caratterizzato da una grande
velocità ritmica, una dizione molto sostenuta, inferiore soltanto a quella delle
cronache sportive. Gli studiosi italiani hanno dimostrato che, dal 1953 fino al 1993,
il numero di parole lette nella stessa unità di tempo in un giornale radio si è
triplicato; le pause si sono ridotte. Quindi, la lingua dei giornali radio si è fatta più
snella, con le frasi brevi e coordinatte e lo stile è più comune e, sicuramente, più
comprensibile.
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Nell’era della comunicazione non è difficile raggiungere il destinatario, ma è
difficile conquistare la sua attenzione e trattenerla più tempo; si tratta piuttosto di
intrattenere un pubblico indifferenziato. Dal punto di vista linguistico, per attrarre e
lusingare il pubblico, si devono seguire diverse soluzioni espressive che
porterebbero a tre tipi di effetto: l’animazione linguistica (l’uso dell’enfasi,
dell’iperbole, dei superlativi – fantastico, storico, tragico, epico, stupendo), una
colloquialità esagerata (“l’iperparlato” [Antonelli 2007: 113]). L’espressività si
realizza con neologismi e parole alla moda, “modismi”, ma nache il gioco dei
doppi sensi e dei dialettalismi. Il secondo effetto è la riconoscibilità, per cui
l’ascoltatore è capace di ritrovare il già noto (slogan di alcuni dj, frasi fatte): il
terzo effetto è il rispecchiamento: “la radio, la televisione parla come me”, deve
creare complicità, solidarietà, accorciare le distanze tra emittente e ricevente e si
crea l’impressione di essere in famiglia.
Un ruolo dominante nelle trasmissioni radiofoniche ha sempre avuto la
musica leggera; la canzone italiana gode ancora oggi di uno spazio notevole nelle
trasmissioni radiotelevisive. La musica pop rappresenta ancora un’area molto
importante dell’industria dell’intrattenimento, soprattutto per un pubblico
giovanile, a cui si rivolgono anche fumetti e videogiochi, pero, la nozione di
“giovane” oggi è cambiata, perché il consumo di canzoni, fumetti e giochi
comprende una fascia molto ampia della popolazione italiana adulta. Questo fatto
ha prodotto conseguenze notevoli anche sul piano linguistico e si fa notare nelle
scelte lessicali di parolieri e sceneggiatori che devono intrattenere un pubblico
eterogeneo e esigente.
Con la nascita della televisione italiana (inizia a trasmettere regolarmente nel
gennaio del 1954), le cose cambiano: l’accesso diretto alle trasmissioni è
accentuato da quando le televisioni si sono moltiplicate, con l’apparizione di nuove
reti private. Tipici della televisione sono gli spettacoli popolari di intrattenimento e
le rubriche in cui il pubblico telefona, dibatte, interviene liberamente. I media
diventano diffusori di tecnicismi, esotismi, neologismi, di un buon numero di
luoghi comuni verbali della cronaca e della politica (anni di piombo, mani pulite,
Jurassic school ecc.) e diffusori di nuovi nomi di persona, esotici, che vengono poi
usati dalla gente per battezzare i propri figli a causa delle più popolari trsmissioni
televisive, serial o per io successo dei famosi cantanti italiani: Alice, Alicia,
Barbara, Micaela, Raffaella ecc. A Roma ci sono i maggiori centri di produzione
dei programmi e anche il cinema con Cinecittà ha avuto come centro sempre Roma
e, di conseguenza, la varietà regionale linguistica romana ha avuto largo spazio alla
Rai.
NOTE
1
In base ai dati Audiradio, le dieci stazioni più ascoltate in Italia nel 2005 sono state: 1. RAI
Radiouno; 2. Radio Deejay; 3. Radio Dimensione Suono; 4. RAI Radiodue; 5. RTL 102.5 Hit Channel; 6. Radio 105 Network; 7. Radio Italia Solo Musica Italiana; 8. Radio Monte
Carlo; 9. Radio Capital; 10. RAI Radiotre.
2
L’argomento “L’italiano televisivo” sarà trattato in un altro articolo.
Mirela AIOANE
BIBLIOGRAFIA
Antonelli, Giuseppe, L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, Il
Mulino, 2007. (Antonelli 2007)
Beccaria, Gian Luigi, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Milano,
Garzanti, 2006. (Beccaria 2006)
Cortelazzo, Michele, Italiano d’oggi, Padova, Esedra, 2000. (Cortelazzo 2000)
Faustini, Gianni, Tecniche del linguaggio giornalistico, Roma, La Nuova Italia
Scientifica, 1998. (Faustini 1998)
Francastoro Martini, Ornella, La lingua e la radio, Firenze, Sansoni, 1951.
(Francastoro 1951)
Maraschio, Nicoleta, Una giornata radiofonica: osservazioni linguistiche, in Gli
italiani trasmessi. La radio, Firenze, Accademia della Crusca, 1997.
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Migliorini, Bruno, La lingua italiana nel Novecento, Firenze, Le Lettere, 1990.
(Migliorini 1990)
Ortoleva, Peppino, La cavalleria leggera della comunicazione, in Monteleone, F,
La radio che non c’è. Settant’anni, un grande futuro, Roma, Donzelli, 1994.
(Ortoleva 199
ABSTRACT
The paper presents the importance of the radio in broadcasting the Italian
language among the Italian population, that was predominantly dialectophone and
illiterate at the beginning of the twentieth century. Standard Italian, spoken only in
Toscany, was the privilege of the upper classes of society. The press, the radio and
later, television were and still are means of linguistic unification. In radio
communication the direct interaction between emitter and receiver is absent,
typical of mass communication, any visual support is also absent, and thus, all
these aspects had a decisive role in standardizing the spoken language through the
radio, both from the lexical, phonetic and morphosyntactic points of view. The
radio is the mirror of regional and social stratification, functioning for 86 years as a
school of Italian language.
Key words: radio, Italian, broadcasting the Italian language