Articolo completo - Dionysus ex Machina

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Articolo completo - Dionysus ex Machina
Pompei (almeno al cinema)! Giuseppe Pucci Un destino crudele sembra accanirsi contro l’antica città campana: come se non bastassero le notizie pressoché quotidiane di crolli e furti nell’area degli scavi, fra gli spensierati giri di valzer di ministri, generali e soprintendenti, anche il cinema ha deciso da ultimo di picconare Pompei. È questa l’impressione che lascia la visione di tre film usciti a brevissima distanza l’uno dall’altro, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014: Pompei, prodotto dal British Museum, Pompei, diretto da Paul. W.S. Anderson e Apocalypse Pompeii di Ben Demaree. Le tre opere appartengono a tre generi diversi (il primo è un documentario, il secondo un péplum, il terzo appartiene al filone ‘catastrofico’), ma sono accomunati dall’essere, a giudizio di chi scrive, di una irredimibile bruttezza. Per argomentare il giudizio che abbiamo anticipato in modo così tranchant occorrerà prenderle in esame ad una ad una. Apocalypse Pompeii 1 parte da uno spunto plausibile: una eruzione in grande stile del Vesuvio ai giorni nostri. Che l’evento prima o poi si produca è dato purtroppo per certo dagli scienziati: non si può prevedere quando, ma il vulcano erutterà ancora. La Protezione Civile ha un piano di emergenza per evacuare in caso di allarme circa 600.000 persone che vivono nella cosiddetta ‘zona rossa’ (un’area di 8 km di diametro), ma Giuseppe Mastrolorenzo, vulcanologo dell’Osservatorio Vesuviano, ha più volte espresso la preoccupazione che la prossima eruzione del Vesuvio possa essere assai più devastante di quella del 1631, in base alla quale è stata delimitata la zona a rischio, e interessare un’area di almeno 20 km di diametro 2 : considerata la densità degli insediamenti (e i noti problemi di viabilità), sarebbe una catastrofe di proporzioni gigantesche. In mano ad altri sceneggiatori uno scenario del genere poteva dare origine a una narrazione avvincente. Invece questo film – come ha lapidariamente asserito un recensore americano – sembra «written by a ten year old kid and then directed by his ten year old friend». Il plot ruota attorno a una famiglia americana che viene in Italia perché il padre, un ex militare delle forze speciali, ha ora un’agenzia di sicurezza internazionale e deve concludere un importante contratto a Napoli. La madre e la figlia adolescente ne approfittano per fare una gita a Pompei, ma fanno appena a tempo a scender dal pullman che il Vesuvio si mette a eruttare. Qualunque essere raziocinante sarebbe risalito sul pullman parcheggiato proprio lì davanti (nel pieno dell’area archeologica!) e si sarebbe Produzione: Nimar Studios (USA), febbraio 2014, 88’; regia: B. Demaree; sceneggiatura: S. Bevilacqua, J. Cooney; interpreti principali: A. Paul (Jeff Pierce), J. Castles (Lynne Pierce), G. Beedle (Mykaela Pierce), John Rhys‐Davies, il valoroso caratterista inglese noto per aver sostenuto il ruolo di Sallah nei film di Indiana Jones, interpreta il Colonnello Carlo Dillard; scenografia: N. Nachev; costumi: E. Zachariev. Il film non ha al momento avuto una versione italiana. 2 G. Mastrolorenzo – L. Pappalardo, Hazard assessment of explosive volcanism at Somma‐Vesuvius, «Journal of Geophysical Research» (2010) CXV 1057‐1070. Una recente (26 febbraio 2014) intervista radiofonica a Mastrolorenzo è ascoltabile al link: http://www.radioradicale.it/scheda/404718. 1
allontanato a tutto gas. Invece il gruppetto di cui fanno parte le due donne si mette inspiegabilmente ad attraversare a piedi Pompei (non incontrando neppure uno dei numerosissimi turisti che avevamo visto sciamare per gli scavi al momento del loro arrivo, perché evidentemente tutti sono stati più furbi di loro), mentre la terra trema e tutto intorno piovono terrificanti (?) massi di gommapiuma e palle di fuoco che se ti centrano ti annientano come nei videogiochi. E sebbene non si veda l’ombra di una recinzione (le rovine della città antica sono inopinatamente in aperta campagna) e abbiano con sé anche una piantina, non riescono a uscire dall’area archeologica, anzi si vanno a ficcare nei posti più improbabili, come un chiostro medievale (ma con dei calchi in gesso di antichi pompeiani casualmente sparsi sul pavimento) che sta proprio in mezzo alle case romane e una cripta (definita ‘villa’) che sulla porta ha incisi draghi, croci e altri simboli vagamente New Age. La ragazza che, l’avreste mai detto?, ha una passione per i vulcani e ha letto tutto sull’eruzione del 79, mette a frutto le sue conoscenze per proteggere se stessa e i suoi compagni con mezzi molto ingegnosi: per esempio chiudendo bene la porta perché non entri la tremenda onda di calore che si abbatte sulla città. Nel frattempo il padre, che da una finestra del palazzo di Napoli in cui sta per avere il suo meeting vede l’eruzione, molla tutto per raggiungere anche lui Pompei. Ma c’è già un cordone sanitario e non viene fatto passare. Allora si ricorda di un ex commilitone, ora colonnello della Nato di stanza a Napoli, a cui in passato ha salvato la vita e lo va a trovare. Il colonnello non può far nulla ufficialmente, ma ufficiosamente sembra che possa fare parecchio, perché in quattro e quattr’otto gli mette insieme una squadra di (presumibilmente) mercenari con i quali il nostro eroe dà inizio alla sua personale mission impossible. Ruba un elicottero della Nato e punta dritto verso Pompei. Qui il gruppetto dei fuggiaschi, che strada facendo si è assottigliato perché qualche imprudente ha preso sotto gamba le direttive della signorina so‐tutto‐io e mal gliene è incolto, ha trovato riparo nel Museo di Pompei (la valanga di fango, che nella sua corsa ha distrutto tutto, viene arrestata miracolosamente dalla fragile porta a vetri dell’edificio). Singolare museo, in verità, che si presenta assolutamente vuoto, fatta eccezione per una stanza dove, allineati su delle mensole, si vedono pochi e disparati oggetti: da un vaso di bucchero a una maschera africana, da una biga romana in miniatura a un elmo saraceno. C’è anche un frigorifero, che contiene unicamente due barattoli di bicarbonato. Nelle mani della fanciulla dalle mille risorse si riveleranno un’arma di difesa decisiva: la preziosa polvere, pressata sulla bocca con un fazzoletto, assorbirà per incanto tutto il gas della nube venefica che il vulcano ha intanto rovesciato su Pompei. Ma quando il Vesuvio smette con gli antipasti e serve il piatto forte, vale a dire un fiume di lava incandescente che si dirige proprio sul museo, i miseri sembrerebbero non avere più scampo. Proprio allora, però, come abbiamo sempre saputo fin dall’inizio, arrivano i Nostri, ossia l’intrepido papà in elicottero alla testa dei suoi soldati di ventura. Dopo che tutti sono ormai in salvo, la voce fuoricampo di una radio o di una tv ci informa che l’eruzione si sta affievolendo e che «while badly damaged from this disaster, Pompeii is still standing». La prevedibilità della storia, la piattezza dei dialoghi e l’assenza di qualunque evoluzione psicologica dei personaggi sarebbero anche tollerabili in un disaster movie, se almeno le scene‐chiave, quelle in cui il vulcano scatena la sua furia, fossero sufficientemente spettacolari. Invece gli effetti (poco) speciali – comunque scarsi rispetto ai preponderanti filmati di repertorio di autentici vulcani – che forse sarebbero stati accettabili negli anni ’60, appaiono superati già rispetto a film come Volcano e Dante’s Peak (entrambi del 1997) e risultano semplicemente improponibili in una pellicola del 2014, che infatti un altro recensore americano ha impietosamente definito un ‘mockbuster’. E in ogni caso, resta un mistero perché la lava raggiunga il tetto del museo salendo su per le scale invece di sommergere l’intero edificio (a meno di non volervi vedere una intenzionale citazione del mitico Blob ‐ Fluido mortale del 1958) o perché la nube di calore faccia evaporare istantaneamente le persone ma lasci intatte le foglie sugli alberi. Apocalypse Pompeii è fin troppo evidentemente condizionato da limitazioni di budget. Con l’eccezione di poche, brevissime sequenze riprese effettivamente a Pompei, tutto il film è stato girato in Bulgaria, senza alcuna preoccupazione di verosimiglianza: nella panoramica di quella che dovrebbe essere Napoli si vede in primo piano la cupola di una moschea; l’edificio che dovrebbe essere il Museo di Pompei ha sulla facciata la bandiera italiana ma delle lapidi in bulgaro, così come in bulgaro sono gli adesivi ‘tirare’ e ‘spingere’ sulle porte delle sale. Dal punto di vista archeologico le assurdità non si contano. Il foro di Pompei si riduce a quattro finte rovine tirate su alla meno peggio in aperta campagna, senza null’altro intorno, se non le rovine autentiche di una stalla (o qualcosa del genere) bulgara moderna. Di monasteri medievali bulgari, lo abbiamo già detto, hanno tutta l’aria gli edifici in cui i malcapitati si rifugiano, e il fatto che siano manifestamente ricostruiti in studio rende la cosa ancora più incomprensibile. Va bene tirare al risparmio delocalizzando, ma una guida illustrata di Pompei la produzione la poteva comprare allo scenografo bulgaro per fargli vedere come erano le case romane! Insomma questo film non rende un servigio a Pompei e neppure al genere cinematografico a cui vorrebbe appartenere. È peggio che brutto: è inutile. Più articolato è il discorso da fare per Pompei 3 . Il regista Paul W. Anderson non ha avuto problemi di budget (si è parlato di 100 milioni di dollari), ma nonostante ciò ha confezionato un prodotto che sa irrimediabilmente di dejà‐vu dall’inizio alla fine. La storia è presto detta. Nel 62 d.C. i Romani, sotto il comando di Corvo 4 , fanno una carneficina in Britannia 5 . Il piccolo Milo vede sterminata la propria famiglia prima di essere fatto schiavo e avviato al mestiere di gladiatore. Per la sua eccezionale bravura viene acquistato da un lanista che lo porta a Pompei, proprio nel fatidico 79 d.C. Lungo la strada fa fortuitamente conoscenza di Cassia, la giovane figlia di Severo, che torna nella città campana dopo un periodo trascorso a Roma e tra i due scocca la scintilla dell’amore. Un amore impossibile, ovviamente, data l’abissale distanza tra uno schiavo destinato all’arena e una ragazza Produzione: Constantin Film Produktion, Impact Pictures (USA, Germania), febbraio 2014, 105’; regia: P.W.S. Anderson; sceneggiatura: J. Scott Batchler, L. Batchler, J. Fellowes, M.R. Johnson; scenografia: P.D. Austerberry; costumi: W. Partridge; interpreti principali: K. Harington (Milo), E. Browning (Cassia), K. Sutherland (Senatore Corvo), J. Harris (Severo), A. Akinnuoye‐Agbaje (Attico). 4 Il nome completo di questo personaggio fittizio, Quinto Attilio Corvo, si direbbe il frutto di una reminiscenza scolastica (Attilio Regolo e il ‘corvo’ delle navi romane), ma più probabilmente è stato scelto perché ritenuto confacente al fosco vilain del film. 5 In realtà le operazioni repressive in Britannia ebbero luogo un paio di anni prima, ma la data è stata scelta forse per creare una sincronia col terremoto che a Pompei precedette l’eruzione. 3
della migliore società pompeiana, sulla quale peraltro ha messo gli occhi proprio Corvo, che ora, diventato senatore, è interessato a una speculazione edilizia a Pompei promossa dal padre di lei, ma subordina la firma del contratto alla concessione della sua mano. Cassia, che durante la sua permanenza a Roma ha già respinto le odiose avances di Corvo, è costretta ora a cedere per il bene della famiglia, anche se il suo cuore è preso dal bel gladiatore, che nel frattempo ha rivisto e per il quale infrange coraggiosamente tutte le convenzioni, come quando si concede di straforo una romantica cavalcata al chiaro di luna insieme a lui. Fin qui siamo – e lo hanno sottolineato molti recensori – in pieno Titanic. E come nel film di James Cameron, i due protagonisti, che si amano superando rigidissime barriere di casta, sono ignari della tragedia che incombe: lì lo scontro con l’iceberg, qui l’eruzione del Vesuvio. Intanto Milo è stato scelto per combattere nello spettacolo che Severo ha organizzato in onore di Corvo. Suo avversario sarà Attico, un gigantesco gladiatore africano che un’ultima vittoria potrebbe rendere un uomo libero e che dopo un iniziale contrasto è diventato suo amico. Neanche questa situazione è nuova: l’abbiamo vista ne Il gladiatore di Ridley Scott e prima ancora in Spartacus di Stanley Kubrick. Ma Milo non dovrà porsi nessun problema di coscienza perché – ça va sans dire – nel momento culminante della battaglia gladiatoria comincia l’eruzione che, nel giro di quaranta minuti, seppellirà ricchi e poveri, buoni e cattivi, Romani e barbari. Anche questa lysis non è certo originale. C’è già nel romanzo The Last Days of Pompeii di Bulwer‐Lytton (1834), e si ritrova nella maggior parte dei film a questo più o meno direttamente ispirati 6 . Si potrebbe ribattere che qui però non c’è il lieto fine: infatti dopo che tutti gli altri personaggi muoiono in successione, anche i due protagonisti, comprendendo che il loro destino è segnato, attendono rassegnati di essere avvolti dalla nube piroclastica mentre si scambiano un ultimo bacio. Ma ahimè, neppure questa è una scelta inedita. Una scena pressoché identica – anzi, direi, resa più efficacemente – c’è nella miniserie Pompei, ieri oggi e domani di Fabio Poeti (2007). Qui la fanciulla è concupita da un console cattivissimo mandato da Roma a Pompei, ma gli preferisce un giovane cristiano. Alla fine di una fuga disperata i due innamorati saranno raggiunti dalla nube mortale e si lasceranno morire stretti nell’estremo, castigato amplesso. Ceneri e lapilli cominciano a coprire i loro corpi, che dopo una dissolvenza vedremo tramutati in calchi di gesso esposti allo sguardo di moderni visitatori 7 . La stessa idea ha avuto, guarda caso, Anderson: nelle primissime inquadrature del film la macchina da presa scorre infatti, con un piano molto ravvicinato e un gioco di luci e di ombre che nasconde più di quanto lasci riconoscere, su due blocchi di gesso accostati, che riappariranno nella sequenza che chiude il film, quando – inquadrati in maniera più esplicita – si riveleranno i calchi dei corpi dei due sventurati amanti. Che sono circa una dozzina, a partire dal 1900: cf. H. Dumont, Chronologie du film historique, in C. Aziza (a cura di), Le péplum: l’Antiquité au cinéma, «CinémAction» LXXXIX (1998) 175. 7 Cf. G. Pucci, Cadaveri eccellenti. Le vittime di Pompei nell’immaginario moderno, «Mare Internum» IV (2012) 82. 6
Non si può tuttavia tacere il debito che Anderson – e prima di lui Poeti – ha nei confronti della stupenda scena del Viaggio in Italia di Roberto Rossellini (1954), dove una coppia inglese in crisi matrimoniale assiste nel corso di una visita agli scavi di Pompei al disseppellimento dei calchi di un uomo e una donna ancora teneramente abbracciati e ne riceve uno shock emotivo che li aiuterà a salvare il loro matrimonio. In Pompei siamo lontani da qualunque sottigliezza psicologica e profondità di sentimenti. Da questo punto di vista il film risulta inferiore ai suoi modelli Titanic e Il gladiatore, e in generale agli onesti, gloriosi péplums degli anni ’50 e ’60, che, pur nella loro prevedibilità e ripetitività, avevano almeno una certa solidità narrativa. Qui abbiamo a che fare con un patchwork senza vere emozioni, con personaggi di nessuno spessore a cui neppure attori di buon mestiere come Kiefer Sutherland riescono a dare credibilità in assenza di dialoghi degni di questo nome. Kit Harington, poi, non è Russell Crowe (e tantomeno Kirk Douglas). Nel ruolo di Milo è particolarmente inespressivo, e risulta poco credibile sia quando conquista la fanciulla sussurrando ai cavalli che quando persegue la sua vendetta contro il malvagio Corvo. Di gran lunga più interessante è l’Attico di Adewale Akinnuoye‐Agbaje, che ‘buca’ lo schermo e – grazie anche a battute non del tutto banali, che strizzano l’occhio a 12 anni schiavo – ruba facilmente la scena al protagonista. L’asso pigliatutto del film dovrebbero essere le sequenze dell’eruzione, con i loro effetti speciali in 3D. Ma i risultati, bisogna dire, sono molto al di sotto delle aspettative. Anche in questo caso si è già visto di meglio e di più, e in produzioni con budget molto più contenuti. La computer grafica dà la sensazione di un videogame dilatato (del resto il regista viene proprio da quel mondo) che non riesce mai a diventare realistico. La sequenza della nave che spinta dallo tsunami insegue i pompeiani lungo una strada affollata finisce anzi per far sorridere. Ci sono però anche delle cose positive. È evidente, per esempio, che c’è stato un certo sforzo di documentarsi. Le ricostruzioni del Foro e dell’anfiteatro sono fedeli e le vedute a volo d’uccello della città, del porto e delle ville extra‐urbane abbastanza attendibili. Corretta anche la ricostruzione dell’accampamento dei legionari di Corvo fuori le mura della città. Negli arredi degli interni e nei costumi non ci sono svarioni fastidiosi. E se le corazze di Corvo risultano un tantino kitsch, se non altro sono in carattere col personaggio. La campagna di lancio del film ha insistito sul fatto che Anderson ha dedicato sei anni di studio alla preparazione del film. Non prenderemo la notizia per oro colato, ma una qualche pretesa di erudizione traspare, come quando Corvo, nell’aprire i giochi, ricorda la festa dei Vinalia, anche se i Vinalia rustica si celebravano il 19 agosto, mentre la data tradizionalmente accettata per l’inizio dell’eruzione è il 24 agosto. Certo sarebbe troppo pretendere che Anderson e/o gli sceneggiatori sappiano che una moneta trovata nel 1974 ha dimostrato che la vera data è piuttosto – come già peraltro si sospettava – il 24 ottobre 8 . Così come si può perdonare il fatto che per chiedere la salvezza di un gladiatore il pubblico dell’anfiteatro mostri il pollice alzato. Quel gesto è radicato nell’immaginario collettivo con tale significato, e a poco vale che ormai da quasi vent’anni Cf. G. Stefani, La vera data dell’eruzione, «Archeo» CCLX (Ottobre 2006) 10‐13. 8
si sia dimostrato che le cose stanno diversamente 9 . Più difficile è giustificare l’implausibile quadro politico in cui la vicenda è calata: Pompei è descritta come una comunità orgogliosa della propria identità e quasi ostile a Roma. «Non sono Romana! – dice Cassia a Milo che le rinfaccia di appartenere al popolo che ha sterminato la sua gente –. Sono una cittadina di Pompei». E quando lui osserva: «Qui non faccio che vedere l’aquila romana ovunque mi giri…», lei ribatte: «Dopo un anno a Roma speravo di non rivedere più quell’aquila, e invece me la ritrovo dappertutto, anche a casa mia!». Se l’avversione dell’orgoglioso celta per Roma ladrona è comprensibile, non si capisce come una borghese campana dell’età di Tito possa vedere Roma come una forza di occupazione. Forse è esagerato dire che più che un film catastrofico Pompei è una catastrofe di film, ma è certo che non riesce praticamente mai a avere il respiro epico dei kolossal di una volta. È un pasticciaccio brutto che non avvince e non convince. Insomma: una fatica sprecata. La stessa cosa non si può davvero dire del documentario Pompei dal British Museum 10 , se guardiamo al ritorno economico e di immagine. Il film nasce come by‐product della mostra Life and death in Pompeii and Herculaneum, tenutasi al British Museum dal 28 marzo al 29 settembre 2013 e rivelatasi una gallina dalle uova d’oro. Si è piazzata infatti al terzo posto nella classifica delle mostre più visitate dal 1753, anno di apertura del museo (dopo quella su Tutankhamun del 1972 e quella sull’Esercito di Terracotta cinese del 2007). I soli ingressi (il biglietto ordinario costava 15 sterline) hanno portato nelle casse del British Museum qualcosa come 10 milioni di sterline, cui vanno aggiunti i cospicui ricavi del merchandising. Tenuto conto che la mostra è stata sponsorizzata dalla banca di investimento americana Goldman Sachs, è tutto – se ci si passa l’espressione un po’ plebea – grasso che cola. Ma il colpo di genio è stato appunto quello di far seguire a una mostra di successo un film‐
evento capace di creare un fenomeno mediatico di proporzioni planetarie. Il documentario è stato infatti venduto a non meno di 51 paesi diversi. In Italia è stato distribuito dal circuito Microcinema il 25 novembre 2013 in oltre cento sale, battendo addirittura il film di Checco Zalone (solo al cinema Barberini di Roma ha fatto l’incasso record di 10.000 euro) 11 . Per chi lo ha prodotto, si tratta indiscutibilmente di un successo straordinario. Dobbiamo tuttavia chiederci: è meritato? Per molte ragioni riteniamo di no. Tanto per cominciare, i trailer che hanno invaso i media nelle settimane precedenti la proiezione battevano molto sulla promessa di una “Pompei come non l’avete mai vista prima”, lasciando furbescamente credere – ma badando a non dirlo esplicitamente – che ci sarebbero state mirabolanti ricostruzioni virtuali e chi sa quali immagini inedite. Nulla di tutto ciò. Le rare immagini non riprese all’interno delle sale del museo vengono da vecchi filmati, in particolare dal docudrama (pluripremiato) della BBC Come spiega inoppugnabilmente A. Corbeill, Thumbs in Ancient Rome: ʺpollexʺ as index, «Memoirs of the American Academy in Rome» XLII (1997) 1‐21, il pollice sollevato verso l’alto significava ‘iugula!’, mentre per chiedere clemenza (‘mitte!’) lo si premeva contro l’indice ripiegato con le altre dita contro il palmo. 10 Produzione: British Museum (UK), 2013, 89’; regia: J. Rooney. Con: N. Macgregor, P. Roberts, M. Beard, A. Wallace‐Hadrill, R. de Thame, G. Locatelli, B. Huges. 11 Vedi l’articolo del Mattino alla pagina: http://www.ilmattino.it/napoli/cultura/film_pompei_british_museum _sbanca_botteghino/notizie/374968.shtml. 9
Pompeii: The Last Day, del 2003. E l’unica ricostruzione in computer grafica di una casa pompeiana – che si intravvede per pochi secondi – è quella della Casa del Poeta Tragico realizzata dalla italiana Capware nel 2001. Si potrebbe credere allora che i quasi novanta minuti di proiezione siano dedicati ad una esauriente illustrazione dei materiali esposti. Mai più: la scena è accaparrata da pochi oggetti (i più ovvii, quelli che si suppone attraggano irresistibilmente lo spettatore guardone, tipo un quadretto erotico e il gruppo statuario di Pan che si accoppia con una capra del Museo Segreto), sui quali gli esperti cinguettano tra loro ostentando un entusiasmo palesemente imposto dal copione: «Isn’t she lovely?» dice sdilinquendosi su una neanche tanto bella terracotta uno studioso di cui non faremo il nome perché per fortuna ha altri meriti come pompeianista. In un’intervista reperibile su YouTube Neil McGregor, direttore del British Museum, vanta il fatto che il film si avvale di esperti autorevoli e ‘frisky’ (briosi, vivaci). Non contesteremo il primo aggettivo 12 , ma sul secondo abbiamo qualche riserva. In verità i commenti di questi colleghi oscillano tra il cicaleccio falso‐disinvolto e autocompiaciuto (vedete quanto sono poco accademico?) e la lezioncina da cicerone che tira a strapparti un ‘oooh’ di meraviglia o ti costringe in tutti i modi a impietosirti sui calchi dei poveri morti innocenti. In ogni caso siamo ben lontani dai livelli di divulgazione dei documentari della premiata ditta Piero&Alberto Angela o di quello, già citato, della BBC. Il risultato è che si passa rapidamente dalla delusione alla pura e semplice noia. Con noi nella sala c’erano famiglie che avevano portato i figli in età scolare a vedere l’annunciato capolavoro: dopo un po’ la staticità, la mancanza di mordente, la difficoltà di seguire i sottotitoli in italiano generavano una non più dissimulabile stanchezza nella prole, che però – va detto a suo merito – soffriva compostamente e si asteneva con insospettata magnanimità dal colpevolizzare ulteriormente dei genitori già visibilmente imbarazzati. Cosa si vede insomma in un’ora e mezza? Si vedono alcuni dei circa 250 oggetti provenienti da vecchi e nuovi scavi di Pompei ed Ercolano che le Soprintendenze Archeologiche di Napoli e Pompei hanno gentilmente prestato e che sono esposti in spazi che intendono richiamare quelli di una casa pompeiana (più o meno quella del banchiere Cecilio Giocondo), con atrio, cubiculi, cucina, giardino. Gli oggetti corrispondono al titolo originale della mostra, illustrano vari aspetti della vita e della morte nelle città seppellite dal Vesuvio, ma la logica è quella del “di tutto un po’”, con una netta preferenza – che nel film risulta ancora più accentuata – per le icone da cartolina illustrata (esempio sommo: il calco del cane alla catena che si contorce negli spasimi della morte). Si può fare nel 2013 una mostra su Pompei e Ercolano come la si sarebbe fatta nel 1913, senza un’idea nuova, senza – per dire – neanche quegli apporti di AR (Augmented Reality) che oggi ben più modesti musei di provincia propongono? Noi penseremmo di no, ma i numeri ci danno torto: gli incassi dimostrano che Pompei tira sempre e comunque. C’è da chiedersi caso mai perché una mostra così, e magari un po’ meglio, non l’abbiamo fatta noi in Italia. Un brutto film su Pompei resta un brutto film, ma se col ricavato si potesse risolvere qualche problema di tutela almeno non sarebbe inutile, e anzi ne auspicheremmo noi per Ma la spiegazione dello chef Giorgio Locatelli sul modo di cuocere il pane a Pompei è più che altro uno spot per il suo ristorante londinese. Si spera che almeno abbia pagato per questa pubblicità. 12
primi una intera serie. E invece no, i soldi restano agli Inglesi (chapeau!) e a noi restano le rovine sempre più rovinate.