l`europa nella rivoluzione geodemografica - UniFI

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L’EUROPA NELLA RIVOLUZIONE GEODEMOGRAFICA
(in “L’identità dell’Europa e le sue radici. Storie, culture, religioni”,
Senato della Repubblica e Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2002)
Esistono concetti geografici e fisici delle regioni e dei continenti del
mondo che, almeno dall’ultima glaciazione, sono rimasti immutati. Mari,
montagne, fiumi, ne costituiscono i confini naturali e costanti nel tempo; una
volta accettate la definizione dei confini, non c’è discussione e il dibattito
può dirigersi verso altri obbiettivi. L’Europa della quale parlerò è quella
comunemente definita come tale: compresa tra le “finis terrae” atlantiche e
gli Urali, tra il Mediterraneo e il Mare del Nord, dieci milioni di chilometri
quadrati, una piccola parte (1/15) delle terre emerse del pianeta,
inversamente proporzionale – si potrebbe dire - all’opinione che gli abitatori
dell’Europa hanno di se stessi. Per conseguenza, il discorso sulle
popolazioni europee potrebbe facilmente appoggiarsi a questa definizione
geografica se non fosse per il fatto che la Russia nelle sue varie forme
statuali egemoni - con i suoi abitanti, che non possiamo non chiamare
Europei - travalica questa definizione estendendosi fino al mar del Giappone
e ponendo in movimento, al suo interno europeo e asiatico, etnie, culture e
religioni diverse.
Se il discorso sulla geografia dell’Europa non è semplice come
dovrebbe, quello sugli Europei come popolazione è assai più complesso.
Semplificando al massimo: prima dell’età moderna l’Europa è un continente
aperto che riceve successive ondate di immigrazione per la via d’accesso
mediterranea e per la sua grande porta d’ingresso orientale, tra gli Urali e il
Caspio. Ma a partire dalle grandi esplorazioni atlantiche e dalla rapida
successiva unificazione del mondo, l’Europa diventa prevalentemente
esportatrice di uomini. Essa deve ancora risolvere il problema orientale con
la chiusura delle sue porte d’accesso a Tartari e Turchi, ma il continente
diviene, sempre più marcatamente, terra di emigrazione. Un flusso esiguo
ma continuo si dirige a occidente, verso l’America. Il vero inizio organizzato
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di questo flusso avviene quando Cristoforo Colombo e la sua famiglia
cadono in disgrazia e vengono sostituiti nella Hispaniola dall’inviato della
Corona, il Governatore Ovando, che approda a Santo Domingo nell’Aprile
del 1502 con 30 navi e 2500 persone. I progressi della navigazione
permisero un traffico transoceanico ordinato e un regolare scambio di beni,
persone e conoscenze tra madri patrie e oltremare, indispensabile per
alimentare la colonizzazione. In tre secoli, tra il 1500 e il 1800, forse non più
di due milioni di europei si trasferirono permanentemente in America
(appena un quinto degli schiavi che vi furono trasportati) provenienti,
soprattutto, dalle isole britanniche e dalla penisola iberica. Nel 1800, uno
stock di 7 milioni di Europei, discendenti di quegli emigranti ed equamente
divisi tra le due Americhe – a Nord e al Sud del Rio Grande – viveva nel
Nuovo Mondo, oltre ad un numero imprecisato di meticci e mulatti. Gli
Europei si dirigevano con frequenza anche verso oriente, pur se gli
insediamenti furono più commerciali che di popolamento; la Compagnia
Orientale delle Indie (VOC) olandese, imbarcò circa un milione di persone
per destinazioni asiatiche nei suoi due secoli di vita, tra il 1605 e il 1792, dei
quali solo la metà tornarono in patria. Questa prima fase di espansione extracontinentale dette forza demografica, politica ed economica ai grandi imperi
coloniali europei e pose le basi per la grande emigrazione ottocentesca, che
trovò nelle aree di destinazione culture, istituzioni e strutture pronte a
riceverli. Una emigrazione sospinta dall’impoverimento relativo e dalla
crescita accelerata delle masse rurali, spiazzate dalla rivoluzione industriale
e attratte da continenti ricchi di capitale e poveri di braccia, che descrive un
ciclo secolare. Tra il 1840 e il 1930 emigrano circa 60 milioni di Europei, e
per buona parte di loro si tratta di un’emigrazione definitiva; nella parte più
alta del ciclo – nei due decenni precedenti la prima guerra mondiale l’emigrazione assorbe quasi un terzo dell’aumento naturale europeo e
fornisce un contributo importante alla crescita dei grandi paesi transoceanici:
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Australia, Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti. Tra le due guerre
mondiali, la crisi economica, l’emergere dei regimi totalitari, la chiusura
degli sbocchi, il ritorno a politiche nazionaliste e ripiegate su se stesse pone
fine all’espansione demografica e sociale dell’Europa, iniziata oltre quattro
secoli prima. E negli ultimi decenni si profila l’apertura di un nuovo ciclo:
dopo quasi mezzo millennio l’Europa si converte, di nuovo, in importatrice
netta di risorse umane. Lo stock di immigrati di origine non europea non
raggiungeva i dieci milioni nel 2000 (escludo qui dal conteggio la Russia)
una cifra non trascurabile seppure relativamente modesta se confrontata con
una popolazione di oltre 500 milioni.
Ho ricordato queste vicende perché non ha senso parlare di Europa e della
sua popolazione senza ricordare che le sue vicende anche demografiche sono
strettamente legate a quelle di altri mondi dall’Europa generati – le nuove
Europe d’oltreoceano – o che hanno contribuito a plasmare l’Europa. Così
come è a-storico e del tutto astratto pensare ad una popolazione Europea,
quella presente come quella futura, in stato di isolamento demografico
rispetto al mondo esterno. Ma di questo dirò oltre.
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L’Europa dell’espansione demografica – del mezzo millennio, o quasi,
successivo al primo approdo di Colombo – è anche un continente che a
prescindere dal continuo contributo al popolamento delle altre regioni ha un
peso crescente nel contesto mondiale. Limitiamoci pure all’era statistica:
attorno al 1800, la popolazione Europea conteneva circa un quinto della
popolazione mondiale. La rivoluzione demografica che prende corpo
nell’Ottocento – un abbassamento della mortalità seguito con ritardo dalla
diffusione del controllo delle nascite – provoca un’accelerazione della
crescita e, nonostante l’emigrazione, il peso dell’Europa raggiunge il suo
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massimo alla vigilia della prima grande guerra con circa il 28 per cento della
popolazione mondiale: è questo, quasi sicuramente, il massimo “storico” mai
toccato nella nostra era (prima, non sappiamo). Da allora, il peso europeo è
andato diminuendo in ragione della convergenza demografica verso la
crescita nulla (oggi) e negativa (domani) e dell’accelerazione dei paesi
extraeuropei: circa il 23 per cento nel 1950, il 13 per cento nel 2000 e se
accettiamo le più recenti previsioni delle Nazioni Unite, appena il 7 per
cento verso il 2050. La perdita della centralità europea è, naturalmente,
anche economica: secondo le stime di Maddison che ha calcolato il prodotto
in valore costante e poteri d’acquisto comparabili, il peso dell’Europa
sull’economia mondiale era del 32 per cento nel 1820 e raggiungeva il
massimo nel 1913 col 47 per cento, per declinare gradualmente al 19 per
cento del 2000 e, qualora le differenze geografiche di prodotto restassero
quelle di oggi, ad appena il 10 per cento del 2050.
Naturalmente questi valori si riferiscono ad una Europa strettamente
ancorata al territorio di riferimento cui ho accennato all’inizio, alla
popolazione che vi vive e a ciò che vi produce. E’ un po’ come se si
comparasse la Grecia di Pericle con quella di Alessandro o la Roma dei
Gracchi con quella di Augusto. Infatti, se invece che all’Europa geografica
ci riferissimo agli Europei e ai loro discendenti, il discorso sarebbe un po’
diverso. Lo stock demografico di origine europea sfiorava il 40 per cento
della popolazione mondiale alla vigilia della Grande Guerra e produceva i
tre quarti del prodotto mondiale; oggi rappresenta pur sempre un quarto della
popolazione mondiale e contribuisce al 55 per cento del prodotto del pianeta.
Ma non voglio divagare perché credo che qui si voglia, soprattutto, discutere
della casa madre: l’Europa fisica con i suoi cittadini. Lasciamo per ora le sue
filiazioni e discendenze e vediamo brevemente le circostanze oggettive del
declino europeo nel sistema-mondo.
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Nonostante due sanguinose guerre, una forte emigrazione nei primi
due o tre decenni del secolo, la guerra civile in Russia, la successiva
liquidazione dei kulak e le perdite demografiche per la catastrofica carestia
degli anni ’30 conseguenze dirette del grande balzo in avanti decretato da
Stalin, l’annientamento degli ebrei e dei rom, le perdite della guerra civile di
Spagna, la popolazione Europea pur perdendo peso nel contesto mondiale,
era cresciuta da 400 a 550 milioni (quasi il 40 per cento) nella prime metà
del ‘900. Le prove di autodistruzione – costate molte decine di milioni di
morti e un fardello proporzionale di sofferenze ai sopravviventi - avevano
frenato, ma non arrestato la crescita del continente. Nel mezzo secolo
successivo, chiuso nel 2000, la popolazione è cresciuta di un altro terzo a
730 milioni circa, ma il ciclo di crescita è andato attenuandosi fino a
raggiungere tassi d’incremento prossimi allo zero negli ultimi anni,
conseguenza della forte caduta della natalità, adesso ovunque inferiore al
livello che consente il rimpiazzo tra generazioni. In mezzo secolo una
crescita, oggi esaurita, di 180 milioni di abitanti, parte finale di quel ciclo di
sviluppo straordinario iniziato con la Rivoluzione Industriale. Un ciclo che
ha moltiplicato per quattro la popolazione del continente e per almeno dodici
il reddito reale pro-capite, che ha ridotto gli spazi aperti e moltiplicato, per
un fattore ignoto ma sicuramente molto grande, gli spazi edificati,
cementificati, umanizzati; un ciclo che, in definitiva, ha riempito il
continente di persone e manufatti.
Poiché ho sintetizzato il passato in balzi di mezzo secolo, tentiamone
uno in avanti. Nessuno più di me, con molti decenni di dimestichezza con il
giuoco delle quantità, è prudente nel maneggiare le previsioni, anche se la
demografia ha un notevole grado di inerzia che consente, entro certi limiti, di
antivedere il futuro. Mi appoggio alle previsioni elaborate e correntemente
aggiornate dalle Nazioni Unite, che descrivono l’itinerario atteso delle
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popolazioni di stati e regioni del mondo nell’orizzonte di mezzo secolo,
secondo ipotesi ragionevoli e condivise dalla gran maggioranza degli
studiosi. Posso anche dire che io stesso - e come me molti colleghi, nonché
gli esperti delle Nazioni Unite autori di queste previsioni - scommetterei (se
la verifica fosse possibile) ingenti somme sul fatto che la popolazione
effettiva del 2050 resterà compresa entro un dieci per cento (in più o in
meno) rispetto al valore di 603 milioni previsto. Sono 125 milioni (-17 per
cento) di persone in meno rispetto ad oggi nell’ipotesi, certo del tutto irreale
come poi dirò, che l’Europa guadagni un saldo migratorio pari a circa
400000 unità all’anno (meno della metà del saldo annuo dell’ultimo
decennio). Aggiungo un solo altro dato, peraltro assai significativo: l’età
mediana degli europei era, verso il 1950, 29 anni; è oggi pari a 38 e sarà pari
a 49 nel 2050. Naturalmente l'Europa non è uniforme ed esistono sensibili
variazioni attorno a questa generale tendenza. Senza entrare nel dettaglio si
può dire che la depressione demografica - intendendo con questo termine
l'incapacità delle generazioni di "sostituirsi" aritmeticamente l'una all'altra e
quindi di determinare una maggiore o minore diminuzione di popolazione - è
meno accentuata nell'Europa del Nord - Gran Bretagna, Paesi Scandinavi,
Francia - e più acuta in quella centrale e mediterranea - Germania, Penisola
Iberica, Italia; la depressione rischia poi di essere gravissima per le
popolazioni della defunta Unione Sovietica solo che la situazione attuale si
prolunghi ancora per qualche anno.
In altro contesto, ho definito il cambio che stiamo vivendo come
una transizione da una società con abbondanza di risorse umane ad una –
quella dei prossimi decenni – che dovrà sopravvivere e prosperare nella
scarsità di queste risorse. Un mutamento che, a cascata, ne indurrà altri di
notevole rilevanza. E, prima di volgere il discorso alle implicazioni di questo
mutamento, ritorno per un momento ai confronti planetari: tra i dieci paesi
più popolosi del mondo, nel 1950, ce n’erano quattro europei: Russia (nello
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spazio dell’attuale Federazione), Germania (unificata), Gran Bretagna e
Italia; solo la Federazione Russa sopravvive tra i primi dieci oggi, ma anche
lei sarà uscita di classifica nel 2050.
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Naturalmente, il numero delle persone è solo una cornice geometrica sia pure indispensabile - nella quale si colloca una collettività (paese regione
o continente) per valutarne il peso in ambiti più vasti. Una somma astratta di
cultura e idee, capitale umano e capitale fisico, benessere di vita e reddito
pro capite, non è fattibile, eppure è quella che conta. E', in fondo, il concetto
elusivo di "ricchezza delle nazioni" al quale si riferiva Adam Smith più di
due secoli fa. Ma tra numero di persone e questa astratta somma o ricchezza
esistono, ovviamente, associazione e a interazione che non possono essere
trascurate. Molti sostengono che una diminuzione del numero - in un'Europa
quadruplicata negli ultimi duecento anni - può portare dei vantaggi per
l'alleggerimento delle tensioni ambientali che ne conseguirebbe, recuperando
spazi e qualità della vita oggi perduti per l'eccessiva concentrazione umana.
Sarei anch'io di questa opinione se la diminuzione avvenisse per un taglio
indiscriminato e proporzionale per giovani, adulti e vecchi, lasciando
inalterata, o quasi, la struttura per età. Ma come è ben noto così non è: il
taglio - stando alle ipotesi - sarà forte per giovani e adulti, mentre per i
vecchi ci sarà un cospicuo aumento: se questo avverrà, ne seguirà uno
sconquasso nei rapporti numerici - e quindi sociali, economici, culturali - tra
generazioni. Assegno dei numeri a questo "sconquasso": il rapporto tra
anziani (60 e oltre) e giovani-adulti (20-60 anni) passerebbe (per l'intera
Europa) dal 35 per cento attuale al 76 per cento del 2050, con conseguenze
sul sistema che non mi dilungo a commentare.
Con queste premesse, sembra utile discutere le implicazioni delle
tendenze demografiche che ho brevemente descritte. Scelgo i tre aspetti che
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mi sembrano più rilevanti e che sono, come vedremo, tra loro collegati. Il
primo riguarda la crisi dello stato sociale; il secondo, le possibili politiche
per riportare la bassa natalità europea a livelli meno depressi; il terzo, il
grado di apertura del continente ai movimenti migratori.
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La crisi dello stato sociale in Europa può definirsi come
l'insostenibilità delle regole che presiedono ai trasferimenti di reddito operati
dalla mano pubblica, che preleva risorse - per mezzo di imposte, tasse e
contributi - dai produttori o percettori di reddito (un aggregato che in larga
parte coincide con la popolazione attiva) e le ridistribuisce alla popolazione
sotto forma di istruzione, sanità, pensioni, sussidi assistenziali (un aggregato
in buona parte costituito da anziani). Un sistema che ha radici nello stato
Bismarckiano, che prende forma compiuta con il governo laborista di Atlee e
Bevan alla fine della seconda guerra mondiale e che si rafforza in tutta
Europa nel quarto di secolo successivo. Mentre all'inizio del '900 gli stati
europei assorbivano un decimo del prodotto e di questo solo una minima
parte era ridistribuito da un sistema di welfare ancora embrionale - il resto
andava a sostenere la difesa, o la guerra, la giustizia, qualche infrastruttura e
poco altro - oggi essi intercettano quasi la metà del prodotto, e i due terzi di
questo vengono ridistribuiti per pensioni, assistenza e sanità. Il problema è
che le regole dei prelievi e della ripartizione dei benefici furono stabilite in
un'epoca - gli anni '50 e '60 - con struttura demografica favorevole, quando
coloro che pagavano contributi erano in forte espansione e coloro cui
venivano destinati i benefici erano relativamente pochi. Per esempio, in
quegli anni l'Italia godette di una fortissima espansione, con una notevole
crescita degli occupati e dei loro redditi, e quindi della loro capacità
contributiva. Ma allo stesso tempo, la platea dei "beneficiari" era piuttosto
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esigua; gran parte dei lavoratori che lasciavano i campi non avevano
copertura pensionistica, così come i commercianti e gli artigiani. I governi e le opposizioni con essi - furono ben contenti di assecondare la forte
pressione sociale per una estensione dei diritti sociali senza troppo
preoccuparsi per le generose regole che venivano stabilite le cui
conseguenze sarebbero ricadute sulle spalle delle generazioni future. Queste
avrebbero anche potuto (entro certi limiti) sostenere tali conseguenze se la
piramide di età non avesse cominciato, nel frattempo, a modificarsi fino a
minacciare di ribaltarsi per la prevalenza dei vecchi sui giovani. Questo
processo che è particolarmente grave in Italia - sia per la generosità dei
legislatori sia per la grande velocità del mutamento demografico iniziato
negli anni '70 - affligge anche gran parte d'Europa con varia intensità e è uno
dei nodi politici e sociali più intricati e sensibili del momento politico. Molte
"conquiste" sociali faticosamente acquisite dovranno essere gradualmente
smantellate. Tra le tante ne cito una, ad alto contenuto demografico:
l'andamento a forbice di una speranza di vita rapidamente crescente e di
un'età media al pensionamento in declino non è sostenibile né dalla logica né
dalle casse dello stato. Tutte le riforme tentano, infatti, di invertire la
tendenza ad anticipare la pensione. Ho qui poi parlato solo di previdenza, ma
discorsi simili si possono fare per la sanità e per le altre forme di assistenza.
Ritornando sul piano internazionale, l'insostenibilità delle antiche
regole del sistema di welfare nei paesi Europei - di cui la depressione
demografica è la prima responsabile - è un potente fattore della minore
competitività dell'Europa rispetto agli Stati Uniti - l'unico grande paese
occidentale con una demografia in equilibrio e con un sistema di welfare
molto più leggero del nostro (con gli svantaggi sociali che questo comporta)
non insidiato dal rapido invecchiamento.
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Il secondo e terzo problema della demografia europea - le azioni per il
recupero della natalità e il grado di apertura del continente alle migrazioni hanno una premessa identica. Ogni società elabora gradualmente le regole di
riproduzione biologica e quelle di riproduzione sociale. Le prime riguardano
il formarsi e lo sciogliersi delle unioni a fini riproduttivi, la propensione ad
avere figli secondo l'età, la capacità di regolare le nascite con mezzi
"naturali", con la contraccezione, con l'aborto e perfino con l'infanticidio;
queste complesse regole, che mutano in continuazione, determinano il flusso
delle nascite che a sua volta modella la struttura per età di una popolazione.
Le regole di riproduzione sociale, invece, determinano chi ha titolo, diverso
dalla nascita, per diventare parte della società, goderne i benefici e
sopportarne gli oneri. In alcuni gruppi la riproduzione "sociale" può avvenire
per adozione, per cooptazione, per libera ammissione di chi chiede di farne
parte. Nelle popolazioni reali, che si identificano con un territorio, questo
processo di riproduzione sociale avviene con l'immigrazione. Occorre però
sgombrare il campo da un possibile equivoco: non esiste una necessaria
relazione inversa tra nascite e migrazione, nel senso che se sono basse le
prime debbono essere alte le seconde, e viceversa. Che il più delle volte
questa relazione esista è irrilevante: nello stesso mondo occidentale esistono
casi opposti e sorprendenti, come quello degli Stati Uniti, con buona
riproduzione biologica e alta riproduzione sociale, e quello del Giappone
dove ambedue sono compresse. D'altra parte, ogni società è libera di stabilire
il suo "mix" riproduttivo: esistono società completamente sigillate
all'immigrazione e altre notevolmente aperte, con costi e benefici per i
cittadini e per la collettività di svariata natura e livello.
La riproduzione biologica - cioè la natalità - dell'Europa è bassissima;
essa si pone oggi attorno a 1,4 figli per donna, di circa un terzo inferiore al
livello di rimpiazzo. In molti aree d'Europa, il figlio unico rappresenta la
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modalità riproduttiva più frequente. Le preoccupazioni per questo stato di
cose sono diffuse e ne sono buon testimone le innumeri ricerche, analisi,
inchieste sul tema. Il dibattito anche ideologico è incandescente e non lo
voglio attizzare. Credo che si possano condividere alcuni principi: il primo è
che le scelte individuali in materia di riproduzione sono sacrosante, vanno
rispettate e protette; il secondo è che i figli sono un bene privato ma hanno
anche una rilevanza pubblica: troppe nascite o troppe poche nascite creano
"diseconomie" coinvolgendo il benessere delle generazioni future verso le
quali esiste un principio di responsabilità; il terzo è che la collettività può
intervenire per modificare - nel rispetto dei diritti individuali e dell'equità - il
contesto nel quale avvengono le scelte delle coppie col fine di modificarne
comportamenti e aspettative. Ma poiché le scelte riproduttive sono un mix
indissolubile di pulsioni biologiche che hanno radici in qualche centinaio di
migliaia di anni di evoluzione; di considerazioni ideali; di costrizioni
materiali ed economiche, ne risulta che l'azione pubblica può solo tentare di
influire su queste ultime, influenzando il bilancio materiale e economico
costi-benefici dei figli per i potenziali genitori. Questa azione pubblica può
prendere varie direzioni ma manca il tempo per approfondire il tema.
Tuttavia, in estrema sintesi, questo significa un robusto orientamento delle
risorse pubbliche a favore diretto dei giovani e dei giovanissimi (istruzione e
formazione, giuoco e sport, spazi e verde, sicurezza e ambiente), che
migliorando il contesto di vita dei figli rassicuri i genitori che gli sforzi e
investimenti (privati) fatti nello spazio familiare sono sostenuti dall'azione
(pubblica) fuori della famiglia. Va anche detto che poiché sembra
accumularsi evidenza che il costo (relativo) dei figli è andato sensibilmente
crescendo negli ultimi decenni, il riorientamento delle risorse pubbliche
verso giovani e giovanissimi deve essere ingente e che in un'epoca di
contenimento (se non arretramento) della spesa pubblica questa è una sfida
politica rivoluzionaria e difficile da vincere. (baby boom/hitler)
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Se una ripresa della natalità ci sarà, questa sarà graduale a meno
che l'imprevedibilità umana non modifichi radicalmente, rapidamente e,
aggiungerei, imprevedibilmente, il sistema di valori legati alla genitorialità.
Nel frattempo, i fattori inerziali faranno si che la depressione demografica
dell'Europa segua il percorso descritto. E' quindi presumibile che lo stock di
immigrati debba accrescersi notevolmente nei prossimi decenni. Ma quanti,
quali e come? Comincio dal “quanti”, con l’esempio italiano: nei prossimi
venti anni, la popolazione tra i 20 e i 40 anni diminuirà da quasi 17 a poco
più di 11 milioni di persone. Si tratta di un tracollo di oltre 5 milioni e mezzo
di persone nelle età più produttive, più mobili e flessibili, con miglior
formazione, maggiore capacità di afferrare l’innovazione. Si noti che questo
è più un fatto che una previsione: coloro che tra vent’anni saranno tra 20 e
40 anni sono oggi già tutti nati e la loro mortalità è prossima allo zero. Ora è
evidente che lo sviluppo tecnologico, il crescente tasso di attività delle
donne, il riassorbimento della disoccupazione, una maggiore mobilità
interna possono in qualche modo attenuare questo deficit, ma è anche
evidente che esso non potrà essere interamente colmato e che l’alternativa è
tra una compressione dello sviluppo (o un suo arretramento) o
un’accelerazione dell’immigrazione. E’ facile previsione che lo stock di
immigrati, oggi prossimo ai due milioni (includendo i non regolari) – e
formatosi in due decenni nei quali la popolazione in età attiva andava
crescendo – non potrà che accrescersi con un apporto netto d’immigrazione
assai maggiore delle 100000 unità annue dello scorso decennio. E’ anche
facile previsione che lo stock di immigrati, tra una ventina d’anni, si troverà
almeno triplicato rispetto ad oggi. Per gli altri paesi europei il tema è lo
stesso, con le opportune variazioni locali. Il discorso sul “quanto” può
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chiudersi qui: l’Europa avrà più immigrati, a meno che non voglia ripiegarsi
su se stessa con enormi costi pubblici e privati.
Il discorso su “quali” immigrati è legato anche ai modi – cioè al “come”,
cioè alle “politiche” dell’immigrazione. E’ un discorso difficile, irto di spine
ideologiche e di pregiudizi, e dominato dal terrore dello scontro etnico,
religioso, di civiltà. Ma forse occorrerebbe guardarsi alle spalle e ricordare
che nella prima metà del ‘900 gli europei sono riusciti a distruggere – in
conflitti, guerre, rivoluzioni, stermini, tutti di natura intraeuropea e spesso
intrareligiosi – l’equivalente di un decimo del proprio patrimonio umano.
Questo ci permetterebbe di considerare in una prospettiva storica adeguata le
pur legittime preoccupazioni circa l’accettabilità, integrabilità e possibile
conflittualità di questo o quel gruppo di immigrati.
Personalmente non posso non ricordare i principi di laicità cui si
informano gli stati europei e l’auspicio che il “quali immigrati” si informi
alla considerazione delle qualità individuali dei migranti, delle loro capacità,
della loro personale adesione al patto sociale inerente all’immigrazione e
non a marcatori di tipo genetico o fenotipico o a profili precostituiti di natura
politica, geografica, etnica o religiosa. Non posso anche non osservare che se
l’Europa è destinata ad operare come un unico libero mercato del lavoro
(oggi ancora piuttosto inceppato) - come quello americano – con libertà di
circolazione interna, ebbene allora dovrà darsi una politica migratoria
guidata da criteri comuni. Non quindici politiche migratorie diverse come è
oggi, o venti o venticinque come sarà domani.
Passo, infine, al terzo aspetto, il “come”, cioè le condizioni
dell’immigrazione e a due teorie polari. La prima cerca di minimizzare i
costi dell’immigrazione, orientandola verso una rapida rotazione –il modello
tedesco degli anni ’60 del lavoratore ospite – scoraggiando i
ricongiungimenti familiari, rendendo difficile l’immigrazione di lunga
durata. E’ un modello economicistico diretto, soprattutto, a rimediare alle
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strozzature del mercato del lavoro. A questo modello sembra ispirarsi la
riforma attualmente in discussione nel nostro paese. Il modello opposto è
costituito dall’immigrazione come forma di “riproduzione sociale”,
orientata alla lunga durata, che incoraggia la formazione delle famiglie e che
tende a trasformare gli immigrati in cittadini. L’immigrato di corta durata
non ha interesse all’integrazione, ma alla massimizzazione del suo
guadagno; non investe nell’apprendimento della lingua o nella conoscenza di
regole e costumi, non persegue la socializzazione con la popolazione
ospitante. Questa forma d’immigrazione comporta, inoltre, forti rischi –
poiché masse cospicue di giovani immigrati di corta residenza e
generalmente non inseriti nel tessuto della società possono facilmente
compromettere la pace sociale. Diverso è l’immigrato di lunga durata che
per obbiettivo ha l’integrazione, la promozione sociale propria e, soprattutto,
dei propri figli, e che aspira a divenire cittadino a parte intera. Tra le due
forme di immigrazione – in popolazioni che soffrono dell’acuta depressione
demografica sopra delineata – la seconda è sicuramente preferibile per
considerazioni sociali e anche economiche, quando alla prospettiva del breve
si sostituisca quella del lungo periodo.
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