Elidio Miola - Testimonianze dai lager

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Elidio Miola - Testimonianze dai lager
Elidio Miola
Il mio nome è Elidio Miola, sono nato a Torino il 14 Marzo 1924. Ero dipendente della Fiat
dal 1942, e nel '43- ‘44 mi hanno chiamato per la ferma di leva. Io mi sono presentato e mi
han destinato alla fanteria di Marina, poi ho dopo ho continuato a lavorare. Dato che non
ero ancora operaio specializzato, all'azienda non mi hanno tenuto e allora ho dovuto
andare a militare… Sapevo che sarei andato a finire in Germania, per l'istruzione. Allora
mi sono unito ai partigiani della zona, dalla parte della Valle di Lanzo, su vicino a
Chialaberto, dove hanno fatto quel famoso rastrellamento, da cui io sono potuto fuggire.
Sono scappato nell'altra vallata, la Valle Ucana, e dopo quell’episodio lì non potevo più
stare a casa, a Torino … Perché da una parte ero …E dall'altra parte non potevo più
lavorare. Quindi sono andato nella zona di Trieste, dove c’erano altri militari, ma, poi, lì,
ci siamo trovati tutti circondati dalle SS, perché qualcuno aveva fatto la spia che c'era un
gruppo di militari. E ci hanno portati nella Risiera di San Sabba, dove ci hanno chiusi al
secondo piano. Penso che fossimo centocinquanta -centottanta persone… Tutti italiani,
quasi tutti militari…
Quando mi hanno arrestato eravamo nella zona vicino a Re di Puglia; non ricordo il giorno
preciso… So che era verso la fine di maggio i primi di giugno del ’44. Ci hanno portati tutti
in risiera e rinchiusi
al secondo piano… Ogni tanto venivano
delle SS a prendere
qualcuno per fare dei lavori lì intorno. Poi è venuto il colonnello delle SS, che comandava
lì, e ha chiesto se si voleva collaborare con loro o o morire da partigiani ed essere fucilati:
in parole povere era così. Si capisce che a vent’ anni nessuno ha voglia di morire, allora
abbiamo deciso, parlando tra di noi, che si collaborava, tanto per avere un po' di vita un
po' più lunga, per vedere… Glielo abbiamo detto, quando è ritornato una seconda volta,
con l'interprete. Poi un bel giorno, chiamano cinquantacinque-sessanta nomi - adesso
non mi ricordo più quanti erano di preciso - e ci fanno andare nel cortile, ci danno una
pagnotta di pane e ci hanno detto che ci mandavano a lavorare in Germania.
Ci si è
sollevato quasi il cuore, perché abbiamo detto: "Meno male: piuttosto che combattere per
loro, arruolarsi con loro! Andare a lavorare in Germania sarà un lavoro, ma il lavoro
almeno non ti ammazza, non ha mai ammazzato nessuno!". Così hanno detto che ci
portavano a Dachau, nessuno sapeva cosa voleva dire Dachau: per me era un nome
qualunque. Infatti siamo partiti da Trieste, su un vagone di un carro bestiame. Eravamo
cinquanta-cinquantacinque per vagone ed ci era stato detto che per uno scappato, ne
avrebbero ammazzati altri dieci. Allora ci sorvegliavamo a vicenda… Infine siamo arrivati
a Dachau… Di notte. Ci hanno portati alla stazione di Trieste, dalla risiera, per metterci
sui carri. So che era verso l'8 o il 10 di giugno… Io penso quell'epoca lì, perché a giugno
eravamo già a Dachau… Siamo arrivati lì nel mese di giugno.
In risiera non ci hanno immatricolato e ci hanno lasciato i vestiti che avevamo indosso.
Non ho visto donne in risiera, io non so se sopra, magari… Perché c'erano tre piani, cioè
il primo il secondo e il terzo piano…Ho capito che sopra c'erano degli ebrei perché Milani era anche lui in risiera - lo prendevano sempre per fare dei lavori sotto, e aveva visto un
po' di più. Noi sentivamo sempre della musica forte o dei rumori di camion, cose così, e
sentivo a volte anche un odore acre, che non capivo cosa fosse. Poi abbiamo saputo
che… Quando volevano bastonare, torturare qualcuno, allora facevano dei rumori, sentivi
quei rumori… Con quei rumori coprivano tutto, dalla musica al rumore dei camion… Non
siamo mai usciti dalla risiera per fare dei lavori. Eravamo in attesa di destinazione: non
sapevamo cosa avrebbero fatto di noi in parole povere.
Poi , un bel giorno, mi hanno portato alla stazione di Trieste… Dopo che ci hanno
rinchiusi, isolati dagli altri, e ci hanno caricati su questi carri bestiame, hanno fatto una
tradotta e siamo partiti per Dachau. Adesso non so se sono scesi tutti a Dachau o no…
Dal nostro vagone, di sicuro, tutti. Non siamo arrivati alla stazione, perché a Dachau non
c'era una stazione; c'era un binario che portava vicino al campo, so che c'era come una
riva, il treno era … Ci hanno fatti uscire di lì e ci siamo trovati circondati dalle SS con i
riflettori e i cani lupo: siamo rimasti fermi, perché non sapevamo cosa significasse. Allora
gridavano: ” Cinque…ecinque per cinque!”. Ci hanno fatto mettere in colonna… Era verso
mezzanotte. Ci han portato il lager, non ho neanche capito bene da dove siam passati. Ho
visto, poi,al mattino, quando ci han messo dentro il camerone - dove adesso c'è il museo che c'erano i posti dove ci spogliavano, ci prendevano la roba, ci immatricolavano, ci
depilavano, ci disinfettavano, ci tagliavano i capelli… Facevano tutte quelle cose lì. Noi
siamo stati lì dentro fino all'alba. Quando è venuto giorno, io sono andato a vedere dalla
finestra… Sono stato il primo a vedere, poi avranno visto anche altri… Ho visto uno vestito
a righe, e ho detto: "Ehi ragazzi, c'è uno che gira in pigiama lì fuori!". Non era una battuta,
è capitato proprio così. Poi, infatti, il pigiama l'hanno dato anche a noi. Ci hanno tagliati e
rasati con la creolina e poi ci hanno dato il numero – il mio era 69.786 - il triangolo rosso, e
ci hanno mandato al blocco numero 15.
Sono rimasto al blocco numero 15 per la
quarantena. Io di Dachau ho sempre visto la “stube”, in cui stavo io: il lato posteriore della
baracca, il lato anteriore e c'era un portone di legno, da dove siamo entrati, tra una
baracca e l'altra. Facevano l'appello lì, sul posto, non siamo mai andati sulla piazza
dell'appello. Poi, dopo un certo periodo, che non ricordo bene - sarà stato fine di giugno,
primi di luglio - un giorno, ci fanno andare nudi dietro, in mezzo a due baracche. Eravano
tutti nudi, c'era un tavolo con un SS, che non so che grado avesse e che ci faceva passare
uno per volta davanti a lui: ci guardava in bocca, ci guardava, da una parte e dall'altra. Poi,
ci hanno mandati ad Allach. Là, chiedevano che mestiere facevamo: io ho sempre detto
che ero lavoratore specialista della Fiat, anche se non era vero, ma era solo per poter
lavorare al coperto. Ho fatto dei lavori ad Alach mica tanto piacevoli, come quando hanno
fatto un campo di smistamento per gli ebrei lì vicino , e ci hanno fatto lavorare a picco e
pala, scavare buche, spingere i vagoni di terra sulle rotaie… Allora io partivo sempre con
la storia che io ero uno specialista, finché un giorno mi hanno poi mandato a Blaichach un altro sottocampo -, ma prima che succedesse quello io ho avuto un'infezione all’alluce.
Ad Allach, ho lavorato alla BMW dove facevano i motori da aerei, i motori stellari da aerei
e poi han bombardato la fabbrica. Nei giorni, in cui hanno bombardato la fabbrica io ho
avuto quell’infezione: l’alluce stava marcendo, perciò sono andato in infermeria. Là mi
hanno strappato via la pelle, il marciume così, hanno preso un pezzo di carta igienica e
me l'hanno medicato così, e poi mi hanno dato un giorno di riposo. In quel giorno di riposo
- neanche fosse stato tutto combinato - tutti quelli, che erano con me, sono partiti in
trasporti e non li ho più visti. Sono rimasto solo in mezzo a francesi, russi, polacchi: non
capivo più una parola da parte di nessuno. Mi son trovato da solo, e - sono sincero - in
quel momento me la sono vista brutta, perché non avevo più dialogo con nessuno: ero un
po' abbattuto. Ho trovato un francese, che parlava un po' di … Piemontese. Allora con lui
ho poi dialogato… E’ lui che mi ha scrollato, mi ha detto: "Ehi ragazzo se sei … Se non
vuoi lasciarci la pelle: non pensare agli altri, né ai tuoi, né alla famiglia, pensa a vivere da
un giorno all'altro". Lui era già lì da più tempo. Le sue parole mi hanno scosso un po'…
Ho fatto diversi lavori del campo: sono andato anche a coltivare patate, a spaccare
legna… Ma, intanto, insistevo sempre sul mio mestiere: il meccanico…Il meccanico. Dopo
un paio di mesi, mi hanno poi mandato in quel sottocampo di Blaichach. Abbiamo lasciato
Monaco, che aveva la stazione sompletamente bombardata, non c'era più nient’altro. In
quel sottocampo eravamo
venticinque italiani
al massimo, gli altri erano tutti russi,
polacchi e in maggioranza francesi. Lì andavo di nuo vo a lavorare in un reparto sfollato
della BMW, dove si facevano sempre le bielle piccole e la biella madre dei motori stellari.
Io ero stato messo addetto alla stabilizzazione delle bielle: dovevo prendere le bielle e
metterle in un forno, che le portava a cinquecento -seicento gradi, dopo di che le prendevo
con dei ganci e le mettevo dentro i sali fusi a novecento gradi. Poi premevo un pulsante: si
accendeva una lampadina rossa, poi, se ne accendeva una verde e si potevano tirare su
le bielle per metterle nell'olio. Da qui si passavano nei forni, infine venivano pulite. Questa
era la stabilizzazione. Un giorno si erano prodotte bielle deformate. Allora sono venuti tutti
i dirigenti, le SS, a dirci che noi dormivamo, invece di fare bene il lavoro… E che, se
questo capitava per colpa nostra, ci avrebbero ammazzati tutti. Allora noi abbiamo detto: “
Provate, fate la prova ”. Abbiamo fatto la prova: abbiamo preso le bielle, le abbiamo
messe lì, messe là, si è accesa la luce, poi si è acceso il verde, le abbiamo tirate fuori,
messe nell'olio… Alla fine le hanno controllate e si deformavano lo stesso. Quando è
apparso chiaro che non fosse più colpa nostra, ho tirato un po' il fiato. Poi si è scoperto
che era colpa di quella lampadina, perchè aveva un relè, che invece di durare un minuto
durava un minuto e quindici secondi: bastavano quei quindici secondi in più per
deformarle. Alla BMW di Allach, mi avevano messo ad un tornio - perché io ero un
tornitore - e c'era un cecoslovacco che mi preparava la macchina e mi diceva sempre: "Mi
raccomando fai attenzione". Mi faceva : " Guarda bene, dentro il cassetto dei ferri, ma
occhio guarda in giro prima… ". Mi metteva sempre una fettina di pane in mezzo ai ferri …
Si capisce che io dovevo guardare bene… La mangiavo in un boccone e via. Questo
cecoslovacco era un lavoratore libero là. Un giorno siamo ritornati al campo di Allach e
c'era la forca, ho pensato: "Adesso qui marca male". C'era l'appello prima del lavoro: ci
hanno messo tutti squadrati per dieci, baracca per baracca, blocco per blocco. Hanno
chiamato un russo e lo hanno fatto andare fuori, hanno letto la sentenza in tedesco, che
io non ho capito, poi l'hanno impiccato e noi dovevamo stare tutti a guardare: non ci si
poteva voltare, perché i Kapò giravano e, se voltavi la testa, ti picchiavano. Ho poi saputo
che hanno impiccato questo russo per sabotaggio. Sabotaggio era un’accusa, che faceva
ridere, perché quando ho saputo cosa aveva sabotato…Non aveva fatto un bel niente!
Praticamente, aveva preso un prezzo di cinghia, che era stata buttata lì insieme al
pattume, e l'aveva messa sotto agli zoccoli - l’aveva inchiodata sotto, non so come - dal
momento che lo facevano camminare storto. Hanno detto che aveva fatto sabotaggio,
perchè ha portato via un pezzo di cuoio e lo hanno impiccato per quello.
A Blaichach abbiamo sempre lavorato. In quella fabbrica si faceva il turno di dodici ore di
notte e dodici ore di giorno, dalle sei del mattino alle 6 della sera e viceversa e, qualche
volta, si andava anche alla domenica. Però la vita era un po' migliore rispetto ad Alach e a
Dachau, perché il campo non era grande, essendo un sottocampo: eravamo
millecinqucento -duemila persone al massimo, e si facevano i due turni, dalle sei del
mattino alle sei di sera di giorno, e, quando si faceva la notte, si smontava al sabato sera.
Alla domenica invece non davano mangiare a mezzogiorno, ma alle sedici, perché poi ci
facevano andare a lavorare la notte, e ci facevano partire alla sera, alla notte della
domenica. La cena della sera ci veniva data a mezzanotte, facevano il giro così. Ma lì
insomma era dura… Perché dodici ore erano dure, ma almeno eri al coperto. Dal campo
alla fabbrica c'erano sì e no quattrocento -cinquecento metri, non di più, però faceva un
freddo cane perché la sera e la mattina c’erano 20° sotto zero e noi avevamo solo e
sempre la solita camicia, la solita giacca di tela. Avevo una giacca un po' pesante, non
l'avevo mai cambiata proprio perché era più pesante, ma era piena di pidocchi. –
cercavamo di ammazzare almeno i più grossi… Si cercava di tirare avanti così. Una volta
ho provato, mentre stavo facendo la tempra delle bielle, che sgrassava le bielle dall'olio…
Abbiamo detto: "Proviamo a metterci dentro la camicia per ammazzare i pidocchi", e
l'abbiamo messa. Poi l'ho tirata fuori e quasi quasi si rompeva tutta, ho detto: "Porca
miseria, guarda che rimaniamo senza camicia: teniamo i pidocchi che è meglio". E' andata
un po' avanti così, finché un giorno - mi ricordo - era verso Natale, Capodanno, tra il ‘44 e
il ‘45. Il comandante di quel campo, che era poi un maresciallo maggiore delle SS viene su
e mi ricorderò sempre il discorso, che ha fatto, che io sono rimasto un po' lì… Ha detto che
sperava che il prossimo anno ognuno passasse il Natale a casa sua. Porca miseria, sentir
dire quelle parole da un comandate del campo, significava che le cose andavano male,
perché se faceva un discorso così, cercava di riabilitarsi da solo. E difatti poi a Natale
avevano fatto da mangiare, avevano fatto un po' di pasta, con il sugo, una roba, loro lo
chiamavano il gulash, un po' di carne dentro perché avevano ammazzato diversi cavalli,
che bombardavano nella zona. Hanno suonato l'allarme quando era ora di mangiare:
abbiamo mangiato questa pasta - comunque era pasta - che erano circa le cinque… Il
pasto più buono che io abbia mangiato.
Fra bombardamenti, una cosa e l'altra, siamo arrivati fino ad aprile. Ad aprile dovevano
portarci via, infatti una sera, ci hanno incolonnati tutti, per portarci a Mauthausen.
Abbiamo camminato due giorni e due notti, ci facevano dormire nelle campagne, dentro
quelle baracche per gli attrezzi di campagna, e poi arrivati ad un punto abbiamo sentito…
Abbiamo visto che discutevano fra loro, che non potevano più andare avanti perché
c'erano gli americani che arrivavano, e da dove arrivavamo noi, c’erano i francesi. Allora ci
hanno fatti tornare indietro, e ci hanno di nuovo chiusi nel campo, ci hanno bloccati, chiusi
dentro, poi han detto che avrebbero sparato a chiunque, mettesse il naso fuori. Allora
siamo stati un po' dentro…Poi la curiosità era grande, e abbiamo guardato, e uno fa
:"Non ci sono più le sentinelle". Quando abbiamo sentito così abbiamo sfondato la porta,
siamo usciti fuori. E abbiamo visto che non c'erano più sentinelle. Poi abbiamo visto
arrivare una camionetta con dei marocchini sopra vestiti da militare, che dicevano: "La
guerra è finita", meno male che erano arrivati questi qua. Poi sono andati via. Dopo è
arrivato un carro armato. Qualcuno dal paese - si vede qualche fissato - ha sparato
qualche colpo… Non l'avesse mai fatto! Questi hanno sparato una cannonata, hanno
messo tutto a tacere e il campo è stato liberato così. Poi siamo rimasti - era verso la fine di
aprile, mi ricordo, perchè dopo qualche giorno i francesi hanno celebrato il primo maggio e abbiamo cantato la Marsigliese, quando ci hanno liberato, perché ci hanno liberato i
francesi, e poi la maggioranza dei prigionieri era francesi. Allora cosa è successo? I primi
a rimpatriare sono stati i francesi; sono rimasti i russi, che, dopo, sono andati via anche
loro; pure i polacchi sono andati; alla fine sono rimasti solo gli italiani… Nessuno si
interessava di noi. Almeno i militari, che avevano occupato il paese, avevano dato ordine
di farci da mangiare, tutti i giorni. Finchè un giorno, abbiamo deciso di partire a nostra
volta, visto che nessuno si interessa di noi. Tanti sono andati via per conto proprio, noi in
quattro o cinque abbiamo preso un carrettino, con un po' di provviste, e ci
siamo
incamminati, perché avevano detto che a sessanta-ottanta chilometri c'era il presidio
americano, dove gli americani rimpatriavano i deportati. Siamo partiti a piedi, si dormiva
dove si poteva, e visto che - una volta finita la guerra - per la strada mettevano il latte nei
bidoni, che passavano a caricare, noi riempivamo le borracce, almeno c'era da bere.
Quando i francesi avevano occupato, ci avevano fatto un documento, a tutti quelli, che
erano nel campo di concentramento - ce l'ho ancora qua - . E siamo poi arrivati in zona
americana in quella maniera lì. Siamo rimasti due o tre giorni lì, poi con i camion ci hanno
portati ad Innsbruck. A Innsbruck sempre con carri bestiame, perché di vagoni non ce
n'erano ancora, ci hanno portati a Bolzano. Mi son fermato fino al mattino, in cui è partito
un camion. Siamo stati in un ristoro, vicino alla stazione, dove davano qualcosa da
mangiare a quelli che ritornavano dai ampi. Mi ricordo che c’erano diversi che chiedevano:
“Di dove siete? Noi cerchiamo quelli di questo paese, di quell’altro paese, di quella città”.
C’era la Croce Rossa, però hanno dato poco lì, c’era poca roba da …A Bolzano ci hanno
dato qualcosa da mangiare, comunque, un po' di frutta, qualche cosa così e quando
chiedevano di che paese eravamo, rispondevo:
“ Io sono di Torino" e uno mi ha detto:
"Se volete partire domani, ci sono dei camion che vanno a Milano, almeno vi avvicinate già
un po". Allora abbiamo preso questi camion, io e i due degli altri, e siamo arrivati a Milano.
A Milano, poi, gli altri sono andati per altre destinazioni… Io, invece, siccome mi avevano
detto che c'era un camion che faceva da Milano a Torino - un camion che viaggiava
ancora a gasogeno - e ci ha messo dodici ore da Milano a Torino, sono arrivato a Torino.
Là, mentre aspettavo il tram a Porta Palazzo - il 14, perché prima di andare via c'era il
tram numero 14 - . Il tram non arrivava mai, allora chiedo: "Ma non c'è il 14 oggi? come
mai?" e mi rispondono: "Non c'è più, adesso è il 17, non c'è più". Avevano cambiato il
numero al tram, però faceva lo stesso tragitto. Allora ho preso questo tram, e quando sono
arrivato nella mia zona, avevo ancora addosso i pantaloni a righe - li avevo portati a casa,
ma poi mia sorella, Dio bono, li ha buttati via, volevo tenerli per ricordo!- . Il primo che ho
incontrato per strada, prima di arrivare a casa, è stato mio cugino, che era stato nei
partigiani, e gli ho detto: "Guarda dimmi subito com'è la situazione a casa, tanto sono
abituato a sentirne di tutti i colori". Lui mi aveva detto: “ Guarda, tua mamma è
all'ospedale, tuo fratello l'hanno ammazzato”. Mio fratello era andato nei partigiani, ma un
vicino aveva fatto la spia e l'hanno ammazzato. Poi ha aggiunto: “L'altro tuo fratello è
ancora prigioniero degli Inglesi, non è ancora venuto a casa”. Allora ha detto: "Beh, meno
male che io sono arrivato per primo allora". Sono arrivato a casa, e mia cognata ha fatto
bollire tutta la roba, che avevo indosso. Sono andato il giorno dopo a trovare mia mamma
all'ospedale: aveva una forte depressione ed era all'ospedale psichiatrico femminile - era
sotto al piano terreno, dove adesso c'è l'anagrafe - . Le sono andato vicino, l'ho salutata:
"Mamma, non ti ricordi di me?" e lei mi ha guardato bene e ha detto: "Sei Mario". "No non
sono Mario, Mario è morto, sono Elidio, sono Elidio". Lei si è messa a piangere, poi non
ha più parlato, non so se mi ha riconosciuto… Quindici giorni dopo è morta.
Sei mesi dopo è morto mio padre di tumore, e sono rimasto per quattro anni a casa di uno
dei miei fratelli, finché mi sono poi sposato. L’altro mio fratello, quello che hanno ucciso, è
stato ammazzato per cinquemilalire lire, perchè uno ha fatto la spia… Lo ha fatto
ammazzare per cinquemila lire. L'altro fratello che era prigioniero è ritornato poi a casa
nel ’46. Hanno ammazzato mio fratello proprio vicino a casa… Lui era militare, e doveva
andare al fronte, quando è successo lo sfacelo della Francia, che è caduta… Non è più
andato militare, ma si è unito ai partigiani della zona di Casellette. A quel tempo lui era più
anziano di me, era del ’14… Gli avevano detto che alla Pirelli davano dei copertoni di
camion, che erano stati persi… Stavano mangiando in un osteria, ma dei nostri vicini li
hanno visti e hanno fatto la spia…Si son presentati i repubblichini, due all'ingresso
principale ed altri dalla parte del cortile…Lui si è alzato ha cominciato a sparare … I tre
amici con mio fratello sono scappati, mentre a mio fratello hanno sparato da detro: lo
hanno preso nella schiena e nella testa…Così, lui è rimasto lì, è morto così. Quando è
finita la guerra i tre amici di mio fratello hanno saputo chi era quello che aveva sparato a
mio fratello: sono andati a prelevarlo e l'han fucilato davanti a quell'osteria. E mi ricordo di
un vecchietto che mi diceva quando sono ritornato: " Vedi queste scarpe qua? Le ho preso
io, perché avevo bisogno di scarpe, sono di quello che ha fatto ammazzare tuo fratello".
Non ricordo di avere visto donne né a Dachau, né ad Allach
… Ho visto quelli che
lavoravano in fabbrica, ad Allach nella fabbrica, nell’infermeria, ma nel campo non ho mai
visto donne io, mai. Non mi ricordo, nemmeno se ci fossero religiosi, sacerdoti…
Perlomeno nessuno si è mai dichiarato tale… Mi ricordo alcuni nomi di qualche compagno
di quei giorni… Di Milani mi ricordo bene… Poi c’era uno che si chiamava Todeschini…
Poi un altro che è morto adesso, non mi viene più in mente il nome, perché è difficile …
Siamo partiti dopo la quarantena …Quarantena si fa per dire, potevano essere venti,
trenta giorni…Quindici…Poi siamo andati a Allach…E dopo un paio di mesi circa, da lì
siamo andati a Blaichach…Più o meno… Di preciso le date, non avevamo neanche da
segnare, non potevi… Siamo andati in treno, ci hanno portati alla stazione di Monaco adesso non so che stazione fosse - e ci hanno messi in un vagone isolato, con le
sentinelle… Noi eravamo lì dentro… Non eravamo mica tanti, eravamo dieci o
dodici…Quando sono arrivato lì il campo era già in funzione... Ad Allach, ci saranno state
almeno diecimila persone, io credo, era grande il sottocampo di Allach. C’è anche un
libro, in cui si vede la liberazione di Allach… Da Allach non si vedeva il paese… Il campo
era isolato dal paese.
Invece a Blaichach il campo era nel paese… Era dentro ad uno stabilimento, in cui quelli
che lavorano sopra entravano da un’altra parte - che noi non sapevamo nemmeno dove
fosse – noi, invece, entravamo su un lato… Avevano fatto una scala, si andava su per
due piani, si era isolati. Le finestre che davano dalla nostra parte erano tutte bloccate. Lì
dietro - io mi ricorderò sempre - c’era il reticolato, il cortile dell’appello e delle villette più
avanti, perché era fatto un po’ in salita, e noi siamo rimasti sempre lì dentro. Ricordo
questo, che da una parte fa ridere… A Blaichach eravamo in un letto a castello io ed altri
undici Russi…L’unico italiano fra tutti russi… Ho poi visto questi russi che prendevano dei
biglietti - non so come li facevano passare - , perché c’erano delle ragazze che lavoravano
sopra ed erano tutte russe, allora si passavano dei biglietti... Mi sono accorto, per caso,
perché una volta mi sono svegliato e ho visto che prendevano questi biglietti.
Nessuno ha più saputo niente a San Sabba. Non ho più potuto comunicare con casa
mia… Poi mi ricordo una cosa a riguardo…A Blaichach c’era un operaio civile addetto alla
pulitrice, a cui ho chiesto un grosso favore… Lui era di Torino - mi avevano detto – e
quindi io mi sono avvicinato, dopo averlo trovato nel suo settore, e gli ho chiesto se per
favore poteva mandare notizie ai miei…Dicesse che ero vivo…Gliel’ho chiesto in dialetto
piemontese.. E lui, sempre in dialetto, mi ha detto che doveva pensarci, per via della
censura…Alla fine ha mandato il messaggio e ha detto ai miei che ero vivo. I miei a casa,
quando sono arrivato, credevano che fossi mutilato, perché ho fatto scrivere da un altro…
Pensavano che io fossi mal messo. Dopo essere stato liberato, quando sono tornato a
casa, sono andato a cercare quell’operaio: abitava ancora lì, ma stava per partire, per
andare alavorare nel Veneto - lui era di origine veneta -. Io gli ho detto: “Vieni a casa
nostra, a passare almeno una giornata con me, visto che mi hai aiutato”, perché mi aveva
portato anche delle patate bollite: le prendevo sempre di notte, le mettevo dentro alla
camicia, e mi mangiavo ste due o tre patate… Tutto serviva. Mi è venuto a trovare, ha
passato tutta la giornata con me, ha fatto il pranzo dai miei, ha conosciuto mio
padre,invece mia madre era già morta. Poi è partito e non ho più saputo niente. L’unica
cosa positiva di tutto: quella cartolina che aveva mandato. Peccato che i miei familiari non
l’abbiano tenuta. Sono arrivato a casa il 15 giugno del ‘45. Da solo.
Sono stato intervistato due o tre volte ora da uno,ora dall’altro, solo che la memoria ogni
tanto va…Vengono delle cose a rate. So che Milani e Todeschini sonoa ncora vivi…Mi
pare… Ad Allach non c’è più niente, sono andato una volta, ma non c’era più niente…Non
si entra più dall’ingresso da cui sono entrato io a Dachau…Magari non mi orienterei più…