Il danno da attività di direzione e coordinamento illegittima Mario
Transcript
Il danno da attività di direzione e coordinamento illegittima Mario
Il danno da attività di direzione e coordinamento illegittima Mario Bussoletti Traccia della relazione 1. Presupposti di illegittimità dell’attività di direzione e coordinamento Impossibilità di affrontare funditus in questa sede il tema di quando ricorra l’an della responsabilità da direzione abusiva. Sul tema si tornerà successivamente nei limiti in cui ciò serva ai fini della trattazione del tema del danno. 2. I soggetti danneggiati: anche la società è un soggetto danneggiato e conserva l’azione Il primo danneggiato è la società eterodiretta, la quale è dunque legittimata a chiedere il risarcimento dei danni. L’azione esercitata dalla società eterodiretta trova il suo fondamento innanzitutto nel diritto comune, ed in quelle norme e principi che già consentivano di far valere la responsabilità per abuso di direzione unitaria ben prima della riforma del 2003: 1 l’azione di cui all’art. 2497 c.c. si aggiunge e non fa venir meno la generale legittimazione della società eterodiretta ad agire contro i responsabili della direzione abusiva 1. A favore di ciò militano quali ulteriori argomenti: 1 V. CARIELLO, Direzione e coordinamento di società: spunti interpretativi iniziali per una riflessione generale, in Riv. soc., 2003, p. 1256; I. FAVA, I gruppi di società e la responsabilità da direzione unitaria, Società, 2003, p. 1198; R. RORDORF, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Soc., 2004, p. 545; G. ALPA, La responsabilità per la direzione e il coordinamento di società. Note esegetiche sull’art. 2497 cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, pp. 660-661; R. GUGLIELMUCCI, La responsabilità per direzione e coordinamento di società, in Dir. fall., 2005, I, p. 41; M. MAGGIOLO, L’azione di danno contro la società o ente capogruppo (art. 2497.3 c.c.), in Giur. comm., 2006, I, pp. 179-180; G. SCOGNAMIGLIO, Danno sociale e azione individuale nella disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, III, 2007, p. 965 ss.; S. GIOVANNINI, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, Milano, 2007, p. 65; V. PINTO, La responsabilità degli amministratori per «danno diretto» agli azionisti, in Il nuovo diritto delle società, cit., p. 938; A. PENTA, La natura della responsabilità per abuso di attività di direzione e coordinamento, in Dir. fall., 2009, II, p. 235 ss. spec. p. 238; M. BUSSOLETTI, E. LA MARCA, Gruppi e responsabilità da direzione unitaria, in Riv. dir. comm., 2010, I, pp. 76-77; S. SILVESTRINI, La legittimazione attiva e passiva nell’azione di responsabilità per scorretto esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, in Soc., 2013, p. 941. E v., anche, l’ulteriore dottrina citata in nota 15 della memoria del 16 settembre 2013, p. 15s. Dottrina ha sostenuto l’assenza di legittimazione della società eterodiretta ad agire contro la capogruppo, TOMBARI in primo luogo. L’Autore procede a tale affermazione in maniera dubitativa (l’Autore si preoccupa di usare sempre il condizionale); ed in effetti, in TOMBARI, Diritto dei gruppi di imprese, Milano, 2010, p. 44, l’A. afferma che l’azione di cui all’art. 2497 si aggiunge, ma non sostituisce le azioni previste agli artt. 2393-2395 c.c. (p. 38): risulterebbe così il singolare scenario che vedrebbe la società poter dar corso all’azione di responsabilità contro l’amministratore che ha dato seguito alle direttive abusive, senza però poter chiamare in responsabilità il soggetto che quelle direttive ha imposto. A spingere la dottrina (in particolare ABBADESSA, La responsabilità della società capogruppo verso la società abusata: spunti di riflessione, BBTC, 2008, II, p. 288) verso la direzione di negare legittimazione alla società eterodiretta è il problema della duplicazione del danno. Ma negare che la società eterodiretta possa agire contro l’eterodirigente non evita tali problemi, a meno che non si neghi nel contempo la legittimazione della società ad agire contro i propri amministratori supini o inerti dinanzi all’abuso (e nessuno pare essersi 2 (i) l’art. 2634 c.c., che nel reato di infedeltà patrimoniale individua la società eterodiretta come parte lesa; (ii) anche il primo comma dell’art. 2497, quando legittima all’azione i creditori per il danno cagionato al patrimonio sociale, necessariamente postula che la prima legittimata a chiedere il risarcimento di questo danno sia la società; (iii) l’art. 2476, comma 7, c.c., che nella società a responsabilità limitata pure aggiunge la responsabilità dei soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento dell’atto dannoso alla spinto così oltre, anzi, come visto per Tombari, ha espressamente affermato il contrario): una siffatta soluzione è impedita dallo stesso art. 2497 c.c., che alla società destina i benefici derivanti dalle operazioni poste in essere dalla capogruppo e dirette ad eliminare integralmente il danno, benefici che quindi non possono considerarsi un indebito. Può ritenersi che tale interpretazione sia rafforzata dall’iter che ha condotto alla formulazione del comma 3 dell’art. 2497 c.c.. Al di là del rilievo limitato che può attribuirsi ai lavori preparatori (rilievo che non può spingersi sino al dedurre come vigente un principio inespresso che rivoluzionerebbe l’intero assetto della governance delle società per azioni, della responsabilità degli amministratori e delle tutele non più collettive, ma soltanto individuali, concesse ai soci di minoranza: ubi lex voluit, dixit). In dottrina si è chiarito che la mancata conferma della prima formulazione dell’attuale comma 3 è proprio volta ad evitare le duplicazioni del danno che altrimenti si produrrebbero allorquando il socio o il creditore abbiano ottenuto la definitiva condanna dell’eterodirigente (PINTO, La responsabilità degli amministratori per «danno diretto», in Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, vol. 2, Torino, 2006, p. 928s.; LA MARCA, Il danno alla partecipazione azionaria, Milano 2012, p. 400s.). 3 responsabilità degli amministratori, da far valere appunto con l’azione sociale di responsabilità 2; (iv) l’art. 24 Cost., per il quale non può lasciarsi priva di azione la società eterodiretta che ha subito il danno 3 (parte lesa!). 3. Il danno dei soci I soci e i creditori cui si rivolge l’azione aggiuntiva di cui all’art. 2497 sono quindi danneggiati “innanzitutto” di riflesso 4. Con riferimento ai soci, rimane salva la possibilità di agire per il danno diretto (tradizionalmente individuato ai sensi dell’art. 2395 c.c.); il danno cui si rivolge principalmente l’area dell’art. 2497 c.c. è invece il riflesso del danno sociale, non a caso 2 3 4 Per entrambi gli aspetti, sia consentito il rinvio a M. BUSSOLETTI, Sulla irresponsabilità da direzione unitaria abusiva e su altre questioni aperte in tema di responsabilità ex art. 2497 cod. civ., in Governo dell’impresa e responsabilità dei gestori, a cura di A.R. Adiutori, Milano, 2012, 141s. L’azione della società eterodiretta è fondata sulla responsabilità generale da illecita influenza sulla gestione di società di capitali che da tempo la dottrina ha riconosciuto costituire naturale sviluppo ed applicazione delle norme che impediscono nelle società di capitali il compimento di attività in conflitto di interessi, tema cruciale per la tenuta delle iniziative economiche collettive. Sicché, se anche si volesse considerare circoscritto il novero dei legittimati passivi rispetto all’azione aggiuntiva di creditori e soci, non vi sarebbero ragioni per considerare parimenti circoscritto il perimetro dei legittimati passivi dell’azione di diritto comune che non può non spettare alla società eterodiretta (ed il Salva Alitalia interpreta il primo comma dell’art. 2497 c.c., non le norme a fondamento dell’azione di diritto comune). Si pongono quindi problemi di coordinamento fra due azioni rivolte contro il medesimo debitore per ottenere il risarcimento del medesimo danno (o di quote del medesimo danno). 4 circoscritto al danno al valore ed alla redditività della partecipazione (quindi pro quota). Sicché, il danno che il socio subisce quale riflesso del pregiudizio sofferto dal patrimonio sociale (che pure ha l’ampiezza tradizionale e la possibilità di distinzione in danno emergente e lucro cessante) è sempre e solo un danno emergente. Se per effetto della abusiva direzione unitaria la società eterodiretta decade da appalti pubblici già aggiudicati, avendo perso un requisito importante, nella prospettiva della società il danno che si è prodotto comprende anche il lucro cessante derivante dalle commesse; invece, nella prospettiva riflessa del socio, da tradurre in un pregiudizio al valore della partecipazione, il danno si esaurisce nel danno emergente e nel lucro cessante relativo alla sola perdita di redditività. Restano estranei alla norma, e da verificare se risarcibili con il 2395, i danni ulteriori – e peraltro non riflessi – che il socio può patire per le occasioni perse di mancato impiego del valore della partecipazione per compiere ulteriori affari: anticipazione bancaria con pegno quote; senza contare che, secondo Angelici, viene abbandonata la tecnica del risarcimento del danno alla persona, e viene standardizzata e limitata la responsabilità 5 incentrata esclusivamente sul danno al valore ed alla redditività della cosa: indennizzo da atto lecito ex art. 2045? Occorre chiedersi poi se possa sussistere pregiudizio alla redditività della partecipazione che non si traduca in pregiudizio al valore della partecipazione sociale. La risposta sembra dover essere negativa, poiché non è sostenibile che il valore di un dato bene prescinda dalla sua redditività. È vero di contro che non ogni pregiudizio al valore della partecipazione sociale si traduce necessariamente in pregiudizio alla sua redditività: la lesione di un prerogativa amministrativa determina un pregiudizio al valore della partecipazione, ma non necessariamente alla sua redditività (esempio: eliminazione del quoziente rafforzato che riconosce al socio un diritto di veto o eliminazione della prelazione, sempre che si possa ritenere che questo genere di azioni possa costituire, in alcuni casi almeno, responsabilità da direzione e coordinamento). Considerato dunque che valore della partecipazione e redditività della stessa non definiscono insiemi coincidenti (il secondo è semmai compreso nel primo), occorre allora chiedersi se l’agire che 6 rende responsabile la controllante debba danneggiare sia la redditività sia il valore della partecipazione. La lettera della norma potrebbe comprensibilmente indurre a ritenere che entrambi gli aspetti del bene partecipazione debbano essere stati lesi 5. È chiaro però che affermare che redditività e valore della partecipazione sono cose diverse o almeno parzialmente diverse, per poi sostenere che la responsabilità sorge solo nel caso di lesione cagionata a entrambe o alla parte comune a entrambe, significa formulare un addebito di schizofrenia ad un legislatore che evoca due distinti danni come possibili conseguenze di una condotta chiaramente illecita (perché viola i principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della società diretta), per poi mandare esente da responsabilità chi cagiona solo l’uno o solo l’altro! Se, come bene dice Maugeri, viene preso in considerazione il valore di scambio della partecipazione il danno sufficiente ai fini della responsabilità e anche uno solo dei due. Il risarcimento riflesso, come del resto richiede la lettera del primo comma dell’art. 2497 c.c., deve calcolarsi ponendo 5 E v., infatti, G. ALPA, La responsabilità per la direzione e il coordinamento di società, cit., p. 662, il quale risolve positivamente il quesito, osservando che «la congiunzione «e» lascia intendere che entrambi i requisiti siano necessari». 7 mente al minor valore della partecipazione per effetto dell’abusiva condotta della capogruppo, e per valutare tale grandezza dovrà ovviamente tenersi conto dei debiti della società (sicché, se anche senza l’abusiva condotta della capogruppo, la società eterodiretta sarebbe comunque riuscita al più a pagare i debiti, non vi sarà un danno da risarcire). L’ammontare del risarcimento riflesso dovrà calcolarsi moltiplicando la percentuale di partecipazione non alla misura del danno in sé generato dalla condotta della capogruppo, bensì alla differenza tra il valore del capitale economico della società in assenza dell’abusiva condotta ed il valore della stessa all’esito dell’abusiva condotta 6. Le cose posso complicarsi se l’esistenza di un dato debito si sottrae alla conoscenza della società e delle parti al momento della definizione del giudizio di condanna della capogruppo in favore del socio di minoranza. In caso di incapienza della società rispetto a tale ultimo debito, il creditore agirà per ottenere la condanna della capogruppo al risarcimento. Se la capogruppo 6 In questo senso, A. VALZER, La responsabilità da direzione, cit., 41, secondo il quale «il socio vede attribuirsi la differenza tra il valore attuale della sua partecipazione sociale e quel diverso, maggiore valore, che la stessa partecipazione avrebbe avuto se la capogruppo, invece di deprimere la società eterodiretta «nell’interesse proprio o altrui» avesse correttamente esercitato l’attività di direzione e coordinamento». 8 venisse condannata per il corrispondente importo, il risarcimento supererebbe l’ammontare del danno provocato. Per evitare questa conseguenza, al creditore si potrebbe riconoscere un risarcimento inferiore al danno patito. Entrambe le soluzioni non soddisfano; la seconda, peraltro, verrebbe altresì a riconoscere ai soci una parte dell’attivo sociale, in spregio al vincolo (derivante dalla personalità giuridica della società) che imponeva la preventiva soddisfazione dei creditori sul patrimonio sociale. La soluzione da preferire è, anche in questa ipotesi, quella che consente di non derogare ad alcuno dei principi generali considerati. In assenza di previsione espressa, la vicenda pare poter essere regolata per via di analogia, facendo applicazione dell’art. 2495, comma 2, c.c.: ai sensi di tale disposizione, i creditori non soddisfatti potranno far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme non riscosse e nei limiti in cui questi abbiano percepito alcunché a titolo di risarcimento del danno riflesso. La posizione del creditore non soddisfatto di cui all’art. 2497 c.c. pare infatti in tutto simile a quella del creditore pretermesso di cui all’art. 2495 c.c.: in entrambi i casi la situazione di incapienza del patrimonio sociale sarebbe stata 9 ridotta o evitata se la presenza del credito fosse stata considerata al momento di riconoscere ai soci (di minoranza) una parte dell’attivo sociale 7. Non pare in alternativa applicabile l’art. 2433, comma 4, c.c., che subordina la restituzione degli utili alla dimostrazione di una loro riscossione in mala fede. Si tratta in primo luogo di disposizione eccezionale, rispetto all’ordinario regime che vede normalmente prevalere i diritti dei creditori 8. Inoltre, non si ripete la situazione presupposta all’art. 2433 c.c., nella quale la procedura di approvazione del bilancio determina l’insorgenza di un affidamento meritevole in capo al socio 9. Deve allora consentirsi che il creditore agisca nei confronti del socio di minoranza per ottenere da questi la restituzione di quanto eventualmente percepito a titolo di danno riflesso. Il riconoscimento di tale diritto consente, da un lato, di tenere impregiudicati i principi di integrale riparazione del danno e divieto di duplicazione del danno e, dall’altro, di non derogare alla normativa della personalità giuridica. 7 8 9 Cfr., G. NICCOLINI, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, cit., 695 e 703 ss. G.E. COLOMBO, Il bilancio d’esercizio, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7*, Torino, 2000, 535 e nota 153. La responsabilità per l’elaborazione del bilancio (dei suoi contenuti) e la conseguente determinazione della linea di confine che separa, a garanzia dei creditori, il distribuibile dall’indistribuibile, grava sugli amministratori (COLOMBO G.E., Il bilancio d’esercizio, cit., 538). 10 Il 2497 scaccia il 2395? Ovviamente, no. Il socio di minoranza, ricorrendone le condizioni, chiama a rispondere l’amministratore e chi abbia concorso con l’amministratore ex art. 2055 c.c. Rimane però dubbio che il socio possa invocare in concorso la capogruppo, la quale – in pieno regime di diritto comune – potrebbe sostenere che l’azione colposa o dolosa dell’amministratore è sufficiente a interrompere il nesso di causalità rispetto al proprio atto di direzione, perché l’organo amministrativo anche nel gruppo non può non conservare la propria autonomia. Nel 2497, invece, è certo che non si può sostenere che il nesso di causalità sia interrotto dal pur persistente obbligo di autonomia dell’organo amministrativo: il primo responsabile è la capogruppo, sono gli amministratori in soggezione ad essere chiamati in concorso al comma 2. Esiste tuttavia giurisprudenza che estende l’art. 2395 all’amministratore di fatto, sicché può darsi che non abbia a porsi un problema di interruzione del dell’amministratore nesso sia causale compiuto quando per il l’ingerenza fatto della capogruppo (sarebbe in effetti difficile giustificare l’interruzione 11 del nesso causale da autonomia degli amministratori per gli effetti dell’art. 2395 alla luce della nuova visione aperta dall’art. 2497: è il socio danneggiato che ha diritto che i propri amministratori si comportino in autonomia e di ciò non può trarre vantaggio chi questa autonomia lede). Come dianzi precisato, se il 2497 è anche titolo per il risarcimento del danno diretto, questo rileverebbe nei limiti in cui possa parlarsi di danno diretto al valore ed alla redditività della partecipazione. Il danno diretto estraneo a tale sintagma sarebbe da risarcire (ricorrendone le condizioni) ai sensi dell’art. 2395 c.c. 4. Il danno della società prima e dopo il fallimento La società eterodiretta, quando è in bonis, è legittimata a chiedere i danni negli stessi termini in cui è legittimata a chiedere i propri danni ai propri amministratori, cioè nei termini di cui al diritto comune: sia il danno emergente sia il lucro cessante. 12 Si tratta infatti di responsabilità gestoria, probabilmente assimilabile (e quanto alla prescrizione necessariamente da assimilare) alla amministrazione di fatto. Quando invece la società fallisca, la norma sembra limitare l’azione del curatore alla sola tutela dei creditori, quindi l’azione dovrebbe essere limitata quantitativamente all’occorrente per pagare i debiti e le spese di procedura. Sarebbe il primo caso di azione del curatore fallimentare non centaura. E se si ritiene, come a me pare, d’accordo con Nigro, che l’azione dei creditori sociali sia una surrogatoria, sia pure speciale, avremmo un’azione surrogatoria in mancanza di un’azione surrogata. Ma almeno nel caso di assoggettamento della società a procedure concorsuali l’azione sociale è innegabile, dato che è prevista nella disciplina della legge Prodi. E’ escluso (come altrove già notato) che debbano considerarsi venute meno congiuntamente l’azione sociale e l’azione del socio, perché altrimenti una parte del danno cagionato dalla direzione unitaria abusiva diventerebbe non risarcibile solo per il fatto del fallimento (l’evento peggiore non può giovare all’agente). Ad ogni modo, se venisse meno l’azione sociale, e il danno del socio di minoranza fosse “limitato” al valore della 13 partecipazione prima della condotta abusiva (con esclusione del valore negativo che abbiamo già spiegato prima), la capogruppo beneficerebbe di uno sconto, non solo per la parte corrispondente alla frazione di risarcimento spettante al socio di maggioranza (che appartiene già alla sua sfera patrimoniale), ma per la parte che solo la società eterodiretta sembrerebbe legittimata a richiedere (a condizione che le si riconosca la legittimazione all’azione sociale) e cioè il risarcimento di quel danno che ha fatto diventare addirittura negativo il valore del suo patrimonio. Dunque, se si nega l’azione sociale l’azione individuale del socio resiste. Ma se si ammette, come si deve, l’azione sociale, l’azione del socio viene elisa, perché le ragioni dei creditori devono prevalere su quelle dei soci. Naturalmente l’azione ex art. 2395 non è intaccata dal fallimento. 5. Attività come condotta pregiudizievole e danno rappresentato da attività La elaborazione di una nozione di “attività” della capogruppo mi sembra un falso problema: perché dovrebbe cambiare qualcosa 14 in diritto se il danno è il prodotto di una serie di atti (gli input pregiudizievoli) anziché di un solo atto? Il requisito della “attività” della capogruppo merita di essere svalutato e sostituito dall’ingerenza derivante dalla situazione di soggezione continuata, ingerenza anche in una sola decisione (che è concetto diverso da atto). La rilevanza della distinzione atto/attività si riscontra al “piano di sotto”, quello del danno, ove si può constatare che, per effetto della direzione unitaria, possono essere assunti sia indirizzi produttivi dannosi per la società (quindi attività), sia uno o più atti considerabili autonomamente e produttivi di danni del pari considerabili autonomamente. Mentre in presenza di isolate scelte di eterodirezione non si pongono problemi particolari di danno emergente o lucro cessante, è meno agevole da percorrere il territorio del danno da attività, anche se sarebbe più corretto dire il danno riconducibile a un’attività imposta da (o mancata in ragione di) una direttiva abusiva. Ad esempio, la società eterodiretta è costretta a svolgere – naturalmente all’interno dell’oggetto sociale statutario un’attività in concreto meno redditizia di quella che sarebbe in grado di svolgere (prodotti a bassa o alta tecnologia). La 15 determinazione del danno, compreso il lucro cessante proprio della rinuncia a progetti alternativi, è non agevole già con riguardo all’attività svolta sino al momento in cui la responsabilità viene invocata. Ancora meno agevole lo è con riguardo ai danni che deriveranno dalla prosecuzione dell’attività, ipotizzando che nell’immediato l’orientamento produttivo effettivamente adottato non sia suscettibile di riconversione. Come se si trattasse di un’invalidità temporanea (o anche permanente?) della persona fisica. E’ applicabile ai fini della determinazione del danno da attività il tradizionale metodo differenziale? Ossia, se l’attività ha investito globalmente il patrimonio della Società, si può procedere a stimare il valore che la società avrebbe avuto con l’esatto adempimento, dunque con direzione e coordinamento legittima, sottrarre il valore invece effettivo della Società e considerare la differenza danno? Evoca il caso CIR / Fininvest. Dunque, in questi casi il danno risarcibile deve essere determinato sulla base dei risultati complessivi dell’attività. 6. I vantaggi compensativi 16 Fattispecie del vantaggio compensativo Cos’è il vantaggio compensativo? Cos’è il vantaggio derivante dall’appartenenza al gruppo di cui al 2634? Se la controllata ha semplicemente conseguito un utile da un servizio reso a condizioni di mercato al gruppo, siamo già in presenza di un vantaggio compensativo, sol perché la controllata è stata scelta senza competizione sul mercato? E come si quantificherebbe questo vantaggio? Immaginiamo che un proprietario di catena alberghiera decida di gestire le manutenzioni straordinarie affidandosi ad appaltatore al quale però, trattandosi di un lavoro stabile e di lunga durata, richieda di formare una società, in modo da partecipare agli utili che derivano dalla attività di ristrutturazione degli alberghi. Per dieci anni la newco controllata dall’albergatore rende i lavori agli alberghi, a condizioni di mercato e conseguendo un ragionevole utile: il socio di maggioranza ha diritto di drenare una parte di quell’utile, adducendo che la società ha beneficiato di un volume di lavori stabile nel tempo sol perché appartenente al suo gruppo? E se invece la società avesse prodotto perdite? Il 2497 giustifica una diseguale partecipazione agli utili e una proporzionale partecipazione alle perdite? 17 Occorre che il vantaggio compensativo rechi un quid pluris? Il fatturato garantito sembra essere un quid pluris, salvo che non sia stato già computato in sede di determinazione delle quote reciproche. Tale ultima circostanza è rilevante, perché la filosofia del 2497 è di vedere il gruppo come una “supersocietà”, in cui viene dato rilevanza all’agone diretto fra i soci. Differenziazione della figura dalla compensatio lucri cum damno Serve un legame logico-giuridico o quantomeno economico tra il profitto drenato dalla capogruppo e l’operazione che determina il vantaggio compensativo? Nel caso dei vantaggi compensativi non è certamente richiesto il nesso causale che deve invece legare danno e lucro nella figura tradizionale in termini di conseguenza immediata e diretta rispetto alla condotta. Anzi, la scelta legislativa appare particolarmente aperta posto che essa, nel guidare la valutazione in ordine alla circostanza che il danno possa “risultare” mancante alla luce del “ risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento”, non pone alcun limite temporale a tale scrutinio. Impraticabile 18 dunque nel nostro “impacchettare” lo sistema scrutinio la scelta sui tedesca vantaggi volta a compensativi all’interno di ciascun singolo esercizio. Nel valutare la sussistenza di un danno da esercizio di attività punto o poco redditizia chiaramente il terreno di elezione è un vantaggio compensativo che abbia tendenzialmente la stessa natura: la società eterodiretta è vincolata a produrre prodotti a bassa tecnologia, ma la holding o altra società (eterodiretta) del gruppo assicurano l’integrale assorbimento della produzione. Al contrario, quando i danni siano riconducibili a eventi specifici non riferibili a un’attività, l’effetto compensativo potrà essere ricondotto sia a un’attività di segno positivo, sia a singoli atti di disposizione della holding o di altre società eterodirette. Concezione rigida od elastica del vantaggio compensativo Inapplicabilità all’art. 2497 della mera “fondata prevedibilità” di cui all’art. 2634 cod. civ.. Secondo Cass. 26325/2006, la concezione da accogliere è quasi elastica, ma non tale da arrivare al punto di ipotizzare che la semplice appartenenza a un gruppo che si arricchisce a danno della società eterodiretta faccia 19 riverberare in una qualche misura quell’arricchimento anche a vantaggio della società depredata. Qui si apre il problema dell’onere della prova, che risalenti precedenti di App. Milano in sede di 2409 facevano erroneamente gravare sugli attori, in violazione della regola di “disponibilità della prova”. L’art. 2634 impone di effettuare la valutazione al momento dell’atto ingiusto: “fondatamente prevedibili”, infatti, non può che riferirsi al momento in cui l’atto è compiuto. Con il “conseguiti” invece l’art. 2497 scrimina il profitto altrimenti ingiusto drenato quando la consociata ha già conseguito il vantaggio derivante dall’appartenenza al gruppo. Così la norma sembra dare al socio di maggioranza una golden share sugli utili, consentendogli ex post di compiere una operazione “illecita” per ridurre il vantaggio della controllata. Non sono del resto mancati autori che, già prima del sottoscritto, hanno osservato che in presenza di adeguati indennizzi la direzione unitaria abusiva è da considerarsi lecita (Scognamiglio, Maugeri). L’art. 2634 sembra stabilire un rapporto di equivalenza tra il profitto ingiusto e il vantaggio compensativo. 20 Pure nell’art. 2497 si chiede che il danno “risulti mancante”; ma è evidente nella norma civile che il rapporto deve intercorrere non tra il profitto che può aver guadagnato la capogruppo e il vantaggio dell’eterodiretta, bensì tra il danno e il vantaggio: il profitto della capogruppo può ben essere inferiore al danno, e quando invece è superiore significa che l’operazione aveva un senso economico e che la capogruppo non avrà “ragioni” per non procedere al vantaggio compensativo (ottimo paretiano nella attività di direzione e coordinamento). La norma penale è quindi strabica come ha già osservato Abriani: il profitto mancato non è forse ingiusto? E quindi a rischio di incostituzionalità, perché subordina la punizione di un fatto censurabile alle conseguenze che si verificano nella sfera dell’autore del reato. 7. L’integrale eliminazione del danno “anche a seguito di operazioni a ciò dirette”. Nel primo comma l’operazione di risarcimento, nonostante le incertezze del testo legislativo, sembra riferirsi a una reintegrazione del patrimonio sociale (argomento a contrario dal terzo comma dell’art. 2497), e caratterizzarsi per un titolo 21 dell’erogazione appunto direttamente destinato al risarcimento, in alternativa al percorso indiretto rappresentato dai vantaggi compensativi. Nella categoria “operazione a ciò diretta” rientra tutto ciò che si produce in virtù di atto posto in essere dopo il danno. Quindi tutto ciò che si produce in virtù di atto posto in essere prima del danno dovrebbe sempre rientrare nella categoria del vantaggio compensativo. Nonostante il silenzio della legge, sono in parte rilevanti anche il vantaggio compensativo o l’operazione a ciò diretta che determinano eliminazione solo parziale del danno (naturalmente in parte qua); in parte, perché la responsabilità penale in questo caso non è esclusa. Superata dunque la tesi di Montalenti, secondo cui sarebbe sufficiente una coerenza di comportamenti rispetto a una politica di medio lungo termine, anche se non tale da compensare in pieno il pregiudizio. Però poiché la legge, diversamente da quella tedesca, non richiede un “puntuale” indennizzo dovrebbero poter essere valutati anche benefici quasi impalpabili (accesso al fido senza garanzia o patronage della holding). 22 8. L’eliminazione del danno mediante indennizzo del socio da parte della società Art. 2497, comma 3. Prescindo dall’analizzare il senso di questa previsione e assumo, secondo il tenore letterale, che abbia il medesimo significato per i soci e i creditori. Interpretazione autentica di Angelici, che ipotizza una distribuzione selettiva del patrimonio netto come indennizzo da parte del socio di maggioranza, è incompatibile con il tenore letterale della norma, dato che la distribuzione del netto distribuibile e atto dispositivo del socio di maggioranza e non della società. In realtà la previsione del pagamento da parte della etero diretta si giustifica alla stregua del diritto comune non nel caso di danno riflesso; bensì solo nei casi in cui il socio abbia subito un danno diretto, di cui la società etero-diretta risponda ex art. 2049, sempre che non si ritenga tale norma elisa dal ricorrere del 2497, da cui risulta che il vero “padrone” è la holding; e non danno solo riflesso. In questo scenario occorre analizzare la tecnica del risarcimento e le ipotesi in cui questo può avvenire. Se è davvero la società eterodiretta a rimborsare il socio, non basterà che costui, avendo 23 in ipotesi il 4% della società, riceva da questa un importo pari al 4% del danno di 100 subito dalla medesima (assumo per facilità che il danno sia riflesso e proporzionale: i.e., per esempio, la società non ha debiti), in quanto il 4% del risarcimento sarebbe a carico del socio da indennizzare (e così via, per importi sempre inferiori, per i successivi risarcimenti): l’importo di 4 nell’esempio deve essere moltiplicato per 1,041 seguito da nove 6 e poi da 70. Ancora, non può ignorarsi che se l’operazione avviene in presenza di un solo socio di minoranza essa non ha conseguenze negative per altri. Ma se esistono altri soci di minoranza, che non vengano contemporaneamente indennizzati, il danno da direzione unitaria abusiva a carico di questi ultimi si amplifica ulteriormente. 9. Il danno del socio entrante e uscente Cosa succede se il socio che ha subito il danno da direzione unitaria vende o recede? Continuerà ad essere legittimato all’azione risarcitoria? Se riconosciamo, come non si può non riconoscere, che l’azione ex 2395 rimane all’ex socio, che abbia perso una occasione di 24 valorizzazione della propria partecipazione, sarebbe complesso spezzare le azioni che nascono dalla titolarità della partecipazione in sorti diverse per effetto della circolazione della partecipazione. In difetto di diversa previsione, posto che il danno al valore della partecipazione è un danno che il socio ha subito nel suo patrimonio, il fatto che cessi la sua qualità non fa venir meno il pregiudizio al suo patrimonio, e quindi egli solo rimane legittimato all’azione, e non invece il socio entrante, che ha comprato la quota della società eterodiretta dopo che il danno si è prodotto. Non si pone nel caso del risarcimento il problema delle impugnazioni: è normale che chi è fuori dall’organizzazione non abbia interesse e legittimazione a mettere in discussione la validità degli atti dell’organizzazione, mentre sul piano risarcitorio questo problema non si pone. 25