Rivista Studio, numero 5, novembre-dicembre
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Rivista Studio, numero 5, novembre-dicembre
Rivista Studio, numero 5, novembre-dicembre 2011 Si afferma il dibattito sul valore della comunicazione politica. Prima la televisione, poi i new media, internet, facebook, twitter. La capacità di colpire al cuore dei tuoi con una battuta o un’espressione fortunata. Più questo tipo di modernità si avanza, più è difficile valutare davvero quanto valga la comunicazione politica, se sia più importante il sostantivo o l’aggettivo. Da noi il fenomeno politico Berlusconi ha influenzato il dibattito su questo tema, perché la sua leadership è stata molto affidata a scelte di comunicazione (dal kit del candidato ai suggerimenti ai deputati su come comportarsi in tv, alla cura degli slogan, fino ai flash sintetici: p.es. Gabriella Iscariota il giorno in cui annuncia le dimissioni dopo la legge di stabilità). Ma la formalizzazione del dibattito sulla comunicazione politica – già cominciato negli anni ’90 con Tony Blair e annesso ruolo Alistair Campbell – diventa più chiara quando arriva Obama. Un caso in cui l’identità dell’uomo politico, la sua comunicazione e il suo successo diventano una cosa sola. Oggi la domanda è: la grande crisi globale quanto spazio lascia davvero alla comunicazione politica, al marketing di un prodotto elettorale? Due mesi fa, una piccola trasmissione televisiva, Icone, domestico esperimento divulgativo di digressioni fenomenologiche, ha provato a riflettere sullo straordinario fenomeno che è stato il presedente americano. Fenomeno di ascesa repentina, di storia personale, di comunicazione, di carnalità. In tempi in cui anche il corpo del capo diventa un paradigma della sensibilità politica, un elemento di riconoscimento collettivo e anche un medium tra il leader e la sua base (i denti di Berlusconi), Barack Obama è l’uomo che più di altri incarna questo tipo di contemporaneità. Iconico come nessun’altro, primo presidente non bianco degli Stati Uniti, eletto a simbolo globale di una generica nuova politica, è il protagonista di una vicenda unica, rapidissima, e a rischio di una specie di paradosso democratico. E cioè: nonostante la sua iconica modernità, il suo bruciante protagonismo mediatico, Obama rischia il fallimento della sua azione di governo ai tempi della più grande crisi economica dal 1929 a oggi. E così in soli due mesi, se uno dovesse scrivere di nuovo una piccola trasmissione tv divulgativa su Obama e sul valore della comunicazione politica nella sua parabola, la scriverebbe in modo diverso. Visto da lontano, c’è un aspetto suggestivo sempre più interessante: la storia del presidente americano – soprattutto nel caso in cui dovesse andare verso la non riconferma – è estremamente rappresentativa dei cambiamenti e dei travagli della politica alle prese con le trasformazioni della modernità in tutti i campi. La situazione politica attuale ci dice che i problemi fondamentali della leadership in occidente sono due: a) abbiamo classi dirigenti politiche cresciute in uno stretto bipolarismo ideologico, e che dopo la sconfitta del comunismo, sono state messe in ginocchio dalle regole aggressive di un’economia scarsamente normata (al contrario di come i patriarchi del liberalismo avrebbero voluto: non c’è mercato senza legge); b) confusione totale su che cosa sia essere di destra e che cosa essere di sinistra, conservatori e progressisti, ecc. ecc., sulla linea lungo la quale gli schieramenti politici si dividono, confusione totale ovunque: in fondo così come il democratico progressista Obama continua da sinistra la politica estera di George W. Bush, così – in un altro angolo della globalità, l’Italia – il sindaco di una ex capitale del mondo rinascimentale, Matteo Renzi, dice da sinistra le stesse cose di destra che aveva già detto uno il fondatore del supercapitalismo laburista, Tony Blair, beccandosi la dura reprimenda di un custode italico del progressismo keynesiano come il prof. Guido Rossi. Molti capi occidentali vivono una ulteriore difficoltà: si sono evoluti in uno strano ibrido, sono ormai per metà leader politici e per metà star, colti in mezzo al guado dalla terribile crisi economica globale che non si può battere con una campagna di stampa o con una trovata a sorpresa; inoltre, cresciuti nel mito dei mezzi di comunicazione di massa, subiscono l’inizio del declino dello strapotere generalista televisivo e cominciano ad avere difficoltà a capire cosa devono realmente essere e come comportarsi davanti ai media (in fondo la risatina sull’Italia di Merkel e Sarkozy è un indizio di spiazzamento soggettivo, di sottovalutazione del contegno; idem il siparietto di Tremonti e Berlusconi in conferenza stampa al g-20 di Cannes). * Dunque, il primo fattore cruciale che Obama simboleggia, è lo stile della comunicazione politica. Lo slogan più famoso di Obama è “Yes we can”, immediato ed efficace. Ma il suo stile è una cosa più complessa. Come ricorda Stefano Pistolini in un bel libro – inciso: bello come tutti i libri di Pistolini, qui gli siamo ancora debitori di una formidabile biografia di Nick Drake – Mister Cool (Marsilio, 2009, pag. 283, euro 16,00), Obama reinterpreta la tradizione oratoria americana. Studia Abraham Lincoln, Fredrick Douglass, un attivista nella lotta abolizionista americana del XIX secolo. Scommette sulla retorica politica ottocentesca, e la contrappone al linguaggio decisamente più basico dei politici moderni, tecnocratici, schematici, cresciuti nell’ossessione del pane al pane e vino al vino, e dell’equivoco della semplificazione televisiva. È un punto interessante, questo, giacchè alcuni ritengono che la fase della comunicazione semplificata, del televisionismo politico sia in fase declinante. Noi abbiamo vissuto questo tema in una discussione pubblica molto enfatica, causa Berlusconi: chi ha lavorato in tv negli anni dello sdoganamento culturale di Miti Simonetto, di Roberto Gasparotti e della calza sulla telecamera ricorderà l’incongrua attenzione di ingenui ministri di destra e di sinistra che – durante le interviste – cercavano di scimmiottare, con osservazioni sull’inquadratura o chiedendo la ripetizione di una battuta, l’efficacia comunicativa di Berlusconi senza capire che il Cav. era efficace per se stesso, e per quello che diceva allora, non per gli accorgimenti tecnici di Miti Simonetto. Oggi, è vero che l’informazione politica nella tv italiana va molto forte, ma è vero anche che si rivolge più alle tifoserie che non all’elettorato flottante. Altro discorso, invece, è ragionare sull’origine televisiva delle aspiranti leadership italiane. Per esempio tutti gli oppositori radicali al Cav., da Grillo in giù, teatranti che reagiscono all’impresario. E adesso in campo moderato, persino Giorgio Gori che – con una certa tenerezza – si dimette da Magnolia. * Si è molto parlato della sonorità obamiana. Lo stile della sua eloquenza assume una musicalità da predicatore. C’è una ritmica, una sonorità, tutto un alternarsi di aria e recitativi molto personale. C’è chi dice che leggere un discorso di Obama non è come sentirglielo pronunciare, il tono è fondamentale. Obama non è sempre lo stesso. L’efficacia della sua comunicazione dipende dal contatto con gli elettori che le circostanze e le sue caratteristiche personali gli consentono di stabilire. Christian Rocca, inviato del Sole 24 Ore, spiega che dei tre Obama che lui conosce, quello del contatto uno contro uno con l’elettore, quello dei faccia a faccia tv, quello dei discorsi pubblici, solo quest’ultimo è “quello straordinario, quello che ha fatto la sua fortuna politica e comunicativa, quello delle grandi folle, che si presenta davanti a settantamila persone e riesce a comunicare empaticamente qualcosa, riesce ad emozionare...”. Gli esperti e gli analisti della comunicazione diranno che la tecnica obamiana è coinvolgente, che sa come guardare l’uditorio (qualcuno lo accuserà persino di utilizzare tecniche di ipnosi di massa), che è un leader freddo che sa riscaldare le masse, che il teleprompter ha avuto il suo peso (lui stesso dice che il gobbo consente il massimo della precisione – e le stesse cose le dice Veltroni). Eppure tutto questo non basta. Filippo Sensi – giornalista, esperto di comunicazione politica, animatore del sito Nomfup, il sito che ha scovato i video del ministro della difesa inglese Fox in compagnia di un amico che lo accompagnava nei viaggi di stato – dà una chiave interessante: “Obama non è un improvvisatore, è una personalità studiata, è un professore, somiglia un po’ al famoso professor Keating dell’Attimo fuggente, cioè ci ragiona su, ma ci ragiona per farti sognare...”. Del resto un passaggio tipico della forza oratoria di Obama è nel super-efficace “Fired up? Ready to go!”. In altri termini, tutta la questione della comunicazione di Obama si risolve semplicemente in un puro tipico sostanziale problema politico, la leadership si nutre di un elemento carismatico, che si esprime anche nell’eloquenza. * Altra questione, l’uso di tecnologia e innovazioni. Certo, c’è molta retorica da tempi moderni, ma la questione dei social network è un fenomeno con cui fare i conti. David Plouffe, il capo della sua campagna elettorale, con Internet trova il modo di coinvolgere una comunità fatta di 13 milioni di attivisti. Obama si assicura anche un milione e mezzo di piccoli finanziatori, con MyBarackObama.com. Interessante un altro aspetto post-elettorale, il sito della Casa Bianca. Quotidiane foto fresche della vita presidenziale e una specie di Settimana Incom su quanto accade nella casa più importante del mondo, un tg autoprodotto intitolato West Wing, come la serie di successo della NBC. Lo staff si butta su tutto quello che alimenta l’immaginario, dai video in cui Barack viene vestito da super-eroe (Obama Superman fu uno dei protagonisti del Miami Art Basel post-vittoria su McCain), fino allo Yes We Can dei rapper, o al poster di Shepard Faye, lanciato durante la campagna elettorale, quello con Hope, marchio pop dell’obamismo rispuntato poi in un ampio numero di declinazioni. E anche qui la riflessione sul contributo alla contemporaneità è inevitabile. Spostiamoci al caso italiano che più fa discutere di questi tempi, Renzi. Aldo Grasso ha scritto che la Leopolda è come un format. E ha ragione. Il problema adesso è capire quanto durerà il format, e se è in grado di reggere alla realtà. Obama trova il consenso anche grazie ai rapper, ma i rapper non lo aiutano a vincere la crisi globale. Stesso dicasi per il Cav. Per quasi vent’anni imbattibile macchina di accumulo di consenso, ma stranamente incapace di trasformare quel consenso in azione politica. È come se la ipermediaticità contemporanea ha fatto di due aspetti della politica, un tempo parte del tutto, e cioè attrarre consenso e governare, due mestieri completamente diversi. * Obama è cool, aggettivo ricorrente per descriverlo (cfr. il già citato Pistolini). È molto disinvolto sulla scena, dalle immagini si percepisce la sua naturalezza fisica. La coolness, cioè la ficaggine, gli consente di utilizzare con consapevolezza il suo corpo di re (“Non dimentichiamo – dice Gianni Riotta a Icone – che i padri fondatori della democrazia americana diedero al loro presidente tutte le caratteristiche di potere, di regalità, di maestà, che avevano visto al monarca inglese. È importantissima la personalità, è importantissimo il physique du role del presidente”). A Obama viene semplice presentarsi in pubblico, sorridere, flirtare con la gente, fare sport. Ci sono molte immagini di Obama che gioca a basket anche nel corso di appuntamenti elettorali. C’è un filmato del 2007 che riprende l’ingresso del candidato in una palestra, deve parlare davanti a mille persone. Gli passano la palla e lui tira da tre punti con il suo classico movimento mancino. Stessa disinvoltura in una partita di ping pong in coppia con David Cameron. Il premier inglese è più goffo, e sbaglia una schiacciata. Obama no. Identica nonchalance durante un’intervista, prenderà al volo una mosca (capitò anche a Silvio B.), con susseguente battuta di spirito o quando balla nello show di Ellen Degeneres. Su questo punto altra parentesi italiana. Federico Sarica, il direttore di questa rivista, si è chiesto come mai alle stesse persone interessate in Italia ai tiri da tre punti di Obama non interessi Renzi. Lui ritiene che sia il riflesso condizionato di chi applica uno schema rigido e novecentesco alla nostra carnalità politica. Forse è così. C’è di sicuro una resistenza nei confronti di Renzi – così come c’era stata su Berlusconi – che nasce da una forma di snobismo iperpolitico. Ma, a Sarica si potrebbe rispondere con un’altra obiezione: siamo davvero sicuri che un leader politico debba saper tirare da tre punti? Non sarà che abbiamo concesso a Obama un credito illimitato in cui aveva un peso anche il tiro da tre? La disinvoltura diventa anche un luogo comune. Obama sa fare tutto. In un video del giugno 2011 fa smettere di piangere un bambino (che non ne aveva voluto sapere di Michelle). E c’è un altro video – peraltro molto bello – in cui viene rappresentato come l’uomo che spazza via anche la pioggia. Questo è il corollario di tutta una dimensione messianica fatta di: gente, speranza, il cambiamento, tocca a voi, avete un giorno per decidere, fired up? Ready to go! Durante la campagna per le presidenziali, Obama si rende conto che tutta la questione della coolness, con l’appendice di una declinazione quasi mistica, presenta un rischio, che concerne soprattutto l’impatto del suo aspetto fisico, la bellezza. Comincia a temere che questa cosa possa diventare un boomerang. Succede con il video “I got a crush on Obama”. Geniale idea, “ho una cotta per Obama”, su Youtube un’audience di oltre 120 milioni di persone. C’è Obama in tutte le salse, costume da bagno compreso, e una bellissima ragazza Amber Lee Attinger, che sospira per lui e per la sua riforma sanitaria, perché il testo della canzone parla anche di politica. McCain coglie l’occasione per lanciare uno spot in cui paragona Obama a Britney Spears e Paris Hilton, dice: occhio perché Barack è solo una celebrità. È un passaggio curioso, perché estremamente moderno, tocca il punto di confine tra l’essere un leader e l’essere anche l’involontario protagonista di un enorme spettacolo mediatico, che mette in palio il potere, la rappresentanza. Questa materia investe anche la vita privata (in Italia sul rapporto con sua moglie, che è anche un aspetto della complessa identità obamiana, è stato pubblicato un libro utile alla comprensione del fenomeno Michelle: Marilisa Palumbo, “Yes she can”, Castelvecchi, 2009, pag.153, euro 12,50). A Obama capita in quella fase anche l’affaire Scarlett Johansson. L’attrice gli scrive, dicendo: la sosterrò. Segue scambio di mail che ha un’aria troppo da flirt divistico. Obama frena. Già nel corso delle primarie si era lamentato dicendo che nonostante abbia dato più indicazione sulle sue idee politiche di quanto abbia fatto qualunque altro candidato nella storia americana, la stampa è più interessata a come appare in costume da bagno. Questa fase obamiana è rappresentativa della politica di oggi. Tutta una tensione tra politica e spettacolo esiste anche in Europa. Pensiamo alla cosiddetta peoplisation di Sarkozy, alla natura aristocratica della leadership di David Cameron e alla discussione emblematica sull’abbigliamento più adatto per lui e sua moglie Samantha in occasione del matrimonio di William e Kate; oppure al mix di esposizione berlusconiana dal caso Noemi in poi; e teniamo a mente in prospettiva anche i futuri effetti della #Leopolda, hashtag incluso (e Baricco anche). Per Sarkozy, si chiedono alcuni osservatori, un figlio con Carlà distrae l’opinione pubblica dalle sue difficoltà di governo? Oppure, l’eccesso di autobiografismo nella costruzione della sua soggettività politica aiuta Berlusconi? Che cosa succederà nella generazione successiva? Noi sappiamo che Renzi ha già fatto una scelta pop. E il nuovo centrodestra post-berlusconiano come si comporterà, che tipo profilo e comunicazione concepirà per le sue future leadership? Chissà, per reazione potrebbero essere leadership schive, forse persino bacchettone, esteticamente dorotee. Sono passati solo sei mesi dalla foto di staff con cui Obama chiude mediaticamente il blitz su Osama Bin Laden. In sei mesi tutto è cambiato. Hillary Clinton, considerata legnosa, un po’ noiosa & un po’ arpia, donna contrattualmente legata al marito da un mutuo patto di soccorso a base di potere, viene rivalutata dagli elettori e dai sondaggisti che dicono come oggi l’America si fida più di lei che di Barack. E così tutto quello che abbiamo immaginato, la freschezza, la disinvoltura, lo stile, il messaggio, vengono riassorbiti dalla realtà. La crisi delle leadership alle prese con la grande crisi ci dice ovunque che per comandare serve coraggio e carisma, ovviamente, e poi decisioni, freddezza sotto pressione e affidabilità. Tutto il resto rischia di essere solo fantasia post-novecentesca, compreso l’ipertrofico ruolo della comunicazione – importante, certo, ma solo un mezzo al servizio dell’obiettivo. Marco Ferrante twitter@marcoferrante