Cosa ci lascia pre Antoni_ Pre Federico Grosso

Transcript

Cosa ci lascia pre Antoni_ Pre Federico Grosso
COSA CI LASCIA PRE ANTONI?
Note su La fatica di esser prete
Buttrio 13 maggio 2007
Gesù muore, muore, e quando la vita comincia ad abbandonarlo, all’improvviso, il cielo sopra il suo
capo si spalanca e appare Dio … e la sua voce risuona per tutta la terra, Tu sei il mio diletto figlio, in
te ho riposto la mia gratificazione. Allora Gesù capì di essere stato portato all’inganno come si
conduce l’agnello al sacrificio, che la sua vita era destinata a questa morte, fin dal principio e,
ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò
rivolto al cielo, dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto. Poi, a
poco a poco, si spense in un sogno, si trovava a Nazaret e sentiva il padre che, facendo spallucce
anch’egli sorridendo, gli diceva, Né io posso farti tutte le domande, né tu puoi darmi tutte le risposte.
Quando aveva ancora un barlume di vita, sentì che una spugna imbevuta di acqua e aceto gli sfiorava
le labbra, e allora, guardando verso il basso, scorse un uomo allontanarsi con un secchio e una canna
in spalla. Ma non riuscì a vedere, lì per terra, la scodella nera dentro cui gocciolava il suo sangue.1
Ho riportato l’ultima pagina del romanzo Il vangelo secondo Gesù Cristo, dello scrittore
portoghese, premio Nobel 1998, José Saramago. Sono parole sconcertanti, che ci spiazzano, perché
ribaltano tutto ciò che ci è stato insegnato e che molti di noi credono circa la morte di Gesù. Ma
hanno un pregio: di farci vedere le cose da un’altra prospettiva, dalla prospettiva di un Gesù
terribilmente umano, in contrasto con quel Dio che gli ha appena rivelato di essere suo padre. In
contrasto, perché un padre, che dice di essere tale, non può comportarsi come un aguzzino assetato
di sangue, che gode della morte del figlio e di altri milioni di uomini e donne lungo la storia.
Teniamo a mente questa pagina di Saramago e questo strano inizio di conversazione, perché ci
tornerà utile fra un po’.
Quando ho saputo della morte di pre Antoni ero a Roma, nei corridoi dell’Università
Gregoriana. Un po’ più tardi delle otto mi telefona un’amica dicendomi: «È morto pre Antoni». Era
una notizia che non mi aspettavo e alla quale ho reagito con sconcerto, con quel senso di vuoto e
quella ventata gelida che ti avvolge quando ti comunicano notizie che cambiano pesantemente le
cose dentro e fuori di te. Era il mattino del 23 aprile: una settimana più tardi, il 1° maggio, a
Basagliapenta, avremmo dovuto battezzare Martina, la figlia dell’amica che mi stava telefonando.
Due anni fa a Basagliapenta, pre Antoni e io avevamo battezzato la sorellina di Martina, Matilde.
Era il 23 aprile del 2005: come si rincorrono e si intrecciano i numeri, e com’è frequente che delle
aride cifre dettino il ritmo degli affetti, dei sentimenti, delle nostalgie (tra l’altro oggi è il 13
maggio, tra due mesi sarà il secondo anniversario della morte di mio padre!).
Proprio nei giorni in cui ho saputo della morte di pre Antoni, stavo leggendo il bel romanzo
di Saramago e mi è venuto spontaneo, incontrando quest’ultima folgorante pagina, pensare a lui, per
vari motivi che tenterò di raccontare. Anzi, trovo in questa pagina degli ottimi spunti da cui partire
per rispondere alla domanda che fa da sfondo alla nostra chiacchierata: Cosa ci lascia pre Antoni?
Ne scelgo alcuni, che intreccerò con le pagine di questo suo ultimo libro-intervista La fatica di esser
prete, redatto con intensa partecipazione da Marino Plazzotta, a cui va un grazie grande grande… E,
se permettete, intreccerò anche qualche intuizione personale e una piccola manciata di ricordi, ma
con molta parsimonia…
Mi sembra che pre Antoni, tra le tante cose – di alcune forse ci accorgeremo solo fra un po’
di tempo – ce ne lascia almeno tre molto importanti.
1. Pre Antoni ci lascia un modo originale di parlare di Dio. Di mostrarlo. Perché Dio non
lo si dimostra, ma lo si mostra, mostrando l’esperienza che si fa di lui. Qui ci torna utile Saramago.
Molti atei non sono tali perchè non credono in Dio, ma perché giustamente, si rifiutano di credere in
1
J. SARAMAGO, Il vangelo secondo Gesù Cristo, Einaudi, Torino 2002, pp. 409-10.
quella grottesca e tragica maschera di Dio che talvolta viene proposta da coloro che avrebbero il
compito di annunciarlo come una buona notizia. Dio diventa allora non già una buona notizia
(vangelo!), ma qualcosa di intollerante e intollerabile, una palla al piede che prima togli di mezzo e
meglio è. Nel romanzo di Saramago perfino Gesù diventa ateo di fronte a un Dio così, e sembra
proprio che tocchi a noi uomini, paradossalmente tanto migliori di lui, chiedergli conto di tante cose
e tentare di perdonarlo, se ci è possibile. Ma il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo è proprio
così? La lunga, intensa e personale frequentazione della Bibbia hanno permesso a pre Antoni di
conoscere il vero volto di un Dio libero e liberante, incarnato nella storia concreta di un popolo, che
cammina con lui, che non è moralista, che offre orizzonti ampi anche dove la limitatezza umana ha
ormai esaurito le vie d’uscita e la speranza di futuro. Un Dio che chiama a collaborare con sé la
gente più improbabile, e lo fa non certo in base ai distinguo moralistici ai quali siamo abituati e che
magari anche a noi vengono naturali. Collaboratori di Dio sono l’omicida Mosè, la prostituta Racab,
la straniera Ruth, l’adultero e sensuale re David, il renitente profeta Giona, i traditori Pietro e Giuda.
E soprattutto è un Dio a cui possiamo dire: «Né io posso farti tutte le domande, né tu puoi darmi
tutte le risposte»2, perché di fronte al dolore, al non senso, alla morte non si possono trovare risposte
che mettano in pace la ragione, ma è più saggio chiedere a Dio un po’ di compagnia per non dare di
matto. Dice pre Antoni: «Io non chiedo a Cristo di togliermi il dolore o di farmi guarire, ma gli
chiedo di non lasciarmi al buio, nella disperazione».3
2. Pre Antoni ci lascia un modo assolutamente affascinante di essere prete. Quando uscì
La fabriche dai predis, ero al terzo anno di Seminario e, nel luglio 1999, venni invitato da Licio De
Clara a Radio Onde Furlane per parlare del libro assieme a don Nicolino Borgo, lui reduce del
seminario di cui parlava pre Antoni, io alle prese con quello degli anni più recenti. Avevo però un
problema molto serio: dovevo leggere il libro, che era stato ritirato dal commercio ed era quindi
introvabile. Come fare? Non vi racconto il modo rocambolesco in cui me lo procurai. Fatto sta che
riuscii a reperirlo e l’amico che me lo aveva imprestato decise poi di lasciarmelo in regalo. Qualche
mese più tardi trovai pre Antoni e gli dissi che avevo letto e apprezzato il suo libro e che desideravo
che mi scrivesse una dedica. Mi scrisse così: «A Federico, un tentatîf di lei il mond mistereôs dai
predis, par capîur un pôc miôr e par volêur plui ben». L’intento di pre Antoni era proprio questo e lo
riteneva – giustamente – un dono d’amore, pur friulanamente ruspiôs, fatto alla Chiesa friulana e ai
suoi preti. Come al solito venne frainteso. Proprio lui ch’al veve braure di essere prete e di
appartenere al clero friulano. Ha scritto il direttore de la Vita Cattolica nell’editoriale di commiato
che, quando iniziò la pubblicazione della rubrica Cirint lis olmis di Diu, telefonò in redazione per
raccomandarsi che accanto al nome, Antoni Beline, mettessero anche pre. E quando gli telefonai per
salutarlo, poco dopo la mia ordinazione, gli dissi come sempre: «O soi Federico». «Don Federico»,
mi corresse. Dovrebbero riflettere su queste cose coloro che dicono che «non era abbastanza prete»,
perché magari preferiva la cravatta al colletto o aveva uno stile più libero e disinvolto rispetto allo
standard clericale. Pre Antoni era prete fin nel midollo, un grande prete (perché grande uomo!) che,
sulla scia di altri grandi preti del ‘900 friulano e italiano – Marchetti, Placereani, Milani, Mazzolari,
Giuseppe De Luca – ha considerato integrante nel suo ministero il compito di aiutare a crescere le
persone in consapevolezza e maturità, perché solo così si cresce anche nelle cose di Dio. Pre Antoni
ha dato voce a chi non ne aveva, ha avuto il coraggio di fare domande e di aiutare la gente a farsele
e a farle a chi di dovere. «Il mio vizio – dice pre Antoni – che per la gerarchia è oltre che
impertinente imperdonabile, è di farmi domande».4 È una lezione che noi preti friulani dovremmo
prendere molto sul serio, soprattutto nel clima comatoso in cui versa attualmente il dibattito
pubblico ed ecclesiale friulano e non solo.
3. Pre Antoni ci lascia degli ottimi suggerimenti per uno stile di Chiesa più credibile,
accettabile, a misura di Dio e di uomo, ricco di fututro. Ritorno un attimo alla vicenda de La
2
Cfr. Ib.
Cfr. La fatica di esser prete, p. 101.
4
Ib., p. 71.
3
fabriche dai predis. Come sappiamo il vescovo e il consiglio presbiterale – che Marino Plazzotta
nella sua bella recensione su Cjargne on line chiama il «Sinedrio diocesano» – intimarono al suo
autore di ritrattare quanto scritto e di ritirare tutte le copie in circolazione, pena il processo
ecclesiastico.5 Che occasione perduta! E proprio oggi in cui non c’è bisogno di qualche ritocco alle
dirigenze dei seminari, ma di una profonda, seria e coraggiosa riflessione sul prete, sul suo ruolo,
sul suo futuro, sulla sua formazione. Ritirando il libro dal commercio, la Chiesa friulana ha dato
segno di miopia e di paura, ha dimostrato di essere sulla difensiva, di avere la coda di paglia e ha
perso una bella occasione facendo una magra figura e … una meritata pubblicità al libro! È questo,
oggi, uno stile di Chiesa accettabile, proponibile ed efficace? Credo di no. Questo è piuttosto lo stile
della «baracca», secondo le parole di pre Antoni, e una Chiesa che si accontenta essere una
«baracca» che va puntellata e rattoppata in ogni angolo fa poca strada. Invece pre Antoni propone
una Chiesa che «non deve insegnare solo a dire di sì. Gesù ha spinto anche ad opporsi, anche a dire
di no … La Chiesa fa bene a predicare la solidarietà. Ma per poter essere ascoltata e seguita con
attenzione ed affetto deve adoperare una politica diversa da quella dello stato. Deve essere diversa
ed alternativa».6 Una Chiesa «dove c’è spazio per tutti. Io non confondo – dice pre Antoni – la
Chiesa con il Vaticano …, non confondo la Chiesa con il papa …, non confondo e non identifico la
Chiesa con il vescovo di Udine … Io sto nella Chiesa perché la Chiesa è la barca che prende dentro
tutta l’umanità …, quindi non una Chiesa elitaria ma una Chiesa comunitaria, dove c’è posto per
tutti … Dio ci ha regalato la Chiesa come la casa del perdono e della misericordia e non come il
tempio del diritto … Quindi la Chiesa dovrebbe chiedere, prima di tutto, non se sei sposato in
Chiesa o no, non se sei gay o no, ma: “Cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi
un sorso d’acqua, siediti qui. Vediamo se posso esserti d’aiuto e, se non posso alleviare le tue pene,
cercherò di condividere la tua sofferenza, anche se non concordo con le tue idee e scelte”».7 Ecco la
Chiesa che pre Antoni sognava e che in molti sogniamo. Dobbiamo anche dire che spesso una
Chiesa del genere riesce a fare capolino e a far udire la sua voce. Ma l’immagine complessiva che la
Chiesa dà di sé oggi, anche attraverso i propri media (cfr. Avvenire) è di questo tipo? E un’ultima
cosa: pre Antoni ci lascia anche l’esempio di uno che ha parlato di queste cose non con acredine e
con spirito di rivalsa, ma con sofferenza e amore – anche temperati dall’ironia – tanto più intensi
quanto meno compresi.
Al termine di queste brevi note è doveroso rinnovare il grazie a Marino Plazzotta per il suo
forte impegno, anche di persuasione nei confronti di pre Antoni, a regalare anche a chi non legge il
friulano la possibilità di conoscere e apprezzare una grande figura di uomo, di cristiano, di prete e di
uomo di cultura, sicuramente uno dei massimi del ‘900 friulano. Pre Antoni è stato un regalo per il
Friuli, per la nostra Chiesa e per tutti noi che l’abbiamo conosciuto e amato. Ma ogni bel regalo
porta con sé la grande responsabilità di fare in modo che ciò che solo alcuni possono apprezzare
diventi dono per tutti. Nel caso di pre Antoni, penso che l’eredità più preziosa che ciascuno di noi
riceve ed è chiamato a mettere a frutto è il suo «vizio» di farsi e fare domande. Scrive Milan
Kundera: «Nel regno del Kitsch totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono
qualsivoglia domanda … Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto
per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro … Il vero antagonista del Kitsch
totalitario è l’uomo che fa domande».8
don Federico Grosso
5
Cfr. A. BELINE, …et incarnatus est, Glesie Furlane, Vilegnove di San Denêl 2005, pp. 176-8.
Cfr. La fatica di esser prete, p. 23.
7
Cfr. ib. pp. 144-6.
8
M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 198817, p. 259.
6