Il selvaggio di Torino
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Il selvaggio di Torino
Il selvaggio di Torino La grande tv campeggiava al centro del locale con i suoi ventiquattro pollici di lunghezza. Chi beveva, chi fumava, chi chiacchierava … ogni avventore del bar era impegnato nelle più disparate attività, ma una sola notizia, un solo argomento era sulla bocca di tutti. Così, quando apparve la sigla del TG, venti paia di occhi si fissarono tutti sullo schermo. “Continua la vicenda del pazzo di Torino. L’uomo, in precedenza un comune avvocato, è caduto in un grave esaurimento nervoso e si comporta da uomo primitivo, tenendo in ostaggio la moglie ed eseguendo assordanti riti tribali nella propria casa. Oggi la nostra inviata speciale seguirà l’operazione di salvataggio della polizia. Prima però le notizie di politica estera, dove il premier …”, ma nessuno seguì più le parole della conduttrice. Tutti infatti si chiedevano come fosse possibile che un uomo impazzisse a quel modo, all’improvviso, senza apparente motivo e già mille teorie stavano fioccando quando una voce le interruppe. “Io so com’è andata.”, disse qualcuno dagli ultimi tavoli. Subito l’attenzione si spostò su di lui. Era un ometto basso e magro, con un bel paio di baffi, sotto ai quali si notava il sorriso soddisfatto di chi ha una storia succosa da raccontare. “Non ci credete? Ebbene sappiate che tempo fa ho stretto amicizia con un avvocato che mi ha aiutato a sistemare un contenzioso. Un idiota mi aveva tamponato e pretendeva anche …”, subito un coro di lamentele lo zittì, “E va bene, va bene, arrivo al sodo, non c’è bisogno di scaldarsi! Allora, che stavo dicendo? Ah si! Insomma avevo stretto amicizia con questo tale che era collega, nonché migliore amico, di Attilio Retti, ovvero il nostro pazzo di Torino. Questo in realtà l’ho saputo dopo. In ogni caso quando la notizia della sua follia si è diffusa, il mio amico mi ha raccontato tutto per filo e per segno.” Fece una pausa per godersi l’atmosfera di trepidazione che si era creata. “Siete curiosi eh?”, sogghignò sotto i baffi, ma una nuova grandinata di offese e di proteste lo spinse a continuare. “Ok vi racconto! Che razza di modi, non meritereste di sentire la storia.”, rispose stizzito. “Comunque ecco come sono andate le cose. Questo Attilio Retti non aveva di che lamentarsi: lavorava in un meraviglioso studio legale, aveva un ottimo stipendio e una bella moglie; insomma una vita da pascià! Eppure si è sempre comportato da testa calda. Tutti i giorni tornava a casa brontolando e lamentandosi del lavoro. Diceva di non trovarsi bene, di voler far altro nella vita: - Se non fosse stato per mio padre non avrei studiato diritto- , era la sua frase preferita. Povero stupido! Potessi fare io l’avvocato, invece di campare con quei quattro soldi che guadagno … ho capito, non vi interessano le mie opinioni ma se continuate ad interrompermi giuro che non parlo più.” Fece una piccola pausa per schiarirsi le idee e riprendere il punto, “ Come dicevo era una vera testa calda. Litigava continuamente con il suo capo e spesso non voleva occuparsi dei casi che gli erano stati affidati. –Sono tutti delinquenti quelli che devo difendere!- era solito dire. Per esempio aveva rifiutato in tutti i modi di prendere le difesa dell’onorevole Paolo Ardizzi, accusato di truffa ed estorsione ai danni di una piccola impresa locale. Ne avrete sentito parlare, era su tutti i giornali. Tutte calunnie ovviamente, come mi ha assicurato il mio amico avvocato. Eppure per Attilio non era giusto, voleva vedere il male anche dove non c’era e diceva di non voler difendere un colpevole, il disgraziato. Era giunto ad inventarsi finte ricevute e documenti che incastravano l’imputato, pensate che malignità. Forse ora quel sant’uomo dell’onorevole Ardizzi marcirebbe in gattabuia se la moglie di Retti non avesse spinto il marito a tornare sui suoi passi. Ebbene era proprio sua moglie la vittima di tutta questa vicenda. Ed era lei che lo riportava sempre sulla retta via. Se non fosse stato per il suo intervento probabilmente avrebbe già abbandonato il lavoro da molto tempo per dedicarsi, pensate un po’, alla pittura. Sì, era appassionato d’arte e diceva che dipingere era sempre stato il suo sogno fin da bambino e che avrebbe voluto mollare tutto per questo. Ovviamente la sua dolce metà cercava di rimetterlo con i piedi per terra, di ricordargli che aveva una famiglia da mantenere, che così facendo avrebbe rovinato la loro rispettabilità. Ma lui da quell’orecchio non ci sentiva e così scoppiavano furiose litigate. Alla fine però finiva sempre col cedere e quella povera donna riusciva a riportarlo alla ragione. Così tornava al lavoro mesto, mesto, a capo chino, per poi ricominciare d’accapo, dopo qualche tempo, con i litigi e le lamentele. Poi un evento ha spezzato questo ciclo. Un giorno, camminando per strada, vide per caso un quadro in un negozietto di antiquariato. Il dipinto raffigurava una tribù africana a caccia di leopardi, o qualcosa del genere se non mi sbaglio. Per qualche motivo quella tela lo stregò; volle comprarla a tutti i costi e la appese in salotto, ammirandola ogni volta che poteva. Da quel momento le cose precipitarono. Continuava a ripetere che la società civile lo soffocava, lo costringeva ad essere quello che non era. Voleva una vita, come era solito dire, più pura, più semplice, più selvaggia, non corrotta dai mali della civiltà. E così, quel pazzo, passava tutto il suo tempo libero a sognare di terre remote, mondi selvaggi e inesplorati dove potesse sentirsi libero. Leggeva romanzi su romanzi di avventura, guardando sconsolato la cartina dell’Africa. Inutilmente la sua consorte tentava di distoglierlo da queste fantasticherie; così le liti ripresero ancora più furibonde di prima e al lavoro era anche peggio: gli altri parlavano di leggi, querele e denunce, lui sognava le tigri, i leoni, i deserti sterminati del continente nero. Poi ci fu la goccia che fece traboccare il vaso: gli fu richiesto di far condannare un ladruncolo che era accusato di aver rubato il Rolex d’oro del suo datore di lavoro. Il delinquente affermava di averlo fatto perché era stato licenziato da costui e che non aveva più di che sfamare la famiglia. E’ incredibile fino a dove si arrivi a mentire pur di giustificare i propri crimini! In ogni caso non ne ha voluto sapere di farlo condannare e alle rimostranze del suo capo rispose con una pernacchia. Avete capito bene, una pernacchia. Poi ha abbandonato lo studio legale senza guardarsi indietro. I presenti affermano che, nell’andarsene, fece dei veri e propri salti di gioia, felice come non lo era mai stato. Poi nessuno lo vide più per tre mesi. Venne fuori che era andato in Africa, alla ricerca di quel vivere selvaggio ed innocente su cui aveva fantasticato, dedicandosi alla pittura. La sua avventura, però, non è durata a lungo. Quando lo rividero, settimane dopo la fuga, lo trovarono magro e sporco, con l’espressione assente e gli occhi stanchi. Biascicava frasi senza senso come: -Non cambia niente, lì o qui è uguale- oppure –Tutto è marcio-. Al mio amico avvocato, quando gli chiese cosa fosse successo, raccontò di non aver trovato quello che cercava. Non c’erano selvaggi in Africa, non c’era quella purezza della natura che aveva visto nei suoi quadri e nei suoi libri, ma gli stessi mali, la stessa corruzione in cui era vissuto qui. – Volevo solo scappare dal mio mondo di leggi polverose, vedere il tramonto dorato sul Sahara e dipingerlo-, gli disse. Invece confessò che, appena qualche settimana dopo essere sbarcato, lo avevano aggredito e gli avevano rubato tutto, persino i pennelli. Per tornare a casa era stato costretto a farsi pagare il biglietto dagli anziani genitori. A quanto diceva il nostro comune amico, in quel momento tutta la felicità che lo aveva pervaso nel momento della fuga sembrava essersi volatilizzata e lui appariva svuotato. Ma il colpo di grazia lo ricevette a casa. Trovò le sue cose e i suoi vestiti davanti all’abitazione, assieme ad una lettera di divorzio e una notifica di licenziamento. Cos’altro si aspettava dopo quello che aveva fatto? In ogni caso la sua mente non resse e cominciò ad urlare e ad imprecare mentre trascinava la sua roba in un alberghetto poco lontano. Era solo l’inizio. Il giorno dopo, rincasando dal supermercato, la moglie se lo ritrovò nudo e coperto di tatuaggi in casa, che ululava e si contorceva in danze forsennate. Nonostante la pazzia, evidentemente, era rimasto abbastanza lucido da forzare la serratura della porta. Lei ha cercato di chiamare la polizia, ma quel folle di Retti l’ha catturata ed imbavagliata come un prigioniero di guerra, continuando a ballare le sue danze tribali. Amici e parenti hanno provato a farlo ragionare, a convincerlo a lasciarla andare, ma lui non li capiva. Rintanato nella sua casa li ha scacciati via con una lancia fabbricata da una doga del letto. Crede di essere l’unico uomo rimasto al mondo, l’ultimo membro di una tribù sperduta. Considera il mondo esterno come un’illusione e le persone con cui parla come spiriti maligni che lo vogliono rapire. Non notate l’ironia della cosa? Ha cercato disperatamente la vita selvaggia senza successo e alla fine, nel suo delirio, l’ha ricreata. E’ diventato lui stesso un selvaggio.”, una risatina gli sgorgò dalle labbra, costringendolo ad interrompersi, “ E così eccoci qui, ad aspettare che lo catturino e lo sbattano in manicomio.”, concluse ingoiando un sorso di birra. “Ebbene ecco tutto. Non pensate che dopo avervi fornito tutti questi dettagli, dovreste almeno offrirmi un altro boccale di birra? Ehi, mi state ascoltando?” Ma nessuno gli badava più. La conduttrice del TG aveva ripreso a parlare “Ed ora la parola alla nostra inviata a Torino. Allora, com’è la situazione lì?” La giornalista era una figura imbacuccata di fronte alla telecamera. La casa invece era una villetta gialla con un bel giardino, ombreggiato dai pioppi e dai platani. Tutt’intorno, come un corteo funebre, stavano i poliziotti con le loro auto corazzate e le loro uniformi blu e nere. Dalle finestre sbarrate provenivano alte grida e versi ritmati, simili a quelle dei pellerossa, come se in quella casa il tempo si fosse fermato a migliaia di anni prima. “Eccoci dunque di fronte all’abitazione di Attilio Retti, il pazzo di Torino.”, disse la donna con la voce falsata dal raffreddore, “ In questo momento il capo della polizia sta tentando di convincerlo ad uscire, con scarsi risultati a dire il vero.” Il soggetto in questione era un uomo basso e tarchiato che continuava a vociare frasi perentorie al megafono. Gli intimava di liberare l’ostaggio, di venire fuori con le mani alzate, ma in risposta riceveva solo versi e urla ancor più forti. Dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto il capo abbassò il megafono, stizzito, rivolgendo un cenno eloquente ai sottoposti. Questi si mossero come un sol uomo, le arieti in mano, e la porta fu divelta con pochi colpi. Si riversarono nella casa come una fiumana e il cameraman li seguì. “Ora assisteremo alla carica della polizia, in diretta esclusiva al nostro TG.”, esclamò l’inviata, ansimando per la corsa e per l’emozione dello scoop. L’interno del “rifugio” di Retti era immerso nella penombra. Un disordine assoluto regnava per tutto il salotto, ingombro di mobili a pezzi e cocci di vetro. Sulle mura campeggiavano simboli incomprensibili e, nonostante l’arredamento moderno, sembrava rimandare ad epoche primitive. In mezzo a tutto quello sfacelo solo una cosa era rimasta al suo posto: il quadro della tribù africana a caccia di leopardi. Al centro di tutto si trovava la moglie, legata ed imbavagliata ad una sedia, con i capelli sporchi ed aggrovigliati e le lacrime agli occhi. Intorno ad essa si contorceva lui, il pazzo, nudo e coperto di tatuaggi tribali, dipinti con una qualche tempera colorata. Negli occhi brillava una gioia febbrile, selvaggia, nella mano stringeva un’asse di legno scheggiata sulla cima. Non sembrava però avere cattive intenzioni, tutto intento com’era a ballare e a saltare. Il suo unico scopo sembrava quello di esprimere una gioia travolgente, come quella di uno schiavo che si liberi delle sue catene. Vedendo gli intrusi si fermò subito e li fronteggiò con la sua arma improvvisata, a mò di lancia. Una decina di pistole si puntarono all’unisono contro di lui. “Abbassa l’arma e avvicinati con le mani alzate!” gli ordinò il capo-poliziotto, “Non costringerci a sparare.” Di fronte a quel pericolo Retti sembrò come afflosciarsi, perdendo le forze. D’un tratto non sembrava più un folle ma un uomo qualsiasi, camuffato da selvaggio per uno strano carnevale. Per un attimo gli occhi persero la loro fiamma, ritrovarono la lucidità, fissando i poliziotti in preda all’indecisione. “Posa quell’arma!” L’attimo passò e l’energie rifluirono in lui. Tornò al ruolo di uomo primitivo in cui si era calato e il petto si gonfiò di nuove forze. Aveva fatto la sua scelta e nel sollevare la sua arma sembrò sorridere. Non appena si mosse, però, l’aria si riempì di spari e Retti cadde esanime a terra, la “lancia” ancora in pugno. “Oh Dio.”, mormorò qualcuno nel silenzio del locale. L’uomo che aveva raccontato la sua storia, stavolta, non trovò qualcosa da commentare. Intanto il reportage riprese e i poliziotti si accostarono subito al corpo del defunto, per constatarne la morte, poi cominciarono a liberare la donna dai legacci “Incredibile telespettatori! La triste vicenda, come avete visto, si è risolta in tragedia e …”, la sua voce si interruppe quando il barman spense la tv. Un mormorio infatti serpeggiava per la sala e nessuno aveva più voglia di seguire la trasmissione. I presenti ripresero subito a parlare dell’accaduto e allo sgomento della tragedia si mescolò l’incredulità; come poteva una mente umana affondare in quel modo in un mondo di fantasia, fino ad autodistruggersi? Ci pensarono a lungo, poi, non trovando una risposta preferirono lasciar perdere; che senso aveva indagare il comportamento di un pazzo? Loro non dovevano preoccuparsi di questo, loro erano nel giusto, si dicevano. Soddisfatti di questa conclusione, rimasero lì a parlare fino a mezzodì, poi, esaurito l’interesse, uscirono dal bar uno dopo l’altro .Camminando adagio, sulla via di casa, ad alcuni spuntò un sorriso di commiserazione. Così, ridendo in cuor loro del pazzo di Torino che aveva provato a scappare dalla realtà, tornarono alle loro grigie e monotone vite. Alessio Ciarini Classe 5/A – Liceo Classico “L. Signorelli”