Susanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora

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Susanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora
Susanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar. Il
melangolo. Genova 2002, € 20,00
Al di là delle testimonianze su “chi era Kurt Tucholsky” (p. 7 seg.) – e in particolare la
testimonianza in proposito dell’ex cancelliere Helmut Kohl ci sembra veramente superflua e non se
ne sarebbe sentita la mancanza, a meno di una boutade ironica dell’autrice – il lavoro di Susanna
Böhme-Kuby ci sembra nel suo taglio originalmente a metà strada fra la biografia, la monografia
critica e la silloge antologica (di cui la mole delle citazioni dallo scrittore berlinese
giustificherebbero per più di un verso l’impressione) come un tentativo abbastanza riuscito e
sicuramente irreprensibile di riproporre in un percorso unitario un autore fin troppo negletto
nell’attuale contesto letterario tedesco, e non solo, se non fosse per alcuni residui di testimonianze
dello scrittore ben presenti e radicati nel patrimonio culturale dei tedeschi, come la famosa frase a
proposito della casta militare: “Soldaten sind Mörder!“, passata recentemente al vaglio, per un suo
uso ‘irriverente’, del Bundesverfassungsgericht tedesco (Corte costituzionale, ma che l’autrice
traduce erroneamente come Corte suprema, p. 202).
Già il primo capitolo del lavoro, che nel sottotitolo “Non più, non ancora” – che intesta fra
l’altro l’intero lavoro della Böhme-Kuby – involontariamente ermetico e dai vaghi accenti
romantici, ci introduce in quello che può dirsi lo stile memorialistico dell’impianto del libro, che
segue pedissequamente un ordinato sviluppo cronologico, una trama lineare su cui si sviluppa
l’ordito delle tappe fondamentali della biografia di Tucholsky e, soprattutto, della storia tedesca dal
secondo Reich al dodicennio nero (con un epilogo, intitolato “I tedeschi e Tucholsky” che giunge ai
nostri giorni).
Ciò nondimeno esso rivela già le preziose gemme di questo volume, come il rilievo a
proposito dell’annotazione nel diario di Kafka dell’impressione esercitata su di lui dal ventunenne
Tucholsky, in visita a Praga, e di contrappunto quella del giovane scrittore berlinese lasciatagli da
“quell’uomo… magro, …cupo, molto taciturno” (p. 34).
Il volume rivela di pagina in pagina il prezioso e preciso lavoro di sistemazione e di
elencazione delle tappe biografiche e letterarie di Tucholsky, a cominciare da quel Rheinsberg del
1912, esordio letterario dello scrittore (p. 35), con la descrizione della protagonista Claire
Plimbusch, nome preso a prestito dal personaggio di Im Schlaraffenland di Heinrich Mann. Il
capitolo su questo romanzo ha il pregio di introdurre il lettore nella temperie culturale degli anni
Dieci e ci rende edotti sulle enormi possibilità referenziali del giovane e già talentato scrittore;
come pure il riferimento ai motti di Alfred Kerr e dello stesso Mann posti a insegna del romanzo, il
disvelamento di un’insospettata nota sentimentale (“Die Sehnsucht nach Erfüllung“) e il riferimento
a quella ‘ribellione erotica’, inaugurata da Strindberg, Wedekind e Arno Holz.
I
Ma dietro l’idillio si nascondeva nel romanzo fin d’allora una sferzante critica alla società e ai
costumi, critica che rivelerà tutto il talento dello scrittore a cominciare dagli impegni
immediatamente successivi, a cominciare da quello del 1913 alla Schaubühne che diventerà ben
presto Weltbühne. Il volume ci mostra il lento ma inesorabile affinamento di quegli anni delle doti
satiriche di Tucholsky, la sua capacità inesausta di dominare il genere polemico e di rendere il tuttotondo psicologico, il suo ‘guardarsi attorno’ e divenire lo scrittore del felice connubio con l’attualità
del suo tempo, tanto da non eludere problemi vitali della sua epoca, quale quello dell’assimilazione
degli ebrei (p. 43) e capace di esprimere in una sintesi aforistica originale e ancor oggi
tremendamente valida frasi come “guerra…tremendo imbroglio” (p. 45) e drammaticamente attuale
appare dunque l’impegno anti-militarista di Tucholsky, spesso sotto le mentite spoglie dei suoi
innumerevoli alter ego e noms de plume, descritto con dovizia nelle pagine del secondo capitolo (p.
68 seg.), in particolare nei riferimenti alla raccolta di pamphlets Militaria, requisitoria estrema e
atto di accusa contro il mondo militare, nonché nella descrizione della frenetica attività pubblicistica
di Tucholsky attorno al 1920.
Nel riferimento a Noske (p. 68), il socialdemocratico che aveva suscitato l’ira e l’indignazione
di Döblin (ribadita nel suo November 1918) si scatena l’impietosa illustrazione di Tucholsky delle
inerzie e delle colpe della società weimariana e degli ambienti conservatori tedeschi (p. 70). Nella
registrazione da parte dell’autrice dell’evento sensazionale del discorso antimilitarista di Tucholsky
di fronte a centomila persone, tenuto al Lustgarten di Berlino, da cui la poesia Drei Minuten Gehör,
nella sequela esilarante di espressioni ‘tucholskiane’, dalla definizione di “Republikaner ohne
Republik” (p. 59), che fa il paio con quella di “Repubblica senza repubblicani”, ai riferimenti alla
“Kulturindustrie” (p. 60), all’irrazionalismo, a Walther Rathenau e alla sua Mechanik des Geistes,
fino alla precisa definizione del carattere “bürgerlich“ (p. 63) e ad una diversificazione abbastanza
peregrina dei due concetti di Menschlichkeit e Humanität (p. 66) si consumano i capitoli centrali del
lavoro della Böhme.
A questo punto sono evidenti i momenti di stanca, interlocutori, della lunga parabola di
Tucholsky; essi si annunciano con l’illustrazione dei suoi contatti con la massoneria (p. 78) e con il
primo bilancio, provvisorio, della sua vita, nel 1923 già nel segno della disillusione e che anticipava
la crisi degli anni Trenta e la caustica frase “Ho successo, ma nessun effetto”.
Il terzo capitolo si apre con la descrizione dell’esilio parigino, esilio tutto particolare e
volontario (p. 91). Esso si apre sotto il motto “Qui sono un uomo, e non solo un civile”. Nel
domicilio coatto francese viene messa in luce la dimensione dell’ancora, che mette in rilievo per
riflesso quella mancanza di ancora della propria patria e che dà ragione del titolo dell’intero lavoro
della Böhme-Kuby. Per diffusione si può parlare a proposito dell’esilio di Tucholsky a Parigi di una
II
condizione heiniana di disagio umano ed esistenziale e al contempo di unica possibilità di salvezza
e di comprensione, per distacco, del fenomeno tedesco. Qui Böhme porta le interessanti riflessioni
di Cases sulla “francofilia astratta” di Tucholsky e del gruppo attorno alla Weltbühne (ivi), accusa
rapidamente ritirata proprio sulla base delle considerazioni portate dall’autrice, in particolar modo
laddove mette in evidenza i punti di contatto di Tucholsky con Benjamin, questo nume tutelare di
chiunque voglia seriamente affrontare un’analisi storico-filosofica sui punti controversi della società
tedesca, in rapporto a quella francese, ma non solo. Qui la Böhme sembra voler incanalare un
discorso più vasto a proposito della mercificazione in atto nella società tedesca, del capitalismo
tayloristico, mettendo in campo riferimenti alle riflessioni di Adorno (p. 92).
La descrizione del ritorno in Germania di Tucholsky, come direttore della Weltbühne,
significa anche nel volume della Böhme una riproposizione dei temi della consueta battaglia interna
e degli stilemi tucholskiani, un’analisi di temi di per sé interessanti, come la critica della giustizia
tedesca esercitata con impeto e vis sathirica da Tucholsky, ma che fatalmente abbandona quel
campo più ambizioso di cui prima si diceva.
Si giunge alla trattazione di quel Bilderbuch di Tucholsky (p. 119 seg.), Deutschland,
Deutschland über alles, concepito in collaborazione con Heartfield come opera dal dichiarato
intento politico e che valorizzava il messaggio giornalistico attraverso il geniale connubio con l’uso
della macchina fotografica (e ponendosi così nuovamente in una dimensione affine a Benjamin).
Dopo l’intermezzo della Weltbühne è un nuovo luogo d’esilio volontario, la Svezia, a segnare
dal 1930 in poi il cammino esistenziale dello scrittore e, in concomitanza cronologica, il procedere
del libro della Böhme, che intitola “Svezia“ il suo quarto capitolo e, contemporaneamente, a
rinnovellare, dopo l’esperienza parigina, lo struggente dissidio della distanza-vicinanza rispetto alla
Heimat, tema tucholskiano (ma soprattutto benjaminiano) per eccellenza e che la Böhme ripropone,
sottolineandone gli aspetti produttivi (p. 141 seg.).
Con il 1933 l’esilio volontario diviene esilio politico ed esso porta con sé tutta la conseguente
drammaticità dell’isolamento e della solitudine esistenziale, messi bene in luce nel libro. A
differenza di quanto avvenne in terra francese, Tucholsky non si ambienterà mai del tutto nel ritiro
sul Mar Baltico e, giustamente, la Böhme mette in rilievo l’accresciuta dimensione di senza patria,
di heimatlos, cui aggiungeremmo noi anche quella particolare qualità della regione scandinava di
non poter offrire il necessario Abstand culturale da cui poter osservare con occhio critico e vigile il
proprio paese, la propria civilizzazione: non più, non ancora.
Qui il libro ci sembra ridurre di molto il suo mordente critico, come d’altronde nella
produzione dello scrittore i toni malinconici, se ancora non sovrastano la produzione complessiva,
certo fanno prepotentemente la loro comparsa. Beninteso il capitolo incentrato sull’esilio svedese
III
mette in evidenza sobriamente e con efficacia le punte di diamante della produzione dal 1931 al
1935, soprattutto la Zeitkritik, definita giustamente “brillante e caustica” (p. 148), esercitata nella
commedia Kolumbus e nell’intensa attività di recensore. Il lavoro mette in luce vette di
sorprendente attualità dell’analisi compiuta a suo tempo da Tucholsky dei media tedeschi, che vale
in genere come accusa all’intero sistema dell’informazione e del giornalismo, laddove il
giornalismo è definito per bocca di Ignaz Wrobel, altro alter ego, come la “diffusione
dell’ignoranza per mezzo della tecnica” (p. 151) e tutt’altro che libero poiché sottoposto ai veti e
alle censure dei gruppi d’interesse e delle corporazioni che biecamente dispiegano il loro potere
attraverso occulti, per quanto efficaci, indottrinamenti. A questo e a ben altro si sarebbe giunto in
Germania con i Notstandsgesetze e con il processo intentato alla Weltbühne.
Già nel 1932 Tucholsky era giunto all’amara constatazione che nel suo attuale stato di cose
non era più possibile esercitare nessuna critica, neppure in forma satirica, in Germania in quanto, a
suo dire, non può esservi satira quando si mena sotto la Gürtellinie (sotto la cintola) e affermando
“Non si può scrivere dove c’è solo disprezzo”. Dal 1933 al 1935, egli vive in frequenti spostamenti
fra la Svizzera, la Francia e la Svezia, pressoché ammutolito, come testimoniano le “lettere dal
silenzio”.
Degno di nota è senz’altro il paragrafo “Critica e autocritica: tedeschi ed ebrei” (p. 159) ove
vengono messe in luce le manchevolezze degli ebrei assimilati nel lungo e perverso processo che
portò all’antisemitismo in Germania, con l’evidenza di dati storici e il richiamo a numerosi
contributi critici. Il paragrafo “Tucholsky, l’ebreo tedesco” ci fornisce dati e documenti per
confutare la tesi, anzi l’accusa denigratoria e subdola, di Selbsthass a bella posta diffusa dopo la
morte dello scrittore (p. 171 seg.) e facente parte di una campagna discriminatoria di antica data in
Germania. Ovviamente l’analisi si collega a quella precedente sugli ebrei tedeschi e sulle accuse di
antisemitismo rivolte a Tucholsky sia dalla destra (in questo caso strumentali) sia dagli stessi ebrei
(e in tal senso estremamente enigmatiche), in particolare dai sionisti, primo fra i quali Gershom
Scholem. Questo fu certamente il frutto di reciproche campagne diffamatorie e di torve
strumentalizzazioni di cui fino ad oggi non si è potuta districare la complicata matassa e di cui
neppure il libro della Böhme riesce a fare chiarezza fino in fondo, al di là della pura e semplice
rievocazione del dato.
Tale ultimo aspetto ci consegna la personalità altamente etica e al contempo dissacrante di uno
spirito votato alla rottura, di un personaggio scomodo, semmai ve ne furono, che ebbe il coraggio di
pagare di prima persona e di vivere, come ebbe a dire di se stesso Friedrich Nietzsche, “auf eigenen
Kredit”. Il libro di Susanna Böhme-Kuby si fa carico di riportarci questo dato con assoluta lucidità.
Luca Renzi
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