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7/1/2016
S.O.S: il problema arbitrale e la salvaguardia dei pugili!
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S.O.S: il problema arbitrale e la salvaguardia dei
pugili!
 Creato: Lunedì, 28 Febbraio 2011 09:50
 Pubblicato: Lunedì, 28 Febbraio 2011 09:50
 Scritto da Gualtiero Becchetti
Un atleta s'affida all'arbitro e all'angolo per uscire indenne
da ring e ciò richiede il massimo impegno e la più alta
professionalità
Negli ultimi anni
e con
un’accelerazione “montante” negli ultimissimi tempi, per non dire nelle ultimissime
ore, agli occhi di tutti gli appassionati di boxe, ma soprattutto degli addetti ai lavori,
s’è fatto impellente il problema arbitrale. Premesso che in giro per il mondo se ne
vedono di tutti i colori e che probabilmente in Italia le cose vanno meglio che altrove,
non si può però continuare a mettere ancora la testa sotto la sabbia.
Sia nelle piccolissime riunioni dilettantistiche di paese che ai massimi livelli a torso
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nudo, ormai troppo frequenti sono i malumori che circondano la conduzione dei
match e la loro valutazione. I tecnici , i manager, i promoter, gli spettatori sono
certamente e frequentemente “di parte” nel contestare arbitraggi e cartellini, ma non
possono essere tutti e sempre “matti”! Se ciò accade quasi con sistematica
regolarità, quindi, si tratta di un campanello d’allarme, di un termometro che segnala
una febbre da curare, prima che diventi troppo alta.
Non si vuole neppure toccare la questione della giustezza o meno dei verdetti che,
tutto sommato, pur comportando effetti talvolta devastanti sulle aspettative e sulla
carriera degli atleti, rappresentano un problema di “seconda fila”. La questione
drammatica è un’altra: tra le sedici corde, a tutelare l’incolumità di un pugile che è
solo davanti al proprio avversario, ci sono l’arbitro e i secondi d’angolo; se uno di
questi due “angeli custodi” viene meno o addirittura entrambi latitano, per l’atleta si
spalancano scenari pericolosi e oscuri…Non si pretenda che sia il pugile a dire
“basta”, ad abbandonare un combattimento rischioso, dal momento che l’adrenalina
che corre a mille nel sangue e l’indomito orgoglio del guerriero, quasi sempre
impediscono al ragazzo in difficoltà di ritirarsi.
Tale compito spetta a chi gli è accanto e ha il dovere di aiutarlo ad uscire indenne dal
ring.
Non ci sono
né scusanti,
né
giustificazioni
a
tale
proposito, per
il
semplice
fatto
che
l’errore non è
ammissibile.
E’ esagerato?
No, quando si
pensi
che
talvolta
la
barriera che
separa la vita dalla morte è sottile come un foglio di carta. Tralasciando eventi dagli
esiti infausti, per fortuna rarissimi sui ring italiani ed europei, tanti ricorderanno
comunque il nodo che ha attanagliato la gola di chiunque ami la boxe e i pugili per
primi, ad esempio in occasione di Paris-Bienyas e del recentissimo Vigan MustafaSofiane Sebihi…Per non parlare, a livello dilettantistico (o di quello che è), delle
World Series, in cui s’assiste ad incontri dove spesso è permesso tutto o quasi, dagli
spintoni ai colpi alla nuca e ai reni, dalle testate alle prese di lotta, probabilmente
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perché affidati ad arbitri abituati a richiamare, a livello davvero dilettantistico, i pugili
anche per una stringa delle scarpe slacciata, ma totalmente a digiuno nel dirigere
match che di fatto sono professionistici e che richiedono sì criteri diversi, ma non
certamente il lassismo delle scazzottate da saloon del Far West.
Un buon arbitro e una buona giuria (coadiuvate da angoli con l’esperienza e la
lucidità indispensabili per “vedere” il combattimento), hanno in mano, dalle tre alle
dodici riprese, il destino sportivo, il futuro professionale e la salute degli atleti; sono
assolutamente convinto che la malafede sia rarissima e che stragrande maggioranza
degli errori venga commessa in buona fede, ma sono altresì convinto che una
categoria fondamentale per il pugilato e per il suo domani non possa e non deva
“improvvisare”, così come quella dei tecnici.
Non basta purtroppo seguire un corso, essere promossi e salire sul ring un paio di
volte al mese (se va bene…) per dirigere o giudicare un combattimento; forse è
giunto il momento di frequentare con assiduità le palestre, di rispondere a test psicofisici adeguati, di curare la preparazione atletica, di ascoltare, nella tranquillità del
“dietro alle quinte”, ciò che possono suggerire e insegnare tecnici esperti e pugili di
“lungo corso”, rotti a tutti le malizie e trucchi del mestiere, nonché in grado di
sottolineare i segnali che evidenziano quando un atleta è davvero in crisi o non lo è.
Insomma, niente di particolare, nulla di diverso da quanto si fa nelle altre discipline
sportive, anche a livelli molto modesti. Sì, tutti sappiamo che gli scarsi rimborsispese che intascano gli arbitri, magari con mesi e mesi di ritardo, sono nulla a fronte
dei sacrifici che essi compiono, ma la posta in gioco è troppo alta! O s’accetta tale
situazione o ci si tira fuori: a fronte del poco che si riceve non si può rispondere con
il minimo dell’impegno, perché i ragazzi vanno comunque tutelati al massimo.
Quando un pugile sale sul ring per un titolo professionistico, mette in gioco gran
parte del proprio domani e di quello della sua famiglia; quando un pugile sale sul ring
per un incontro da dilettante, mette in gioco i suoi sogni e le sue speranze. Con
fiducia, entrambi affidano la propria integrità fisica nelle mani degli arbitri e degli
uomini d’angolo.
E’ peccato richiedere che essi facciano di tutto, ma davvero di tutto, per essere
all’altezza di una così alta responsabilità?
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