I conti che non tornano - MUST Museo del territorio vimercatese

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I conti che non tornano - MUST Museo del territorio vimercatese
CONCORSO LETTERARIO
RACCONTI D'ESTATE 2015
FINALISTA SEZIONE ADULTI
I conti che non tornano
di Marco Speciale
Quello era il giorno. Loro due con gli impiegati della banca in tiro come a Pitti Uomo e il notaio, con
quel farfallino demodé e vagamente idiota. Michele e la moglie firmavano ogni pagina, foglio dopo
foglio. Una copia tutta lui e una tutta lei poi altro giro di giostra.
Lucia sorrideva come siglasse autografi, era la loro prima casa, basta affitti. Michele, con un
ghigno che gli faceva storcere la bocca come fosse colpito da un ictus, calcolava quanto gli
sarebbe costata ogni singola firma.
Il notaio alla fine annuì e si alzò sfarfallando: tutti considerarono chiusa l’algida cerimonia. Una scia
di profumo che si effondeva dalla pelle ambrata di una giovane e distratta impiegata (ma dove
aveva lasciato la gonna?) condusse la coppia all’uscita. Era fatta.
Lucia doveva tornare al lavoro, fintanto che ce l’aveva. Si strinse Michele e lo baciò forte, con gli
occhi che le brillavano.
Proprietari! - fece lei entusiasta.
Proprietari! - fece lui, mentre già analizzava tutti gli scenari futuri del tasso d’interesse in Europa.
Lui si era preso un giorno di permesso, potenza del lavoro a tempo indeterminato. Si sarebbe
gustato quel momento tanto atteso passeggiando per la Vimercate mezza vuota del mattino. Era
tanto tempo che non camminava da solo per le vie scolpite fra le case antiche, perdendo dalle
tasche bucate i cattivi pensieri e il passato.
Se non puoi dimenticare cammina: a ogni passo lascerai briciole di amarezza. L’aveva letta da
qualche parte quella frase o se l’era inventata al momento? Esaminò con coscienza il proprio
status poetico-filosofico e convenne con se stesso che doveva trattarsi della prima opzione.
Perché Michele non trovava quasi mai belle parole: a lui piaceva contare.
La maestra Marisa lo guardava sempre sorridente, il quaderno di matematica aperto e gli esercizi
finiti da un pezzo, mentre i compagni si aiutavano nei calcoli con le dita, stravolti in un intreccio di
falangi e falangette. Oggi tema: Michele si entusiasmava come davanti ai finocchi cotti della
mensa. Oggi problema: si sfornavano per lui leccornie da ristoranti del centro.
Lui i conti sapeva farli tornare e si era pure diplomato, alla faccia di tutti i trogloditi della sua
famiglia. I conti dovevano tornare sempre, a costo di mollare tutti in quel buco al Lorenteggio
(sempre in bilico fra ingiunzioni di pagamento e polizia) e andarsene via per sempre.
Si ritrovò seduto davanti all’altare maggiore, a Santo Stefano.
Grazie che mi hai salvato e che mi hai dato Lucia. Grazie per avermi dato Lucia e per la casa.
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Falle trovare un vero lavoro, che la voglio vedere sorridere al mattino.
Che fosse diplomata ragioniera non interessava proprio a nessuno e allora telefonava, cercando di
vendere olio, prodotto per cui la Brianza è famosa. Lucia però aveva scoperto tutto. Arrivavano
dalla Tunisia cisterne di olio di sansa che, in un rinomato scantinato di Albiate, venivano corrette
con prodotti genuini e naturali. Nasceva così un extravergine DOP: Ambrosia, l’olio degli dei. Un
nome e uno slogan che ci si dovrebbe vergognare solo ad averli pensati, per non parlare poi del
corso di formazione di un quarto d’ora: “ Simuli un vago accento toscano, funziona sempre”.
Michele decise di tornare all’aria aperta. Buttò i piedi verso via Cavour, anche se non avrebbe
potuto comprare niente nei bei negozi della via. Anzi, qualcosa sì.
- Malaga e caffè?
- Malaga e caffè. - Lo conoscevano bene al Pistacchiodo.
Ah, se l’amava quella città! La città che gli aveva dato un lavoro, all’Htel, che è come essere entrati
alla Fiat, gli diceva lo zio Peppino che era l’unico che gli voleva bene. Michele curava i rapporti
commerciali con le sedi dell’Est Europa. Se gli aveste chiesto di una certa commessa per Plovdiv o
Ploiesti ve ne avrebbe parlato come del cibo in frigorifero a casa sua.
Certo, qualche problema di licenziamenti c’era. Sei mesi fa il Pessina, da allora soprannominato il
pazzo, era salito a gridare sul tetto dell’azienda. Lo avevano tirato giù dopo due giorni, mezzo
svenuto di fame e freddo. La crisi mordeva ma non troppo. Michele non ci badava e i conti in ufficio
e nella sua vita tornavano sempre.
Ma c’era un posto che amava più di tutti: il ponte di San Rocco. La base romana, certo. Le torri
medioevali, quella occidentale prima, quella orientale poi. Ma lui amava il fiume, che innanzi tutto è
un torrente e non un fiume. E non gli importava se non aveva nulla di altisonante. E’ lungo solo 38
km, meno di una maratona. La sorgente? A Giovenzana. L’unico affluente? Il Molgoretta. Non
sfocia neppure in un fiume ma nel canale Muzza.
La gente non faceva caso al Molgora, salvo tremare quando a novembre muggiva fra le case.
Michele invece sapeva tutto di quel corso d’acqua, anche dove vedere i cavedani.
Perché quel fiume (pardon torrente) fosse così speciale per lui non si può sapere, né perché quel
giorno Michele decise di aprire la casella delle lettere di casa sua, cosa che faceva sempre Lucia.
Riconobbe subito il simbolo dell’Htel e, appena entrato, si sdraiò a leggere per terra, fra gli
scatoloni del trasloco. Molte cose gli vennero allora alla mente e si ricordò anche del Pessina. In
una mattina può passare tutta una vita. Una sola cosa gli era chiara.
I conti, questa volta, non potevano tornare.
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