“Sacra Konzert” Attraverso il cofanetto (cd + dvd) del musicista Luigi

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“Sacra Konzert” Attraverso il cofanetto (cd + dvd) del musicista Luigi
“Sacra Konzert”
LA TOURNÉE INFINITA DEL ‘PREGAR-CANTANDO’
Attraverso il cofanetto (cd + dvd) del musicista Luigi Cinque possiamo fare uno
straordinario viaggio interculturale e di polifonie sonore in cui s’intrecciano le voci
antiche e moderne della tradizione ebraica, arabo-islamica e cristiana. Ne scaturisce
una liturgia sospesa tra Europa, Asia e Africa con ospiti eccellenti da Raiz a Baba
Sissoko, da Badara Seck a Lucilla Galeazzi, da Evelina Meghnagi a Emil Zrihan,
dallo Gnawa ensemble a Antonio Infantino, fino ad un magico duetto tra la sarda
Elena Ledda e l’indiana Mangla Tiwari.
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di Marco Palladini
Ci si inoltra nelle stanze sonore e audiovisive di Sacra Konzert (cofanetto edito da Radio
Fandango, 2006, comprendente cd + dvd) e brano dopo brano, fotogramma dopo fotogramma
veniamo sollecitati a fare un viaggio musicale e interculturale tra Nord e Sud del mondo, tra
Occidente e Medio Oriente, di singolare fascino per i suoi inaspettati accostamenti. Il maestro
compositore e concertatore Luigi Cinque appare un impavido nocchiero che sul suo virtuale
vascello, rimbombante di voci e di note, è pronto ad imbarcare tappa dopo tappa i musicisti e i
cantanti più diversi ed eterogenei, come guidato da un misterioso sesto senso o, meglio, da un terzo
orecchio che gli consente con stupefacente sicurezza e naturalezza di connettere e di armonizzare
l’arcaico e il moderno, la tradizione e la contemporaneità, l’Africa e l’Europa, il canto arabo e
quello ebraico, le nenie sarde e quelle indù, lo schiocco battente della taranta salentina e gli ipnotici
cori sufi maghrebini. In un certo senso, il metodo compositivo di Cinque è analogo a quello di tanti
techno-artisti del campionamento che concepiscono il mondo come un banco di suoni da cui
estrarre i samples giusti per confezionare nuovi ritmi eccitanti che i deejays pomperanno a 120 bpm
per far ballare ‘i popoli della notte’. Al di là della divaricata modulazione e destinazione
commerciale, la vera profonda differenza è però nel fatto che i campionatori elettronici, asserragliati
nei loro studi high-tech davanti a un Pc, agiscono in uno stato di pura astrazione autoreferenziale,
sono meri onanisti del cut-up poliritmico, completamente esaltati e soggiogati dal macchinismo
occidentale sono i solitari produttori di un fiume di musica digitalizzata, letteralmente senza corpo.
Il fulcro del progetto di Cinque è, invece, nell’esecuzione e nella registrazione live. Senza alcuna
preclusione verso l’elettronica, anzi usandola come uno strumento accanto agli altri, Cinque fa
dell’atto di suonare e cantare dal vivo, e dunque della dimensione collettiva, anzi direi comunitaria
del fare musica, il tratto essenziale di un’architettura compositiva, con margini di improvvisazione,
che cerca nei corpi degli esecutori e nella fisicità della loro espressione musicale, e nella tangibile
risposta del pubblico, un segno di ritualità condivisa, ovvero di autenticità emotiva e di carica
emozionale, e assieme il suo precipuo marchio di autore che coniuga visione intellettuale e calore
popolare, ragione e passione.
Questo è soprattutto evidente nelle immagini del dvd, siglato nei titoli di coda dalla frase “ci
ragiono e suono”, che richiama immediatamente un famoso spettacolo di Dario Fo Ci ragiono e
canto. Allora − era il 1966, giusto 40 anni fa − si trattava di ripescare e dare visibilità al prezioso
repertorio dei canti popolari italiani, valorizzando in senso politico-culturale antagonista la sua
matrice estranea ai gusti e ai canoni estetici della borghesia, non a caso in quella operazione presessantottesca Fo volle accanto a sé alcuni dei nomi migliori del Nuovo Canzoniere italiano, da
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Giovanna Marini a Ivan Della Mea, da Giovanna Daffini a Rosa Balistreri, da Caterina Bueno al
Gruppo Padano di Piadena. Anche il siculo-romano Luigi Cinque, poco dopo il ’68, con il
Canzoniere del Lazio (al fianco di Piero Brega, Gianni Nebbiosi, Sara Modigliani, Pasquale Minieri
etc.) ha dato il suo significativo contributo al recupero, in chiave anti-filologica, della tradizione
musicale centro-meridionale, poi la sua lunga ed eclettica carriera lo ha portato in giro per il mondo
a spiccare il volo dal locale al globale, ma senza mai dimenticare le proprie radici.
Con facile espressione alla moda potremmo dire che il suo lavoro attuale è squisitamente ‘glocale’,
in quanto si nutre delle matrici più diverse e difformi e punta a conseguire una sorta di superlinguaggio universalistico, di esperanto sonoro che assorbe come una spugna ogni dialetto locale
per trasfonderlo in un idioma generale e globalizzante. La politicità e la tensione utopistica si
sintetizzano, oggi, in questo cercare di abbattere barriere e confini, di strappare le persone al
meccanismo ricattatorio delle identità coatte, di scegliere il meticciato e l’ibridazione come vie
impervie, ma obbligate per combattere lo strisciante Clash of Civilizations e fattivamente operare
per “un possibile altro mondo”.
Il filmato di Cinque intitolato … per frammenti di una liturgia mediterranea documenta le stazioni
di passaggio di un progetto che fa dell’incontro cultural-musicale fra i tre grandi monoteismi
cristiano, musulmano ed ebraico il cuore pulsante del suo divenire. Da Roma a Istambul, da
Palermo a Yerevan, da Barcellona a Gerusalemme, da Tel Aviv a Marrakesh, da West Bank
Palestine a Dakar, da Sana’a a Addis Abeba, si snocciolano i punti di approdo e i set concertistici di
questo “never ending tour” (Dylan docet) all’insegna del sacro. Ma cos’è il sacro oggi? Dov’è il
sacro oggi? Domande che qui, in Occidente, sembrano senza ritorno o che rischiano di scivolare
nella deriva della paccottiglia New Age, con il corredo di tanta stucchevole Ambient Music, ma che
invece nell’incontro con altre culture africane ed asiatiche tornano pregne di senso, di plastica
evidenza, di corposa vitalità. Nell’itinerario multiculturale e multimusicale di Cinque, il sacro
sembra innanzitutto un respiro, un respirare grande e profondo in consonanza con i ritmi della terra
e della natura. E l’onda di questo respiro sacrale, di questo pneuma cultuale viaggia attraverso le
voci, attraverso una polifonia di canti che, spesso in forma sponsoriale, assumono fluidamente il
carattere di una liturgia epocale, transnazionale e transreligiosa.
Intrecciando i brani sefarditi dell’italo-ebrea Evelina Meghnagi agli assoli squillanti ed eccitanti del
griot senegalese Badara Seck con zucchetto versicolore da principe afro, gli acuti potentissimi e
quasi esasperati dell’israeliano Emil Zrihan al pedale grave di un coro gregoriano, il coro ritmico
Sam’a Sufi della città santa di Fès al Miserere intonato dai tenores sardi del coro “Su Concordu di
Santu Lussurgiu”, le voci marocchine di possessione dello Gnawa ensemble Sidi Mimoum
all’indiavolata tarantella eseguita da uno spiritato Antonio Infantino sostenuto dal tamburo di Alfio
Antico: pura trance music più devastante di un pezzo dei Ramones. E, ancora, ecco la coralità
frenetica tutta al femminile delle Bnet Houaryàt che mescolano i versi mistici del poeta khorasanita
Rûmî, coevo di Dante, e gli inni propiziatori alle feste nuziali di Marrakesh; e la tersa,
inconfondibile voce di Lucilla Galeazzi che rilucida a nuovo la nostra tradizione popolare e
contadina; e persino la voce più bella del progressive italiano anni ’70, ovvero Francesco “Big” Di
Giacomo (Banco del Mutuo Soccorso) che qui si reinventa convincente cantore etnico. Mentre
assumono un ruolo di contrasto gli interventi in puro stile colto europeo del coro Multirifrazione e
del biondo soprano tedesco Catharina Kroeger, ravvolta nello chiffon nero; oppure l’animosa voce
dell’attore Massimo Venturiello che recita i versi mitopoietici di un novello Ulisse, incrociata con
una macedonia di lingue e di dialetti captati nei mercati e nei porti del Mediterraneo, rimpastati e
remixati per generare un incisivo effetto di cacofonica babele.
Ma il “magic moment” del documentario è, forse, nel sorprendente duetto tra la ninna nanna
dolcemente modulata dalla sarda Elena Ledda e i sussultanti melismi dell’indiana Mangla Tiwari da
Benares, folgorante scoperta che tra il dialetto sardo e il sanscrito può esserci una perfetta risonanza
canora, una magnifica corrispondenza di intenzioni e di sentimenti.
Nella sua veste di maestro orchestratore, di vigile Mago Cotrone della complessiva invenzione
musicale, Luigi Cinque si ritaglia nel dvd vari momenti personali, ora di illustratore e commentatore
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del progetto, ora di musicista in campo mentre suona il sax soprano o il clarinetto. Ma i momenti
più belli sono quegli attimi fuggenti, catturati dalla videocamera, in cui lui stesso sul palco sembra
estraniarsi, sembra mettersi in una posizione di puro ascolto di questo avvolgente o travolgente
“pregar-cantando”, attimi abissali di contemplazione della sacralità vocale, di epifanica meditazione
sulla fonte del suono che è fuori di noi, ci attraversa e ci proietta immaterialmente su un piano più
elevato dell’essere.
Così, nove anni fa a Palermo Officina Mediterraneo officiava, per l’appunto, il cortocircuito tra
etnico e jazz su più palchi in contemporanea e nel film si vede, in split screen, il volo superbo del
sax di Steve Lacy contrappuntare le danzatrici di Silvana Barbarini che trasmutavano i gesti dolenti
delle antiche prefiche del Sud nel corpo elettrico delle donne odierne, con movimenti e
movimentazioni già oltremoderni. Ancora una volta, è chiaro che il sacro o il neo-sacro non è, al
presente, questione di supina devozione o di obbedienza meccanica alla tradizione, ma è il
reinveramento di una motivazione forte, la presentificazione di un corpo autoconsapevole che sfida
il tempo e la memoria. Il sacro non è ciò che è stato, è ciò che è ora, ciò che si rinnova, che si
riconferma di volta in volta. Non è mai una volta e per sempre, è per sempre ogni volta. È la
scommessa del qui e adesso.
Dove manca il supporto visivo, ossia nel cd audio, c’è spazio anche per ulteriori variazioni in
studio, pur sulla medesima materia sonora. Variazioni che sono arricchimenti di presenze, come per
il primo brano, Secret, in cui ci accolgono i virtuosi e suggestivi vocalizzi folk della cantante Urna
Chahar-Tugchi, proveniente dalle steppe sud-occidentali della Mongolia interna. Poi scatta,
nell’incontro con Raiz, la forma-canzone: in Ommo (bissato in chiusura da Ommo ritmicus) la voce
rauca e scorticata, emozionante dell’ex leader degli Almamegretta scaglia in napoletano un acceso
j’accuse contro le nefandezze antiecologiche dell’umanità, che spicca sopra un insistente tappeto
elettronico innervato dal piano elettrico di Salvatore Bonafede, dal sopranile sax di Cinque e dal
controcanto di Mangla Tiwari. La forma pop-song istigata da Raiz fa riflettere sulla duttilità o
pervasività della sacralità musicale, che non è appunto legata ad una forma o formula
predeterminata, è semmai legata al suono, a un timbro di suono che disvela l’intenzione, l’anima
retrostante. In questo caso è l’anima partenopea e plebea verace di Raiz, il suo personale soul
meridionale e ribelle filtrato attraverso il rock-dub degli anni ’90 e che, poi, si è via via svincolato
ed allargato ricomprendendo tradizione napoletana, canzone brechtiana e quant’altro.
Ecco il soul, parola chiave della musica afro-americana, passepartout di una cultura che non
concepisce l’opposizione tra corpo e spirito, tra sesso e fede. Anche nelle voci nere più rigorose e
austere (penso a quella meravigliosamente scura e blues di Odetta) ha sempre vibrato una profonda
sensualità. Così, è pure, mi sembra, nelle voci africane convocate da Cinque. A partire da quella del
43enne, già assai noto maliano Baba Sissoko, che nel brano Masaba Saturnia (prolungato nello
strumentale Masaba x Bamakò) rinnova il suo tributo alla vita, “gioia e dolore, pazienza e coraggio”
e invita al rispetto sacrale della natura, mentre si lancia ad improvvisare pizzicando ispirato le corde
del suo prediletto ngoni. Per proseguire con le inebrianti performance vocali di Badara Seck, in
primis nel pezzo Mariama (registrato durante il concerto tenuto all’auditorium nazionale yemenita
di Sana’a) dove dialoga con il douduk di Jivan Gasparyan, il sax di Gavino Murgia e il clarinetto di
Cinque: la Mariama a cui Seck si rivolge con una melopea infiammata, come dedicata ad una
amante, è Maria, la madre del mondo intero, è Maria Vergine, la madonna cristiana, ma anche la
Madreterra arcaica, e la Grande Madre che, come ci ha insegnato Bachofen, è all’origine delle
religioni e delle società, ed è ovviamente la Madre Africa, il grande corpo femminile del continente
nero da adorare e da inseminare.
Autentico portavoce e corifeo di un’Africa attuale che vuole incontrare il mondo e la modernità
senza nulla rinnegare delle sue mille ancora vitalissime culture locali e tribali, Badara Seck nel
brano Nomad rivendica orgogliosamente le parole sacre, filosofiche, storiche, letterarie che
riguardano la vita vera dell’Africa e degli africani. Sono le parole nomadi, insiste, che aiutano a
pensare, che aiutano a far danzare il cervello, è questo il compito dei griots come lui, i cantori-aedi
che girano di villaggio in villaggio a svegliare la gente, a dar loro una coscienza critica, a incitarli
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ad agire per un futuro migliore. La voce particolare e mirabile di Seck ha una scansione da oratoria
cantata, piena di assonanze, di rimandi, di note tenute più lunghe e di versi masticati a gran velocità.
Nella sua soul voice c’è l’infanzia dell’umanità, ma anche l’avvenire di una umanità che è stata
sinora tenuta ai margini della storia, e c’è il viatico per una negritudine post-Leopold Senghor che
non sia più soltanto dolore e frustrazione, ma anche piena dignità e voglia di protagonismo.
Farsi mallevadore di queste istanze, non è l’ultimo dei meriti di Cinque e del suo progetto di “opera
aperta” in cui queste voci da tipica “world music” si sono trovate ad interagire con varie formazioni
di strumentisti a schema variabile, ma spesso vere all star bands con jazzisti italiani rinomati e
preclari come Gianluigi Trovesi, Danilo Rea, Enzo Pietropaoli, il citato Murgia, e poi il violista
Luca Sanzò, il vibrafonista Andrea Biondi, il percussionista Gianluca Ruggeri; e quindi i guests di
lusso come Gasparyan, Michel Godard, Antonello Salis, Jean Marc Montera. Ensemble mutanti di
grandi professionisti, tutti diligentemente e disciplinatamente al servizio di una ricerca espressiva,
senza ‘primadonnismi’ da santoni arroganti. È un altro piccolo miracolo di questi Sacra Konzert, o
forse la spia che quando la musica si fa alimento di vita, avventura esistenziale, lievito di incontro
tra persone di culture e fedi diverse, anche le persone riescono a diventare un poco migliori.
A proposito delle fedi diverse, mi sono chiesto se non è un paradosso voler partire dai tre
monoteismi religiosi per arrivare a postulare l’orizzonte di una sorta di politeismo o ecumenismo
musicale. Forse, è questo in essenza il sacro concepito e perseguito da Luigi Cinque: dissolvere per
sempre l’idea monocratica di un solo dio del suono e chiamare a raccolta i mille e mille dèi della
sonorità, per celebrare, come per una Messa universale, unità e molteplicità della musica. Che vuole
forse dire andare verso l’Origine, verso l’eco del Big Bang, verso la nota all’alba di tutte le altre
note. In principio erat verbum? No, in principio erat cantus (il verbo più il suono)… e il canto era
dio.
* Questa che presentiamo è la versione ‘estesa’ di un articolo pubblicato su Alias - il manifesto il 18
novembre 2006
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