Il 99% di chi chiede aiuto non ha lavoro
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Il 99% di chi chiede aiuto non ha lavoro
Redattore sociale Centri antiviolenza, l'assistente sociale: "Il 99% di chi chiede aiuto non ha lavoro" A parlare è Concetta Restuccia, presidente del centro antiviolenza del distretto di Taormina: “Le donne sanno di essere vittime, e se non denunciano è perché hanno paura di perdere tutto e di non avere un aiuto da parte di chi le dovrebbe tutelare” 30 maggio 2016 BOLOGNA - “Nel 99 per cento dei casi le donne che si rivolgono a noi non hanno un lavoro. Le donne con autonomia economica si fanno il loro percorso con l’avvocato, ma le altre no. Senza il marito non avrebbero di che vivere. E se ci sono dei figli, la situazione è ancora più complessa”. A parlare è Concetta Restuccia, assistente sociale e presidente del centro antiviolenza del distretto di Taormina, che dall’inizio dell’anno è già stato contattato da 40 donne, tra chi ha scelto poi di farsi seguire e chi si è limitato a chiedere, telefonicamente, qualche informazione. “Noi come assistenti sociali ci occupiamo di coordinare tutte le attività che ruotano intorno a una donna vittima di violenza: dalla Procura agli avvocati, dalle forze dell’ordine ai servizi sociali passando per le scuole. Le seguiamo a 360 gradi, ma non tutti fanno così. Perché poi, ci sono procure velocissime e altre molto lente, e non sempre a una denuncia di violenza segue un allontanamento, un arresto, una misura che le tuteli. Così, sapendo come vanno le cose, c’è chi nemmeno si prende più la briga di denunciare: sa già che non succederà nulla. Anzi, la sua condizione potrebbe ulteriormente peggiorare”. I problemi, spesso, cominciano proprio dopo la denuncia: le donne non hanno più mezzi di sostentamento, e se sono in affitto rischiano lo sfratto esecutivo. “A chi tocca mantenerle? Allo Stato, appunto, ma se non ce la fa non interviene. Per questo continuo a ripetere che è necessario implementare i servizi sul territorio, anche quelli a bassa soglia. Perché se la donna che trova il coraggio di denunciare la prima volta non trova una risposta, non chiamerà più”. La critica di Restuccia è chiara: “Quotidianamente combattiamo con i servizi pubblici perché facciano la loro parte. Ma i Comuni sono in deficit, così spesso non hanno i fondi per inserire donne vittime di violenza nelle apposite strutture, che di conseguenza sono costrette a tornare a casa”. Il centro antiviolenza dove lavora Restuccia offre assistenza legale gratuita e dispone anche di una casa di fuga, in modo da poter accogliere direttamente le vittime per poi seguirle in un percorso. “Ci costituiamo parte civile con loro, con loro combattiamo perché ottengano tutto quello che lo Stato deve garantire, dal doposcuola per i figli, all’inserimento nelle case popolari. Stiamo loro vicine, insomma. Perché sia chiaro: la fuoriuscita dalla propria casa, sicuramente è una sconfitta per il sistema, ma lo è anche e soprattutto per la donna. Che forse si sentirà più al sicuro, ma penserà di avere perso tutto. E poi: basta fare grandi campagne per chiedere che le donne prendano coscienza. Noi che con loro lavoriamo quotidianamente, possiamo affermare senza paura di essere smentiti che sono ben consapevoli di essere vittime. Purtroppo, non conoscono gli strumenti messi in campo per garantire la loro incolumità”. Secondo Restuccia, sul tema c’è ancora pochissima conoscenza: “Spesso è a noi che fanno domande basilari. Ci chiedono come muoversi per evitare il rischio di accusa di sottrazione di minore, per esempio. C’è chi ha paura di essere accusata per abbandono del tetto coniugale. Noi per prima cosa diciamo subito di spedire un telegramma al compagno per dire di essersi allontanate volontariamente, in modo che le forze dell’ordine non si mettano in moto. Senza telegramma, possono essere cercate legalmente”. Uno dei grossi problemi delle vittime di violenza, poi, è il sentirsi assolutamente sole: i partner hanno fatto terra bruciata intorno a loro, tranciando anche i legami familiari. “Spesso i genitori e i parenti sono loro stessi vittime di violenza da parte del compagno violento. E quando la donna – figlia, sorella, cugina – decide di denunciare, non vogliono riaccoglierla a casa. Sanno che l’uomo andrebbe subito lì a cercarla, e hanno paura. Per non parlare delle compagne di componenti delle forze dell’ordine: la situazione si fa ancora più complessa. Così, le poche che provano anche solo a telefonarci, poi scelgono di scomparire”. L’assistente sociale conviene con la presidente di Telefono Rosa circa l’aumento della violenza: “Oggi la violenza è considerata comportamento interpersonale. Giusto pochi giorni fa – avevo mia figlia piccola in macchina – per strada ho visto un ragazzino dare uno schiaffo alla sua ragazza. Sono andata da loro, e l’ho allontanata. Sa qual è il dramma? È che mi sono fermata solo io. C’è indifferenza alla violenza, come ha dimostrato anche il recente caso della Magliana. E c’è abitudine alla violenza. Ma parliamoci chiaro: noi donne abbiamo colpe grandissime: noi siamo educatrici, formatrici, madri, e abbiamo fallito il nostro compito. Intanto, l’età delle vittime di violenza continua ad abbassarsi: spesso, spiega Restuccia, sono le mamme che chiamano per le figlie, vittime di stalking. “Uno dei campanelli d’allarme che diciamo sempre di monitorare è la mania di controllo dei fidanzatini esercitata tramite WhatsApp. I maschi controllano i telefoni delle ragazze, guardano l’ora a cui si sono connesse, chiedono il perché di quella connessione. È diventata in pochissimo tempo una delle formule più subdole di controllo”. (Ambra Notari)