PROLOGO Napoli, un giorno di agosto del 1488 I

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PROLOGO Napoli, un giorno di agosto del 1488 I
PROLOGO
Prima di lasciare spazio alle nostre donne del
Quattrocento vorrei ringraziare alcuni fra quanti mi
hanno aiutato e mi sono stati moralmente vicini nella
stesura del libro.
Prima di tutti Angelo, che da pochi mesi non condivide più il nostro cammino, e che in un periodo non
facile della mia vita ha saputo indicarmi soluzioni
concrete per nuovi progetti che hanno fatto di me una
persona più consapevole. Poi la mia famiglia, che ha
sempre capito e sostenuto la mia passione, anche
quando questa comportava qualche accomodamento
e qualche piccolo esercizio di pazienza. Quindi
Martina, entusiasta consigliera e grande esperta di
storie al femminile.
Mi sono state infine preziosissime le osservazioni
di Marcello Simonetta, che in una serrata corrispondenza che ha emulato quelle a cui il libro si ispira, ha
saputo unire l’estrema competenza dello studioso del
Rinascimento “decodificatore di misteri” alla generosa disponibilità dell'amico, rilevando quello che
nella storia andava ritoccato, ma anche incoraggiandomi quando è stato necessario.
La mia gratitudine va a queste persone, e a tutte
quelle che non ho citato.
Napoli, un giorno di agosto del 1488
I passi di Giovanna che si allontanava dalla stanza erano leggeri e furtivi come quelli di una bimba.
Attraverso la bianca cortina sempre più densa
che da giorni le era calata sugli occhi, la donna
vide la fida Maria china su di lei, i capelli separati in due bande corvine da una riga severa in
mezzo alla testa e due occhi grandi, di carbone.
– Con il Vostro permesso, Duchessa...
Le rassettò il guanciale e si ritrasse, con gesti
consueti aprí le imposte e scomparve.
Luce. La stanza fu inondata da una luce intensa che accese il biancore che confondeva la sua
vista.
Si alzò a sedere. Non sentiva dolore. Dal giorno prima non sentiva più nessun dolore, né al
capo né agli arti. Era certo che se adesso avesse
fatto la cosa proibita, cioè alzarsi dal letto e camminare per la stanza, non sarebbe svenuta, non le
sarebbe successo nulla.
Si alzò. Il senso di caduta fu dolce, le circondò
la schiena ed il collo scendendo ad avvolgerle le
gambe, appena rivelate dalla lunga camicia di
Fiandra ricamata, ma rimase in piedi. A tentoni
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LAURA MALINVERNI
IL RAMO DI BIANCOSPINO
mosse due, tre lentissimi passi fino al balcone e fu
fuori. Nel sole.
Quella luce calda e morbida le mancava da un
po’ di tempo. Gli uccelli cantavano nel mattino
inoltrato e l’aria era impregnata di un intenso
sentore di fiori appassiti. Il suo naso era ancora in
grado di percepire gli odori: ne provò un piacere
struggente, che le chiuse la gola.
Quante coroncine di fiori intrecciavano le
bambine nella grande villa sotto i monti di
Varese, e si mettevano cascate di mughetti profumati tra i capelli. Caterina, la piccola Cita, un
giorno si ricoprí di una mantella di margherite
intrecciate a fili d’erba chiara e foglioline quasi
d’argento...
Sua madre lentamente incedeva a capo del
corteo di dame e cavalieri e sapeva di gelsomino:
l’essenza avvolgeva tutta la sua persona, i capelli biondi leggeri rialzati sul collo un po’ accaldato, le spalle rotonde, il corpetto attillato, la gonna
di seta larga e frusciante...
Il limone e la cannella si fondevano al
muschio virile e alle rose aperte nelle scollature
delle donzelle, una dolcezza intensa che dava la
nausea se si seguiva la lunga fila danzante che si
riuniva e si scioglieva in un moto apparente e
reale di giovani, di musica, di profumi...
Sarebbe stato bello e giusto scendere dal carro
allora. Intrisa del sentore della felicità di un’adolescenza intatta. Odorosa di fiori e di speranze.
Si sporse un poco dal balcone. Il giardino
risentiva della calura estiva e stava là, sotto di lei:
silenzioso, invitante, un po’ sfiorito.
I pensieri evaporavano in quel mezzogiorno di
luce, senza ombre.
Il senso di caduta adesso fu un piacere nuovo
che la sommerse. Si protese ancora, oltre il balcone. Una gioia insperata la stupí, le invase il
cuore e le esplose lí, alla tempia, dove i pensieri
si scomponevano in piccole luci senza colore.
Cosí volò, farfalla lieve di lino bianco ormai
senza più peso. Volò con l’anima nella luce, nella
gioia e nei profumi. Il suo corpo sembrò un giglio
raccolto, esile, ripiegato su se stesso, ma sbocciato
e non sepolto nella soffice terra bruna del giardino.
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Il volto olivastro dell’uomo era terreo per la
tensione che rendeva i suoi occhi ancora più strabici del consueto.
– Non avrebbe dovuto essere lasciata sola.
Mai. Neppure per un secondo. I medici l’avevano ordinato.
Dalla bocca socchiusa il rimprovero sibilò
duro e secco come un colpo di frusta, uno dei
tanti che probabilmente sarebbero toccati alla
povera Maria. I suoi singhiozzi soffocati, ininterrotti da ore, non lo commuovevano.
La ragazza alta, dalla carnagione bianca e dai
lunghi capelli biondo scuro, guardò il corpo
riverso con occhi opachi e – paradossalmente –
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IL RAMO DI BIANCOSPINO
fu come se proprio da quell’immagine senza vita,
l’immagine di se stessa, volesse prendere un po’
di coraggio, un po’ di colore da mettersi sul volto
esangue.
– Padre, sapete che i medici avevano detto che
sarebbe vissuta al massimo due giorni, forse tre.
Fate che sia morta nel suo letto. Fate questo e le
renderete ciò che si merita. Ve ne supplico.
L’uomo detestava essere contraddetto. Eppure
quel giorno si sentiva privo di volontà, desideroso solo che tutto finisse, e al più presto.
– Riportatela nella sua stanza. Poi preparatela
e provvedete ad un’adeguata veglia funebre.
Volse le spalle e si allontanò, rigido nel volto
e nel corpo.
– Grazie, Padre – alitò la ragazza senza che lui
la potesse sentire. – E a Voi, Madre: perdono...
Neanche sua madre la poteva più sentire.
La brezza che scendeva dai colli forlivesi era
piacevole e attenuava la calura del pomeriggio
estivo.
La donna, occhi grigi animati da pagliuzze
verdi e d’oro, come i capelli, raccolti a rivelare
un collo lungo e bianchissimo, aveva una strana
fissità nello sguardo.
Sembrava perduta dietro lontani pensieri mentre si rivolgeva all’uomo giovane e snello che le
stava di fronte e che la contemplava con un sorriso. Gli guardò il farsetto, percorso da tre fasce
verdi e interamente occupato dal busto di un
leone d’oro, simbolo degli Ordelaffi, i Signori di
Forlí.
– La Vostra ammirazione mi confonde – disse,
senza espressione. – Voi mi adulate.
– Io esprimo quello che tutta Forlí pensa e
spera, Contessa. Sapete che oggi, venendo qui,
ho visto dipinti sui muri bastoni con le armi delle
nostre due famiglie intrecciate. Mi è sembrato il
più bell’augurio che mai potesse accompagnare il
pretendente di una donna tanto bella...
– E di una città a Voi tanto cara, indubbiamente.
Caterina si alzò in piedi. Era alta, imponente.
Davvero bellissima. Ma non un sorriso increspava le sue labbra, atteggiate invece ad una smorfia
fiera.
– Sono stanca, perdonatemi. Domani sicuramente avrò più forze e sarò per Voi una compagnia più piacevole. Per ora Vi lascio alle facezie
di Ser Michele, che come tutti i bravi segretari
non vuole perdere l’occasione di leggerVi un
paio di poesie di benvenuto scritte dai cittadini
per salutare il Vostro arrivo.
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Imola, Villa Giardino, lo stesso giorno
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Si allontanò in un fruscio di seta scura, senza
aspettare che giungesse il cancelliere: in pochi
passi scomparve. L’uomo rimase fermo e solo,
un’aria un po’ interdetta e un po’ annoiata sul
volto.
– Finalmente!
Il ragazzo ghermí la donna alle spalle, nell’ombra dell’androne, la baciò sul collo cercando
furiosamente i lacci del suo corpetto.
– Jacopo, Voi vi farete scoprire...
– Non cessava mai quell’inutile colloquio... –
alitò il giovane, lasciando scorrere le mani dalle
spalle al seno di Caterina.
La donna rise e gemette, rise ancora. Dal suo
viso era sparita ogni indifferenza, però i suoi
occhi sembravano ancora inseguire lontani pensieri.
– Sapete, all’improvviso ho avvertito freddo,
là fuori. – Tuffò le mani nei capelli scuri e ricciuti
del giovane, ne cercò le labbra con avidità. –
Anche adesso, Jacopo, davvero... È una sensazione strana, come se... un vento nuovo voglia
gelare questa estate. Si direbbe quasi l’annuncio
di un autunno precoce...
– Ci vogliono i miei baci per scaldarVi, Contessa. Ci vuole il nostro amore...
– Sí, il nostro amore...
Una folata di vento gonfiò la tenda che dava
sul giardino.
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PARTE PRIMA
IPPOLITA, DRUSIANA E DOROTEA
“Del nostro amore accade
come del ramo del biancospino,
che sta sulla pianta tremando
la notte alla pioggia ed al gelo,
fino al domani, che il sole s’effonde
infra le foglie verdi sulla fronde.”
Guglielmo d’Aquitania, trovatore provenzale,
anno 1100 circa
Milano, Palazzo dell’Arengo, ottobre del 1455
“Su con la testa... Il busto eretto... Una giravolta... Un’altra... Il portamento, damigelle, il
portamento! Sciolte, sciolte... Eleganti, con grazia, cosí...!”
Il maestro di ballo Antonio Cornazzano parlava con voce nasale e accompagnava le parole con
gesti fioriti e sorrisi. Ippolita, accaldata, lo guardava mentre concludeva la sua lezione. Di fronte
a lui erano almeno dieci delle giovani nobili che
avrebbero allietato con le loro danze e la loro presenza la grande festa della domenica seguente.
“La festeggiata sarò io. Proprio io.”
Ippolita stava lí, seduta su una cassapanca di
noce intarsiata nella sala del Palazzo dell’Arengo, e ancora non si capacitava che la festa, “grandissima e memorabile” nelle intenzioni di suo
padre, avrebbe riguardato lei.
Un leggero sentore di limone l’avvisò della
presenza di Drusiana. La ragazza, non tanto più
alta di lei ma molto più matura d’età, indossava
una camora verde che esaltava il colore dei suoi
occhi, l’unico particolare acceso nel viso pallido,
quasi sfumato. Si sedette sulla cassapanca, di
fianco a lei, e le circondò le spalle con un braccio.
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– Guarda questo.
Le posò in grembo un codice di non grandi
dimensioni, ma bello nella sua rilegatura di velluto rosso.
Ippolita lesse il titolo, “Libro dell’arte del
danzare”, e riconobbe nello stile forbito della
dedica quello del Cornazzano stesso.
– È stato offerto proprio stamani a mio fratello
Sforza Secondo. È un compendio dell’arte di
Messer Antonio, redatto in occasione della grande
festa di domenica prossima. Si direbbe che, malgrado la dedica formale, tu ne sia già l’ispiratrice.
– Non scherzare, Drusiana... Finora mia
madre non mi ha consentito più di un paio di
danze nelle feste ufficiali, e non so se farà una
deroga per domenica.
– Non scherzo. So benissimo come balla la
mia sorellina, e come ballavo io alla sua età... Tu
hai un talento innato per le coreografie, ed una
grazia che incanta. Leggi qui che cosa dice
Maestro Antonio: “...il danzatore deve adattare il
modo di ballare al carattere dello strumento che
l’accompagna e persino ai vestiti che indossa,
alla loro lunghezza...”.
– Allora è escluso che domenica ballerò – rise
Ippolita. – Il sarto Domenico mi ha fatto provare
un abito importante, però cosí attillato... che non
concede più di una pavana.
– “Io sono bassadanza, delle misure regina,
e merito di portare corona” – citò Drusiana,
tappandosi il naso per scimmiottare la voce
nasale di Maestro Antonio. – La pavana, tra le
bassedanze, è la misura più difficile e più nobile... Certo che a dieci anni si preferisce di gran
lunga il saltarello! Ma dopo la pavana viene
quasi sempre un saltarello, e poi salti e tamburelli sono cosí adatti a una coreografia... napoletana, che penso che tua madre chiuderà un
occhio, e nella seconda parte della serata ti farà
indossare una bella camora comoda e sfogare un
po’...
Ippolita rise. Non le era sfuggito l’accenno a
Napoli.
– Drusiana, ci pensi? Allora è ufficiale. È stabilito. Mio fratello Sforza Maria sposerà Eleonora d’Aragona, e io... io...
– Tu sarai la futura Regina di Napoli, Ippolita.
Uno stridío assordante di pifferi segnò la fine
degli esercizi delle ragazze e delle fatiche di
Messer Antonio, coprendo le ultime parole di
Drusiana. Le giovani, in un arcobaleno di gonne
di broccato, sciamarono fuori dalla vasta sala
verso le stanze superiori, dove era stata preparata una merenda.
– Spongate, croccanti, frutta e confetti... –
anticipò Drusiana, seguendo con lo sguardo le
ragazzine che, rosse e affannate, salivano le scale
ridendo.
Ma, tornata a rivolgersi ad Ippolita, vide che
lei non le stava guardando. Nonostante lo strepi-
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to dei suonatori aveva sentito le sue ultime parole e quel titolo, “Regina di Napoli”, l’aveva come
agghiacciata. Neanche suo padre glielo aveva
ancora detto cosí esplicitamente: aveva preferito
parlare di “moglie di Alfonso d’Aragona”, di
“nipote del re di Napoli”...
– È un bambino strabico. E la successione a
Re di Napoli non è cosí sicura, da parte sua,
essendo figlio di un illegittimo...
Lei stessa non capí perché l’aveva detto. E
Drusiana non fu certa di aver sentito bene. Di
solito Ippolita era cortese con tutti. Però fu sollevata vedendo che rideva.
– Scherzo, naturalmente. Da qualche giorno
ogni persona che incontro non fa che dirmi che è
stato pattuito un matrimonio “brillante e invidiabile”. Certo, ne sono convinta. Solo... che lui ha
sette anni, e ci vorrà del tempo prima che me ne
possa fare un’idea personale.
Drusiana ebbe un lampo negli occhi verdi.
– Non parlarmi di tempo.
Le sue gote pallide si soffusero di un rossore
improvviso.
– Alla tua età ero promessa sposa al doge di
Genova, già vecchio e due volte vedovo. Di lí
ad un anno lui era morto e mi cominciarono a
parlare del Piccinino. Sono passati altri sei anni
e Dio solo sa se non ne passeranno altri sei.
Pensa che, contrariamente a quello che accade a
te, nessuno si complimenta con me. Il mio con-
tratto di matrimonio è uno scherzo di Carnevale
di sei anni fa. E Jacopo non sta trovando di
meglio che scrivere lettere di richieste d’aiuto e
di soldi a mio padre, agli Angioini, agli Aragonesi...
Ippolita le strinse un braccio.
– Non è cosí. La mamma dice che il Piccinino
è un grande condottiero, ha seguaci in tutta la
penisola ed è un uomo forte e coraggiosissimo.
– Infatti ha avuto il coraggio di incendiare gli
appartamenti del Papa...
– Adesso però sei cattiva.
Drusiana chinò il capo. Si alzò in piedi e si
avviò verso una mensola di noce, sulla quale
erano state poste, in bella mostra, diverse ceramiche pesaresi. Bianche ed azzurre, facevano
parte dei doni di nozze dello zio Alessandro
Sforza, arrivato il giorno prima con il cugino
Costanzo e un piccolo seguito per partecipare ai
festeggiamenti. Agli angoli del salone giacevano
anche, arrotolati, degli arazzi di grandi dimensioni provenienti da alcune case di Milano:
secondo un’abitudine cara alla nobiltà milanese,
avrebbero ricoperto le pareti del Palazzo domenica, addobbandole e rendendo più caldo l’ambiente.
– Compirò diciotto anni a fine mese e il mio
destino è tutt’altro che chiaro – sospirò Drusiana.
– Mi affido a mio padre... a nostro padre, come
sempre. Come tutti.
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Ippolita si alzò in piedi. Era alta per i suoi
dieci anni, snella. Nel viso ancora colorito per le
danze gli occhi, chiari ma non freddi, tra il grigio
e l’azzurro, erano molto belli.
– Nostro padre ha voluto il bene del Ducato e
di tutti gli Stati italiani. A maggior ragione vorrà
il nostro, non pensi?
Drusiana sorrise. Quella che aveva di fronte
era ancora una bambina per età, ma rivelava ogni
giorno di più di essere matura e riflessiva. Amava
studiare, parlava alla perfezione il latino, scriveva il greco e aveva già letto molti più libri di
quanti ne avesse mai sfogliati lei.
– Come sei fiera, Ippolita... – osservò, sinceramente ammirata. – Una vera Sforza.
– Anche tu lo sei. Tua madre, la Colombina,
Giovanna d’Acquapendente, era una donna di
carattere.
– E tua madre, Bianca Maria Visconti, è nobile e valorosa come i suoi avi. È la donna più
generosa d’animo, di più elevati ideali che io
abbia mai conosciuto. È per merito suo che io
vivo in questa casa, per merito suo che mio fratello Sforza Secondo assolda uomini e si è imparentato con Luigi Dal Verme, il più grande condottiero del Ducato dopo nostro padre...
– Tu sei felice di stare qui, con la mamma e
con noi.
Non era una domanda, era una constatazione.
E Drusiana lo sapeva.
– In effetti, non ho fretta di sposarmi. È solo
una questione di orgoglio personale perché tutte
alla mia età sono già maritate, mentre io... Io sto
sempre preparando il corredo.
– La tua scherpa sarà la più ricca che si sia
mai vista nel Ducato...!
– ...Ed io la moglie più vecchia! Lo so, lo
sento, Ippolita... ma non mi importa. Fra qualche
anno potrò chiedere ogni favore che mi parrà alla
“Duchessa di Calabria”...
Si abbracciarono proprio mentre Bianca
Trivulzio irrompeva ridendo nella sala.
– Posso disturbare la sorellina?
Prese per un braccio Ippolita e, staccandola da
Drusiana, le chiese con ridente curiosità:
– È vero che domenica vestirete di bianco? E
che avrete al collo un pendente di perle e di filigrana d’oro creato proprio per Voi dagli orafi aragonesi di Re Alfonso? E che gli sponsali sono
stati comunicati pure ai Re di Navarra, di Spagna
e di Portogallo? E che il Papa ha dato il placet
essendo catalano e che...
– ...E che e che, Bianca! – esclamò Ippolita. –
Mi stupisco di Voi. Sembrate un’emissaria di Re
Renato d’Angiò! Io ancora non mi rendo conto di
ciò che mi sta accadendo e Voi mi interrogate
cosí...
Risero tutte. Erano giovani, belle, non riuscivano a parlare di quelle cose serissime senza
scoppiare a ridere. Ed erano risa scroscianti, fre-
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sche come le loro gote di pesca colorite dal ballo
e dalla gioia. Le parole pesanti erano ancora leggere come i loro corpi snelli, da adolescenti
affacciate sul futuro.
Nell’immensa Sala dei Banchetti la tavolata a
ferro di cavallo era stata preparata con pregiate
tele del Reno e, benché fossero presenti davvero
moltissime persone, si poteva considerare di star
partecipando ad un pranzo riservato agli amici
stretti dei Marchesi di Mantova. Camerieri, valletti, sescalchi, musici, giocolieri e bambini
andavano e venivano in una grandiosa confusione di suoni e di odori, mentre il chiacchierio e le
risate, incessanti, dominavano su tutto.
Ippolita non riusciva a capire se si sentiva più
felice o più confusa.
Di certo era felice, di quella felicità assoluta
e appagante che i suoi quattordici anni ancora
non le consentivano di valutare appieno: il giorno prima era stato il suo gran giorno, uno dei
pochi nella vita in cui il Fato consente di sentirsi al culmine, ti dà la sensazione di allungare
una mano e poter cogliere tutto ciò che vuoi,
senza sforzi, con semplicità, anzi, con un sorriso che ti rende bella e fa sorridere anche gli altri
attorno a te.
Di certo Ippolita era anche bella. Per il banchetto aveva voluto indossare lo stesso abito,
bianco ed azzurro – l’azzurro degli Sforza – che
aveva sfoggiato il giorno prima, davanti al
Pontefice. Bionda, bianchissima di pelle, gli
occhi celesti attenuati nella freddezza da un’ombra di grigio che li rendeva interessanti e pensosi, i capelli rialzati a mostrare un collo da cigno
magro e candido, aveva recitato un’orazione latina scritta da lei e che Messer Baldo, grammatico
e suo precettore, aveva solo voluto rileggere e
perfezionare in due piccoli punti. La sua voce e
la sua cadenza nel declamare erano state perfette.
Ippolita aveva letto l’ammirazione negli occhi
della madre, accanto a lei, ed il rispetto in quelli
di tutti i presenti.
La vicinanza di tanta parte della sua famiglia,
di persone a lei care, compreso il suo fratellino
Ascanio che aveva solo quattro anni, le aveva
dato coraggio e non si era emozionata. Al contrario, si era sentita forte, fortissima, e poi, dopo,
rientrata nella sua dimora mantovana, cosí normalmente euforica e ragazzina da giocare con le
sorelle alla palla piccola e ad intrecciare ghirlande di fiori.
Il Papa, Pio II, l’aveva guardata con benevolenza fin dal momento in cui era entrato in
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Mantova, Palazzo dei Gonzaga, estate del 1459
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Mantova, da Porta Pradella, in gran pompa, su
un baldacchino, scortato da ben quindici
Cardinali. L’aveva vista sul sagrato del Duomo,
assieme ai fratelli, lei alta e snella, che teneva
Ascanio per la mano, con vicino sua madre
Bianca Maria Visconti Sforza, valorosa e forte
eppure materna, circondata da fanciulli estatici.
Il quadretto familiare ed il sole che giocava tra
i capelli biondi del gruppo avevano attirato la
sua attenzione, tanto che il giorno dopo, ricevendoli a Palazzo, li aveva salutati calorosamente paragonandoli ad “angeli mandati dal
Cielo”.
Dopo essersi complimentato per l’orazione,
Papa Pio II aveva preso entrambe le mani di
Ippolita e vi aveva lasciato cadere uno zaffiro
grosso, bellissimo, che adesso lei portava al collo
e che per giorni e giorni non si sarebbe più tolta.
Poi due inservienti avevano recato altri doni del
Pontefice per lei, tovaglie finissime da corredo e
un grande vaso moresco, prezioso, pieno di
muschio e di altre erbe odorose... Anche adesso,
pur nel frastuono del banchetto, Ippolita poteva
risentirne la fragranza.
Erano stati momenti indimenticabili. Sua
madre aveva annunciato che i primi trecento fanti
per la Crociata che Sua Santità voleva organizzare contro il Turco sarebbero arrivati da Milano e
che probabilmente li avrebbe guidati proprio suo
marito Francesco Sforza.
Era stato allora che il Pontefice aveva detto
che quella madre e quei fanciulli biondi che
aveva davanti erano angeli mandati dal Cielo.
Angeli. Non era la prima volta che Ippolita in
quegli anni, con la sua bellezza fine, bianca e
bionda, veniva paragonata ad un angelo. E del
resto a lei anche il Papa era sembrato una creatura più celeste che terrena, cosí piccolo di statura
da non essere imponente neppure sulla Sedia
Pontificale, con quelle spalle spioventi che quasi
scomparivano sotto il mantello di porpora e d’oro
e quelle mani piccole, bianche, con le dita lunghe, da letterato...
Chiuse gli occhi e un odore intenso di carni
arrostite arrivò alle sue narici. File di valletti stavano portando, su enormi piatti ovali d’argento
cesellato, lunghissimi spiedini di tordi e pernici.
Con un sospiro, Ippolita riaprí gli occhi e,
forse per la prima volta quel giorno, osservò i
commensali. Di fronte a lei c’erano sua madre,
che vestiva semplicemente d’azzurro e sedeva
accanto a Barbara Gonzaga, e il Marchese
Ludovico Gonzaga. Di fianco aveva Drusiana.
Le sorrise e la sorella rispose al suo sorriso.
Più piccola di lei, come del resto anche sua
madre, Drusiana a ventidue anni conservava un
aspetto da adolescente e un corpo minuto ed
aggraziato. Quel giorno aveva raccolto i capelli
biondo scuro, alla moda milanese, in una cuffietta piccola, annodata sotto il mento.
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Ippolita sorrise ancora e le allentò i legacci
dell’acconciatura, i “bindelli”, come li chiamava
sua madre. Non amava quelle cuffiette, ma
Bianca Maria ne aveva fatto una vera e propria
divisa delle giovani fanciulle a Corte, commissionandone centinaia ai sarti sforzeschi. Lei stessa le indossava quasi tutti i giorni, alternandole
con certe retine fatte di filo d’oro o di pizzo.
– Sei molto bella, Ippolita... – le sussurrò
Drusiana all’orecchio, perché il rumore, all’ingresso di ogni nuova portata di selvaggina, si
faceva assordante e diventava difficile parlare. –
Detesterò il giorno in cui dovrò darti del Voi.
– Che sciocchezze, Drusiana! – rise ippolita. –
Tu non mi darai mai del Voi!
Un sorriso triste guizzò negli occhi verdi dell’altra.
– Sei una perfetta principessa. Ed io ti voglio
bene, ma ti perderò.
– Come sei allegra, sorella! Perché questi pensieri tristi, proprio oggi, qui?!
– Non lo so. Forse perché guardo Dorotea.
Dorotea Gonzaga sedeva qualche posto più in
là, vicino alle sorelle maggiori. Era giovane, una
bambina di dieci anni molto magra, gracile quasi,
e tutti quei gioielli e quei pendenti, inadatti alla
sua età, accentuavano la fisionomia ossuta.
– Le hanno fatto mettere addosso tutte le gioie
più belle. Ma sono le uniche cose che brillano in
lei: guardale gli occhi.
In effetti, gli occhi di Dorotea – Dea per i
familiari – forse il particolare più bello di un viso
piccolo divorato dal grande naso aquilino ereditato dal padre, il Marchese Ludovico, erano
senza espressione. Due gemme verdi senza luce.
– Galeazzo doveva venire. Doveva essere qui
a tutti i costi. Anche se per lui raggiungerci da
Firenze, scortando il Papa da là fino a Mantova,
era un punto d’orgoglio: non brigate femminili,
non carrette, ma la dimostrazione che, a quindici
anni, il Conte di Pavia è del tutto indipendente,
con la sua Corte ed i suoi gentiluomini.
– Non credo abbia bisogno di queste dimostrazioni d’indipendenza. A Milano tutti sanno
che tiene casa in una parte separata dell’Arengo,
bada benissimo a se stesso, alla sua corte... e alla
dolce Lucrezia.
Con un gesto istintivo, Ippolita chiuse la bocca a Drusiana.
– Stai diventando una vecchia comare!
– Purché la notizia non giunga alle orecchie di
Dorotea... È solo una bimba seduta al tavolo dei
grandi. Ha già visto sua sorella Susanna ammalarsi e venire “rifiutata sdegnosamente” dall’ambizioso figlio di Francesco Sforza.
Ippolita scosse il capo. Suo fratello Galeazzo,
che era un giovane prestante, con un viso non
banale, stava dimostrando di aver ereditato dal
padre non solo gli occhi magnetici, ma anche la
propensione per le belle dame. E Lucrezia
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Landriani, la splendida moglie del fidato
Antonio, giovanissima d’età ma già sensuale nel
corpo e nei modi, lo aveva acceso di passione da
almeno un anno. Cosa che mai avrebbe potuto
fare, evidentemente, la povera Dorotea, che lo
conosceva attraverso Susanna da quando era in
fasce e con la quale era in corso una vaga storia
di sponsalie promesse e mai ufficialmente confermate.
– Mio fratello non è generoso – replicò
Ippolita dopo un breve silenzio. – Oggi ha preferito le cacce a Marmirolo con i suoi amici milanesi. La mamma gli imporrà di venire domani: e
da domani dovrà essere presente, per un paio di
settimane almeno...
Bianca Maria proprio in quel momento era
scoppiata in una risata argentina.
Ippolita la guardò. Stava parlando con
Barbara di Brandeburgo, la moglie di Ludovico
Gonzaga. Per un attimo pensò a quanto in realtà le due donne, che erano grandissime amiche,
seppure diverse fisicamente si somigliassero
nel destino. Entrambe figlie di principi, erano
orgogliose e materne, circondate da una nidiata
di figli. Solo che Bianca Maria era giovane:
aveva solo qualche anno più di trenta e una
pelle ancora tesa, compatta, morbida, come
quel burro che, golosa, amava spalmare su certe
focaccine calde che i cuochi le preparavano di
Quaresima.
Ippolita realizzò che in quel momento sua
madre sembrava una ragazza. La nascita recente
del suo ultimo fratellino, Ottaviano, l’aveva un
po’ appesantita e del resto non era un mistero
quanto amasse la buona tavola.
– Ippolita, non stai mangiando nulla.
Il rimprovero era più che mai pertinente con i
suoi pensieri. Ippolita rise.
– Non ho molta fame, Madre...
– La nostra Ippolita sta ancora sognando dopo
la splendida esibizione di ieri! – intervenne il
Marchese Ludovico. La voce un po’ afona contrastava con la sua figura possente. Aveva anelli
d’oro quasi su ogni dito delle mani ed uno era un
balasso piano enorme, arricchito da diamanti,
perfettamente in tinta con la tonaca purpurea che
indossava. – E poi mi pare che la selvaggina non
sia mai stata il Vostro piatto prediletto, vero?
Ippolita annuí e rincorse le immagini che stavano passando davanti agli occhi della sua
mente: un’allegra compagnia di dame sul lago, le
peschiere e i larghi cappelli di paglia per proteggersi dal sole d’agosto.
– Preferisco i Vostri squisiti carpioni. E le tinche e le carpe del Garda, come le sanno preparare i cuochi mantovani.
– Ricordi l’altr’anno, quando hai scritto a
tuo padre che avevi fatto una caccia scarsa perché le lepri correvano troppo? – scherzò Bianca
Maria.
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