prof. raffaele cavalluzzi

Transcript

prof. raffaele cavalluzzi

X
edizione
de
I
Colloqui
Fiorentini
–
Nihil
Alienum
Alessandro
Manzoni
“Sentir,
riprese,
e
meditar”
Intervista
Raffaele
Cavalluzzi1
Valerio
Capasa:
«Sentir
e
meditar»
può
sintetizzare
l’approccio
di
Manzoni
alla
realtà
sotto
il
vigile
sostegno
della
ragione.
Proviamo
a
leggere
la
produzione
manzoniana
a
partire
da
queste
due
categorie.
Raffaele
Cavalluzzi:
A
partire
da
questo
pezzo
dell’ode
A
Carlo
Imbonati,
la
prima
cosa
che
viene
da
dire
è
il
rapporto
che
si
istituisce
nella
vicenda
di
Manzoni
tra
ragione
e
sentimento,
perché
«meditar»
e
«sentir»
si
riferiscono
a
queste
categorie.
E
questo
ci
porta
subito
nel
cuore
del
problema
storico
di
Manzoni,
della
sua
collocazione
storica:
Manzoni
ha
una
formazione
all’origine
anche
sostanzialmente
religiosa,
visti
gli
studi
adolescenziali,
pregiovanili,
l’ambiente
in
cui
vive,
ma
che
si
volge
quasi
subito,
nella
prima
giovinezza,
sulla
scia
della
vicenda
familiare,
del
trasferimento
della
madre
a
Parigi,
sicuramente
verso
un
interesse
per
la
effervescente
e
suggestiva
vicenda
culturale
dell’illuminismo,
sia
pure
dell’ultima
fase.
È
noto
a
tutti
come
questo
passaggio,
ancorché
importante,
verso
l’illuminismo,
fornisce
a
Manzoni
una
forma
mentis
che,
lungi
dall’essere
smentita
dall’evoluzione
della
sua
vicenda
intellettuale
e
spirituale,
è
confermata
e
convive
però
con
un’altra
dimensione,
che
possiamo
chiamare
sentimento.
In
qualche
modo,
se
andiamo
perfino
alla
schematizzazione
razionalismo
illuministico/sentimento
romantico,
in
realtà
Manzoni
sta
a
cavallo
tra
tutte
e
due
queste
dimensioni
e
le
mette
in
combinazione,
per
cui
l’istanza
di
conoscenza
è
della
realtà:
che
avvenga
sempre
sotto
il
vigile
sostegno
della
ragione,
e
questa
ragione
sicuramente
resta
uno
strumento,
un
metodo
di
conoscenza,
ma
l’istanza
della
conoscenza
è
l’istanza
di
conoscenza
della
realtà.
Che
vuol
dire
«realtà»?
Secondo
il
mio
parere,
non
è
l’ideologia,
è
la
non
ideologia
rispetto
allo
schema
illuministico:
cioè
la
scoperta,
magari
anche
sull’onda
del
romanticismo,
sulla
base
della
sua
sensibilità
religiosa,
che
la
realtà
è
molto
più
complessa
di
quanto
lo
schema
illuministico,
l’ottimismo
illuministico,
il
lume
illuministico
sembrava
credere.
La
realtà
è
fatta,
usando
un
termine
moderno,
non
come
un’autostrada
che
si
apre
davanti
alla
mente
dell’uomo,
così
come
voltairrianamente
si
poteva
immaginare,
ma
è
un
terreno
accidentato,
fatto
di
anfratti,
di
combinazioni
e
di
oscurità,
di
complicazioni:
la
realtà
per
la
quale
più
avverte
tale
complessità
–
il
cuore,
il
sentimento
–
non
è
quella
così
lineare,
così
luminosa,
già
risolta
a
priori
nell’indagine
di
tipo
scientistico‐immanente
dell’illuminismo.
Perciò
questi
due
elementi
si
combinano
molto
strettamente,
in
tutta
la
vicenda,
la
crescita
della
vicenda
di
Manzoni.
Capasa:
Su
questo
sarebbe
interessante
rintracciare
degli
esempi
testuali
nelle
tragedie,
nel
romanzo.
Cavalluzzi:
Qualsiasi
opera
di
Manzoni
è
leggibile
attraverso
questo
filtro,
questi
due
elementi
di
combinazione.
Prendiamo
tre
esempi
molto
rapidamente,
che
sono
punti
alti
della
sua
vicenda
intellettuale,
cioè
le
tragedie,
I
promessi
sposi
e
un’opera
storica
come
la
Storia
della
colonna
infame.
Adelchi
non
è
un
caso
che
sia
sostenuta
da
un
intenso
studio
scientifico
dei
fondamenti
storici
della
vicenda
di
Adelchi,
accompagnata
dal
discorso
Sopra
alcuni
punti
della
storia
longobardica
in
Italia:
una
compulsazione
delle
fonti,
un’organizzazione
del
discorso
mentale
che
–
nonostante
quello
che
ha
potuto
pensare
la
critica
crociana
sul
presunto
moralismo
di
Manzoni
come
elemento
soffocatore
della
capacità
di
analisi
scientifica
delle
fonti,
dei
documenti,
della
storia,
della
realtà
della
storia
–
dimostra
come
Manzoni
invece
sia
uno
studioso
molto
acuto,
1
Raffaele
Cavalluzzi
è
professore
ordinario
di
Letteratura
italiana
presso
l’Università
di
Bari.
E’
intervistato
dal
Prof.
Valerio
Capasa.
molto
attento,
che
si
riferisce
a
mille
anni
prima,
va
a
riprendere
tutti
gli
elementi
e
li
pone
su
un
terreno
scientifico.
Non
gli
fa
velo,
rispetto
al
suo
punto
di
vista
che
è
sicuramente
dalla
parte
dei
vinti
–
in
questo
caso
dei
longobardi,
e
di
Adelchi
ed
Ermengarda,
che
sono
vinti
emblematici
della
storia
dei
longobardi
–
la
sua
tendenziale
esigenza
di
difendere
anche
le
responsabilità
che
cadono
sul
papato
di
quel
tempo
di
aver
chiamato
l’imperatore
Carlo
Magno
perché
questi
longobardi
tendevano
a
soffocare,
a
invadere,
a
cancellare
quel
diritto
al
potere
temporale
che
era,
per
la
Chiesa
del
tempo
e
anche
per
tutti
i
tempi
del
potere
temporale
della
Chiesa,
una
garanzia
che
la
Chiesa
chiedeva
alla
sua
autonomia,
alla
sua
indipendenza
dal
potere
politico,
perché
il
suo
messaggio
non
poteva
essere
se
non
coperto
da
una
corazza
di
potere
temporale.
Questo
dice
Manzoni:
però,
anche
la
ragione
data
storicamente
al
papato
non
significa
che
la
Chiesa
in
quel
momento
non
desse
al
suo
difensore,
all’imperatore
Carlo,
uno
spazio
fatto
di
guerra,
di
atrocità,
di
invasioni,
di
tradimenti.
Carlo
Magno
moralmente
è
l’incarnazione
di
un
principe
machiavelliano,
non
è
un
galantuomo,
dal
momento
in
cui
caccia
per
motivi
ereditari
Ermengarda
e
poi
tende
per
suo
interesse
ad
allargare
il
suo
potere.
La
ragione
storica,
proiettata
anche
nella
modernità,
dei
vincitori
rispetto
ai
vinti
non
cambia
la
natura
umana
della
questione,
in
quanto
i
vinti
sono
vinti
e
quindi
soffrono
il
male
che
viene
provocato
dalla
storia
politica
e
dalla
politica.
C’è
una
combinazione,
quindi,
di
un
metodo
di
razionalità
e
della
scoperta
del
dolore
umano
che
è
a
fondamento
della
tragicità
della
storia.
Quando
si
parla
del
«gran
segreto»,
allude
al
mistero:
Gran
segreto
è
la
vita;
e
nol
comprende
Che
l’ora
estrema.
Ti
fu
tolto
un
regno:
Deh!
nol
pianger;
me
’l
credi.
Allor
che
a
questa
Ora
ti
stesso
appresserai,
giocondi
Si
schiereranno
al
tuo
pensier
dinanzi
Gli
anni
in
cui
re
non
sarai
stato,
in
cui
Né
una
lagrima
pur
notata
in
cielo
Fia
contra
te,
né
il
nome
tuo
saravvi
Con
l’imprecar
dei
tribolati
asceso.
Godi
che
re
non
sei
[...].
Quando
non
avrai
più
potere:
viene
avanti
un
Manzoni
perfino
anarchico:
è
il
potere
che
inquina,
il
potere
contamina,
il
potere
è
portatore
del
male,
e
le
due
strade
per
l’uomo
sono
o
avere
il
potere
e
produrre
il
male,
produrre
la
sofferenza,
il
pianto,
oppure
soffrire
il
potere,
ed
è
chiaro
da
che
parte
sta
Manzoni,
pur
avendo
mentalmente
costruito
un
sistema
e
fatto
le
differenze,
in
una
vicenda
in
cui
il
papato
viene
coinvolto
in
un
senso
moralmente
negativo.
Nei
Promessi
sposi,
in
tutta
la
vicenda
della
peste,
la
ricostruzione
delle
cause
e
dello
sviluppo
della
peste,
Manzoni
sta
sicuramente,
nella
divisione
che
spesso
noi
facciamo
(anche
se
poi
non
è
così)
dei
buoni
e
dei
cattivi,
dalla
parte
dei
buoni,
evidentemente,
e
uno
dei
buoni
sicuramente
è
un
santo,
Federigo
Borromeo,
e
questo
lui
lo
sente.
Sente
questa
suggestione
misteriosa
attraverso
l’innominato,
che
si
converte
–
ed
è
il
punto
decisivo
della
conversione,
che
è
cominciata
molto
prima
nel
suo
stesso
sistema
di
«rigore
immorale»,
ma
pur
sempre
rigore,
che
lo
tiene
in
piedi
nell’esercizio
del
male
–
perché,
quando
sente
le
campane
e
lui
sta
lì
a
fare
l’aguzzino,
non
capisce
e
si
chiede
perché
per
quest’uomo
si
muove
tutta
questa
gente:
è
la
santità
che
lo
colpisce.
Sicuramente
sta
da
questa
parte:
però
in
tutta
la
vicenda
della
peste
spiega
che
nel
momento
decisivo
della
famosa
processione
delle
ceneri
di
san
Carlo,
che
fu
decisa
alla
fine
da
Federigo
Borromeo,
Federigo
già
sapeva,
già
intuiva
che
sarebbe
stata
un’occasione
negativa,
di
diffusione
della
peste,
ma
poi
cede
in
qualche
modo
alla
pressione
della
moltitudine,
perfino
lui.
A
proposito
di
Lucia,
ho
sottolineato
una
certa
parabola
del
suo
personaggio.
Negli
anni
del
femminismo
più
virulento,
negli
anni
Settanta,
è
stata
vista
come
l’emblema
negativo
della
femminilità
cattolica,
della
castità
che
fa
violenza
sulla
femminilità,
mentre
invece
un
personaggio
negativo,
tragico,
come
quello
della
monaca
di
Monza
era
una
sorta
di
eroina
in
qualche
misura,
è
stata
definita
in
questo
modo.
Ora,
nella
storia
della
critica
ci
sono
dei
paradossi
particolari:
già
nell’Ottocento
Lucia
è
vista
in
questa
chiave,
come
un
personaggio
troppo
edificante,
troppo
riuscito
e
risolto,
da
sempre
destinato
a
questo
trionfo
morale,
e
poi
c’è
questo
ritorno
in
modo
anche
più
violento
di
una
definizione
negativa
del
personaggio
di
Lucia
dal
punto
di
vista
sia
estetico
sia
morale
nell’epoca
del
femminismo.
Ma
in
mezzo
c’è
una
vicenda
stranissima:
un
grande
critico
laico
–
e
perfino
laicista
per
certi
aspetti
di
forte
polemica
nei
confronti
della
Chiesa
ufficiale
quantomeno,
non
del
cristianesimo
–
come
Luigi
Russo
ha
scritto
delle
cose
molto
positive
sul
personaggio
di
Lucia:
questa
purezza
popolare,
questa
semplicità
in
fondo
eroica
di
questo
personaggio
è
stata
intuita
come
un
elemento
di
forte
capacità
espressiva,
poetica
da
parte
di
Manzoni.
E
io,
prendendo
spunto
proprio
da
Russo,
ho
spiegato
come
un
aspetto
che
oggi
può
colpire
molto
anche
un
atteggiamento
femminista
maturo,
meno
ideologico,
proprio
attraverso
l’atteggiamento
di
Lucia
che
fa
voto
di
castità,
è
appunto
la
castità
delle
vergini
nella
Chiesa.
Si
parla
molto,
e
si
parla
giustamente,
proprio
a
partire
da
Manzoni,
delle
monacazioni
forzate,
di
questa
piaga
della
Chiesa,
che
per
un
certo
periodo
(anche
se
ovviamente,
dati
i
tempi,
non
ha
avuto
la
stessa
eco
mediatica)
è
stata
un
po’
come
la
questione
della
pedofilia
nei
nostri
tempi;
ma
la
monacazione
forzata
non
deve
nascondere
questa
cosa
che
è
proprio
della
Chiesa
cattolica,
della
vicenda
cattolica:
la
scelta
di
un
destino
assoluto
di
castità,
di
verginità
da
parte
di
donne
che
in
quanto
tali
effondono
l’interezza
della
loro
persona
–
se
pensiamo
alla
donna
come
capacità
di
sensibilità
particolare,
di
affettuosità,
di
sentimento
–
totalmente
nella
trascendenza
della
preghiera
e
del
sacrificio,
e
parlo
in
modo
particolare
delle
monache
di
clausura.
Questo
eroismo
radicale
non
può
non
colpire
giovani
e
meno
giovani
di
oggi,
quando
appunto
si
vuol
vedere
la
messa
in
opera
pratica
di
una
scelta
morale
che
può
sembrare
difficile
da
comprendere,
se
tu
non
entri
dentro
quella
dimensione
(e
in
questo
caso
occorrerebbe
vedere
anche
quello
maschile,
e
mi
riferisco
in
questo
caso
a
un
film
molto
bello
dal
punto
di
vista
espressivo
come
Il
grande
silenzio).
Ho
voluto
richiamare
l’attenzione
sul
personaggio
e
sulla
densità
di
significati
che
stanno
dentro
la
vicenda
di
Lucia,
che
non
è
banalmente
soltanto
questa
brava
ragazza
che
in
nome
della
sua
fede
cattolica
fa
un
voto
di
castità,
fa
un
patto
con
Dio,
Dio
la
accontenta
e
lei
è
perfino
eroica:
è
una
banalizzazione.
Capasa:
Manzoni
parla
a
suo
proposito
di
«una
modestia
guerriera».
L’ho
visto
in
classe,
quando
alcuni
dicevano:
io
in
quella
situazione
non
avrei
avuto
il
coraggio
di
Lucia,
la
notte
dell’innominato
non
avrei
avuto
il
coraggio
di
parlare
così
a
un
personaggio
del
genere.
Cavalluzzi:
Appunto,
è
proprio
quello
che
avviene.
Infine,
nella
Storia
della
colonna
infame
c’è
da
un
lato
questo
razionalismo
nella
costruzione
stringata,
quasi
una
detection
story,
in
cui
tutti
gli
indizi
vengono
messi
insieme,
tutto
viene
ricostruito
secondo
questa
razionalità,
questa
metodologia
illuministica,
questa
caparbietà,
e
al
tempo
stesso
gli
elementi
di
suggestione
della
vicenda
terribile,
tanto
terribile
che
si
misura
negli
uomini,
nel
cuore
degli
uomini,
laddove
possono
crescere
le
passioni
positive
ma
anche
quelle
negative,
e
può
essere
passione
negativa
perfino
quella
di
dover
giudicare:
di
un
giudice,
se
non
si
attiene
non
a
un
sistema
soltanto
esterno
di
leggi
e
di
consuetudini,
ma
se
non
si
attiene
a
questo
impulso
interiore
di
giustizia,
come
appunto
non
si
attennero
a
questo
i
giudici
che
condannarono
per
un
pregiudizio
e
soprattutto
per
la
spinta
dell’opinione
pubblica
degli
innocenti,
anzi
costruirono,
aiutarono
a
costruire
delle
prove
false,
false
confessione
sotto
tortura.
A
proposito
della
tortura,
c’è
il
problema
del
rapporto
con
Verri.
C’erano
state
delle
grandi
opere,
due
fondamentalmente,
sulla
riforma
del
sistema
giudiziario,
del
sistema
delle
leggi,
una
di
Beccaria
contro
la
pena
di
morte
e
l’altra
di
Verri
sulla
tortura:
due
aberrazioni
che
venivano
dai
secoli
bui
della
storia,
e
non
mi
riferisco
soltanto
alla
storia
del
medioevo,
perché
da
sempre
la
condanna
a
morte
e
la
tortura
erano
delle
aberrazioni
dell’umanità.
Pietro
Verri
aveva
scritto
benissimo
contro
queste
aberrazioni
dal
punto
di
vista
morale,
partendo
anche
da
questo
processo
ingiusto,
di
malagiustizia,
del
Seicento,
del
1630.
C’era
bisogno
di
scrivere
un’altra
opera
sul
processo,
sulla
tortura,
se
Verri
aveva
già
aveva
innalzato
questa
bandiera?
Perché
Manzoni
scrive?
C’è
una
ragione
anche
pratica,
perché
deve
legarlo
anche
alla
storia
della
peste,
degli
untori,
e
nel
romanzo
promette
che
l’avrebbe
scritto.
Ma
non
è
soltanto
questa
ragione
pratica
che
lo
porta
a
scrivere
autonomamente
la
Storia
della
colonna
infame:
è
anche
perché
in
fondo
si
vuole
misurare
con
Verri.
Il
rispetto,
la
stima,
perfino
l’affetto
che
lo
legano
a
questo
intellettuale
della
generazione
precedente
–
anche
motivi
familiari
–
non
nascondono
che
in
realtà
vuole
sostanzialmente
duellare
con
il
punto
di
vista
fondamentale
di
Verri.
Qual
è
il
punto
di
vista
di
Verri,
il
punto
di
vista
degli
illuministi,
quegli
illuministi
da
cui
lui
ha
preso
il
metodo
ma
che
non
accetta
più
nelle
conclusioni?
L’idea
che
la
tortura
fosse
un’aberrazione
e
che,
una
volta
abolita
la
tortura,
si
sarebbe
liberata
una
gran
parte
dell’ingiustizia
che
gravava
sul
sistema
della
giustizia
da
secoli:
quella
era
la
barbarie,
la
guerra
contro
la
barbarie
era
la
guerra
degli
illuministi.
E
Manzoni
dice
che
questo
è
vero,
però
è
soltanto
in
parte
vero,
non
risolve
radicalmente
il
problema:
non
risolve
il
problema
perché
lui
dimostra
che
il
mistero
del
male
e
del
bene
è
dentro
l’uomo,
e
la
decisione
del
male
e
del
bene
è
dentro
l’uomo.
Quindi
potevano
anche
esserci
delle
leggi
che
in
quel
momento
garantivano
la
tortura,
ma
non
per
questo
i
giudici
fecero
bene:
non
nell’usare
la
tortura,
ma
nell’usarla
ai
fini
di
avere
una
verità
che
non
era
una
verità;
non
era
tanto
il
dolore
della
tortura,
la
disumanità
della
tortura,
ma
la
disumanità
della
tortura
messa
al
servizio
di
questo
progetto
nefando
di
colpire
degli
innocenti.
Questo
perché,
insomma,
per
Manzoni
la
rivoluzione
(che
già
c’era
stata
nel
frattempo),
il
cambiamento
di
tutte
le
leggi,
di
tutto
il
sistema
delle
leggi,
non
risolve
il
problema
del
conflitto
fra
il
bene
e
il
male,
perché
questo
conflitto,
come
ha
detto
già
nell’Adelchi,
è
un
«gran
segreto»,
il
conflitto
è
un
mistero,
dostoevskijanamente
–
qui
chiamo
in
causa
un
passaggio
di
Pareyson,
un
filosofo
torinese
che
ha
scritto
una
monografia
importante
su
Dostoevskij
–,
è
l’elemento
tragico
insito
nella
storia,
insito
nel
potere.
Manzoni
ha
assimilato
la
tecnica
della
ragione,
la
necessità
di
far
chiarezza,
di
arrivare
alla
verità,
ma
attraverso
la
storia
(come
diceva
Leone
de
Castris,
tutte
le
sue
opere
sono
opere
di
sperimentazione
sulla
verità
attraverso
la
poesia,
ma
la
verità
storica
attraverso
la
poesia),
e
la
verità
storica
non
contrasta
con
la
verità
metafisica
nel
discorso
di
Manzoni,
perché
sono
contenute
dentro
questa
dimensione
che
è
appunto
il
mistero.
Questa
è
la
tragicità
del
romanzo,
nonostante
tutti
si
riferiscano
al
lieto
fine
dei
Promessi
sposi
(ma
il
lieto
fine
è
la
realtà:
la
realtà
di
quella
storia
andò
in
quel
determinato
modo).
La
Provvidenza
non
è
un
burattinaio,
è
l’insieme
dei
processi
del
bene
e
del
male,
che
stringono
insieme
il
bene
e
il
male,
la
sofferenza
e
la
gioia,
l’ottimismo
e
anche
le
cadute
dell’uomo.
Capasa:
Come
dice
Lucia
alla
fine,
la
Provvidenza
si
scopre
di
fronte
ai
guai,
che
vengono
anche
se
tu
non
te
li
cerchi.
Un’altra
grande
parola
è
«verità»,
che
è
l’oggetto
della
conoscenza.
La
tensione
alla
verità
nella
storia
in
Manzoni
si
può
esemplificare
ulteriormente.
Non
è
un
problema
di
idee,
illuministicamente
parlando,
come
se
di
idea
in
idea
arrivassi
alla
scoperta
analitica
della
verità;
qui
la
verità
non
è
semplicemente
quella
delle
idee.
Cavalluzzi:
È
esattamente
così,
è
la
verità
della
storia,
e
la
storia
è
contraddittoria,
è
contraddizione,
è
tragica,
aporetica,
quindi
è
una
verità
aporetica,
non
è
una
verità
dogmatica.
Manzoni
quasi
mai
chiama
in
causa
dei
dogmi:
non
mette
in
dubbio
che
i
dogmi
possano
essere
a
fondamento
della
sua
fede,
però
non
li
chiama
in
causa
nella
spiegazione
delle
cose.
Possono
convivere
anche
la
fede,
la
fiducia
nei
dogmi
e
nell’insegnamento
della
Chiesa,
ma
storicamente
non
si
impedisce
mai
di
entrare
nel
merito
delle
cose.
Magari
in
questo
lui
stesso
è
contraddittorio,
ma
non
stiamo
parlando
di
una
persona
perfetta.
Capasa:
Di
solito,
quando
si
legge
il
romanzo
in
classe,
uno
studente
è
interessato
alla
trama,
e
anche
l’insegnante
interroga
quasi
sempre
con
domande
di
conoscenza
del
capitolo,
o
sullo
svolgimento
della
storia
di
un
personaggio.
Questa
tensione
alla
verità,
queste
grandi
parole
–
vero,
provvidenza,
giustizia
–
è
come
se
poi
venissero
calate
dall’alto
(«parliamo
della
provvidenza
in
Manzoni»),
e
rimane
questa
scissione:
da
un
lato
si
racconta
la
storiella
di
questi
due
sfortunati
che
poi
alla
fine
si
ricongiungono,
ma
normalmente
un
ragazzo
questa
tensione
alla
verità,
alla
libertà,
al
problema
della
storia,
della
provvidenza,
del
male,
non
la
nota.
Come
ci
si
può
aiutare
a
intravedere
queste
grandi
parole
nella
lettura
del
romanzo?
Cavalluzzi:
Secondo
me
è
difficile,
ma
bisogna
cercare
di
trovarle
nella
scrittura
di
Manzoni.
Manzoni
racconta
le
cose,
però
è
come
una
voce
fuoricampo
che
racconta,
ed
è
in
questa
voce
fuoricampo,
è
in
lui
che
vivono
tutti
questi
elementi,
che
batte
il
suo
tempo
per
esempio
la
Provvidenza.
La
Provvidenza
non
sta
nello
sviluppo
della
vicenda
oggettivamente
presa,
ma
nel
punto
di
vista,
nella
voce,
e
quindi
nella
capacità
di
tradurre
nella
scrittura
letteraria
questa
voce
(che
talvolta
è
fredda
analisi,
talaltra
è
calda
analisi,
talvolta
è
partecipazione
ironica,
talaltra
è
partecipazione
patetica
alle
vicende,
ma
sempre
si
rileva
continuamente).
E
non
può
essere
diversamente:
tante
volte
si
è
parlato
del
romanzo
manzoniano
come
prototipo
della
tradizione
del
romanzo
presunto
oggettivo
contro
il
romanzo
moderno,
ma
non
si
tiene
conto
di
questa
voce
fuoricampo,
che
è
la
sua
sicuramente,
se
teniamo
in
considerazione
l’impianto
dei
Promessi
sposi,
con
tutta
l’introduzione
e
la
storia
dello
scartafaccio,
dove
già
c’è
un
modo
moderno
di
raccontare
di
Manzoni.
Non
il
Manzoni
soltanto
presunta
divinità
che
sa
tutto,
onnicomprensiva,
che
quindi
guida,
muove
e
si
sostituisce
al
burattinaio
Dio,
ma
lo
scrittore
dotato
di
un
suo
pathos
con
cui
ricostruisce
e
si
convince
lui
stesso
della
bontà
di
quella
sua
ricostruzione,
e
comunica
agli
altri
attraverso
quella
stessa
sua
scrittura.
Se
prendiamo
un
pezzo
famosissimo
e
importante
come
quello
della
madre
di
Cecilia,
lì
non
c’è
nessuna
presunta
oggettività,
ma
tutta
una
partecipazione
che
è
data
dalla
poeticità:
quell’elemento
tragico
della
storia
lo
solleva
a
poesia,
a
partecipazione
intensa
di
sé
agli
eventi
degli
altri
che
in
qualche
modo
da
lui
sono
stati
inventati
o
reinventati.
Bisogna
riuscire
a
far
sentire
proprio
la
voce
di
Manzoni
dentro
il
racconto.
Conosco
il
problema,
l’ho
intuito,
perché
quando
ho
studiato
I
promessi
sposi
la
prima
volta,
il
professore
me
l’ha
letto
tutto
dalla
prima
all’ultima
pagina,
leggeva
tutto
e
commentava
tutto.
Tutto
il
quinto
ginnasio
l’abbiamo
passato
a
leggere
I
promessi
sposi,
anzi
a
sentire
la
voce
del
professore
che
leggeva:
eppure
non
era
dotato
di
grandi
capacità
retoriche
il
lettore,
il
professore,
ma
aveva
capito
questa
cosa.
Capasa:
Cioè
dialogava
con
le
ragioni
di
Manzoni.
Cavalluzzi:
Attraverso
la
scrittura
di
Manzoni.
E
lì
ritrovavi
la
provvidenza
o
il
senso
della
libertà:
tutta
la
storia
di
Renzo,
tutte
le
vicende
della
prima
sommossa,
degli
scontri
a
Milano,
della
peste,
tutta
quella
storia
che
è
vista
in
soggettiva
da
Renzo,
da
Manzoni
attraverso
Renzo
e
non
con
una
presunta
oggettività
naturalistica.
Niente
è
naturalistico
in
Manzoni:
non
solo
perché
sta
prima
del
naturalismo,
ma
perché
già
lo
trascende
e
va
verso
la
scrittura
del
romanzo
moderno.
Non
a
caso
ci
sono
grandi
scrittori
moderni,
anche
di
ben
altro
orientamento
ideologico,
come
Moravia
o
Gadda,
che
in
Manzoni
hanno
sempre
visto
un
riferimento
assoluto.
Capasa:
Grazie.
Ci
sono
moltissime
osservazioni
che
aprono
il
lavoro
sul
campo,
sul
testo.
Bari,
19
luglio
2010
(appunti
non
rivisti
dall’autore)