prof. raffaele cavalluzzi
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prof. raffaele cavalluzzi
X edizione de I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum Alessandro Manzoni “Sentir, riprese, e meditar” Intervista Raffaele Cavalluzzi1 Valerio Capasa: «Sentir e meditar» può sintetizzare l’approccio di Manzoni alla realtà sotto il vigile sostegno della ragione. Proviamo a leggere la produzione manzoniana a partire da queste due categorie. Raffaele Cavalluzzi: A partire da questo pezzo dell’ode A Carlo Imbonati, la prima cosa che viene da dire è il rapporto che si istituisce nella vicenda di Manzoni tra ragione e sentimento, perché «meditar» e «sentir» si riferiscono a queste categorie. E questo ci porta subito nel cuore del problema storico di Manzoni, della sua collocazione storica: Manzoni ha una formazione all’origine anche sostanzialmente religiosa, visti gli studi adolescenziali, pregiovanili, l’ambiente in cui vive, ma che si volge quasi subito, nella prima giovinezza, sulla scia della vicenda familiare, del trasferimento della madre a Parigi, sicuramente verso un interesse per la effervescente e suggestiva vicenda culturale dell’illuminismo, sia pure dell’ultima fase. È noto a tutti come questo passaggio, ancorché importante, verso l’illuminismo, fornisce a Manzoni una forma mentis che, lungi dall’essere smentita dall’evoluzione della sua vicenda intellettuale e spirituale, è confermata e convive però con un’altra dimensione, che possiamo chiamare sentimento. In qualche modo, se andiamo perfino alla schematizzazione razionalismo illuministico/sentimento romantico, in realtà Manzoni sta a cavallo tra tutte e due queste dimensioni e le mette in combinazione, per cui l’istanza di conoscenza è della realtà: che avvenga sempre sotto il vigile sostegno della ragione, e questa ragione sicuramente resta uno strumento, un metodo di conoscenza, ma l’istanza della conoscenza è l’istanza di conoscenza della realtà. Che vuol dire «realtà»? Secondo il mio parere, non è l’ideologia, è la non ideologia rispetto allo schema illuministico: cioè la scoperta, magari anche sull’onda del romanticismo, sulla base della sua sensibilità religiosa, che la realtà è molto più complessa di quanto lo schema illuministico, l’ottimismo illuministico, il lume illuministico sembrava credere. La realtà è fatta, usando un termine moderno, non come un’autostrada che si apre davanti alla mente dell’uomo, così come voltairrianamente si poteva immaginare, ma è un terreno accidentato, fatto di anfratti, di combinazioni e di oscurità, di complicazioni: la realtà per la quale più avverte tale complessità – il cuore, il sentimento – non è quella così lineare, così luminosa, già risolta a priori nell’indagine di tipo scientistico‐immanente dell’illuminismo. Perciò questi due elementi si combinano molto strettamente, in tutta la vicenda, la crescita della vicenda di Manzoni. Capasa: Su questo sarebbe interessante rintracciare degli esempi testuali nelle tragedie, nel romanzo. Cavalluzzi: Qualsiasi opera di Manzoni è leggibile attraverso questo filtro, questi due elementi di combinazione. Prendiamo tre esempi molto rapidamente, che sono punti alti della sua vicenda intellettuale, cioè le tragedie, I promessi sposi e un’opera storica come la Storia della colonna infame. Adelchi non è un caso che sia sostenuta da un intenso studio scientifico dei fondamenti storici della vicenda di Adelchi, accompagnata dal discorso Sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia: una compulsazione delle fonti, un’organizzazione del discorso mentale che – nonostante quello che ha potuto pensare la critica crociana sul presunto moralismo di Manzoni come elemento soffocatore della capacità di analisi scientifica delle fonti, dei documenti, della storia, della realtà della storia – dimostra come Manzoni invece sia uno studioso molto acuto, 1 Raffaele Cavalluzzi è professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università di Bari. E’ intervistato dal Prof. Valerio Capasa. molto attento, che si riferisce a mille anni prima, va a riprendere tutti gli elementi e li pone su un terreno scientifico. Non gli fa velo, rispetto al suo punto di vista che è sicuramente dalla parte dei vinti – in questo caso dei longobardi, e di Adelchi ed Ermengarda, che sono vinti emblematici della storia dei longobardi – la sua tendenziale esigenza di difendere anche le responsabilità che cadono sul papato di quel tempo di aver chiamato l’imperatore Carlo Magno perché questi longobardi tendevano a soffocare, a invadere, a cancellare quel diritto al potere temporale che era, per la Chiesa del tempo e anche per tutti i tempi del potere temporale della Chiesa, una garanzia che la Chiesa chiedeva alla sua autonomia, alla sua indipendenza dal potere politico, perché il suo messaggio non poteva essere se non coperto da una corazza di potere temporale. Questo dice Manzoni: però, anche la ragione data storicamente al papato non significa che la Chiesa in quel momento non desse al suo difensore, all’imperatore Carlo, uno spazio fatto di guerra, di atrocità, di invasioni, di tradimenti. Carlo Magno moralmente è l’incarnazione di un principe machiavelliano, non è un galantuomo, dal momento in cui caccia per motivi ereditari Ermengarda e poi tende per suo interesse ad allargare il suo potere. La ragione storica, proiettata anche nella modernità, dei vincitori rispetto ai vinti non cambia la natura umana della questione, in quanto i vinti sono vinti e quindi soffrono il male che viene provocato dalla storia politica e dalla politica. C’è una combinazione, quindi, di un metodo di razionalità e della scoperta del dolore umano che è a fondamento della tragicità della storia. Quando si parla del «gran segreto», allude al mistero: Gran segreto è la vita; e nol comprende Che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno: Deh! nol pianger; me ’l credi. Allor che a questa Ora ti stesso appresserai, giocondi Si schiereranno al tuo pensier dinanzi Gli anni in cui re non sarai stato, in cui Né una lagrima pur notata in cielo Fia contra te, né il nome tuo saravvi Con l’imprecar dei tribolati asceso. Godi che re non sei [...]. Quando non avrai più potere: viene avanti un Manzoni perfino anarchico: è il potere che inquina, il potere contamina, il potere è portatore del male, e le due strade per l’uomo sono o avere il potere e produrre il male, produrre la sofferenza, il pianto, oppure soffrire il potere, ed è chiaro da che parte sta Manzoni, pur avendo mentalmente costruito un sistema e fatto le differenze, in una vicenda in cui il papato viene coinvolto in un senso moralmente negativo. Nei Promessi sposi, in tutta la vicenda della peste, la ricostruzione delle cause e dello sviluppo della peste, Manzoni sta sicuramente, nella divisione che spesso noi facciamo (anche se poi non è così) dei buoni e dei cattivi, dalla parte dei buoni, evidentemente, e uno dei buoni sicuramente è un santo, Federigo Borromeo, e questo lui lo sente. Sente questa suggestione misteriosa attraverso l’innominato, che si converte – ed è il punto decisivo della conversione, che è cominciata molto prima nel suo stesso sistema di «rigore immorale», ma pur sempre rigore, che lo tiene in piedi nell’esercizio del male – perché, quando sente le campane e lui sta lì a fare l’aguzzino, non capisce e si chiede perché per quest’uomo si muove tutta questa gente: è la santità che lo colpisce. Sicuramente sta da questa parte: però in tutta la vicenda della peste spiega che nel momento decisivo della famosa processione delle ceneri di san Carlo, che fu decisa alla fine da Federigo Borromeo, Federigo già sapeva, già intuiva che sarebbe stata un’occasione negativa, di diffusione della peste, ma poi cede in qualche modo alla pressione della moltitudine, perfino lui. A proposito di Lucia, ho sottolineato una certa parabola del suo personaggio. Negli anni del femminismo più virulento, negli anni Settanta, è stata vista come l’emblema negativo della femminilità cattolica, della castità che fa violenza sulla femminilità, mentre invece un personaggio negativo, tragico, come quello della monaca di Monza era una sorta di eroina in qualche misura, è stata definita in questo modo. Ora, nella storia della critica ci sono dei paradossi particolari: già nell’Ottocento Lucia è vista in questa chiave, come un personaggio troppo edificante, troppo riuscito e risolto, da sempre destinato a questo trionfo morale, e poi c’è questo ritorno in modo anche più violento di una definizione negativa del personaggio di Lucia dal punto di vista sia estetico sia morale nell’epoca del femminismo. Ma in mezzo c’è una vicenda stranissima: un grande critico laico – e perfino laicista per certi aspetti di forte polemica nei confronti della Chiesa ufficiale quantomeno, non del cristianesimo – come Luigi Russo ha scritto delle cose molto positive sul personaggio di Lucia: questa purezza popolare, questa semplicità in fondo eroica di questo personaggio è stata intuita come un elemento di forte capacità espressiva, poetica da parte di Manzoni. E io, prendendo spunto proprio da Russo, ho spiegato come un aspetto che oggi può colpire molto anche un atteggiamento femminista maturo, meno ideologico, proprio attraverso l’atteggiamento di Lucia che fa voto di castità, è appunto la castità delle vergini nella Chiesa. Si parla molto, e si parla giustamente, proprio a partire da Manzoni, delle monacazioni forzate, di questa piaga della Chiesa, che per un certo periodo (anche se ovviamente, dati i tempi, non ha avuto la stessa eco mediatica) è stata un po’ come la questione della pedofilia nei nostri tempi; ma la monacazione forzata non deve nascondere questa cosa che è proprio della Chiesa cattolica, della vicenda cattolica: la scelta di un destino assoluto di castità, di verginità da parte di donne che in quanto tali effondono l’interezza della loro persona – se pensiamo alla donna come capacità di sensibilità particolare, di affettuosità, di sentimento – totalmente nella trascendenza della preghiera e del sacrificio, e parlo in modo particolare delle monache di clausura. Questo eroismo radicale non può non colpire giovani e meno giovani di oggi, quando appunto si vuol vedere la messa in opera pratica di una scelta morale che può sembrare difficile da comprendere, se tu non entri dentro quella dimensione (e in questo caso occorrerebbe vedere anche quello maschile, e mi riferisco in questo caso a un film molto bello dal punto di vista espressivo come Il grande silenzio). Ho voluto richiamare l’attenzione sul personaggio e sulla densità di significati che stanno dentro la vicenda di Lucia, che non è banalmente soltanto questa brava ragazza che in nome della sua fede cattolica fa un voto di castità, fa un patto con Dio, Dio la accontenta e lei è perfino eroica: è una banalizzazione. Capasa: Manzoni parla a suo proposito di «una modestia guerriera». L’ho visto in classe, quando alcuni dicevano: io in quella situazione non avrei avuto il coraggio di Lucia, la notte dell’innominato non avrei avuto il coraggio di parlare così a un personaggio del genere. Cavalluzzi: Appunto, è proprio quello che avviene. Infine, nella Storia della colonna infame c’è da un lato questo razionalismo nella costruzione stringata, quasi una detection story, in cui tutti gli indizi vengono messi insieme, tutto viene ricostruito secondo questa razionalità, questa metodologia illuministica, questa caparbietà, e al tempo stesso gli elementi di suggestione della vicenda terribile, tanto terribile che si misura negli uomini, nel cuore degli uomini, laddove possono crescere le passioni positive ma anche quelle negative, e può essere passione negativa perfino quella di dover giudicare: di un giudice, se non si attiene non a un sistema soltanto esterno di leggi e di consuetudini, ma se non si attiene a questo impulso interiore di giustizia, come appunto non si attennero a questo i giudici che condannarono per un pregiudizio e soprattutto per la spinta dell’opinione pubblica degli innocenti, anzi costruirono, aiutarono a costruire delle prove false, false confessione sotto tortura. A proposito della tortura, c’è il problema del rapporto con Verri. C’erano state delle grandi opere, due fondamentalmente, sulla riforma del sistema giudiziario, del sistema delle leggi, una di Beccaria contro la pena di morte e l’altra di Verri sulla tortura: due aberrazioni che venivano dai secoli bui della storia, e non mi riferisco soltanto alla storia del medioevo, perché da sempre la condanna a morte e la tortura erano delle aberrazioni dell’umanità. Pietro Verri aveva scritto benissimo contro queste aberrazioni dal punto di vista morale, partendo anche da questo processo ingiusto, di malagiustizia, del Seicento, del 1630. C’era bisogno di scrivere un’altra opera sul processo, sulla tortura, se Verri aveva già aveva innalzato questa bandiera? Perché Manzoni scrive? C’è una ragione anche pratica, perché deve legarlo anche alla storia della peste, degli untori, e nel romanzo promette che l’avrebbe scritto. Ma non è soltanto questa ragione pratica che lo porta a scrivere autonomamente la Storia della colonna infame: è anche perché in fondo si vuole misurare con Verri. Il rispetto, la stima, perfino l’affetto che lo legano a questo intellettuale della generazione precedente – anche motivi familiari – non nascondono che in realtà vuole sostanzialmente duellare con il punto di vista fondamentale di Verri. Qual è il punto di vista di Verri, il punto di vista degli illuministi, quegli illuministi da cui lui ha preso il metodo ma che non accetta più nelle conclusioni? L’idea che la tortura fosse un’aberrazione e che, una volta abolita la tortura, si sarebbe liberata una gran parte dell’ingiustizia che gravava sul sistema della giustizia da secoli: quella era la barbarie, la guerra contro la barbarie era la guerra degli illuministi. E Manzoni dice che questo è vero, però è soltanto in parte vero, non risolve radicalmente il problema: non risolve il problema perché lui dimostra che il mistero del male e del bene è dentro l’uomo, e la decisione del male e del bene è dentro l’uomo. Quindi potevano anche esserci delle leggi che in quel momento garantivano la tortura, ma non per questo i giudici fecero bene: non nell’usare la tortura, ma nell’usarla ai fini di avere una verità che non era una verità; non era tanto il dolore della tortura, la disumanità della tortura, ma la disumanità della tortura messa al servizio di questo progetto nefando di colpire degli innocenti. Questo perché, insomma, per Manzoni la rivoluzione (che già c’era stata nel frattempo), il cambiamento di tutte le leggi, di tutto il sistema delle leggi, non risolve il problema del conflitto fra il bene e il male, perché questo conflitto, come ha detto già nell’Adelchi, è un «gran segreto», il conflitto è un mistero, dostoevskijanamente – qui chiamo in causa un passaggio di Pareyson, un filosofo torinese che ha scritto una monografia importante su Dostoevskij –, è l’elemento tragico insito nella storia, insito nel potere. Manzoni ha assimilato la tecnica della ragione, la necessità di far chiarezza, di arrivare alla verità, ma attraverso la storia (come diceva Leone de Castris, tutte le sue opere sono opere di sperimentazione sulla verità attraverso la poesia, ma la verità storica attraverso la poesia), e la verità storica non contrasta con la verità metafisica nel discorso di Manzoni, perché sono contenute dentro questa dimensione che è appunto il mistero. Questa è la tragicità del romanzo, nonostante tutti si riferiscano al lieto fine dei Promessi sposi (ma il lieto fine è la realtà: la realtà di quella storia andò in quel determinato modo). La Provvidenza non è un burattinaio, è l’insieme dei processi del bene e del male, che stringono insieme il bene e il male, la sofferenza e la gioia, l’ottimismo e anche le cadute dell’uomo. Capasa: Come dice Lucia alla fine, la Provvidenza si scopre di fronte ai guai, che vengono anche se tu non te li cerchi. Un’altra grande parola è «verità», che è l’oggetto della conoscenza. La tensione alla verità nella storia in Manzoni si può esemplificare ulteriormente. Non è un problema di idee, illuministicamente parlando, come se di idea in idea arrivassi alla scoperta analitica della verità; qui la verità non è semplicemente quella delle idee. Cavalluzzi: È esattamente così, è la verità della storia, e la storia è contraddittoria, è contraddizione, è tragica, aporetica, quindi è una verità aporetica, non è una verità dogmatica. Manzoni quasi mai chiama in causa dei dogmi: non mette in dubbio che i dogmi possano essere a fondamento della sua fede, però non li chiama in causa nella spiegazione delle cose. Possono convivere anche la fede, la fiducia nei dogmi e nell’insegnamento della Chiesa, ma storicamente non si impedisce mai di entrare nel merito delle cose. Magari in questo lui stesso è contraddittorio, ma non stiamo parlando di una persona perfetta. Capasa: Di solito, quando si legge il romanzo in classe, uno studente è interessato alla trama, e anche l’insegnante interroga quasi sempre con domande di conoscenza del capitolo, o sullo svolgimento della storia di un personaggio. Questa tensione alla verità, queste grandi parole – vero, provvidenza, giustizia – è come se poi venissero calate dall’alto («parliamo della provvidenza in Manzoni»), e rimane questa scissione: da un lato si racconta la storiella di questi due sfortunati che poi alla fine si ricongiungono, ma normalmente un ragazzo questa tensione alla verità, alla libertà, al problema della storia, della provvidenza, del male, non la nota. Come ci si può aiutare a intravedere queste grandi parole nella lettura del romanzo? Cavalluzzi: Secondo me è difficile, ma bisogna cercare di trovarle nella scrittura di Manzoni. Manzoni racconta le cose, però è come una voce fuoricampo che racconta, ed è in questa voce fuoricampo, è in lui che vivono tutti questi elementi, che batte il suo tempo per esempio la Provvidenza. La Provvidenza non sta nello sviluppo della vicenda oggettivamente presa, ma nel punto di vista, nella voce, e quindi nella capacità di tradurre nella scrittura letteraria questa voce (che talvolta è fredda analisi, talaltra è calda analisi, talvolta è partecipazione ironica, talaltra è partecipazione patetica alle vicende, ma sempre si rileva continuamente). E non può essere diversamente: tante volte si è parlato del romanzo manzoniano come prototipo della tradizione del romanzo presunto oggettivo contro il romanzo moderno, ma non si tiene conto di questa voce fuoricampo, che è la sua sicuramente, se teniamo in considerazione l’impianto dei Promessi sposi, con tutta l’introduzione e la storia dello scartafaccio, dove già c’è un modo moderno di raccontare di Manzoni. Non il Manzoni soltanto presunta divinità che sa tutto, onnicomprensiva, che quindi guida, muove e si sostituisce al burattinaio Dio, ma lo scrittore dotato di un suo pathos con cui ricostruisce e si convince lui stesso della bontà di quella sua ricostruzione, e comunica agli altri attraverso quella stessa sua scrittura. Se prendiamo un pezzo famosissimo e importante come quello della madre di Cecilia, lì non c’è nessuna presunta oggettività, ma tutta una partecipazione che è data dalla poeticità: quell’elemento tragico della storia lo solleva a poesia, a partecipazione intensa di sé agli eventi degli altri che in qualche modo da lui sono stati inventati o reinventati. Bisogna riuscire a far sentire proprio la voce di Manzoni dentro il racconto. Conosco il problema, l’ho intuito, perché quando ho studiato I promessi sposi la prima volta, il professore me l’ha letto tutto dalla prima all’ultima pagina, leggeva tutto e commentava tutto. Tutto il quinto ginnasio l’abbiamo passato a leggere I promessi sposi, anzi a sentire la voce del professore che leggeva: eppure non era dotato di grandi capacità retoriche il lettore, il professore, ma aveva capito questa cosa. Capasa: Cioè dialogava con le ragioni di Manzoni. Cavalluzzi: Attraverso la scrittura di Manzoni. E lì ritrovavi la provvidenza o il senso della libertà: tutta la storia di Renzo, tutte le vicende della prima sommossa, degli scontri a Milano, della peste, tutta quella storia che è vista in soggettiva da Renzo, da Manzoni attraverso Renzo e non con una presunta oggettività naturalistica. Niente è naturalistico in Manzoni: non solo perché sta prima del naturalismo, ma perché già lo trascende e va verso la scrittura del romanzo moderno. Non a caso ci sono grandi scrittori moderni, anche di ben altro orientamento ideologico, come Moravia o Gadda, che in Manzoni hanno sempre visto un riferimento assoluto. Capasa: Grazie. Ci sono moltissime osservazioni che aprono il lavoro sul campo, sul testo. Bari, 19 luglio 2010 (appunti non rivisti dall’autore)