La moda ha ucciso l`architettura - Consiglio nazionale degli architetti

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La moda ha ucciso l`architettura - Consiglio nazionale degli architetti
Corriere della Sera - NAZIONALE sezione: Terza Pagina - data: 2008-05-22 num: - pag: 49
categoria: REDAZIONALE
J'accuse L'antropologo Franco La Cecla: «Con Koolhaas, Gehry e Fuksas l'urbanistica
è in mutande»
La moda ha ucciso l'architettura
Gli stilisti usano le «archistar» per stupire. Non per migliorare le città
di PIERLUIGI PANZA
I
l sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi architetti e ucciso l'urbanistica. È la
sostanza della tesi che l'antropologo dell'Università San Raffaele di Milano, Franco La Cecla, dà
della situazione dell'architettura in un saggio ( Contro l'architettura, Bollati Boringhieri,
pp.118, e 12), talvolta disorganico, ma che ha la forza tipica della riflessione di uno studioso
«fuori casta» e che riecheggia il celebre Maledetti architetti
di Tom Wolf (1982).
E' vero, la moda ha fagocitato il mondo dell'architettura, ha per lo più «ridotto » gli architetti
ad artisti creatori di oggetti «alla moda», deresponsabilizzandoli nei confronti del
funzionamento della città e della società. Li ha trasformati in «creatori di trend» (come
«stilisti») al «servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace — afferma La Cecla — non ci
sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono state le marche di
moda a trasformare l'architettura in moda». Quello che gli artisti hanno trovato nel sistema
delle gallerie, dei curatori e nel mercato dell'arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e
negli stilisti. Anzi, afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente «preso il posto della
maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande». E una volta che
sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli architetti. Cancellata la
critica architettonica e del restauro (anche se siamo il Paese con il 50% dei beni culturali) i
media hanno fatto scivolare l'architettura, l'arte e il design dal «giornalismo culturale» al
«giornalismo di moda», direi dell'«intimo », con responsabilità gravi per il nostro territorio.
Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune «archistar » che finiscono
con l'occuparsi «di decoro, di cose carine», come mutande disegnate da calciatori o starlet.
Morti Tafuri e Zevi, alla critica e alla «scienza» urbana (non servirebbe una pianificazione
collegata ai problemi dell'immigrazione? La rivolta dei cinesi a Milano e la nascita di campi rom
non sarà dovuta anche a un deficit urbanistico?) si è sostituita la costruzione del consenso.
Così c'è chi, come Rem Koolhaas, che diventa «un trend setter,
qualcuno che apre nuove direzioni al marketing Prada». E c'è qualcun altro, come Frank O.
Gehry, che si affida al «brand», al salvagente della genialità: peccato che sulla sua testa
piovano accuse come quelle contenute nel libro di John Silber della Boston University dal titolo
esplicito:
Architettura dell'assurdo. Come il genio ha sfigurato la pratica di un'arte.
Ma La Cecla accusa anche la «continua presa di distanza» degli architetti dai loro progetti una
volta che questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che diventano
invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in generale, a tutta l'architettura di
quegli «apostoli che dagli anni 50 alla fine degli anni 80 hanno promosso l'idea che l'abitare
andasse risolto con grandi costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città»,
generando mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel
Foucault.
Giustamente La Cecla individua nella spostamento di termini da «casa» ad «alloggio »
l'orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha spianato la strada all'affermarsi del
sistema della moda e, di conseguenza, al decostruttivismo internazionale. L'idea tayloristica di
stoccare gli individui come ingranaggi di un sistema all'interno di alloggi razionali ha distrutto
l'orizzonte storico-simbolico dell'architettura, ovvero quello delle relazioni primarie, ad esempio
quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli architetti dovranno pur portare una
responsabilità! Naturalmente, di fronte alle accuse di La Cecla, la comunità che si
autolegittima «addetta ai lavori» già stringe le fila, cercando di depotenziare l'analisi a «logica
di gossip» (Fulvio Irace, «Il Sole 24 ore») come espressione di una generica «ostilità al
progetto».
Vero è che La Cecla riduce la complessità del Movimento Moderno e si lascia andare a una
adulazione per Renzo Piano del tutto fuori contesto, ma mette a nudo le responsabilità del
mondo dell'architettura.
Gli architetti sono rimasti in mutande a causa della loro ostinata volontà di rifondare solo
dall'interno la loro disciplina (creando università fondate per scuole stilistiche) e non dal
confronto con gli altri nuovi campi del sapere, strutturando per decenni un pensiero «unico»
di riferimento, costruendo mostruose periferie consegnandosi, poi, talvolta, alla speculazione
edilizia, tanto che le questioni in cui oggi si trovano impelagati sono «per lo più irrilevanti ».
Detto questo, non tutti i rilievi sono acriticamente accettabili: intanto bisogna essere consci
che siamo di fronte a una smaterializzazione della civiltà con una conseguente ineludibile
perdita di centralità dell'architettura. L'essere «al servizio dei potenti di turno» (gli stilisti) non
è una novità: i grandi architetti sono sempre stati al servizio dei potenti di turno. Riuscire a
ispirare un «trend» sarebbe un bene per gli architetti, se ciò non fosse fine a se stesso.
Infine, il decostruttivismo internazionale, con i suoi limiti, è una testimonianza simbolica della
società liquida, dello «stupefacente» e della trasformazione genetica e ha fornito anche
sollecitazioni e sviluppo al settore e alla società.
Ma è anche un monito sul solipsismo «stilistico» in cui si rifugia l'architettura di fronte alle
difficoltà di confrontarsi con problematiche come il protocollo di Kyoto, l'affermarsi o meno di
città multiculturali, le dinamiche della comunicazione e l'interrogarsi su cosa voglia dire
declinare il globale nel locale, magari riesplorando anche il lascito dell'architettura organica.