Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra
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Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra
Claudia Durastanti Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra Marsilio UN GIORNO VERRÒ A LANCIARE SASSI ALLA TUA FINESTRA Editor Errico Buonanno © 2010 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: aprile 2010 ISBN 978-88-317-0572 www.marsilioeditori.it Realizzazione editoriale: Silvia Voltolina And you said something You said something stupid like Love steals us from loneliness Idlewild My Generation (1978-1979) Protagonisti Jane Cormick Alexander Cormick Jonathan Cale (Francis) Dana Fogarty (Zelda) Michael Haskell Edward Hopper Ginger Korowie Frank Riley Settembre 1978 Upper West Side, Manhattan Michael Haskell «Allora, qual è il problema? Cos’ho detto che non va?» Mia madre, la stessa donna che quando ho compiuto sedici anni invece di regalarmi una chitarra elettrica mi ha fatto trovare una Dodge nel garage, sta arricciando le labbra in una smorfia che rivela la sua vera età e potrebbe compromettere la sua autorità in fatto di stile. Invece di rispondermi, Emma Walford di Albany, una delle pioniere della chirurgia estetica in America, si scrolla dal golf le briciole dei biscotti che sta divorando davanti a un romanzo di letteratura erotica leggera. Quando sono rientrato dall’allenamento in palestra l’ho raggiunta in una delle aree della casa sottoposte al suo protettorato, la sala tv al piano superiore. Appena sono entrato ho trattenuto un verso di disgusto per lo scenario che mi si presentava davanti: tende damascate di velluto, carta da parati a fiori, vasetti pieni di frutti di bosco appassiti che lei chiama qualcosa tipo poprrì in francese e ovviamente le foto di tutta la dinastia Haskell crocifisse al muro. Nelle foto Emma è di profilo, ha la mano 11 posata lievemente sulle spalle di qualcuno e recita un sorriso sollevando timidamente gli angoli della bocca. Sembra più giovane adesso che negli scatti in cui ha appena vent’anni ed è fresca di matrimonio. Abbiamo un buon rapporto, il che significa che parliamo, invece mio padre ha un’idea del tutto distorta di me e crede che durante il tempo libero me ne stia in giro a tampinare le ragazze della scuola cattolica. Quando siamo da soli in salotto, mi passa i bicchieri di bourbon con aria grave e cerca di estorcere informazioni sordide sulla mia vita sessuale. Alla lunga questo atteggiamento mi inibisce, così evito di entrare troppo nei dettagli, soprattutto quando si tratta di qualcosa che rischia di penalizzare la mia virilità ai suoi occhi e di compromettere il brillante futuro che ha predisposto per me dal momento in cui all’ospedale gli avevano detto che ero un maschio e pesavo tre chili e mezzo. D’estate lavoro come guardiano di sala al Moma a Midtown perché sono sempre a corto di soldi; la direttrice del personale è la sorella di una mia compagna di classe che mi ha raccomandato. Il lavoro non è impegnativo, devo solo passeggiare avanti e indietro guardando male la folla di tanto in tanto. Nella sala proiettano a rotazione continua i video dell’action painting di Pollock; ci si soffermano solo le persone sui quarant’anni, il passo strascicante e le macchine fotografiche della Nikon comprate negli spacci clandestini dietro Times Square. In genere si tratta di uomini che sembrano sopravvissuti a un bombardamento atomico in cui si sono ingrigiti prematuramente e sono diventati incapaci di svolgere qualsiasi lavoro che non graviti nell’orbita della produzione culturale. Sono critici, giornalisti, dj, impresari di serate in club sadomaso e alternativi; sono omosessuali clandestini che mi lanciano sguardi acuti come punte di spillo a cui sono del tutto indifferente. Due anni fa mi sono iscritto, senza la minima cognizione di causa, alla facoltà di sociologia della Columbia. Com’era prevedibile, la mia euforia è durata solo il tempo di un semestre, dopodiché abbiamo tutti iniziato a considerare la mia carriera universitaria come un’impresa fallimentare, allo stesso livello del tentativo di riformare il sistema sanitario o di riabilitare la figura politica di Richard Nixon. Questo è il motivo per cui ho rimandato la chiacchierata con mia madre sulla decisione di mollare tutto per iscrivermi alla School of Visual Arts. Fino a oggi. Sapevo che non avrebbe fatto salti di gioia, ma ero convinto che nel profondo una decisione del genere l’avrebbe sollevata, autorizzandola a insultarmi a voce alta invece di guardarmi di sottecchi con aria di rimprovero ogni volta che non mi sveglio per andare a lezione. «Non hai niente da dire?» le chiedo. «Ah, Michael, Michael. Tutsi, vieni qui.» Tutsi è il barboncino che le ha regalato mio padre per farsi perdonare la storiaccia di mia sorella; lo hanno chiamato così in onore di qualche popolazione berbera che lui cita nei suoi articoli di scienze politiche. È successo tutto contemporaneamente: il tradimento di mio padre, l’arrivo della mia sorellastra Shauna da Capo Verde, la cuccia del cane piazzata in fondo al corridoio, le carte disseminate in giro dei cioccolatini al rum che mia madre consumava in quantità industriale, il mio primo rapporto sessuale culminato in un’infezione batterica purulenta e dolorosissima che mi ha costretto in ospedale per due settimane. Tutsi resuscita dalla sua bara puzzolente in corridoio e si fionda nella sala tv prendendo la rincorsa per buttarsi 12 13 in braccio a mia madre. Lei infila le dita smaltate nei riccioli del cane per sgrovigliarli e inizia a parlargli tramite mugolii da linguaggio preverbale (sociologia del linguaggio, primo anno di corso, Chomsky in programma, una delle poche cose che ricordo). Tutto questo senza prestarmi la minima attenzione. È una cosa che non ho mai sopportato, i tempi lenti e forzati che gli adulti usano come arma pedagogica per costringerti a capitolare e a umiliarti davanti a loro. Come se il valore delle tue scelte o delle tue idee fosse proporzionale alla quantità di merda che sei disposto a ingoiare per difenderle. Dopo un po’ mi chiede: «Ma hai del talento, almeno?» Questo è un grosso punto a mio svantaggio. So di essere bravo a disegnare, ma a parte qualche premio scolastico di fine anno e dei corsi di arte pomeridiani alle superiori non ho mai avuto l’opportunità di dedicarmici seriamente. Qualche settimana fa sono andato alla segreteria della School of Visual Arts sulla Ventitreesima. L’addetta al desk mi ha dato un modulo da compilare e ha iniziato a snocciolare una sfilza di nomi, corsi e livelli rivolgendomi uno sguardo perplesso e vacuo quando le ho detto che non sapevo a quale indirizzo iscrivermi. Le possibilità erano: fotografia, pittura, scultura e linguaggi audiovisivi. Capivo quanto dovessi apparirle strano: non ero vestito male, non puzzavo di sigarette, non indossavo niente di fluorescente e balbettavo a tratti. Quindi non posso dire di aver messo la crocetta sulla voce Pittura e arti grafiche con uno stato d’animo molto lucido, no. Volevo solo andarmene da lì il prima possibile e tornare con la ricevuta del versamento in banca necessaria per l’iscrizione. Problema a cui Emma Walford di Albany non sembrava voler porre rimedio, almeno per il momento. Mi raddrizzo sulla poltrona sporgendomi verso di lei e inizio a parlarle di come l’esperienza al museo mi abbia dato nuovi stimoli, di come i cataloghi e i libri che ho letto mi abbiano rigenerato e indicato una direzione radicalmente nuova in cui guardare, dei miei tentativi col disegno che avevano dato buoni risultati in passato e che volevo riprendere in un’accademia. Mentre le sto parlando, e sono al meglio della mia forma, questo va detto, mi si proiettano davanti le immagini dell’autunno imminente, delle lezioni strafighe che potrei frequentare in un ambiente denso di promiscuità, energie antagoniste, droghe creative e musica di prima classe. Poi lo dice. «Uhm. Posso chiederti se questa faccenda ha a che fare con John?» John è stato il mio migliore amico fino a qualche tempo fa. Abbiamo fatto le elementari insieme e frequentato gli stessi corsi di basket e di nuoto per anni. Al campeggio estivo ci mettevano sempre nella stessa tenda, cose così. L’estate andavamo a Coney Island ad abbronzarci, a sfidarci ai videogiochi e a ingozzarci di hot dog prima di iniziare a prendere sul serio la questione delle ragazze e della nostra forma fisica, buttandoci a testa bassa in addominali, lozioni solari, capelli alla John Lennon, cinema all’aperto a Washington Square, marijuana e sesso in macchina nei parcheggi dei supermercati. Finita la scuola, John si era iscritto a regia e cinema alla Ucla, sarebbe andato a vivere dalla sorella della madre, e prima di partire aveva dato una festa gigantesca in un locale con due dj che avevano suonato fino alle quattro di mattina. Il giorno seguente lo avevo accompagnato 14 15 all’aeroporto con la macchina e ci eravamo fumati una sigaretta prima che entrasse nel terminal; non lo avrei seguito dentro per non pagare la tariffa astronomica del parcheggio. Con gli occhi chiusi e la testa reclinata, John si era messo a parlare di quello che si aspettava dalla sua nuova vita a Berkeley, del fatto che non credeva di poter continuare a mantenere una relazione con la sua ragazza fissa di allora e di quanto sperava di riuscire a ripulirsi. «Ho chiuso con New York, amico. Tabula rasa.» John aveva passato un periodo molto brutto con l’eroina, i nostri rapporti si erano un po’ raffreddati da allora, più per scelta sua che mia. Frequentava un collettivo di artisti di estrema sinistra che compivano atti vandalici in giro per il Lower East Side, spaccando i vetri delle macchine con le mazze da baseball di notte e facendo barricate umane davanti alle banche di giorno. Lui, che fino a qualche tempo prima ascoltava musica progressive ed era andato in paranoia con i Pink Floyd, adesso andava sulla Bowery alle venue delle New York Dolls e si truccava gli occhi con il bistro nero e il glitter. Quando usciva con queste persone non mi chiamava nemmeno: se voleva vedermi passava a casa mia o andavamo a fumarci una canna al Central Park. Era sempre nervoso, era nei guai con qualcuno per dei soldi ma non voleva che glieli prestassi, diceva che non avrebbe mai scambiato l’amicizia con me per un’esperienza così volgare come la droga, anche se la sua vita si riduceva solo a quello ultimamente. Ho voluto convincermi che si stava allontanando da me per difendere il nostro rapporto, e non perché mi considerasse noioso, poco audace, troppo borghese. Quando è partito per la California ne ero totalmente persuaso: ero io quello lo stava accompa- gnando all’aeroporto, ero io quello che la madre chiamava quando c’era bisogno di qualcuno che lo accompagnasse a prendere il metadone all’ospedale. E sarei andato a trovarlo il prima possibile. Invece non ho preso mai l’aereo, non sono mai andato a Berkeley, e l’unica volta in cui gli ho telefonato a casa di sua zia, una specie di Janis Joplin sovrappeso che importava tè dall’India e viveva con una dozzina di cani, lei mi ha risposto che John non si faceva vedere da quelle parti da un po’. Ho rimosso la questione. Sentivo la sua mancanza in modo feroce, a tratti, ma avevo una decina di rapporti minori su cui contare, e stavo frequentando una ragazza a cui tenevo. Una sera eravamo andati a sentire un concerto jazz in un locale del Village; all’uscita mi ero scontrato con un sacco umano barbuto che puzzava di gin e aveva i vestiti lerci che gli pendevano addosso. In un riflesso automatico il tizio aveva sporto la mano in avanti per chiederci qualche quartino, la mia ragazza si era tirata indietro disgustata mentre io cercavo di pescare qualcosa dal fondo delle tasche dei miei Levi’s. Gli stavo giusto facendo cascare venticinque centesimi in mano quando mi sono sentito chiamare per nome. Ho alzato lo sguardo e John era proprio lì, davanti a me. Non lo avevo riconosciuto. Mi ha restituito gli spiccioli e si è guardato intorno a disagio, forse qualcuno lo stava aspettando. Ho sperato che non gli venisse in mente di abbracciarmi, non avevo alcuna voglia di dargli una pacca sulla spalla: sembrava che uno squadrone di ratti avesse defecato sulla sua camicia di jeans. Ci siamo incamminati con lui in direzione della Sesta, dove avremmo dovuto prendere la metro; la mia ragazza aveva un cipiglio scuro che avrei dovuto risolvere più tardi a furia di preliminari infiniti. Qualcuno aveva passato 16 17 a John una bottiglia di plastica piena di whisky; prima di portarsela alle labbra aveva fatto il gesto di offrirmene un po’, guardandomi con aria sardonica. Sembrava Gesù Cristo intento a offrire l’ultimo boccone di pane a Giuda, e mi fissava come se il mio rifiuto di bere dalla sua stessa bottiglia equivalesse a dirgli che eravamo due estranei, che avevo dimenticato, e che lui mi faceva schifo, come alla maggior parte della gente lì intorno. La mia ragazza, a cui John non si era neanche preso la briga di presentarsi, mi ha dato una stretta alla mano, invitandomi a declinare, ma io ho preso la bottiglia e ho bevuto, sentendo l’alcol che precipitava in fondo allo stomaco amplificando una sensazione di disagio e possibile paranoia. Volevo che lei se ne andasse. Volevo restare lì con John, scoprire che razza di vita faceva, perché era tornato, perché non era riuscito a fare tabula rasa, volevo che mi iniziasse al suo segreto, che mi facesse capire perché avevamo preso strade così diverse. Sapevo che non avrei avuto un’altra occasione, così l’ho accompagnata alla metro e, invece di scendere i gradini con lei, le ho detto che mi trattenevo; John era rimasto qualche passo indietro ad aspettarmi con le mani in tasca. Le ho bisbigliato che l’avrei chiamata l’indomani, che mi dispiaceva ma dovevo fare questa cosa. Mi ha lanciato uno sguardo freddissimo e mi ha detto di non disturbarmi. In quel momento non me ne fregava niente, ci avrei pensato dopo. A posteriori, avrei dovuto seguirla, invece di trascorrere quella serata da incubo. Siamo andati a Washington Square. John aveva scroccato qualche sigaretta per entrambi e abbiamo continuato a bere sulle panchine di legno. Mi ha raccontato che Berkeley era orrenda, peggio di Manhattan, solo che lì la tossicodipendenza era talmente istituzionalizzata da farti dimenticare quanto fosse pericolosa, e le ragazze volevano solo scoparti e non erano affatto interessate alla tua storia personale. I corsi erano tenuti da minorenni che facevano da assistenti ai professori in esilio a Goa. Si ascoltava musica di merda, roba rastafariana, e lui non era abbastanza politicizzato per risultare interessante nel campus. Adesso viveva con un po’ di gente in uno squat gestito da un portoricano ad Alphabet City e trascorreva le giornate in uno stato di totale abulia. Gli ho parlato dell’intenzione di mollare l’università e lui ha iniziato a sogghignare, come se non credesse che sarei stato in grado di farlo. Ogni volta che citavo qualche episodio del passato scrollava la testa con aria infastidita, allontanandomi con la mano come per scacciare un nugolo di mosche moleste. Di tanto in tanto si avvicinava qualcuno a salutarlo e sembrava che John si vergognasse di stare lì con me; avevo una camicia dentro i pantaloni, cristo. Dopo un paio di ore me la sono filata, cercando di non farmi notare, consapevole di trovarmi in una delle poche zone di Manhattan in cui quello strano ero io e non John. Aveva iniziato a rivolgersi a me in tono aggressivo, prendendo in giro la casa in cui abitavo, la mediocrità dei miei genitori, la mia incapacità di ribellarmi, la totale assenza di espressività in me. Diceva che ero molto più interessante da ragazzino, che l’adolescenza mi aveva come depresso, che era da tempo che non sentiva niente di rilevante in quello che dicevo, che più di una volta le mie ragazze erano andate da lui a lamentarsi e che lui le aveva consolate e dopo se le era scopate. Diceva che gli facevo pena, che aveva cercato di darmi una raddrizzata ma ero una causa persa. Che potevo anche mol- 18 19 lare sociologia e giocare a fare l’artista per un po’, ma dentro sarei rimasto sempre uno stronzo, un borghese senza idee destinato a dipendere dagli altri per dare un senso alla sua vita. Che lui non ci teneva più a farsi sbranare da me, ed era ora che ci dessimo un taglio. Si stava rialzando dalla panchina, gli pendevano dei fili di bava dalla bocca ed era incapace di reggersi sulle gambe. Era diventato uno scheletro, probabilmente pesava meno di mia sorella. Gli ho dato un calcio ai polpacci. Lui si è girato sorpreso, mugugnando, così gli ho assestato un pugno sul naso. Era la prima volta che picchiavo qualcuno e mi sono stupito di avergli fatto uscire del sangue. A quella vista mi sono sovreccitato, così gliene ho dati un altro paio. John non si difendeva affatto, più tardi mi è venuto il dubbio che mi avesse detto tutte quelle cose anche per arrivare al punto di essere picchiato: sembrava che ne avesse bisogno, era tutto soddisfatto del suo martirio cristologico. Gli ho dato un paio di cazzotti allo stomaco, lui si è accasciato a terra in posizione fetale e io ho continuato a prenderlo a calci. Nessuno ci stava guardando. Mi sono inginocchiato davanti a lui, gli ho sputato nell’orecchio e gli ho preso a pugni martellanti l’arcata sopraccigliare. Quello stronzo: avrei dovuto farlo anni fa. Mi sono rialzato ansimando, nauseato dall’alcol, dall’odore di sangue e dai pezzi di pelle che si erano appiccicati alle mie nocche. Ho preso una lattina di birra semivuota dalla panchina e gli ho rovesciato tutto il contenuto sulla faccia. John ha spalancato gli occhi e mi ha detto che ero un figlio di puttana. Gli ho buttato i venticinque centesimi di prima ai piedi e mi sono voltato per andarmene, ripromettendomi di non mettere piede lì per un pezzo, quando ho sentito che mi stava urlando dietro. «Michael Haskell, sei un fallito!» Ho tirato dritto, passandomi le dita nei capelli a ritmo forsennato; dovevo fare una strana impressione, con le mani insanguinate, la camicia spiegazzata e la faccia pallida. Prima di infilarmi nel vagone della metro ho vomitato in un cestino dei rifiuti suscitando le risate di un gruppo di donne single sui trenta in cerca di guai; ho alzato il dito medio e loro hanno riso ancora più forte. Sono sceso a Columbus Circle, allungando il più possibile il percorso verso casa mia; ero invasato e addolorato, afflitto da un misto di pena e di liberazione. Ancora adesso credo che quella sera io e John ci siamo fatti un favore a vicenda. Volevo continuare a passeggiare per tutta la notte, brancolare nelle strade semibuie e silenziose dell’Upper West, consapevole che non sarei riuscito più a guardarle allo stesso modo, non dopo quella sera. Era un quartiere di intellettuali sconosciuti e imprenditori facoltosi, verso le sette di sera si riempiva di vecchiette dell’alta borghesia ebrea e polacca che portavano in giro i loro cani e discutevano della recessione e di qualche misfatto denunciato la mattina sul Times. I giovani erano pressoché invisibili, ogni tanto beccavi qualche coppietta laccata intenta a sbaciucchiarsi dalle parti di Riverside Park o potevi incantarti a guardare le studentesse di danza classica davanti alla Julliard, ma in realtà trasmigravano tutti verso Downtown, il posto in cui le cose accadevano davvero. Ho imparato ad amare le case di arenaria marrone, le porte di legno verde bottiglia, i viali alberati costellati di lampioni vittoriani che emanavano una luce giallastra e da piccolo mi riempivano di commozione segreta; anche 20 21 quando ho iniziato a staccarmi dal perfezionismo dell’ambiente e dalla sua rigida morale non ho smesso di trovarlo bello. Ma ci sono opposti che non si possono conciliare e la mia espressività ha bisogno di un’inquietudine che questo quartiere non saprà mai garantirmi. Forse dovevo prendere in considerazione l’idea di trasferirmi altrove con l’inizio dei corsi. Spostarmi a sud, condividere un appartamento con qualcuno. Quella notte quando sono rientrato ho girato lentamente la chiave nella serratura, cercando di non fare rumore. Ho intravisto la luce sotto la porta dello studio e l’ho aperta, sapendo già quello che ci avrei trovato. Mia madre era seduta dietro la scrivania a spiare l’agenda di mio padre, sperando di rintracciarci non si sa quale sanguinoso segreto, e sorseggiava whisky da un bicchiere rotondo e basso. Mi ha aggredito subito. «Che diavolo hai fatto alle mani?» Mi ha trascinato in bagno per disinfettarmi, continuando a ripetere che John poteva anche avere l’epatite per come si era ridotto, e che l’avevo combinata grossa, non riusciva a crederci. Le ho raccontato tutto nei minimi dettagli, sperando che lei smentisse le offese che John mi aveva fatto, che mi dicesse che in realtà ero una specie di genio inespresso, una fucina iperattiva di creatività e intelligenza, che sapevo cavarmela da solo e non ero affatto un parassita. Non ha detto niente di tutto questo. cando una scena già vista, trita e ritrita. La solita pedagogia del cazzo dei miei genitori. Sbuffo in preda all’impazienza, pronto ad alzarmi e a dirle che l’iscrizione all’accademia me la pagherò da solo, quando mia madre dice che mi firmerà l’assegno, e che devo prendere in considerazione l’idea di cercarmi un lavoretto e un appartamento in affitto. «Ah... bene.» Ci ho messo un po’ a realizzare quello che ha detto, improvvisamente era tutto troppo semplice. «A te ho rinunciato da molto tempo Mike. E adesso porta fuori Tutsi, io vado a farmi una doccia.» La vedo barcollare verso la porta, mi gratto la testa con entrambe le mani e lancio un lungo sguardo cospiratorio a Tutsi. Questo cane ha la congiuntivite. Settembre 1978 Freehold, contea di Monmouth Jane Cormick So che è stato il ricordo di quella serata a spingere mia madre a farmi la domanda su John. Mi rifiuto di risponderle: sono troppo arrabbiato e se negassi sarebbe come mentirle. Opzione del tutto inutile dato che lei conosce già la risposta, quindi in questo momento stiamo repli- Sono uscita dalla porta a vetri sul retro e mi sono seduta sul bordo della piscina al centro del giardino spelacchiato che mio padre non curava da mesi. Avevo in mano una copia di Lolita in edizione economica. Sulla copertina campeggiava l’immagine in bianco e nero di Sue Lyon dal film di Kubrick del 1962. L’attrice portava degli occhiali a forma di cuore, come quelli che mi aveva regalato mia madre l’estate prima che le marcisse la tetta sinistra. L’estate prima di questa morte che le è capitata. Avrei voluto infilarglieli nella bara quegli occhiali, per farla sentire giovane per l’eternità. Ho sfogliato distrattamente le pagine del libro, meravigliandomi delle sottolineature a matita rade e precise 22 23