Varia Umanità. 5 L`UOMO E LO SPETTRO

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Varia Umanità. 5 L`UOMO E LO SPETTRO
Varia Umanità. 5
L’UOMO E LO SPETTRO DELLA MORTE
Luciano Farmini*
La scienza ha tanti meriti che nessuno misconosce, ma ha anche il grave difetto di ridurre lo
spazio dell’immaginazione in cui l’anima si esprime creando quell’incanto del mondo in cui è
riconoscibile la cultura di un popolo e l’interpretazione di quelle situazioni limite che sono la
nascita, la morte, l’amore, l’odio, la colpa, la vita e il suo enigmatico senso. Non appena l’incanto
viene aggredito dal sapere, la cultura si scolora e l’anima fatica sempre più a ideare mondi e a
immergervisi per alimentare la sua vita.
Dico queste cose a proposito del libro Vampiri, sepoltura e morte (1) dove l’autore Paul
Barber prende in esame alcuni casi di vampirismo tratti da culture diverse per concludere che,
sottesa a questa immaginazione, c’è la mancanza di precise conoscenze di fisiologia, patologia e
immunologia, per cui si considera redivivo quel morto che presenta del sangue sulle labbra per la
disintegrazione del tessuto polmonare, come nel caso della peste polmonare o della tubercolosi.
E con ciò? Dobbiamo aspettare Paul Barber per sapere che la scienza decodifica le
interpretazioni immaginifiche con cui i popoli interpretano i fenomeni che non riescono a
spiegare? Perché Paul Barber non si chiede ad esempio la ragione per cui l’uomo preferisce
inventare una spiegazione fabulistica piuttosto che arrestarsi muto di fronte all’enigma
dell’inesplicabile? Perché non si chiede se la morte e il morire non sono alle volte esperienze così
forti per l’anima che senza la mediazione del racconto immaginifico difficilmente potrebbero
essere assimilate e alla fine accettate? Perché Paul Barber non avvia il lettore in quel mondo dei
simboli dove ciò che si cerca non è la spiegazione scientifica di un fenomeno, ma il suo senso per
un individuo, per un gruppo, per un popolo che, attraverso il rinvio delle immagini, crea quella rete
interpretativa che è alla base della costruzione di una visione del mondo senza cui non c’è
orientamento per l’esistenza?
Il libro di Paul Barber è molto documentato, fin troppo, come là dove si legge che “secondo
Emily Vermeule, “i Greci operavano una netta distinzione tra anima e corpo, tra la carne che si
disfaceva e doveva essere seppellita e la psiche che sotto forma di vento o di respiro abbandonava
la carcassa” (2), quasi che avessimo bisogno di Vermeule per sapere queste cose.
Ma la documentazione, la citazione ridondante senza alcuna interpretazione simbolica, che
non sia subito soppressa dalla spiegazione scientifica, rende inutile la lettura di questi libri, perché
è noto a tutti che la scienza ha dissolto la magia, e documentarlo caso per caso non ha molto
senso e non è neppure di grande interesse.
Quando Vladimir Propp studia il folklore, non lo dissolve nella spiegazione scientifica, ma lo
rilancia dilatando gli spazi dell’immaginazione ancorati alla “struttura” interpretante che tiene le
redini, ma non rende angusto lo scenario per non rattrappire l’anima. Dissolvere miti, simboli,
immaginazioni collettive con il riduzionismo scientifico, è un’operazione anticulturale che ignora
gli effetti d’anima propri dell’interpretazione immaginifica che dell’anima è il linguaggio.
Tornando al nostro tema, il vampiro, prima di essere un tubercolotico che anche da
trapassato sputa sangue, è un morto che non vuole morire, è uno dei tanti riflessi immaginifici che
dicono la difficoltà per l’individuo e per il gruppo di accettare la morte che, come Freud ci ricorda,
torna nei sogni e percorre la comunità primitiva atterrendola con il timore del contagio, per cui i
morti vanno sepolti, anche se poi la terra non li nasconde abbastanza e soprattutto non li sradica
dall’anima. Il vampiro è allora un morto che ritorna, perché per l’anima non è definitivamente
morto. Con il sangue, che è poi la vita, ghermisce vergini, immagini dell’anima, che si divincolano
nelle braccia dei vampiri per resistere alla morte.
La nostra cultura ha alle spalle abbastanza letteratura antropologica e psicoanalitica per
poter dire queste cose, più significative per la nostra anima delle spiegazioni scientifiche che
chiunque già intravede da sé, e più interessanti per visualizzare il redivivo, di cui il vampiro è una
figura, che ci costringe a infrangere quel silenzio con cui noi troppo frettolosamente avvolgiamo i
morti e la morte.
Noi, infatti, comprendiamo la morte quando evitiamo di interrogare un corpo per non udire
il suo silenzio, quando teniamo lontano la nostra vita dalle regioni in cui potremmo incontrare
questo silenzio rivelativo di un corpo degradato a oggetto, ricaduto nella condizione di cosa,
essendo la cosa ciò che riposa in un’assoluta ignoranza di sé e del mondo.
L’esposizione del cadavere, che risulta persino così difficile da nominare (la salma, le
spoglie, i resti…), tiene a coloro che gli sono intorno un discorso senza oggetto e senza contenuto
che, simile al discorso dell’altra parte di noi stessi, rinvia selvaggiamente ciascuno a quel’originaria
individualità che la morte scompone. Sotto la pelle, infatti, incomincia quella sorta di uguaglianza
fisiologica per cui l’osso dell’uno assomiglia all’osso dell’altro, la carne dell’uno a quella dell’altro,
in quella contrazione dello spazio, per cui i cadaveri si possono accostare e addossare senza che
l’uno con l’altro si disturbi.
Eppure i morti non si trovano mai al loro posto e ossessionano l’inconscio dei sopravvissuti
che si sforzano di scordarli. Di qui il tentativo di ogni cultura di rifiutare la riduzione del corpo a
cadavere, reintegrando simbolicamente nella vita collettiva il calore del corpo raggelato nel
cadavere.
La mummia, lo scheletro, il teschio, l’anima, che della vita del corpo è la più raffinata
metafora, rappresentano ciò che della realtà umana non è più visibile, né palpabile: le sue
credenze, i suoi valori, la sua cultura.
Contro le conseguenze negative della decomposizione tutte le comunità umane reagiscono
tentando, a livello culturale, di rovesciare i termini della spietata equazione della natura che, come
dice Darwin, “uccide più di quanto non conservi” (3).
L’uso della doppia sepoltura, che incontriamo presso numerose società umane, chiede alla
terra di compiere un’azione di imputridimento che permetta di disseppellire le ossa liberate dalla
carne, per reintegrarle nella comunità come simbolo di ciò che persiste.
Le maschere funerarie della Polinesia, le teste rattrappite degli Jivaros, le mummie egizie,
peruviane, l’antropologia mistica degli Incas, degli Indiani e dei Tupi, la comunione cristiana che
implica un cannibalismo mistico della carne e del sangue del Fondatore stanno ad indicare quanto
sia difficile seppellire un morto e garantirsi dall’eventualità di un suo ritorno, per cui il revenant, il
cadavere che ritorna, il vampiro, il redivivo, prima di essere un tubercolotico riesumato dalle
conoscenze scientifiche, è un simbolo che, a seconda delle culture e nei modi più diversi, fa la sua
comparsa per dire che è impossibile espellere la morte dalla vita, che ogni sepoltura è provvisoria,
perché la morte ci abita e gioca con noi anche prima dell’ultima partita.
NOTE
1. P. Barber, Vampiri, sepoltura e morte, Pratiche, Parma, 1994
2. Id., cit., p. 49
3. Ch. Darwin, L’origine delle specie (1859), Boringhieri, Torino, 1967, p. 128
*Luciano Farmini: Linguista, Psicologo e psicoterapeuta
71043 Manfredonia (FG)
e-mail: [email protected]