N°14 – 15 Luglio - Rocca - Pro Civitate Christiana
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N°14 – 15 Luglio - Rocca - Pro Civitate Christiana
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Non ha taciuto Partitocrazia di ritorno Tempi moderni Amnistia Anche l’ambiente rende Teologia: Pluralismo, sinfonia differita? $# ANNO NUMERO 14 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia 15 luglio 2006 e 2,00 Cattolici italiani: L’etica al posto della politica La cultura della sopraffazione Droga: La stanza del buco La Chiesa verso il Convegno a Verona Somalia nuovo Iraq? TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X Rocca 4 7 sommario 11 13 14 17 18 20 occa opinioni critiche informazioni attuali 23 26 27 37 39 15 luglio 2006 42 44 14 46 48 Ci scrivono i lettori Anna Portoghese Primi Piani Attualità Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace Non ha taciuto Maurizio Salvi Cono d’Africa Somalia nuovo Iraq? Romolo Menighetti Oltre la cronaca Partitocrazia di ritorno Filippo Gentiloni Cattolici italiani L’etica al posto della politica Fiorella Farinelli Droga La stanza del buco Aldo Abenavoli Ecologia Anche l’ambiente rende Romolo Menighetti Parole chiave Amnistia Giancarlo Zizola Inserto La Chiesa italiana verso il IV Convegno a Verona Claudio Cagnazzo Tempi moderni Viaggiare con le scale mobili Rosella De Leonibus Cose da grandi Tua per sempre Manuel Tejera de Meer Io e gli altri La cultura della sopraffazione Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Peter F. Strawson I fili del discorso Giuseppe Moscati Letteratura Sandro Penna Poeta insonne ribelle febbrile Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Speranza sovversiva 51 52 54 56 57 58 58 59 59 60 60 61 62 63 Enrico Peyretti Fatti e segni Ho l’età Arturo Paoli Cercate ancora L’ospite e l’amore Carlo Molari Teologia Pluralismo, sinfonia differita? Lidia Maggi Eva e le sue sorelle Partorire e nascere Giacomo Gambetti Cinema Colpi di scena Inside Man Roberto Carusi Teatro Senza parole Renzo Salvi RF&TV Agenda del mondo Mariano Apa Arte Almagno Michele De Luca Fotografia Il Ruwenzori Enrico Romani Musica Il rap adulto Giovanni Ruggeri Siti Internet Forse è @more Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Panama Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 14 – 15 luglio 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 15 LUGLIO 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 20/06/2006 e spedito da Città di Castello il 23/06/2006 4 Don Ernesto Buonaiuti: un prete dimenticato Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute In un’epoca che ama le celebrazioni per gli anniversari più disparati, è triste il silenzio assordante che ha accompagnato i sessanta anni dalla morte di don Ernesto Buonaiuti (avvenuta il 20 aprile 1946), a cui in Italia nessuno ha dedicato un ricordo, se non gli amici di «Noi Siamo Chiesa» in un grigio pomeriggio bolognese. Personaggio scomodo all’autorità fascista – sarà uno dei dodici professori universitari a rifiutarsi di prestare il giuramento di fedeltà al regime (cfr. Giorgio Boatti, «Preferirei di no», Einaudi, 2001) – e scomodissimo al Vaticano, don Ernesto è morto stritolato dalla repressione antimodernista della Chiesa (di cui aveva scritto nel 1933 che è «ormai incapace di pronunciare parole che scuotano in profondità le viscere del mondo») prima sospeso a divinis, poi scomunicato vitando, ritenuto indegno dell’estrema unzione e del funerale cattolico, la sua salma è stata benedetta di nascosto da un sacerdote amico. Raramente nella storia della Chiesa più recente si è trovata tanta avversione ad un proprio figlio (dirà don Ernesto in punto di morte: «Ho trascorso ore angosciose, rese tanto più gravose dai tentativi inumani compiuti intorno a me da altissimi dignitari ecclesiastici per indurmi a sconfessioni e ritrattazioni. Ho resistito impavido. Ne sono fiero»), figlio che continuerà a vestire la tonaca pur in presenza del divieto e che scriverà nel testamento di volere «incisi sulla tomba i simboli dell’eterno sacerdozio cristiano: il calice e l’Ostia». Ma chi era questo personaggio così odiato, da non suscitare nella Chiesa alcuna misericordia, né oggi alcun desiderio di memoria? E soprattutto cosa ha da dirci oggi il suo pensiero? Ernesto Buonaiuti è stato un sacerdote che ha tentato una rilettura della missione della Chiesa e del ruolo del cristiano nel mondo, nel tentativo di recuperare al cristianesimo quella purezza ed idealità primitiva propria delle prime comunità cristiane, così facendo ha sviluppato con decenni di anticipo una serie di riflessioni poi sorprendentemente riprese dal Concilio Vaticano II. In conseguenza della sua complessa produzione teologica, Bonaiuti non poteva sottrarsi all’accusa di eresia (essendo giunto implicitamente a negare la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia), tuttavia egli meritava ben altra considerazione per il grande contributo dato al delicato tema del rapporto del cristianesimo con la modernità. Contro quello che definiva l’«assolutismo curiale» della Chiesa, don Ernesto ha intravisto per primo il valore del laicato ecclesiale, ha contrastato il concetto di «guerra giusta» fino ad allora in voga nella Chiesa con quello di costruzione della pace, ha sostituito allo status ecclesiastico il primato della fraternità, ha rivisto completamente il rapporto fra le leggi della Chiesa e la libertà dell’uomo («Quel che io rimprovero alla Chiesa è di aver adottato nella educazione morale del popolo italiano una casistica fatta tutta di sotterfugi, di evasioni, di restrizioni mentali, per cui noi abbiamo perduto ogni capacità di guardare in faccia la vita, le sue leggi, le sue istanze, le sue esigenze, con lealtà e virilità»). Ernesto Bonaiuti ha intuito la centralità del Regno di Dio nell’esperienza cristiana, verso cui camminano il credente e la comunità, e quindi il carattere subordinato ad esso della stessa Chiesa, che non coincide con il Regno ma esiste in funzione di esso, e verso cui deve tendere, al servizio non già dei battezzati ma di tutta l’umanità. Dirà che la Chiesa deve perdere la convinzione di esse- re una cittadella assediata, impegnata in una guerra di trincea in cui l’immobilismo appare come l’unica resistenza possibile; al contrario, il cristianesimo deve essere vissuto dentro le contraddizioni della storia umana, e Cristo va cercato negli uomini e negli avvenimenti, non malgrado loro: soltanto allora la Chiesa rivela la sua autentica natura di comunione con il Cristo e tra i fratelli, lungo un cammino dove tutto può cambiare, salvo il Vangelo. La concezione di Chiesa di questo prete non era poi così blasfema ed inaccettabile, se il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium ha poi aperto alla Chiesa gli orizzonti del mondo ricollocandola al suo interno; di ciò dobbiamo renderci conto anche oggi, per rendere davvero vive le riflessioni conciliari, rimaste spesso lettera morta. Astorre Mancini Cattolica E gli integralisti scoprirono il boicottaggio Dove non riuscirono i bambini morti per malnutrizione o schiavizzati nel Terzo Mondo, riuscirono le accuse all’Opus Dei e il presunto matrimonio di Gesù con la Maddalena. Grazie al Codice Da Vinci, infatti, anche gli integralisti cattolici hanno scoperto l’arma del boicottaggio contro le multinazionali. Il portale Fattisentire.net ha lanciato una campagna di boicottaggio contro la Sony, produttrice del film di Ron Howard, e contro l’acqua minerale Sant’Anna, che ha promosso un concorso legato al lancio del kolossal hollywoodiano, utilizzando gli stessi metodi di pressione sulle società che da anni vengono utilizzati dai promotori del consumo critico contro le multinazionali che operano in paradisi fiscali, sfruttano i lavoratori o inquinano pesantemente l’ambiente. Il boicottaggio è l’astensione organizzata dall'acquisto di uno o più prodotti di un’impresa allo scopo di indurre il produttore ad abbandonare le pratiche inopportune. Tra le multinazionali attualmente sotto boicottaggio ci sono McDonald’s (sfruttamento dei dipendenti, inquinamento, maltrattamento degli animali, politica pubblicitaria), Philip MorrisKraft (uso di Ogm, finanziamento di politici e scienziati che ostacolano la lotta al fumo), Chiquita (coinvolgimento in colpi di stato, inquinamento, repressione di attività sindacali), Coca Cola (collaborazione con regimi dittatoriali, uso di pesticidi e sostanze tossiche, sfruttamento di lavoro infantile in Pakistan e India, discriminazioni razziali e atteggiamenti antisindacali). Esso (si batte contro il protocollo di Kyoto e sostiene la guerra in Iraq). Il caso più celebre è quello della Nestlé, che contravvenendo alle disposizioni Fao, continua a promuovere il latte in polvere in paesi del terzo mondo rendendosi responsabile della morte per malnutrizione di migliaia di bambini. Negli anni l’arma nonviolenta del boicottaggio ha dimostrato la sua efficacia: molti boicottaggi hanno infatti portato le società a cambiare alcuni comportamenti in una via più etica. Tra i più celebri quello del 1995 contro la Shell per protestare contro l’affondamento di una piattaforma petrolifera nell’oceano, quando bastarono quattro mesi per costringere l’azienda a fare marcia indietro. Anche un altro celebre boicottaggio, quello contro la Del Monte, ha avuto successo. Risultati clamorosi hanno poi avuto le campagne di boicottaggio nei confronti delle Banche Armate: dall’inizio della campagna promossa nel 2000 da Pax Christi, Nigrizia e Missione Oggi molti gruppi bancari (tra cui Unicredit, Monte dei Paschi di Siena e Banca Intesa) hanno cessato la fornitura dei propri servizi al commercio di armi italiane. Anche i numeri sono incoraggianti: dal 2002 al 2003 la percentuale di italiani che hanno aderito a qualche forma di boicottaggio per motivi etici è passata dal 21 al 31%. Fattisentire.net, portale per una valutazione etica della politica è nato nel 2004 su modello di un analogo sito spagnolo, con l’intento di promuovere azioni di lobbing e influire sull’azione di «coloro che prendono le decisioni per noi» facendo sentire la propria voce ad aziende, politici, giornali. Fino ad oggi Fattisentire non ha aderito a nessuna delle campagne di boicottaggio sopra citate, ma ne ha promosse di nuove: ad esempio contro le ditte farmaceutiche Norlevo e Angelini, produttrici della «Pillola del giorno dopo» e contro Famiglia Cristiana, «un periodico, da scartare come cristiano e da estromettere dalle chiese», resosi colpevole di una «mirata condivisione dei temi cari alla sinistra». Ad illuminarci su cosa intende per etica questo gruppo di cattolici è il sondaggio effettuato tra i propri utenti sulle priorità dell’etica sociale. Al primo posto, con il 27% dei voti risulta l’aborto. Al secondo la tutela della famiglia (24%); seguono tutela degli embrioni (10,19%), lotta al terrorismo e alla violenza (9,92%), tutela del matrimonio tra persone di sesso diverso (9.64%), tutela della libertà religiosa (6,89%), tutela del matrimonio come sacramento indissolubile (4,96), tutela delle scuole libere (4,13%). Bisogna scendere fino al 3,99% per trovare la lotta «al socialismo e al capitalismo rigido», la lotta all’eutanasia (3,72 %), la lotta alla droga e alla prostituzione (2,48%) e la tutela sociale dei minori (2,34%). Da notare come tra le opzioni offerte dal sondaggio non figurino affatto l’opposizione alla guerra né la lotta contro le ingiustizie sociali. ROCCA 15 LUGLIO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI Arnaldo Casali Terni 5 i 23 NUMERI integrali dell’anno gli INDICI per numero per autore per rubriche per tematiche principali TUTTA ROCCA con 10 E compresa spedizione Richiedere a [email protected] o a mezzo conto corrente postale 15157068 Sono disponibili anche copie limitate del CD-ROM ROCCA 2004 a E 10 spese comprese Religioni il luogo dei dialoghi Vienna l’America latina è alternativa «Filosofia e dialogo» è il tema della lectio magistralis tenuta all’Università ebraica di Gerusalemme dal cardinale Carlo Maria Martini, in occasione della laurea in filosofia conferitagli honoris causa. Uno stralcio importante di tale lezione è apparso su «La Repubblica» del 13 giugno e – in attesa di poterne leggere tutto il testo – ne riprendiamo anche noi alcuni spunti. Ci sembrano importanti gli interrogativi circa la effettiva possibilità di un dialogo tra religioni e culture, tra religiosi e filosofi di orientamenti diversi. Dall’analisi linguistica sui problemi di linguaggio, diversi ma interrelati tra di loro, la lezione si sposta all’analisi filosofica, spaziando dal linguaggio alla conoscenza della realtà espressa in modi diversi. Parte cioè dalla conoscenza comune – «la lingua del mercato» – fino alla comunicazione scientifica e al rapporto che s’instaura nel dialogo tra diversi, dove si ha anche a che fare col mistero della persona umana e con il supremo mistero della vita. E l’analisi, oltre a mostrare la tessitura ricca e raffinata del pensiero del Cardinale, fa concludere che il dialogo è possibile: «Nei momenti in cui il linguaggio arriva a quella profondità che chiamiamo interiorità e preghiera, riesce a raggiungere significati e valori anche più profondi... Vorrei sottolineare che quello dell’interiorità e della preghiera è il luogo in cui s’incontrano tutti i sinceri ricercatori della verità e della giustizia, dove è realmente possibile superare le diversità dei linguaggi. Solo procedendo su questa via si possono trovare le profonde motivazioni di quella comprensione, di quella fiducia reciproca di cui sentiamo la grande importanza della nostra attuale situazione». Il quarto vertice tra Unione europea, America latina e Carabi, svoltosi in maggio a Vienna, è stato un modo molto eloquente per mostrare la portata dei cambiamenti in corso in America latina. Era stato previsto come un controvertice rispetto al precedente svoltosi nella stessa capitale austriaca tra ministri del continente europeo e del sub continente latino-americano. Si sottolineava la conferma – per molti sconcertante – del presidente Evo Morales della nazionalizzazione degli idrocarburi ( e poi della distribuzione delle terre). Ma si è visto anche quanto superficiale fosse la presentazione dello scontro tra le due sinistre: quella moderata e ragionevole portata avanti dalla presidente del Cile Bachelet, dal presidente uruguayano Tabaré Vasquez, dal presidente del Costarica Oscar Arias e dal presidente del Brasile Lula. L’altra sinistra partirebbe da Caracas e passando per La Paz, prolungandosi fino ai Caraibi e a Cuba. Ma l’America latina questa volta ha presentato un volto unitario e alternativo. Ha discusso un tema di forte impatto politico, l’estensione del trattato sul libero scambio firmato a L’Avana il 29 aprile dai presidenti boliviano, cubano e venezuelano, che stabilisce norme di commercio internazionale in radicale contrapposizione con tutti gli accordi di libero scambio esistenti o in preparazione. È stato chiamato «trattato di commercio tra i popoli» perché per la prima volta si pongono come priorità la solidarietà e non la concorrenza, la creazione di posti di lavoro, l’inserimento sociale, la sicurezza alimentare e la tutela dell’ambiente. L’accordo aggira i circuiti finanziari e si fonda talvolta sulla reciprocità tra gli Stati. Dimostra, in altre parole, che un altro commercio è possibile. Cile la protesta degli studenti È durata un mese la protesta dei «pinguini» (così sono chiamati gli studenti di Santiago, ragazzi tra i 13 e i 17 anni), presto estesasi a tutto il Paese, che ha messo a dura prova il governo della neo-presidente Michelle Bachelet. Il malessere della classe studentesca, con la richiesta di un sistema scolastico più equo e accessibile a tutti, ha in realtà radici lontane. Si ricorderà come la dittatura di Pinochet portò fino al 1990 un alto livello di sovvenzioni statali alle scuole private messe in piedi da imprenditori, con conseguente segregazione delle classi sociali più deboli. Gli studenti dell’Instituto nacional, il più prestigioso istituto pubblico di Santiago, occupando la scuola hanno chiesto per prima cosa la deroga di questa Legge che assegna ai privati il ruolo eminente nell’istruzione. La battaglia è stata vinta nonostante i tentativi di repressione. Altro argomento ricorrente è stato quello della disparità tra le elevate spese militari (due miliardi e 700 milioni di dollari) e i fondi stanziati per l’istruzione (800 milioni di dollari). ROCCA 15 LUGLIO 2006 IN soli 5 MILLIMETRI trovi Anna Portoghese ti sei ricordato di ordinare il Cd-rom 2005? a cura di TUTTA Rocca minimo SPAZIO primipiani ATTUALITÀ 7 ATTUALITÀ Nepal pace tra maoisti e governo Bose gli incontri con i Bizantini e i Russi Europa ad Assisi la Convention della Croce rossa Storico accordo di pace a Katmandu, il 15 giugno, tra governo e i guerriglieri maoisti dopo 10 anni di guerra civile e più di 13 mila vittime. Prevede lo scioglimento del Parlamento per dar vita a un esecutivo ad interim con la partecipazione della guerriglia. La pace è stata aggiunta durante undici ore di colloqui tra il premier Prasad Koirala e il leader maoista Prachanda. L’accordo, in otto punti, prevede l’invito a osservatori nelle Nazioni Unite a gestire l’esercito e alcune procedure durante la realizzazione dell’assemblea costituente e delle elezioni nepalesi e, oltre allo scioglimento dell’attuale Parlamento, anche di quelle Amministrazioni costituite in alcune aree del Paese dai ribelli maoisti. Si sancisce il maggiore rispetto dei diritti civili e delle libertà individuali. Si ricorderà come dopo le manifestazioni di piazza dello scorso aprile, il Nepal è uscito dal regime di monarchia assoluta.. La commissione che dovrà redigere la nuova Costituzione è già stata nominata. Il Monastero di Bose organizza anche quest’anno – dal 14 al 20 settembre – un Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, patrocinato dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e da quello di Mosca. Nei dialoghi, in genere, il confronto avviene a diversi livelli. A quelli che chiamiamo di interiorità o di preghiera cui i monaci sono deputati per vocazione, è certo più possibile armonizzare punti di vista plurali coinvolgendosi nel mistero dell’altro e di Dio, in un processo di ricerca e di scoperta impensabili a livelli solo teologici, culturali o storici. L’iniziativa di Bose si svolge quest’anno su temi essenziali: la liturgia e la missione, «Nicola Cabasilas e la Divina liturgia» (14-16 settembre), «Le missioni della Chiesa ortodossa russa» (18-20 settembre). Accanto agli specialisti sono attesi metropoliti, vescovi, monaci e fedeli delle Chiese sorelle bizantine e russa, pastori delle Chiese riformate. Informazioni: Monastero di Bose, Magnano (Bi), tel 015 679 185, convegno @monasterodibose.it. La Convention europea del primo soccorso della Croce rossa ( Face) si è tenuta in Assisi dal 14 al 18 giugno. Le squadre (di oltre millecinquecento giovani volontari) rappresentavano le società di Armenia, Austria, Belgio, Bosnia, Bulgaria, Croazia, Repubblica ceca, Danimarca, Finlandia, Germania, Irlanda, Islanda, Kirgystan, Lituania, Macedonia, Monaco, Norvegia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ungheria. Scopo dell’incontro, punteggiato anche da momenti di festa, è stato quello di confrontare le tecniche di primo soccorso, i protocolli d’intervento più aggiornati, scambiandosi esperienze ed idee per una rete di comunicazione europea. In Assisi e dintorni c’è stata un’ imponente gara di soccorso a squadre, con simulazione di disastri e di emergenze, alla quale, per motivi di ospitalità, l’Italia non ha partecipato e che ha visto la vittoria della squadra serba. Massimo Barra, il presidente nazionale Cri, ha parlato di responsabilità, di «valori universali condivisi». Darfur per una iniziativa dell’Onu ROCCA 15 LUGLIO 2006 «Se i principi fondatori delle Nazioni unite sono qualcosa di più che un semplice sogno (…) allora il Consiglio di Sicurezza deve agire». Così il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha esortato il 9 maggio il Consiglio ad assumere una decisione immediata per reagire al «genocidio» perpetrato dal governo di Kartum e dai suoi alleati nella regione del Darfur. George Bush aveva anche denunciato «i janjawids, milizie armate dal governo sudanese che assassinano uomini, violentano donne, picchiano a morte i bambini» tra le tribù che si suppone nascondano i ribelli. Il presidente americano ha annunciato l’invio immediato di cinque navi cariche di cibo a Porto Sudan e chiesto un aiuto al Congresso per consentire al Programma alimentare mondiale (Pam) di fare la sua parte. L’iniziativa americana contempla anche l’invio di truppe Onu in Sudan, ma il capo della diplomazia sudanese Lam Akol, pur dicendosi disponibile al dialogo, non ne vuole sentir parlare. 8 notizie seminari & convegni Mosca. Frère Alois, responsabile della Comunità di Taizé dopo la morte di frère Roger, ha voluto far visita alla Chiesa ortodossa russa dal 28 maggio al 2 giugno. Accolto calorosamente dal Patriarca Alessio e dal metropolita Kirill, frère Alois ha spiegato: «La Chiesa ortodossa russa occupava un posto speciale nel cuore di frère Roger. Aveva un infinito rispetto per essa, a motivo delle prove che aveva attraversato e ricordava come tanti cristiani ortodossi avessero saputo amare e perdonare». Lussemburgo. Hanno preso il via i negoziati tra Unione europea e Turchia per l’ingresso di quest’ultima nell’Ue. I Paesi europei sono riusciti a trovare un acordo per superare il veto greco-ciprioti all’apertura del dialogo con Ankara. A Lussemburgo il ministro degli esteri Abdullah Gull ha discusso il primo dei 35 capitoli delle trattative, che riguarda la scienza e la ricerca. 16-21 luglio. Santulussurgiu (Or). Settimana biblica sul Vangelo di Giovanni, guidata da mons. Arrigo Miglio e d. Roberto Filippini. Informazioni: 070 237 288; e-mail [email protected] 17-21 luglio. Martina Franca (Ta). Esercizi spirituali per sacerdoti e laici impegnati, presso il Centro climatico san Paolo di Lanzo di Martina Franca, diretti da mons. Franco Castellana. Informazioni: 080 700 039. 23-29 luglio. Domodossola (Vb). XXIV Sessione biblica, presso il Centro di spiritualità dei Padri Rosminiani, tenuta dall’esegeta biblico p. Xavier Léon Dufour s.J. sul tema «Dio è amore», scandita in quattro sotto-tematiche. Informazioni: Adele Fratus tel. 0382 423515; 333 674 1358, p. Mario Reguzzoni s.J. 335 61 648 46. 30 luglio-6 agosto. Cavandone (Vb). Campo estivo del Movimento nonviolento sul tema «Stili di vita a confronto». Informazioni: Sergio Albesano, cell. 349 4031 378, email; [email protected]. 31 luglio- 6 agosto. Firenze. Alla Casa per la Pace di Tavarnuzze Percorso in 10 tappe di spiritualità e prassi della nonviolenza attiva. Coordinano Giovanni Scudiero, Fabio Corazzina, Carmine Campana. Informazioni: Pax Christi, via Quintole per le rose, 15, Tavarnuzze (Fi). 2-29 agosto. Urbino. Dedicato ai 500 anni dell’Università «Carlo Bo», un fitto programma di eventi filosofici, politici e letterari al Palazzo Petrangolini. Da segnalare in particolare il 22 agosto, ore 11,15: Giannino Piana presenta il suo ultimo libro: «Etica, Scienza e Società» I nodi critici emergenti (Cittadella editrice 2005) ; il 24 agosto, ore 17,30: Seminario del biblista Guido Benzi su «Lo straniero nella Bibbia». Informazioni: [email protected]. 6-13 agosto. Torino. Campo estivo organizzato dal Sermig sul tema: «Le parole e i gesti dell’accoglienza». Informazioni: Maria Pia Catania tel. 346 0831 939; A. Arenghi e-mail: [email protected]. 12-19 agosto. San Giacomo d’Entracque (Cn). Settimana biblica guidata da Rosanna Virgili sul tema: «La piccola sorgente che divenne un fiume» Ester, una donna nelle tensioni di una società multietnica. Informazioni: 347 591 4923, fax 011 985 9774, e-mail:[email protected]. 13-16 agosto. Assisi. Incontro biblico, organizzato dal Gruppo Missioni della Pro Civitate Christiana, sul tema: «Il perché della nostra speranza». Rilettura dei libri di Aggeo, Gioele, Zaccaria e Malachia. Relatori: Lucio Sembrano, Porzia Quagliarella, Sennen Nuziale, Gruppo Salzano (Ve), Bruno Baioli. Informazioni: Cittadella Cristiana Assisi, tel. 075 813231, fax 075 812 445. 13-22 agosto. Selva di Valgardena (Bz). A Villa Capriolo due proposte a scelta: «Miraggi e segreti dell’amore», corso per fidanzati, diretto da d. Aristide Fumagalli; Lettura del Vangelo di Giovanni «Il dramma dell’uomo e di Dio», condotto da p. Silvano Fausti e p. Stefano Titta. Informazioni: 0471 793 389, e-mail [email protected]. 14-19 agosto. Ostuni (Br). Corso biblico alla Fraternità di Bose sul tema «Perché ha molto amato», guidato da Sabino Chialà. Informazioni: Fraternità monastica di Bose, Loc. Lamacavallo 72017 Ostuni (Br), tel/fax 0831/ 304390; e-mail: [email protected]. 19-20 agosto. Catania. Campo missionario di strada «Scendere nelle piazze per farsi portatori di speranza». Animazione diretta da p. Gianluca Tavola. Informazioni: 0422 707486. 20-30 agosto. Vatolla (Sa). Corso di ricerca vocazionale per i giovani guidato da Gesuiti e Laici. Informazioni: P. Michelangelo Maglie, tel. 099 561 0002, cell. 349 360 9908, e-mail: [email protected]. 24-29 agosto. Viterbo. 45° Convegno nazionale Cem Mondialità sul tema: «Tra bene e male? Il conflitto negli immaginari dell’educazione». Informazioni: [email protected]. 25-31 agosto. Barza d’Ispra (Va). Al Centro di spiritualità don Guanella Corso teoricopratico di vocalità per il canto liturgico. Sono previsti anche percorsi individualizzati e la fornitura di materiali didattici. Informazioni: 338 704 5235. 26-28 agosto. Fano. All’eremo di Montegiove incontro sul tema: «L’esodo: Mosé e il Faraone». Relatori: A. Luzzatto, G.A. Borgonovo, G. Ripanti, M.Miegge, M. Tronti, P. Virno, R. Rossanda, S. Portelli, Coordinatore G. Barbaglio. Informazioni: Eremo 0721 864 603; e-mail: [email protected]; cell. 349 432 7149., tel. 0721 809 496. 26-31 agosto. Trevi (Pg). Settimana di spiritualità per il quotidiano sul tema: «Credere perché? Immagini di Dio e volti dell’uomo». Relatori: M. De Maio, A. Paoli, A. Zaffiro, C. Molari, R. Mancini, G.E. Rusconi, O. Diz, E. Marie, A. Valerio, p. F. Scalia. Laboratori esperienziali, gruppi tematici e di approfondimento. Informazioni: Ore undici onlus, Via Ottaviano 105 -00192 Roma tel. 06/398 874 28 – 06/397 456 04 fax 06 397 337 67; e-mail [email protected]. ROCCA 15 LUGLIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 10 Superato dall’Unione europea, nella riunione a Bruxelles del 16 giugno, il blocco degli aiuti finanziari all’Autorità palestinese, che la comunità dei donatori internazionali attuò all’indomani della vittoria di Hamas alle elezioni politiche (25 gennaio 2006). Allora Israele decise una «serrata finanziaria» contro il nuovo governo e anche l’Europa e gli Stati Uniti interruppero i contatti bloccando tutti gli aiuti ad Hamas (in totale circa 1 miliardo di euro). Tra i territori palestinesi la crisi economica scoppiò gravissima, sconcertando anche l’inviato americano Wolfensohn per i suoi risvolti tra la popolazione civile. A questo punto si fece strada la mediazione dell’Ue che, con uno schema inedito, per evitare che i fondi finissero al governo, si orientò a soddisfare la situazione di emergenza con donazioni dirette, per sanità e forniture energetiche, sotto la supervisione del presidente palestinese Abu Mazen. La prima somma da elargire si aggirava in 100 milioni di euro. Tuttavia, c’era da ottenere l’approvazione dell’intero «Quartetto» (oltre all’Ue, gli Usa, l’Onu e la Russia), impegnato a riportare la pace in Medioriente, che aveva chiesto ad Hamas di riconoscere Israele, rinunciare al terrorismo e alla violenza. Il commissario Ue per le relazioni internazionali, signora Benita Ferrero-Waldner, ha ricevuto in tempi brevi l’assenso del «Quartetto» all’operazione, allargata a Romania e Bulgaria. Intanto, sempre a Bruxelles, Romano Prodi ha presentato un piano di cooperazione rafforzata tra l’Ue e i Paesi del Mediterraneo, anche per frenare da quelle aree l’immigrazione clandestina. Ci si sente smarriti di fronte agli abusi (impuniti e nascosti) in una società che si dice democratica. Non avremmo saputo, se non con ritardo, dell’ assassinio in Guatemala di un agricoltore indio e sua moglie, Antonio Ixbalan e Maria Petzey, colpevoli di indagare e di aver svelato le dimensioni atroci delle violenze commesse durante il passato conflitto. Ma in questo frammento di storia si è rispecchiata la violenza omicida persistente. Il Guatemala, piccolo paese centroamericano, culla della civiltà Maya, ha subìto negli anni 80 un genocidio cui la comunità internazionale è rimasta quasi indifferente. Antonio era il presidente del Conic (Coordinamento di Organizzazioni indigene e contadine), indagava per conto della «Commissione per la verità», costituita dalle Nazioni Unite, e il suo omicidio sarebbe passato inosservato se la vittima non fosse stata un collaboratore di «Mani Tese», organismo contro la fame e per lo sviluppo dei popoli. Rimandiamo all’ampio servizio della rivista di questo movimento (giugno 2006) per un’analisi della situazione guatemalteca. Rileviamo solo che, a partire dal 1996, quando gli accordi di pace sancirono la fine del genocidio e della repressione contro i Maya, in realtà si costituì una «democrazia a bassa intensità» perché tuttora le cause del conflitto restano non affrontate. Esse sono, come ha scritto la Commissione per il chiarimento storico, l’ingiustizia strutturale, la chiusura degli spazi politici, il razzismo, l’esistenza di istituzioni escludenti ed antidemocratiche. Nell’attuale governo, su 30 incarichi, due sono per le donne e solo due per gli indigeni. Migranti denuncia vaticana contro i Cpt Ormai anche migranti che approdano alle nostre coste costituiscono un dato ineludibile della storia contemporanea e in Italia i Cpt (Centri di permanenza temporanea) hanno tentato di dare una risposta agli approdi. Ma la battaglia per la loro chiusura continua e si è fatta ancora più pressante dopo la denuncia presentata dal cardinale Renato Martino in un convegno romano sul tema della «detenzione dei rifugiati richiedenti asilo». Il presidente del Consiglio vaticano «Giustizia e Pace» ha dichiarato che i Centri sono ridotti ormai a vere prigioni dove si violano sistematicamente i diritti dell’uomo, dove viene umiliata la dignità umana e che occorre trovare soluzioni alternative perché «i rifugiati e gli immigrati rinchiusi in questi centri non hanno commesso alcun crimine se non quello di arrivare in Italia con una speranza di salvezza». Critiche ai Cpt sono venute anche dalle comunità islamica e da quella ebraica. Per contro, critiche anche ai religiosi... per «ingerenza». della quindicina Guatemala democrazia senza partecipazione il meglio Bruxelles l’Ue sblocca gli aiuti ai Palestinesi vignette ATTUALITÀ da IL CORRIERE DELLA SERA, 12 giugno da IL CORRIERE DELLA SERA, 12 giugno da L’UNITÀ, 12 giugno da L’UNITÀ, 12 giugno da IL MANIFESTO, 13 giugno da IL CORRIERE DELLA SERA, 14 giugno da LA REPUBBLICA, 17 giugno da MADRE, giugno 2006 ROCCA 15 LUGLIO 2006 ROCCA 15 LUGLIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 11 cittadella convegni Cittadella di Assisi, 20-25 agosto senza i sandali dell’identità? “… non c’è giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo, o donna…” (Gal 3, 28-29) Il Corso è proposto dalla Cittadella con la collaborazione della Comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana ogni giorno ore 8,30 preghiera del mattino domenica 20 chi sono io? percorso in prosa e in versi tra identità di popoli e persone - a cura di ore 21,15 Roberto CARUSI, regista; Carlo MATTI al pianoforte lunedì 21 ore 9 ore 16,30 ore 21,15 martedì 22 ore 9 ore 16,30 non ha taciuto esplorare l’identità Eugenio BORGNA, psichiatra; Sergio GIVONE, filosofo se l’identita’ cammina con la storia Raniero LA VALLE, giornalista e scrittore quando sei nato non puoi più nasconderti film di Marco Tullio GIORDANA culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? Nacera BENALI, giornalista algerina; Kossi KOMLA-EBRI, chirurgo togolese, scrittore migrante; Rosino GIBELLINI, teologo – coordina Franca CICORIA, della Cittadella crescere con le differenze incontro con Marco PIAZZA, maestro di musica classica dell’India; intervista TV esclusiva a Raimòn PANIKKAR, indiano, filosofo delle religioni a cura di Renzo SALVI, capo-progetto Rai Educational mercoledì 23 nelle derive integraliste… vivere la laicità Corrado AUGIAS, scrittore; Giannino ore 9 PIANA, teologo morale – coordina Catiuscia MARINI, sociologa, sindaco di Todi ore 16,30 cos’è di Cesare? cos’è di Dio? Enzo BIANCHI, priore della Comunità monastica ecumenica di Bose chi non si mette la maschera?: Il ‘Miserere’ di Georges Rouault; presentazione di Tony BERNARDINI, della Cittadella ore 21,15 ri-trovarsi nell’Eucaristia – celebrazione presieduta da mons. Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi, Nocera, Gualdo Tadino giovedì 24 ore 9 l’identità feriale Lilia SEBASTIANI, teologa le identità negate interpellano la politica personalità del mondo politico coordina Tonio DELL’OLIO, di ‘Libera International’ ore 17 “...chiunque io sia, tu mi conosci “ Rosanna VIRGILI, biblista a piedi nudi… consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio Enzo BIANCHI informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] Raniero La Valle o non vorrei più sentir dire che Dio ha taciuto ad Auschwitz. Se fosse solo un’espressione retorica, per rendere l’idea dell’enormità di quanto lì è accaduto, un tale abisso di male che perfino Dio era ridotto al silenzio, si tratterebbe di una retorica efficace solo per quanti ritengono che Dio c’è e parla; ma in chi non lo crede ciò non suscita alcuna emozione e anche Auschwitz rientra nella normalità. Un papa teologo come Benedetto XVI non può essere sospettato di parlare di Dio ad uso di un paradosso retorico; e se chiede conto a Dio del suo silenzio, del suo non muoversi dinanzi alla tragedia culminata ad Auschwitz, come ha fatto lì, nel cuore del campo di sterminio, lo fa sul serio, sulla scia dei Salmi, di Hans Jonas, di Lévinas e di Wiesel, come ha scritto Giancarlo Zizola nell’ultimo numero di Rocca. In effetti è una domanda molto ebraica, di chi crede in Dio ma pur sapendo di essere «polvere e cenere», come Giobbe, contende con Lui. È una domanda anche un po’ pericolosa. L’idea degli ebrei sionisti dopo la Shoah, è stata che se non ci pensava Dio ci dovevano pensare loro; come gridava Begin nelle comunità della diaspora: «mai più gli ebrei deboli e senza potere»; questa divenne la spinta maggiore per la costituzione dello Stato di Israele; ma quanto a sicurezza, da Dio allo Stato gli ebrei non ci hanno guadagnato. Per un Papa è meno abituale questo discutere con Dio. Giovanni XXIII non avrebbe mai detto che Dio taceva; per lui Dio parlava anche nell’ascesa delle classi lavoratrici, nella nuova coscienza della dignità della donna, nella liberazione dei popoli coloniali, e perfino nella Carta dell’Onu e nelle Costituzioni come quella che è oggi sotto scacco in Italia, cose in cui vedeva dei «segni dei tempi». Ma poi i Papi si sono fatti più arditi: Paolo VI si lamentò che Dio non era intervenuto per Moro, e ne morì di crepacuore; papa Wojtyla nel libro di Rizzoli scritto prima di morire, libro di successo ma di debole teologia, mise in conto a Dio i dodici anni «concessi» al nazismo, e quelli molto più numerosi permessi invece al comunismo; e papa Benedetto ha riaperto la domanda su Auschwitz. Ma Dio non ha taciuto affatto ad Auschwitz; e lo stesso papa Ratzinger lo suggerisce, quando riconosce Dio all’opera nell’amore I testimoniato dalle vittime, e cita i nomi di Massimiliano Kolbe e di Edith Stein; un amore così vittorioso, anche lì, che Roberto Benigni ha potuto intitolare il suo film, eco di una grande teologia, «La vita è bella». In effetti alla domanda sull’assenza di Dio ad Auschwitz ha dato una precoce risposta, proprio in quegli anni, un’altra vittima e grande teologo tedesco, Dietrich Bonhoeffer, quando ha enunciato un’altra idea della provvidenza di Dio nella storia, licenziando l’immagine di un Dio tuttofare, «tappabuchi» dei nostri vuoti di conoscenza e di azione, escludendo che lo si possa chiamare a rapporto per i mali che ci sopraggiungono e per i disastri provocati da noi. All’alternativa posta da Jonas, o Dio non è buono o non è onnipotente, la risposta è: «la seconda che hai detto»; non è onnipotente al modo antropomorfico in cui noi pensiamo il potere e la potenza; e perciò non è neanche un enigma per cui è incomprensibile in quel che fa con la sua potenza. Dicono i biblisti che nel Nuovo Testamento il termine onnipotente è stato una creazione di San Girolamo, e nell’Apocalisse, dove frequentemente ricorre, è traduzione della parola greca «pantocrator» che, come spiega Alberto Maggi, significa che Dio ha potere su tutti, non che «può fare qualunque cosa che gli venga in mente». C’è un senso in cui la Parola di Dio è Dio stesso, è la Parola creatrice, e questa non viene mai meno; e c’è un senso in cui la Parola di Dio parla attraverso la parola degli uomini; anche la Scrittura è parola di Dio che si fa largo, a fatica, attraverso la parola degli uomini; e spesso è taciuta o fraintesa. Se gli uomini tacciono davanti al genocidio non è Dio che tace. Nè si possono contestare a Dio i miracoli che non fa. Questa è una tentazione che il Vangelo respinge. Dunque nemmeno si può chiedere a Dio conto di Auschwitz; e se lì, come ha detto il Papa, volevano uccidere Dio stesso, ebbene questo è un Dio che si fa uccidere. Del resto lo stesso papa Benedetto ci porta su quest’altra strada, quando dice che quel grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, deve rivolgersi a noi stessi «proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure». ❑ 13 ROCCA 15 LUGLIO 2006 64° Corso internazionale di Studi cristiani RESISTENZA E PACE CONO D’AFRICA Somalia nuovo Iraq? 14 L ti. Inutile dire che questo ha creato molti problemi di prospettiva al Governo di transizione somalo, che siede a Baidoa (250 km a nord-ovest di Mogadiscio) e di cui sono rispettivamente presidente Abdullahi Yussuf e premier Ali Mohammed Gedi. È impossibile esaminare questa nuova crisi africana senza ricordare da una parte che il Corno d’Africa è stato al centro di numerosi sanguinosi conflitti che in Somalia hanno causato la bellezza di 500.000 morti in 15 anni. Da sola, la guerra somalo-etiope per il controllo dell’Ogaden alla fine degli anni ’70 ha lasciato sul terreno 80.000 morti. Dall’altra, bisognerà anche sottolineare che il territorio somalo si affaccia sullo Stretto di Aden, all’uscita dal Mar Rosso, rotta di navigazione delle petroliere che trasportano il petrolio saudita verso il mondo occidentale. ritorno dei marines Dopo il colpo di stato che mise fine nel 1991 alla dittatura di Siad Barre, la Somalia fu teatro l’anno successivo del primo intervento ‘umanitario’ della nuova Onu nata dalla fine della Guerra fredda, di cui faceva parte un consistente contingente statunitense. Che fu protagonista nel 1993 di una clamorosa ritirata dopo l’abbattimento da parte di guerriglieri armati con fucili kalashnikov piazzati su furgoni di due elicotteri Black Hawk e il massacro di 18 Rangers. Per nove anni Washington si è mantenu15 ROCCA 15 LUGLIO 2006 ROCCA 15 LUGLIO 2006 Maurizio Salvi a Somalia, paese africano esistente in pratica dal 1991 solo sulla carta geografica, è tornato a far parlare prepotentemente di sé, e rischia di trasformarsi in una sorta di nuovo Iraq infiammando tutto il Corno d’Africa se la comunità internazionale non mostrerà di avere tirato dalle paludi irachene la giusta lezione dell’atteggiamento da prendere di fronte alla spinta del mondo islamico in fermento. Durante tutto il corso del 2006, infatti, forze militari emanate dalle cosiddette Corti islamiche hanno moltiplicato i loro successi sul terreno, conquistando in giugno Mogadiscio e Jowhar (già sede del governo) e mettendo fuori gioco i Signori della Guerra, una volta potenti, e finanziati per l’occasione dagli Stati Uni- il Gruppo di Contatto ROCCA 15 LUGLIO 2006 Comunque, il cocente fallimento del progetto americano ha convinto Washington ad operare un mutamento rapido di strategia. Considerando inopportuno, e nella sostanza impossibile, aprire un nuovo fronte militare con l’invio di truppe, il Dipartimento di Stato americano ha mobilitato al massimo tutte le sue potenzialità diplomatiche, ponendo prima di tutto in servizio attivo un Gruppo di Contatto composto da nazioni con passato coloniale (Italia e Gran Bretagna), paesi con lunghe tradizioni umanitarie (Norvegia e Svezia), la Tanzania nella sua qualità di membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e l’Unione europea (Ue). Le Nazioni Unite e l’Unione africana (Ua) sono invece presenti con il titolo di osservatori. Questo gesto fra l’altro è stato considerato dagli osservatori come una decisione della stessa Condoleezza Rice di riprendere in mano il dossier somalo, dopo averlo lasciato in gestione alla Cia che, come abbiamo visto, aveva puntato senza successo sul rafforzamento dei Signori della Guerra. La prima riunione del 16 Gruppo, presieduto dal Segretario di Stato aggiunto per l’Africa, Jendayi Frazer, si è chiusa con la diffusione di un comunicato in cui si ribadisce l’appoggio alle «istituzioni federali di transizione» considerate come «quadro legittimo e praticabile «e si incoraggia il dialogo fra il governo di transizione le Corti islamiche». Naturalmente il documento chiede anche a tutte le parti di «tenere conto delle preoccupazioni della comunità internazionale riguardanti il terrorismo» e di garantire l’accesso «senza restrizioni» alle organizzazioni umanitarie. Caschi Blu africani Su questo cammino tracciato a New York, il 19 giugno si è tenuto ad Addis Abeba un incontro fra Unione africana, Igad (organizzazione a cui aderiscono sei paesi dell’Africa orientale più il governo di transizione somalo) ed Unione europea che ha stabilito l’invio di una missione per studiare la possibilità del dispiegamento in Etiopia di una forza di pace africana. L’intervento dei Caschi Blu africani, auspicato ripetutamente dal presidente somalo Yussuf, non è invece affatto gradito al presidente delle Corti, sceicco Shariff Sheikh Ahmed, che ha chiesto di evitare qualsiasi ingerenza esterna nel regolamento di conti in corso in Somalia. La decisione di avviare il progetto esplorativo per l’invio della forza militare di pace è giunta pochi giorni dopo che lo stesso leader islamico aveva denunciato la presenza di truppe etiopiche «fuori e dentro i confini somali». «Rivolgiamo un appello alla comunità internazionale – aveva detto Shariff Sheikh Ahmed – a fare pressioni su Addis Abeba affinché ritiri le truppe dal territorio somalo, al fine di evitare un nuovo conflitto». Questo duro confronto fra il governo provvisorio somalo (il 14° creato dalla fine della dittatura di Barre) che gode dell’appoggio della comunità internazionale e le Corti sarà decisivo per il futuro del paese. Se è impensabile infatti che il governo possa farcela senza sostegno esterno, va detto anche che le autorità islamiche non possono non rendersi conto che il progetto di voler riproporre l’esperienza afghana in questa parte del mondo senza disporre della compattezza mostrata dai talebani non avrebbe grandi possibilità di successo. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA partitocrazia di ritorno Romolo Menighetti U no dei fatti negativamente più rilevanti della nostra storia politica recente è il prepotente e arrogante ritorno della partitocrazia. Buttata fuori dalla finestra come conseguenza di Tangentopoli, è rientrata dalla porta attraverso la nuova legge elettorale, varata dalla precedente maggioranza di centrodestra, e con la quale siamo andati a votare il 9 aprile scorso. La partitocrazia è ritornata portata trionfalmente a spalla da molti di coloro che non più di quindici anni fa vedevano nel sistema proporzionale e nello strapotere dei partiti, la fonte di ogni degenerazione e corruzione della vita pubblica. I partiti con la recente riforma elettorale hanno scippato quel poco di potere che i cittadini ancora avevano in ordine alla designazione dei loro rappresentanti in Parlamento. Infatti le liste dei candidati le hanno compilate i loro vertici nel chiuso delle segreterie, stabilendo a priori chi dovesse essere eletto e chi no. I cittadini sono stati chiamati solamente a ratificare nelle urne le loro decisioni. Per comprendere appieno la grossa involuzione democratica perpetrata è bene riflettere un po’ più approfonditamente su ciò che è la partitocrazia, e su ciò che ha comportato per noi italiani in un recente passato. La partitocrazia è una degenerazione del sistema democratico perché trasforma i partiti – in sé indispensabili per la democrazia in quanto espressione della volontà e del controllo popolare – in strumenti per l’occupazione delle istituzioni da parte delle loro oligarchie. Il fenomeno interessò l’Italia tra gli anni Settanta e Novanta, e raggiunse proporzioni tali da mettere a repentaglio la stessa Repubblica. La successiva conquista della ribalta politica da parte di forze nuove espresse dalla cosiddetta società civile sembrò porre fine alla partitocrazia. Ben presto però queste forze si sono consolidate e costituite in sistema, e in esso si sono blindate. Una volta strappato il potere al sistema dei partiti tradizionali, ne hanno creato uno analogo a loro uso e consumo. Caratteristiche generali della partitocrazia sono: l’occupazione di ogni spazio istitu- zionale, rigorose norme per regolare la spartizione degli incarichi, assenza di spessore e di originalità programmatica, clientelismo, corruzione. Gli organi costituzionali destinati a regolare i rapporti Stato-società vengono così invasi, e quindi svuotati, dai partiti. In tal modo le forze politiche, che dovrebbero porsi al servizio del dialogo tra cittadini e istituzioni, garantendo rappresentanza ai primi e rappresentatività alle seconde, da comprimarie diventano quasi le uniche protagoniste. Il consenso popolare che aggregano, invece di trasformarsi in risorsa arricchente e legittimante l’intero apparato pubblico, si ricicla in potere a servizio di interessi privati e particolari. Inoltre la partitocrazia distorce le relazioni tra un’istituzione e l’altra. Invadendo tutti i centri decisionali, i partiti vanificano il sistema dei contrappesi voluto dal costituzionalismo moderno, aprendo così la strada che potrebbe portare ad un regime potenzialmente totalitario. I partiti che ora hanno restaurato la partitocrazia in Italia, solo in parte rappresentano i cittadini. Oggi la forza dei partiti poggia per lo più sulla notevole massa di denaro che, con astute leggi aggiranti il voto referendario, convogliano entro le loro casse. In più, l’occupazione del potere rende possibile il consolidarsi di un vasto sistema clientelare. Il tutto concorre a creare e ad alimentare la numerosa corporazione partitica, che accomuna tutte le sigle (più di 300.000 persone in Italia vivono, a diversi livelli, di politica). Tale corporazione è tenuta insieme da ottime indennità per gli eletti (dal parlamentare europeo al consigliere di quartiere), da privilegiate condizioni in materia previdenziale ed assistenziale, dalla quasi certezza di impunità a livello civile e penale, e da buone probabilità di restare in ogni caso «nel giro» (come manager di Asl o altro) in caso di mancata elezione. Perciò l’abrogazione dell’attuale legge elettorale dovrà essere uno dei primi atti del nuovo governo di centrosinistra. Solo così, almeno una parte della sovranità che la Costituzione attribuisce ai cittadini potrà ritornare nelle mani dei suoi legittimi titolari. ❑ 17 ROCCA 15 LUGLIO 2006 CONO D’AFRICA ta lontana dalle sabbie mobili somale, dove i Signori della Guerra hanno scomposto il paese in un mosaico di potentati locali a fini affaristici, mentre si moltiplicavano secessioni e proclamazioni di indipendenza mai prese in conto dalla comunità internazionale (Somaliland, Puntland, Jubaland e quella proclamata dall’Esercito di resistenza Rahamweyn). Nel 2002, però, i marines sono tornati sull’Oceano Indiano per espandere la lotta al terrorismo islamico ed agli elementi di Al Qaida presumibilmente rifugiatisi in questa regione del Continente nero. La Casa Bianca ha portato all’estremo questa strategia convincendo, ovviamente con argomenti finanziari, i Signori della Guerra ad unirsi in febbraio in una improbabile Alleanza per il ripristino della pace e contro il terrorismo, che è andata in frantumi quando i miliziani delle Corti islamiche sono entrati nella capitale somala il 5 giugno. Nelle zone sotto il loro controllo le Corti - finanziate fra l’altro da uomini d’affari somali operanti da paesi vicini che hanno intuito il potenziale unificante della religione islamica nel paese – hanno introdotto immediatamente la Sharia (la legge fondamentale coranica), sullo stile di quanto fecero i talebani dopo la loro vittoria in Afghanistan. CATTOLICI ITALIANI l’etica al posto della politica ROCCA 15 LUGLIO 2006 Filippo Gentiloni 18 ostalgia della antica e gloriosa Democrazia Cristiana? Quel partito permetteva di riunire cittadini di destra e di sinistra in una larga piazza di centro, all’insegna di un pensiero politico chiaramente cattolico, pur senza chiamare in causa direttamente né la chiesa né il Vaticano. Era stata una bella e lunga stagione, all’insegna di quella dottrina sociale della chiesa che pretendeva di assumere il meglio – e di lasciare il peggio – sia della destra liberale che della sinistra socialista e comunista. Una stagione che ormai è finita: i tentativi di resuscitarla appaiono vani. Anche quelli di questi giorni che, pure, sembrano particolarmente impegnativi, sia per i temi affrontati sia per la presenza di protagonisti cattolici da una parte e dall’altra. Un «intergruppo» che qualcuno ha definito «lobby virtuosa». Il suo contributo al dialogo potrebbe rivelarsi prezioso. Eppure… Il loro sforzo appare sterile, N marginale. Si ha l’impressione che il grande gioco politico si svolga altrove, che la grande piazza del centro cattolico rimanga vuota o quasi. cara vecchia Dc Come mai? I temi in discussione che impegnano il pensiero e il voto cattolico non sono irrilevanti, dai Pacs, alla pillola RU486, alle cellule staminali. Ma si tratta di temi più etici che politici, si potrebbe dire, semplificando. Temi che non coinvolgono quella dottrina sociale della chiesa che aveva permesso – e giustificato – il partito «a ispirazione cristiana» e che oggi è scomparsa. Allora non si trattava soltanto della posizione cattolica su alcuni temi etici, soprattutto quelli riguardanti la famiglia e il matrimonio. Si trattava di una posizione cattolica nella grande politica nazionale e internazionale, sul terreno dell’economia, del risparmio, del lavoro. Si pensi alle grandi encicliche pontificie da quelle di Leone XIII a quelle di Giovanni Paolo II. La speranza della costruzione di un assetto sociale che salvaguardasse insieme la società e l’individuo, l’autorità e la libertà. Oggi questa grande speranza sembra svanita e l’impegno cattolico sembra ridursi a temi particolari. In poche parole, l’etica invece della politica. Qualcuno dirà che doveva essere così perché la grande sistemazione politica non rientra nei compiti del magistero ecclesiastico. Forse è così: comunque si comprende la difficoltà di riunire oggi alcune forze di destra e di sinistra all’insegna della dottrina cattolica. Nonostante la buona volontà di molti cattolici impegnati in politica l’«intergruppo» stenta a decollare. Bisognerà piuttosto accettare che i cattolici facciano politica in ordine sparso, scegliendo di volta in volta secondo coscienza. Così per la famiglia e il matrimonio così per il lavoro e l’immigrazione, per la scuola e la salute, per la nascita e la morte. Così è già, d’altronde, in molte parti del mondo. Filippo Gentiloni 19 ROCCA 15 LUGLIO 2006 Paola Binetti e Fabio Mussi, accanto; Giuliano Amato, sotto DROGA la stanza del buco I il gioco degli schieramenti ROCCA 15 LUGLIO 2006 Perché da tempo il nostro sterminato ceto politico preferisce il gioco degli schieramenti, il palio dei simboli, la presa di distanza o di prossimità invece che la responsabilità collettiva della mediazione e della decisione. È successo per l’amnistia e succede per molti altri argomenti. Perfino sul testamento biologico, che riguarda il diritto della persona a una decisione cosciente circa le terapie che vorrebbe o non vorrebbe ricevere nel caso in cui diventasse impossibile una espressione consapevole, quattro anni di discussioni e di prese di posizione coerenti con le aspettative di un paese evoluto non sono bastati a convincere il parlamento ad approdare ad una qualche decisione. «Se la politica non ascolta i bisogni della popolazione – conclude oggi 20 su Repubblica il professor Umberto Veronesi – la popolazione fa a meno della politica». Ma purtroppo non è sempre così. Della politica come capacità di misurarsi con i problemi concreti e di vagliare con onesta attenzione, prima di decidere, gli esiti dell’una o dell’altra delle soluzioni praticate o possibili, c’è un assoluto bisogno. E anche di un atteggiamento laico, prudente, meditato, in grado di analizzare i fatti e i processi reali, di seguire e interpretare i passaggi controversi della complessità, alieno dalle semplificazioni ideologiche e strumentali. strutture di ultima istanza Ma tutto ciò scarseggia, nell’Italia di oggi. La prova è proprio nella maggior parte delle polemiche seguite alle dichiarazioni di Ferrero, in verità solo possibiliste e con tutta evidenza non programmatiche, sull’opportunità di sperimentare anche in Italia le consumption rooms, che fanno parte dei programmi di riduzione del danno di diversi paesi europei: l’Olanda, la Svizzera, la Germania, la Spagna (fin da quella di Aznar), il Lussemburgo, la Norvegia. In alcuni casi lo strumento è già legalizzato, in altri si tratta di progetti-pilota, mentre in diverse realtà – per esempio il Portogallo – i governi si apprestano a sperimentarlo. Ma di che cosa siano davvero, a chi siano destinate, quali siano i loro risultati non c’è praticamente nessuna traccia, nelle sparate dettate alle agenzie e nelle interviste ai giornali. Bisogna rivolgersi altrove per sapere che si tratta di strutture di ultima istanza, riservate esclusivamente ai tossicodipendenti di lunga durata, su cui non ha avuto effetto nessun altro intervento e nessuna altra terapia, neppure il metadone. Dunque malati che non hanno altra prospettiva che la prigione o la morte, persone a rischio continuo di overdose, di malattie infettive, di gravissimi malori. Le consumption rooms sono, in effetti, una specie di ambulatori dove i tossicodipendenti vengono assistiti e controllati nell’assunzione di sostanze che si sono procurati da soli. Non sono, dunque, luoghi dove si ROCCA 15 LUGLIO 2006 Fiorella Farinelli l fuoco incrociato delle polemiche seguite alle dichiarazioni del ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero sulle «stanze del buco» non dovrebbe nascondere la questione più importante. Cioè che il belpaese, anche sulle droghe, si è finora sottratto alle indicazioni dell’Unione Europea. Che, ovviamente, non si pronunciano sulle politiche specifiche che nei diversi contesti nazionali si vogliano adottare sul consumo delle sostanze stupefacenti o sul dramma delle tossicodipendenze, ma che stabiliscono che ogni paese membro deve dotarsi di una strategia basata su quattro punti cardine: prevenzione, trattamento, riduzione del danno e lotta al narcotraffico. Da quell’indicazione, che è stata condivisa ed approvata nel 2000, sono passati sei anni. Un tempo ragionevole per mettersi in regola, ma non per l’Italia, l’unico dei 29 paesi (i 25 dell’Ue più quelli candidati), a non avere ancora un piano. E non perché il tema non interessi i politici, pronti anzi – come si è appena visto – ad azzuffarsi con il massimo vigore quando si tratti di temi «eticamente sensibili» o comunque tali da sommuovere e dividere l’opinione pubblica, ma per un altro motivo. 21 riduzione del danno Chi sostiene, dunque, che le stanze del buco non sono la soluzione ai problemi della droga e al dramma delle tossicodipendenze sfonda una porta aperta. Chi le contrappone alle comunità di accoglienza, alle terapie di disintossicazione, ai servizi che si occupano delle cause della dipendenza, agli interventi di prevenzione e di educazione, invece, non sa di che cosa parla. La questione è un’altra, ed è anch’essa serissima: si tratta, con tutta evidenza, dell’importanza delle strategie di riduzione del danno e, in questo contesto, della loro effettiva efficacia. Del resto ancora controversa, come si deduce dalla cautela con cui si esprime in proposito l’Organizzazione Mondiale della Sanità: che dichiara di non avere una posizione ufficiale perchè non dispone ancora di dati certi sull’impatto positivo delle consumption rooms sulla salute dei tossicomani. Anche se sembra accertato che il rischio overdose viene ridotto praticamente a zero in strutture dove gli interventi medici sono immediati; e anche se si osserva una riduzione dei comportamenti a rischio tra le persone che le frequentano. la politica dei veti incrociati ROCCA 15 LUGLIO 2006 Il povero ministro Ferrero, dunque, non meritava una tale tempesta. E tanto più in un paese dove si stanno lasciando morire i servizi pubblici dedicati all’accoglienza e alla cura dei tossicodipendenti: strangolati, prima ancora che dalla riduzione dei finanziamenti, da una diffusa incuria alimentata dal prevalere di una cultura politica di tipo punitivo che fa dell’assunzione delle sostanze stupefacenti un reato, che vede in quasi- continuità l’uso personale e lo spaccio, e che non distingue abbastanza tra droghe leggere e pesanti. Con sicuri effetti su un ulteriore affollamento delle 22 patrie galere e su un ulteriore ingrossarsi della criminalità collegata al proibizionismo. Mentre prospera un narcotraffico che è la fonte principale dell’impero economico della mafia. Ma non sarà semplice cambiare le cose. Sebbene nel programma della coalizione oggi al governo ci siano impegni importanti, come l’obiettivo della cura delle tossicodipendenze «al di fuori delle strutture detentive», l’abolizione delle sanzioni amministrative per chi detiene sostanze stupefacenti per uso personale, l’abrogazione della norma Fini-Giovanardi, il rilancio del ruolo dei Sert, l’attenzione alle strategie di riduzione del danno «come parte integrante della rete dei servizi», anche nel centrosinistra ci sono posizioni diverse che rischiano, attraverso la pratica dei veti incrociati, di rallentare i processi decisionali e di diminuirne la portata. tra depenalizzazione e liberalizzazione È, in particolare, ancora irrisolta la questione di fondo: se cioé si debba adottare una logica di depenalizzazione del consumo e, in questo quadro, debbano avere spazio e possibilità di sviluppo le strategie di riduzione del danno; o se, viceversa, si debba assumere un approccio antiproibizionista di piena liberalizzazione dell’uso delle sostanze stupefacenti. Il ministro Ferrero si dichiara a favore della prima alternativa, l’ex ministro della salute Veronesi, invece, sostiene le ragioni della seconda. Una questione effettivamente molto complessa, dietro cui vivono visioni opposte non solo del rapporto tra lo Stato e le libertà individuali, ma anche e di nuovo posizioni diverse sul significato etico dell’uso delle droghe. Anche a questo proposito, ovviamente, si ripropone la guerra dei numeri, cioè il confronto tra i risultati delle diverse politiche nell’uno o nell’altro paese dell’ Unione Europea o di altre aree del mondo. Ma è evidente che il problema non si risolve solo con i dati statistici. Anche prima del governo Berlusconi che ha dato il massimo spazio alle posizioni più rigide e conservatrici nei confronti del problema droga, era stato del resto molto difficile approdare a mediazioni convincenti e a soluzioni efficaci. E non è affatto detto che il contesto attuale, caratterizzato da un allungarsi incessante dell’elenco delle questioni eticamente sensibili e da un modo di discuterne sempre più surriscaldato, possa presentare condizioni più favorevoli. Fiorella Farinelli ECOLOGIA anche l’ambiente rende Aldo Abenavoli redi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana». Con queste parole la Populorum Progressio (par. 17) di Paolo VI introduce il tema dell’ambiente nella dottrina sociale della Chiesa. La chiave di lettura del brano sembrerebbe racchiusa nella parola «obblighi», termine perentorio che lascia intendere il preciso dovere di difendere il giardino dell’Eden affidato dal Signore alla umanità perché lo trasmetta integro alle generazioni future. A prima vista il termine mal si concilia con una corretta attitudine verso la natura che dovrebbe essere improntata più all’amore che alla coercizione: va da sé che la dimensione ecologica dovrebbe esprimersi preferibilmente attraverso un atteggiamento mentale e una vera e propria passione verso il «Creato» che può essere innata o acquisita attraverso una intensa opera di educazione e di informazione. Per chi ad esempio si propone di contribuire al risparmio energetico e alla limitazione dei gas serra, la prima azione da compiere è di lasciare l’automobile in garage tutte le volte che è possibile utilizzare senza grossi scompensi il mezzo pubblico. Parimenti, se nel momento in cui ci rechiamo in un supermercato, ci ricordassimo del grande potere che E abbiamo come consumatori e decidessimo di indirizzare gli acquisti verso i prodotti recanti un marchio ecologico, il contributo alla tutela della natura sarebbe molto più incisivo di quello garantito da una miriade di leggi, decreti e circolari ministeriali. È tuttavia evidente che il rispetto dell’ambiente, ove fosse affidato alla esclusiva buona volontà delle singole persone avrebbe vita breve; occorre dunque dare a Cesare quello che gli spetta. norme di legge e interventi pattizi La politica nell’ambiente può agire essenzialmente attraverso due strumenti: il primo è quello della norma vincolante, tanto per intendersi quella che ad esempio definisce i limiti massimi delle sostanze inquinanti che possono essere emesse nella atmosfera o scaricate nelle acque: una volta superati detti limiti scatta la sanzione che a seconda della gravità può essere di natura amministrativa o penale. Le norme di legge possono essere emanate direttamente dallo Stato che, in base alla riforma della Costituzione del 2001, ha acquisito in materia una competenza esclusiva o dalle regioni, che comunque possono legiferare sugli aspetti applicativi ed esecutivi o dalla Unione Europea che opera attraverso regolamenti, direttamente vincolanti per i cittadini, o direttive che invece si rivolgono agli stati membri; non van23 ROCCA 15 LUGLIO 2006 DROGA distribuisce «eroina di Stato», ma solo centri in cui si mettono a disposizione siringhe non infette, controlli sanitari, assistenza infermieristica e medica, spazi riservati per assumere le sostanze. Dunque tutt’altra cosa rispetto ai servizi che tentano di liberare dalla dipendenza, attraverso terapie di disintossicazione graduale combinate con interventi psicologici, sociali e di altro tipo. E infatti i loro risultati si misurano non in numeri o percentuali di persone uscite dal dramma della droga, ma in riduzione delle infezioni da Hiv e di epatiti, in contenimento delle morti da overdose, in diminuzione dell’uso di droghe in pubblico. cultura della legalità ROCCA 15 LUGLIO 2006 Peraltro anche un approccio di tipo volontario non può prescindere dalla condivisione di un minimo di regole da rispettare comunque e in ogni caso. Prendiamo ad esempio le norme che subordinano la costruzione di un edificio al rilascio di una licenza edilizia; in questo caso non esistono alternative, la norma va applicata senza se e senza ma altrimenti scatta, anzi dovrebbe scattare, la sanzione. Tutto questo significa in parole povere che la tutela dell’ambiente non può prescindere dal rispetto integrale della legalità; purtroppo nel nostro paese la cultura della legalità è assai scarsa e questo per 24 una nazione che si vanta di essere la culla della civiltà e il centro della cristianità è molto preoccupante. Che la sensibilità del cittadino medio verso il rispetto della legge sia molto ridotta si evince del resto dai numerosi condoni edilizi che si sono susseguiti nel tempo e che hanno dato gettiti tutt’altro che trascurabili, a dimostrazione di come il fenomeno sia profondamente radicato nella mentalità comune, tanto è vero che quasi mai viene avvertito come disdicevole. «Così fan tutti, dunque evidentemente non c’è nulla di male». «E poi regole eccessivamente severe in materia ambientale sono di ostacolo al progresso e allo sviluppo economico». Eppure non dovrebbe essere difficile comprendere come una abitazione costruita in località proibite o con modalità non consentite sia un vero e proprio attentato a quel giardino che il Signore ci ha affidato in custodia (Genesi 2,15) e che dobbiamo trasmettere integro alle generazioni future. incentivi e disincentivi Una volta assicurato il rispetto degli standard minimi, quelli al di sotto dei quali non si può scendere in nessun caso, ecco allora soccorrere lo strumento che potremmo chiamare volontario. Non a caso il mondo delle imprese, rispetto al criterio del «command and control», cioè delle regole rigide verificate da una autorità severa, esprime una naturale preferenza per l’approccio volontaristico anche se questo presuppone sempre un quadro di norme all’interno del quale l’azienda può assumere gli impegni volontari. In altri termini gli accordi devono essere il veicolo per implementare al meglio le regole ambientali e non un comodo alibi per eluderle. Lo strumento volontario, se collocato entro un preciso quadro di riferimento, si lascia preferire in quanto consente di inquadrare la tutela dell’ambiente nell’ambito più generale della politica economica e dello sviluppo equilibrato del paese. Infatti, attraverso lo strumento degli incentivi e dei disincentivi, si possono orientare le scelte delle imprese e di riflesso dei consumatori; in questo modo la opzione ambientale viene a coincidere con quella economicamente più conveniente. Per fare un esempio, al fine di promuovere lo sviluppo delle energie rinnovabili si tende a fissare l’accisa sui prodotti petroliferi su livelli abbastanza elevati e contestualmente a defiscalizzare quella sui bio- carburanti quali il biodiesel e il bioetanolo che derivano dalla coltivazioni agricole; queste fonti, oltre ad essere rinnovabili, sono particolarmente positive per l’ambiente in quanto il gas serra emesso nella combustione viene recuperato attraverso la fotosintesi. In questo caso anche le aziende petrolifere possono trovare conveniente miscelare il biocarburante, che grazie alla defiscalizzazione diventa competitivo, con il gasolio di propria produzione mentre la coltivazione delle colture energetiche, dalle quali vengono ottenuti i biocarburanti, serve a promuovere la agricoltura che a sua volta, attraverso la cura e la manutenzione dei terreni agricoli, svolge una funzione ambientale e sociale. La leva fiscale come strumento di politica economica trova nelle emergenze ambientali ampie possibilità di utilizzo. Allorquando si parla di fisco, il cittadino comune a prescindere dalle ideologie politiche pensa inevitabilmente a qualche cosa di mostruoso dal quale spontaneamente allontanarsi; tutto questo in controtendenza con la già citata Populorum Progressio (par. 47) la quale ammonisce chiunque a contribuire secondo i propri mezzi al bene comune, aiutando coloro che sono più bisognosi. Le ragioni della naturale avversione del cittadino verso il fisco sono ricollegabili al più generale clima di sospetto e sfiducia verso lo Stato che ha origine storiche sulle quali non ci possiamo dilungare ma che sono facilmente intuibili. Ecco allora che il trasformare il fisco da marchingegno diabolico ideato per prosciugare le esangui tasche dei cittadini, ad uno dei pilastri della politica economica volto a promuovere atteggiamenti virtuosi e a penalizzare comportamenti non conformi all’interesse generale, può essere il mezzo per fare accettare meglio il fisco. utilità della leva fiscale La leva fiscale come strumento di politica economica può essere utile in tutti i campi (si pensi ad esempio agli incentivi a favore della assunzione di lavoratori giovani) ma nella dimensione ambientale può essere il volano per costruire quello che viene comunemente definito lo sviluppo sostenibile. L’ambiente come strumento di politica economica è inoltre elemento essenziale nelle relazioni internazionali soprattutto con riferimento ai paesi del terzo mondo. È chiaro che, se desideriamo che i paesi più poveri possano svilupparsi e raggiungere standard di vita accettabili, occorre che le limitate risorse a disposizione siano utilizzate secondo criteri razionali ed efficienti. Fino a quando gli Stati Uniti con il 5% della popolazione continueranno a consumare il 25% delle risorse energetiche e a causare un pari ammontare di emissioni in atmosfera, qualsiasi progetto di sviluppo della parte più sfortunata del pianeta è destinato a restare sulla carta. Ne è riprova la preoccupante impennata dei prezzi dei prodotti petroliferi connessa al tumultuoso sviluppo di paesi emergenti come la Cina e l’India che si affacciano nel mondo del consumo e reclamano la loro parte di torta che peraltro, con tutto il «lievito» che vi può essere aggiunto, non può crescere più di tanto. Ecco allora che una politica di risparmio energetico non solo è raccomandabile ma diventa anche la condizione per la sopravvivenza della civiltà umana. Per questi motivi decisioni di politica economica e fiscale, che a prima vista sembrano orientate a ridimensionare il nostro tenore di vita, vanno accettate in quanto sono necessarie per mantenerlo. una Carta Costituzionale della natura Osserva a questo proposito la Centesimus Annus (par. 36) che» il sistema economico non possiede al proprio interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti che ostacolano la formazione di una matura personalità. È necessaria quindi un’opera educativa e culturale che comprenda l’educazione dei consumatori ad un uso responsabile del proprio potere e la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e nelle imprese di pubblicità». Ambiente e politica si possono coniugare solo se le forze politiche e i cittadini che le esprimono trovano un terreno comune di intesa sui valori e i principi, una sorta di Carta Costituzionale della natura che prescriva regole condivise valide a prescindere dalle coalizioni che di volta in volta sono chiamate a governare il paese. Ecco dunque che il percorso che, partendo dall’individuo, arriva alla politica finisce poi inevitabilmente per ritornare all’individuo, anzi per meglio dire alla persona umana, unica responsabile del presente ed artefice del futuro. ROCCA 15 LUGLIO 2006 ECOLOGIA no dimenticati infine gli impegni derivanti dagli accordi internazionali come ad esempio il protocollo di Kyoto sulle emissioni in atmosfera. Un secondo tipo di interventi è quello che potremmo definire di tipo pattizio; con questo strumento la autorità politica cerca di concordare con gli operatori economici un accordo con il quale, a fronte di un impegno a conseguire determinati standard ambientali, vengono riconosciuti benefici di natura economica quale finanziamenti, agevolazioni fiscali e così via. Rientrano in questa categoria le certificazioni ambientali (Emas o Iso) con le quali la azienda si assoggetta volontariamente ad una serie di controlli a fronte dei quali acquisisce un attestato di «benemerenza ambientale», una sorta di diploma che può essere vantato anche nelle etichette del prodotto ed essere utile per valorizzare l’immagine verso la clientela ed il consumatore. Un altro strumento di tipo volontario è quello adottato per il recupero e il riciclaggio degli imballaggi. Premesso che l’Unione Europea ha fissato obiettivi di recupero e riciclaggio che devono essere conseguiti entro un determinato tempo, le autorità politiche del nostro paese hanno preferito lasciarne la gestione direttamente alle categorie interessate e cioè ai produttori di imballaggi, agli utilizzatori e ai commercianti dei prodotti confezionati negli stessi imballaggi, i quali hanno costituito un consorzio (Conai) che si finanzia con un contributo di riciclaggio pagato dalle imprese e trasferito alla fine sul consumatore finale. A detta degli interessati il sistema funziona molto bene e può essere considerato un modello di sintesi tra l’interesse pubblico che è il fine e intervento privato che è il mezzo. Aldo Abenavoli 25 INSERTO amnistia e indulto ROCCA 15 LUGLIO 2006 Romolo Menighetti 26 ’amnistia, nella sua accezione originaria, è un provvedimento generale di clemenza sovrana. In quanto tale è un atto non dovuto, ma scaturisce unicamente dalla volontà del sovrano, che può concederla per favorire la pacificazione sociale o per ragioni di opportunità politica. È perciò riduttivo, e per certi aspetti costituisce una degenerazione del suo significato originario, fare dell’amnistia uno strumento per sfoltire periodicamente le carceri. Nell’ordinamento italiano attualmente l’amnistia è prevista dall’articolo 79 della Costituzione, e dall’articolo 151 del Codice penale. Essa estingue il reato. Si applica per reati che prevedono un massimo della pena di 4/5 anni, secondo quanto stabilisce il legislatore. Non si applica in caso di reati particolarmente gravi, e ai recidivi. L’amnistia non è da considerarsi un’assoluzione. È, infatti, possibile per un imputato rinunciare ai benefici dell’amnistia e chiedere di essere processato, al fine di ottenere un’eventuale assoluzione. L’amnistia si differenzia dall’indulto. Questo si limita a condonare un certo periodo di pena (2 o 3 anni, secondo quanto stabilito di volta in volta dalla legge). Anche in questo caso sono esclusi i reati particolarmente gravi. La procedura di approvazione, da parte del Parlamento, di un provvedimento di amnistia o di indulto, è particolarmente laboriosa. Infatti, prevede che la legge sia deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera «in ogni suo articolo e nella votazione finale». Questa regola, introdotta con legge Costituzionale n. 1 del 6 maggio 1992, da sedici anni impedisce di fatto la concessione di amnistie e indulti, mentre dal 1942 al 1992 se n’ebbero ben 34 (eccetto il cosiddetto «indultino» – legge 207 del 2003 – che fu concesso con legge ordinaria, richiedente solo la maggioranza del 50 per cento dei votanti). Amnistiare alcuni reati e condonare una parte delle pene già comminate attraverso l’indulto è sempre una forma di rinuncia da parte dello Stato al suo diritto-dovere di L amministrare correttamente la giustizia. Infatti ciò comporta una lesione del diritto dei cittadini alla sicurezza, in conseguenza della rimessa in libertà di pregiudicati. È inoltre una lesione del diritto di tutti a che la legge sia sempre pienamente applicata. In particolare è una lesione del diritto di coloro che hanno subìto un reato, a vedere pienamente applicata la legge nei casi che li vede vittime. D’altro canto però c’è la violazione del diritto dei detenuti ad un trattamento rispettoso della dignità umana, diritto calpestato dal sovraffollamento delle carceri italiane (dovuto anche all’eccessiva lunghezza dei processi) e dal conseguente degrado fisico e psicologico entro cui sono costretti a vivere. Si determina così una situazione di conflitto tra sacrosanti diritti dei cittadini, quelli carcerati e quelli che con la prigione non hanno niente a che fare. La qual cosa denuncia una situazione di fallimento della macchina della giustizia. In ogni caso, se la situazione delle carceri risulta essere esplosiva al punto che si rende necessario far prevalere il diritto alla dignità dei detenuti sul diritto alla sicurezza e alla certezza della pena dell’intera collettività, i conseguenti provvedimenti di clemenza dovrebbero almeno essere considerati come il primo passo di una riforma della giustizia (processi più rapidi, stesse opportunità di difesa per ricchi e poveri) e del sistema carcerario (umanizzazione della reclusione, pene alternative al carcere, misure per l’accoglienza e il reinserimento di chi viene scarcerato). In particolare, a proposito del problema della sicurezza collettiva, considerato che solo una piccolissima parte degli autori di reato finiscono in carcere (nel 2003, secondo l’Associazione Giuristi Democratici, l’80 per cento degli autori dei reati denunciati era ignoto), risulta evidente che il problema della sicurezza e della legalità riguarda solo in parte il carcere, ma più in generale tutta la società libera. È perciò entro tale ambito che debbono essere create le condizioni di vita, di convivenza e di opportunità, affinché risulti preferibile e più conveniente, per i cittadini tentati dall’illegalità, puntare sul rispetto delle leggi e delle norme, piuttosto che sulla loro trasgressione. la Chiesa italiana verso il IV Convegno a Verona Giancarlo Zizola L e ultime notizie dalla Chiesa italiana arrivano dal sud est della Turchia, dalla piccola comunità cattolica di UrfaHarran, sul Mar Nero, dove Andrea Santoro, prete cattolico della Chiesa di Roma, inerme testimone del dialogo tra cristiani e islamici, è stato assassinato domenica 5 febbraio a colpi di pistola. Un altro caso, l’ennesimo, di eliminazione violenta di figure impegnate nel mettere in relazione mondi diversi, lontani o non comunicanti tra loro, in congiunture critiche della storia. Le notizie arrivano anche dal profondo sud dell’Italia, dalla Chiesa di Locri la quale, facendosi fermento della società civile, ha reagito con coraggio profetico, guidata dal suo vescovo Giancarlo Bregantini, all’assassinio mafioso dell’onorevole Francesco Fortugno il 16 ottobre 2005, contrastando la posizione governativa dominante formulata dal ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi con l’incredibile affermazione: «Con la mafia e la camorra bisogna convivere e i problemi della criminalità ognuno li risolva come vuole» (la Repubblica, 24 agosto 2001). Arrivano anche da Trento, dove il 31 dicembre 2005 decine di migliaia di giovani hanno partecipato alla marcia nazionale di Pax Christi per la giornata mondiale della pace. Per essere equanimi bisogna anche aggiungere che notizia di cui tener conto è anche il timido balbettio del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana che, di fronte alla legge appena approvata sulla «legittima difesa», il 1° febbraio ha saputo contenere la propria appassionata preoccupazione per il primato della vita al semplice «auspicio che la normativa sull’uso delle armi per la legittima difesa non oscuri e non relativizzi il valore della vita umana». Come se l’autorizzazione dello Stato a uccide- ROCCA 15 LUGLIO 2006 re per difendere il possesso di beni materiali non fosse così grave da attirare da parte dei pastori almeno una goccia del vibrante sdegno manifestato nelle Giornate per la Vita contro l’interruzione volontaria della gravidanza di madri spesso sole e in difficoltà. Notizia è però anche il silenzio mantenuto al riguardo dalle associazioni del Volontariato, dalla stessa Pax Christi, dalle Acli, dall’Azione Cattolica Italiana, dalla Caritas eccetera, che un tempo non avrebbero mancato di innalzare la loro protesta. Del resto, che fine aveva fatto l’appello firmato da centinaia di religiosi, religiose, preti, diaconi e laici perché la Cei si pronunciasse sul fosforo «democratico» che aveva distrutto la città santa di Falluja? E che dire della controversia sulle indebite ingerenze della Cei nell’ordine politico, sull’attivismo tendente a stabilire la sua egemonia nei settori della vita pubblica? La denuncia di una tale deriva temporalistica della Chiesa dovrà essere sbrigativamente versata sul conto di un rigurgito di laicismo incapace di fare i conti con la propria afasia culturale e la propria tautologia storica? Non sono evidentemente solo queste le ultime notizie dalla Chiesa italiana, ma queste che ho voluto richiamare, in modo antologico, mi sembrano sufficienti ad assaggiare l’ambivalenza che connota l’attuale situazione generale della Chiesa cattolica nel nostro Paese: una Chiesa incerta «tra profezia e normalizzazione», secondo il riepilogo storiografico proposto da Padre Bartolomeo Sorge in un articolo pubblicato da Aggiornamenti sociali cui faremo ampio riferimento (1). Una Chiesa che un’altra autorevole rivista dei gesuiti italiani, La Civiltà Cattolica, non ha esitato a presentare da un lato «viva e capace di rispondere alle sfide, in gran parte nuove e radicali, di tipo socioculturale, morale e scientifico che il mondo moderno pone alla fede e alla morale cristiana», dall’altra parte, pervasa in parecchi cristiani da «un senso di smarrimento e di incertezza, che giunge a mettere in questione le verità essenziali della fede e della morale cristiana e a creare un senso di distacco – affettivo ed effettivo – dalla Chiesa e di affievolimento della pratica cristiana, specialmente tra i giovani» (2). parola chiave: speranza È in questa situazione di incertezza che la Chiesa italiana prepara il suo IV Convegno ecclesiale nazionale, in programma a Verona dal 16 al 20 ottobre 2006. Il tema, scelto dopo una approfondita riflessione dell’epi28 scopato nella 51° assemblea generale (Roma, 15-23 maggio 2003) è Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. L’obiettivo dichiarato è di rilanciare il ruolo che i cristiani, e in primo luogo i laici, sono chiamati a svolgere nel contesto della società italiana. La parola chiave è «speranza», la speranza che interpella e suscita la testimonianza in vari ambiti. La riflessione si articola su quattro grandi arcate: 1) ripartire da Cristo Risorto fonte della testimonianza; 2) testimoniare l’identità cristiana attraverso la parresia, ossia il coraggio dell’annuncio e della vita; 3) seminare speranza attraverso l’impegno storico del cristiano per un mondo migliore; 4) incarnare la testimonianza cristiana nell’esperienza quotidiana, cioè negli spazi concreti nei quali si svolge il quotidiano, e si edificano società e civiltà. In particolare, il Convegno è sollecitato a occuparsi di cinque ambiti concreti considerati più bisognosi dell’annuncio cristiano: a) la vita affettiva (come superare la emotività, la fragilità dei sentimenti che è all’origine di tante crisi della famiglia e della vita personale e sociale); b) il lavoro e la festa (che cosa fare perché la necessaria flessibilità non si traduca in precarietà e il riposo settimanale e le feste non siano tempo ‘vuoto’ o di stordimento, ma anche lo svago serva alla crescita spirituale e umana); c) la fragilità umana (come accogliere i deboli, i nascituri e i bambini, i malati e i poveri, i senzatetto e gli immigrati, i carcerati e gli anziani); d) la tradizione (come trasmettere ai giovani una formazione morale e intellettuale adeguata, non solo nelle aule scolastiche, ma anche attraverso un uso responsabile dei mass media); e) la cittadinanza (come educare a pensare in globale mentre si agisce nel locale, partecipare da cittadini del mondo alla soluzione dei problemi che affliggono la famiglia umana: fame, ingiustizia, emigrazione forzata, assenza di pace, degrado ambientale). Nella Traccia di riflessione che ha fornito la piattaforma preparatoria del Convegno si sottolinea che «questo nostro tempo ha una grande nostalgia di speranza, anche per i rischi insiti nelle rapide trasformazioni culturali, in particolare per la deriva individualistica, per la negazione della capacità di verità da parte della ragione, per l’offuscamento del senso morale. Ogni cristiano è chiamato a collaborare con gli uomini e le donne di oggi nella ricerca e nella costruzione di una civiltà più umana e di un futuro buono». Non si tratta di un appuntamento calendariale, ma di una opportunità per la Chiesa di riflettere sulle sue risorse spirituali, culturali, organizzative, sulla sua capacità di riprendere il cammino, non di rado poco lineare, del rinnovamento conciliare per contribuire alle risposte da elaborare insieme ai portatori di altri pensieri e da offrire ad una società spesso smarrita nelle contraddizioni e negli incendi degli inizi del terzo millennio. prospettive dissimili È di ogni evidenza che il tema fondamentale di questa riflessione, forse la posta in gioco più alta, è l’auspicato riequilibrio tra due prospettive dissimili. Da un lato, la prospettiva adottata dalla gestione del cardinale Ruini lungo i 15 anni della sua presidenza della Cei, prospettiva che potremmo brevemente indicare come quella di una Chiesa istituzionale impegnata a forgiare, grazie alla sua presenza sociale e alla sua incisività culturale, una identità credibile nel tessuto civile, al punto di influenzare col proprio stock di valori etici l’orientamento antropologico della società, in dialogo con le istituzioni e le forze politiche. Una prospettiva dunque, per cercare di riassumere, tale da permettere alla Chiesa istituzionale di rimanere una forza sociale consistente e centrale nella società italiana ed europea, valorizzando quel fondo di eredità cristiana che viene considerato un dato strutturale e radicato della cultura diffusa del Paese. Dall’altro lato, la prospettiva più dichiaratamente testimoniale e religiosa, che assuma senz’altro l’irrinunciabile dimensione pubblica della fede cristiana, ma preferisca concentrarsi per significarla sulla forza intrinseca dell’annuncio evangelico e della testimonianza personale dei cristiani, secondo l’opzione della «scelta religiosa» compiuta nel 1° Convegno Ecclesiale di Roma nel 1976 e poi realizzata con la svolta pastorale imperniata sul rinnovamento interno della Chiesa e delle modalità della sua presenza in Italia. Siamo in molti a chiederci, con Padre Sorge, «che fine abbiano fatto le grandi speranze suscitate dal 1° convegno, trent’anni or sono» Infatti, si diffonde la sensazione che, alla stagione profetica del primo postconcilio, sia subentrata una fase, se non di Ecclesia dormiens, di Chiesa normalizzata. Una tale operazione ha investito specialmente il posto del laicato nella Chiesa, che era uscito rivalutato dall’ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Al Convegno del 1976, forgiato dalla passione conciliare del segretario dell’episcopato mons. Enrico Bartoletti, si dichiarava che «illuminati dalla fede e orientati dal magistero vivente della Chiesa, tocca ai laici compiere autonomamente, responsabilmente e sempre in coerenza con la loro coscienza cristianamente formata, la necessaria mediazione dal Vangelo alla vita, dalla fede alla storia, dai valori perennemente validi alla politica contingente». La richiesta formale che venne rivolta nelle conclusioni era per l’istituzione di un organismo nazionale permanente di partecipazione dei laici. Ecco il testo del «voto finale»: «Affinché la presa di coscienza maturata nella preparazione e nella celebrazione di questo Convegno nazionale non svanisca nel nulla o non resti frustrata, è necessario dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra Vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia. È urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa» (3). ritorno alla clericalizzazione Quel voto fu lasciato cadere. Parallelamente non fu recepita l’altra proposta sulle nuove forme di presenza politica dei cattolici in Italia. La Cei non condivise la previsione (adottata invece dal Convegno) circa l’esaurimento imminente della Dc e della crisi del marxismo. I vescovi continuarono a far leva sull’unità politica dei cattolici, anche dopo il convegno ecclesiale di Loreto del 1985, per abbandonarla solo quando la Dc era già scomparsa. Nella stessa preparazione del Convegno di Loreto il ruolo dei laici venne ridimensionato, specialmente dopo la lettera con cui Giovanni Paolo II, il 9 maggio 1984, volle raccomandare che l’episcopato avesse «il posto che gli compete per istituzione divina». In effetti il documento di base, che a Roma era stato redatto da un comitato preparatorio, in cui sedeva anche un laico della statura di Giuseppe Lazzati, venne prodotto per Loreto solo dalla segreteria generale della Cei. Mentre a Roma Paolo VI si astenne da interventi diretti sul Convegno, il convegno di Loreto vide frequente l’intervento diretto di Giovanni Paolo II: un convegno dunque fortemente clericalizzato, concepito più per una ripresa in mano da parte della gerarchia che come un convenire di ogni componente della comunità ecclesiale per 29 ROCCA 15 LUGLIO 2006 INSERTO un’assunzione di responsabilità da parte del popolo di Dio nella formazione delle decisioni della Chiesa, secondo l’antico principio per cui «ciò che riguarda tutti da tutti deve essere deciso». Non senza ragione osservava Giorgio Campanini: «Dopo il Concilio e alla luce del Concilio è possibile accettare una pura e semplice identificazione tra Chiesa italiana e Conferenza episcopale? (…). L’immagine della Chiesa popolo di Dio non appare pienamente realizzata in una Chiesa in cui vi è una sorta di afasia del laicato non solo per quanto riguarda l’ambito delle decisioni, come è giusto, ma anche per quanto concerne l’importante e non meno significativo aspetto della preparazione delle decisioni: decisioni che vengono prese dalla Conferenza episcopale in un certo senso ‘in solitudine’, dato che di fatto pochissimi sono i laici interpellati in ordine alle grandi scelte che concernono la vita della comunità cristiana» (4). normalizzazione dei movimenti ROCCA 15 LUGLIO 2006 Tornava dunque a riemergere il nodo critico del superamento del clericalismo attraverso la ricostituzione di un ruolo non solo «ad extra» ma anche «ad intra» dei laici protagonisti della missione della Chiesa. La stessa apertura verso i nuovi movimenti ecclesiali era accettata a patto che si inserissero nella strategia istituzionale e quindi con un taglio netto delle punte polemiche e delle tendenze verso una Chiesa alternativa o delle pretese di una sostanziale egemonia culturale che in alcuni movimenti come Cl sotterraneamente circolavano. Come ha osservato lo storico Guido Formigoni, «si tratta di un grande compromesso, degno di altri tempi, tra movimento e istituzione, con uno scambio dispiegato tra riconoscimento e fedeltà, avvenuto nell’ultimo decennio. Non a caso ci sono state nomine episcopali e cardinalizie di esponenti importanti di movimenti che segnano questo intreccio reciproco ormai stretto: valorizzazione e controllo. Ulteriore aspetto del quadro è lo scarso investimento sull’autonomia del laicato credente, organizzato o meno. Del laicato non si parla nel ricordo che il cardinale Ruini ci ha offerto del Concilio, che pure dedicò a tale parte del popolo di Dio un’attenzione non secondaria (seppur teologicamente controversa). L’importante è insomma la mediazione istituzionale ecclesiastica: non a caso molti dei (non tutti i) riferimenti di vertice dei movimenti sono ecclesiastici. Come anche ecclesiastici sono tutti i personaggi accreditati come 30 volto del cristianesimo italiano nella comunicazione pubblica. In questo orizzonte l’Azione Cattolica stessa si trova valorizzata nel suo decantato ‘rinnovamento’ ma anche ridimensionata a una forma aggregativa tra le tante, venendo richiamata a non esprimere autonomia sul terreno culturale e politico. La ricostruita e ostentata unità pubblica tra i movimenti cattolici, superando le divisioni del passato, (come se fosse solo un problema di buona volontà e non ci si fosse divisi negli anni Ottanta su questioni serie, legate alla forma teologica della lettura del rapporto Chiesa-storia) appare come una ulteriore manifestazione decisiva della forza visibile e organizzata della Chiesa nella società. Al Meeting di Rimini nell’estate 2004 il segretario della Cei ha officiato la pubblica riconciliazione tra Azione Cattolica e Cl e ha definito l’intesa ‘segnale nuovo e consolante’. Ecco quindi l’approvazione a tutte le iniziative di convergenza sociale delle aggregazioni cattoliche lanciate negli ultimi anni. Ecco l’impegno ancor maggiore dedicato a tutte quelle forme di coordinamento come i «Forum tematici» (su scuola, famiglia, volontariato sociale) che esprimono in termini istituzionali, dipendendo dalla Cei, la concorde azione delle organizzazioni del sociale cattolico: sono quindi ritenuti i modelli più plausibili per rendere visibile una presenza forte dell’istituzione nelle dinamiche pubbliche del Paese (5). il corto circuito Chiesa-storia Nello stesso processo di normalizzazione in vista del rafforzamento istituzionale della Chiesa potrebbe essere compreso anche l’evento pubblico che lo ha coronato: la mobilitazione diretta della gerarchia ecclesiastica per ottenere, attraverso una massiccia campagna astensionista, il fallimento del referendum abrogativo di alcune norme della legge sulla procreazione medicalmente assistita il 12 giugno 2005. Ma a questo punto, per meglio individuare e analizzare il processo che ha portato vicino al corto circuito il rapporto tra Chiesa e storia, tra missione spirituale della Chiesa e l’ambito della legittima autonomia della sfera politica, occorre riprendere il filo della narrazione storica, sia pure per ampie falcate. E riandare al III Convegno ecclesiale di Palermo nel 1995. In esso infatti fu avvertita in modo più sensibile l’esigenza di rilanciare una presenza responsabile dei laici nella vita della Chiesa e della società italiana, tanto più che nel frattempo la Dc era scomparsa, malgrado le iniezioni revi- talizzanti dell’infermeria della Cei. L’epigrafe fu dettata dallo stesso Giovanni Paolo II quando disse che «la Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale che sia rispettosa dell’autentica democrazia». Era una decisa rottura rispetto alle titubanti durate della prassi ecclesiastica precedente, che si serviva della premura del papa polacco per riaffermare la centralità del fattore religioso nel gioco sociale della moderna società secolare al fine di prolungare artificialmente la vita delle antiquate forme teocratiche residuate nella Dc. Un’ipotesi che doveva rastrellare ogni risorsa e persino l’alleanza con il primo Berlusconi affarista per sostenere coi suoi trenta denari la riproduzione di una forma di partito cattolico nel Ppi di Rocco Buttiglione. Un’ipotesi che ha continuato a seminare ambiguità e a gravare di ipoteche politiche la missione evangelizzatrice della Chiesa, lasciando il principio liberatorio affermato dal papa a Palermo nelle astrazioni generalizzanti. Di qui ritengo sia derivata la lenta ma inesorabile parabola discendente subita dalla cultura della laicità in ambito cristiano, data la sua originaria pertinenza al principio chiave della laicità: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Marco 12,13-17). il ruolo dei laici Toccò al Cardinale Carlo Maria Martini il compito di invitare a calare nel concreto l’indirizzo pontificio di Palermo, col famoso discorso della festa di Sant’Ambrogio del 1995 «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare». Egli sottolineava che era venuta l’ora «che siano i laici a trasformare i principi della fede in valori per l’uomo e per la città, in modo che risultino vivibili e appetibili anche per gli altri e meritino il più ampio consenso democratico. Nella nuova situazione del Paese, non basta più proclamare in via di principio i valori discendenti dal patrimonio di fede (la vita, la famiglia e altri). In una società pluralistica e secolare come la nostra, vale più la proposta di cammini positivi se pur graduali, che non la chiusura su dei ‘no’ che, alla lunga, rimangono sterili (...). Non ogni lentezza nel procedere è necessariamente un cedimento. C’è pure il rischio che, pretendendo l’ottimo si lasci regredire la situazione a livelli sempre meno umani». Indubbiamente la Chiesa non deve parteg- giare per l’una o per l’altra fazione o frazione politica, sosteneva il cardinale di Milano, riprendendo quasi letteralmente una raccomandazione rivolta da Papa Giovanni XXIII ai vescovi italiani nel 1962, allorché, nei contrasti durissimi circa l’apertura a sinistra, a lui sembrava inaccettabile la tentazione cui cedevano di intromettersi «al di là di ogni misura» nella controversia politica, mentre avevano così tanto da fare nel culto, nella pastorale, nella Catechesi, in tutto ciò che riguarda la santificazione del popolo cristiano e la autentica formazione delle coscienze. Discorso ripreso dal Concilio Vaticano II nel suo gigantesco tentativo di ridefinire, all’interno di una Chiesa di comunione, pellegrina nel tempo verso il Regno, un modello di presenza cristiana nel mondo moderno capace di rivedere l’ottica integralistica della cristianità, e dunque riconoscendo non solo la piena cittadinanza laicale dei cristiani nella profanità del mondo e nella stessa Chiesa, ma anzitutto il valore propriamente teologico della laicità dei processi storici. chiesa e comunità politica Torna opportuno allora richiamarci alla costituzione pastorale di quel Concilio sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Nel paragrafo 76 la costituzione pastorale Gaudium et Spes ha cura di mettere in rilievo tre principi: la necessaria distinzione, nei rapporti tra Chiesa e comunità politica, tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in nome proprio come cittadini guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa e in comunione con i loro pastori; la necessaria distinzione che sussiste fra la Chiesa, che non è né deve essere legata ad alcun sistema politico, e la comunità politica; l’indipendenza e l’autonomia della Chiesa e della comunità politica l’una dall’altra, ciascuna nel proprio campo. Alunno di Jacques Maritain, nelle cui mani Papa Montini volle deporre alla chiusura del Concilio il messaggio agli uomini politici, Paolo VI portava una acuta sensibilità per l’esigenza di evitare sia la confessionalizzazione della politica sia la politicizzazione della religione. Con l’avvertenza, del resto, che l’autonomia delle realtà terrene non potrebbe significare la rimozione dall’impegno socio-politico di ogni riferimento ad un ordine morale oggettivo. Giova ricordare che Paolo VI nella «Octogesima adveniens» (1971) ricavava dalla nuova dottrina conciliare l’indicazione fortemente innovativa e anti-integralistica se31 ROCCA 15 LUGLIO 2006 INSERTO ROCCA 15 LUGLIO 2006 condo la quale «non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete, e meno ancora soluzioni uniche, per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno, anche se è suo diritto e dovere pronunciare giudizi morali su realtà temporali quando ciò sia richiesto dalla fede o dalla legge morale». Un indirizzo che è sembrato abrogato dalle esorbitanti derive politiche di alcuni dirigenti dell’episcopato italiano negli ultimi mesi, anche se inclini a guardare dall’alto al basso la confusione tra religione e politica ancora vigente nel mondo islamico. Dunque, le mediazioni, anche sul piano politico, sono state prese in carico dal vertice ecclesiastico e convogliate sull’obiettivo strategico di una forte riaffermazione della «nostra identità spirituale e culturale». Assumendo in proprio la rappresentanza dell’unità e delle esigenze del ruolo sociale della Chiesa, la Cei di Ruini si è sentita abilitata a intavolare trattative con le istituzioni e le forze politiche, sia quando fossero in gioco interessi ecclesiastici sia quando si trattasse di una o l’altra variabile dipendente dell’opzione antropologica-culturale adottata dalla Chiesa. Al punto che, a lato della raccomandazione fatta dal papa a Palermo, si è varato un «progetto culturale cristianamente ispirato» nel cui teorema di fondo si ricomprende sia il coordinamento dei molteplici soggetti pastorali delle Chiese sia un collegamento fra i cattolici presenti pluralisticamente nelle varie forze politiche al fine di incarnare i valori umani e cristiani propri e caratteristici della dottrina sociale della Chiesa. La fine dell’unità politica dei cattolici non doveva quindi autorizzare una diaspora dei cattolici ma una opportunità in più per una convergenza preliminare sui valori (in particolare il carattere sacro e inviolabile della vita umana dal concepimento alla morte naturale, la stabilità del modello della famiglia, il pluralismo sociale e la libertà di educazione, l’attenzione privilegiata ai ceti deboli, la libertà e la giustizia sociale a livello globale, i temi di bioetica come quelli espressivi di una identità cattolica, ecc.) Una simile prospettiva, ha notato Guido Formigoni, «non si è contrapposta in modo frontale al recente passato, ma ha molti evidenti punti di discontinuità con l’ispirazione essenziale del percorso postconciliare della cosiddetta ‘scelta religiosa’ della Chiesa italiana». Il problema è di sapere se la scelta «istituzionale-sociale» centrata sull’ambizione della Chiesa istituzionale di contribuire a forgiare una identità cristiana forte nella società secolarizzata sia una 32 via lungimirante e praticabile per superare la crisi fortissima della Chiesa nel ritrovare il senso della sua missione spirituale di fronte alle sfide di una società in vertiginosa trasformazione. O se al contrario la Chiesa non rischi di arroccarsi intorno al proprio mondo, a sviluppare di nuovo pretese di «società perfetta» competitiva, o concorrenziale, che deprezza la prospettiva della reciprocità necessaria tra Chiesa e mondo affermata dal Vaticano II, nella celebre formula della Gaudium et spes, «la Chiesa dà e riceve» che vibrò un colpo epocale all’integralismo cattolico. La questione dunque decisiva nella situazione presente è di capire se la Chiesa sia disposta ad accreditare il processo secolare di una valenza teologica, nella teologia dei «segni del tempo» e se sia altresì disponibile a farsi interpellare da queste trasformazioni che aprono al Vangelo le molteplici vie del mondo globale ma impongono alla Chiesa, se vuole imboccarle, delle costose sofferenze per una radicale riforma delle sue figure storiche. Sarà con le sicurezze dei Concordati o con la forza disarmata e inerme del Cristo crocifisso che la Chiesa potrà riprendere il cammino evangelizzatore nel mondo? Come potrebbe una Chiesa ricca e politicamente compromessa con gli Epuloni trovarsi inginocchiata dinanzi ai Lazzari che a miliardi bussano affamati alla nostra mensa? Come l’annuncio del Cristo crocifisso e della sua Resurrezione potrà accendere la denuncia profetica della Chiesa delle violenze strutturali sull’umanità, delle guerre ingiuste, delle ingiustizie? Come fare della Chiesa uno scudo per le vittime dei soprusi da qualsiasi parte vengano, un fermento di speranza in mezzo al popolo, un fattore di accoglienza per gli immigrati e di solidarietà con gli esclusi? Come la Chiesa potrebbe essere la bocca della speranza pasquale per le disperazioni esistenziali, un agente di dialogo fra i credenti nelle diverse fedi? dalla cattolicità alla laicità È ben noto che il processo di secolarizzazione, che ha fatto irruzione nei secoli moderni in Europa, sarebbe difficilmente comprensibile fuori di una prospettiva propriamente cristiana. Non a caso esso si innesta nel cuore della civiltà sorta dalle radici cristiane, anche se sfocia in una emancipazione spesso ostile e aggressiva, oggi piuttosto sorniona e consumistica, rispetto al patrimonio della religione dalla quale era sgorgato. Ma nella situazione attuale mi sembra che la Chiesa incontri ancora delle re- more a riconoscere i valori culturali e storici, persino teologali, di questo processo, esponendosi così al rischio di aprire una nuova fenditura di tipo intransigente rispetto alla realtà mondana. Se questa ipotesi interpretativa è almeno verosimile, penso che sarebbe sconsigliabile sottovalutare il fatto che la concezione moderna della laicità scaturisce comunque da una rottura, da una rivolta contro le sue origini religiose, occasionata spesso dall’assolutismo teologico e clericale. La scienza vi ha avuto la sua parte, così come la Riforma luterana e la Rivoluzione dell’Illuminismo. Essa ha avviato il processo di declericalizzazione del cristianesimo, indebolendo il potere sociale del clero e delle Chiese. Ha desacralizzato il potere religioso, facilitando la desacralizzazione della sovranità politica e la secolarizzazione della politica. Infine, avendo insistito sulle prerogative religiose dell’individuo e legittimato il pluralismo, non si può negare che la laicità abbia egualmente concorso al riconoscimento della libertà di coscienza e della separazione della Chiesa dallo Stato. Il passaggio dalla cattolicità alla laicità non è dunque appena un semplice cambiamento di regime: dal riconoscimento del monopolio della verità al pluralismo dei sistemi di convinzione e di riferimento, a ciò che Weber definiva «politeismo dei valori», una pagina della storia dell’umanità è stata voltata. Siamo passati da una società fondata sulla verità assoluta e sull’autorità suprema ad una società formata di coscienze singolari e di libertà inalienabili, nella quale l’autorità della coscienza precede l’amministrazione del divino e ne contesta le pretese assolute. Sebbene la quérelle della Chiesa coi Lumi moderni e liberali non si sia ancora del tutto esaurita, pure non si potrebbe riproporre, di fronte a questi innegabili progressi, lo stereotipo dualistico della cultura cattolica intransigente, che continua a tingersi di nero catastrofista dinanzi alle derive fatalmente malefiche della modernità. Riflesso del discorso della Chiesa sulla libertà e sulla democrazia, la figura del laico e l’idea della laicità sono state strette in un unico destino, e largamente utilizzate per la contestazione della Chiesa di fronte alla insostenibile laicizzazione della storia. Nella Chiesa dell’Intransigenza ottocentesca, la cui cultura ha irrorato la stagione antimodernista fino a lambire il Concilio Vaticano II, il laico cattolico non poteva che subire nella sua struttura la scissione tra le due potenze, società perfette ciascuna nel proprio ordine. Il mondo non potendo configurarsi che come campo profano da consacrare, più che come spazio o casa comune di una ricerca di salvezza da compiere insieme, il laicato era adibito al ruolo puramente strumentale dell’avamposto del clero «in partibus infidelium». A lungo considerate con diffidenza, se non conculcate, le autonomie laicali nel sindacato, nel partito popolare prima, poi democratico cristiano, in Italia, nell’associazionismo apostolico erano coperte dalla dottrina della «potestas indirecta in temporalibus», la quale non intaccava la forma stabilita della cristianità come modello privilegiato della presenza della Chiesa nel mondo. laicità credente Di fatto però il movimento cattolico, nell’esperienza storica della laicità, istituisce dal basso un nuovo schema di relazioni fra lo spirituale e il temporale, e in particolare tra la Chiesa e lo Stato. Le tensioni fra una laicità cattolica incorporata al modello della Chiesa «societas perfecta», arroccata nei suoi bastioni, e una laicità credente che si incorpora nella complessità e nelle dinamiche della città terrena, per cooperare alla evoluzione spirituale dell’umanità, costituiscono una parte non secondaria della vicenda dell’Azione Cattolica Italiana, in particolare all’epoca della crisi della Giac negli anni Cinquanta. A dire il vero, l’esperienza della laicità delle scelte politiche dei cattolici era già, sia pure in altra forma, un dato qualificante la vicenda politica di Luigi Sturzo prima, e di Alcide De Gasperi poi, come lo rivela il nodo del suo conflitto con Pio XII e con Luigi Gedda per il rifiuto opposto alle ingiunzioni vaticane miranti ad un provvedimento di messa fuori legge del Partito Comunista Italiano. E basterebbe rileggere il discorso di Aldo Moro il 27 gennaio 1962 al Congresso della Dc a Napoli per cogliere la drammaticità dello statista, financo la sua solitudine, nel proporre al partito cattolico l’esplorazione del campo dell’autonomia laicale della politica per apportare i valori morali e religiosi nel terreno della società democratica. È un «salto qualitativo», disse Moro, che la coscienza morale e religiosa è costretta a fare quando si passa ad esprimersi sul terreno del contingente, con strumenti e modi propri della lotta politica. «E ciò vale naturalmente» aggiungeva «in misura anche maggiore per quelle che sono propriamente applicazioni o specificazioni di quei valori, scelte concrete di ordine politico, che evidentemente nessun cristiano si indurreb33 ROCCA 15 LUGLIO 2006 INSERTO be a ritenere del tutto estranee ai supremi valori della vita morale e religiosa, ma che obbediscono tuttavia alla legge di opportunità, di relatività, di prudenza, che caratterizza la vita politica, che soprattutto risentono della necessità del confronto, si affermano nella misura in cui riescono a conquistare un maggior numero di consensi, si presentano su di un terreno comune con altre ideologie, il quale non può essere quello proprio delle idealità cristiane e con un preciso e rigoroso criterio di verità». Una lezione elevata, che senza dubbio integra uno dei legati più significativi dell’eredità del cattolicesimo democratico e che, insieme alla lettera inviata da Moro a papa Giovanni XXIII dopo quel Congresso, costituisce un modello esemplare della giusta forma e relazione tra la laicità politica del credente e la sua appartenenza etica e religiosa. Come ha rilevato Padre Bartolomeo Sorge, «l’attualità di questo suo testamento è addirittura sorprendente, mentre oggi si discute di coerenza e di efficacia del servizio cristiano in politica; mentre i cattolici italiani di destra e di sinistra si accusano vicendevolmente di essere lassisti o integralisti nell’ispirare l’azione politica ai valori cristiani in cui tutti credono». La concezione polemica, sospettosa e negativa intrattenuta dalla cultura cattolica dominante circa la laicità subiva, grazie ai pronunciamenti del Concilio, una riconversione: ne prendeva atto Paolo VI che in un discorso del 1968 dichiarava che la Chiesa «oggi distingue tra la laicità, cioè tra la sfera propria delle realtà temporali, che si reggono con principi propri e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali realtà – scientifiche, tecniche, amministrative, politiche – e il laicismo, che persegue l’esclusione dell’ordinamento umano dai riferimenti morali e globalmente umani, che postulano rapporti imprescrittibili con la religione». chiesa e mondo cattolico ROCCA 15 LUGLIO 2006 Questo sviluppo non ha tardato a incrociarsi con i processi della secolarizzazione, particolarmente impetuosi e preoccupanti a partire dagli anni Ottanta. Essi hanno dissolto la visibile e larga coincidenza della Chiesa cattolica e del cristianesimo con la società e hanno obbligato i cristiani a confrontarsi con una situazione profondamente mutata, in parte inedita: la situazione di minoranza, il pluralismo razziale, culturale e religioso, il diffondersi delle religioni dell’individuo, riflesso di una forte corrente di soggettivizzazione so34 ciale; la mobilità sempre più diffusa, che tende a dissolvere i riferimenti alle tradizionali forme istituzionali e comunitarie. Veniva ad esaurirsi così, nelle forme ereditarie, quella fase storica, durata circa un secolo, che aveva prodotto il cosiddetto «mondo cattolico». Con la disintegrazione della Dc, uno dei pilastri tradizionali del regime di cristianità veniva meno. Il rapporto tra la Chiesa e il «mondo cattolico» doveva ricostituirsi ormai al di fuori della rappresentanza politica. In questa congiuntura la stessa funzione del laicato cattolico organizzato doveva essere ripensata. La fine dell’unità politica dei cattolici riapriva la possibilità di inverare apertamente e liberamente la scelta conciliare della distinzione dei piani tra fede e politica. Conseguenze di vasta portata ne scaturivano. Per la Chiesa, la ricerca di una forma di presenza missionaria, a partire dalla sua condizione di minoranza, sfuggendo possibilmente alle seduzioni della regressione nella cultura intransigente e nell’arroccamento spiritualistico, ostile verso gli sviluppi indebiti della modernità, ma anche controllando le spinte verso l’attivismo esasperato, il presenzialismo identitario, la rioccupazione degli spazi della società con un protagonismo competitivo e invadente, una volta perduti gli strumenti di influenza mediante lo Stato. Per il laicato, un’investitura di nuova laicità nello spirito della Lettera a Diogneto. E dunque, il confronto con una laicità non banale del campo politico, in un nuovo pluralismo che non si confonda con l’indifferentismo e con l’agnosticismo. principi etici e azione politica Illuminante, al riguardo, l’indicazione fornita dal cardinale Martini in un discorso al convegno regionale lombardo delle Scuole di formazione all’impegno sociale e politico, il 13 giugno 1998, circa il «principio fondamentale» cui attenersi nell’azione politica: la ricerca cioè del «miglior bene comune concretamente possibile». Infatti, spiegava il Cardinale, «occorre distinguere anzitutto tra principi etici e azione politica. I principi etici sono assoluti e immutabili. L’azione politica, che pure deve ispirarsi ai principi etici, non consiste per sé nella realizzazione immediata dei principi etici assoluti, ma nella realizzazione del bene comune concretamente possibile, in una determinata situazione. Nel quadro di un ordinamento democratico, poi, il bene comune viene ricercato e promosso mediante i mezzi del consenso e della convergenza politica. Nel fare ciò non è mai possibile ammettere un male morale. Può però accadere che, in concreto – quando non sia possibile ottenere di più, proprio in forza del principio della ricerca del miglior bene comune concretamente possibile –, si debba o sia opportuno accettare un bene minore o tollerare un male rispetto a un male maggiore». Sono problemi relativamente nuovi per i cattolici italiani, ai quali il pluralismo delle scelte politiche ha offerto l’opportunità di misurarsi da soli e sotto la propria responsabilità con i rischi della laicità politica, e con le mediazioni necessarie tra valori morali e realtà sociopolitica. Ma per i laici cattolici impegnati in politica la laicità si presenta non solo come l’inevitabile salario da versare alla laicità della società moderna, ma anzi come la forma etica della propria vocazione sociale, senza estrapolazioni premature in un transfert soprannaturale e fuori di ogni massimalismo. Per citare ancora la lezione del Cardinale Martini: «Siamo in una situazione pluralistica e complessa, dove ciò che consideriamo come bene anche morale non sempre può essere tradotto immediatamente in legge, perché si devono fare i conti col consenso di molti. Bisogna dunque saper mettere in bilancio una sapiente gradualità. E, specialmente in un’epoca di caduta di evidenze etiche quale la nostra, può accadere che neppure il valore che a qualcuno pare preminente possa essere politicamente proposto per primo e diventare senz’altro norma cogente, qualora la sua imposizione fosse tale da provocare una deflagrazione della convivenza. Quanto più un valore è eticamente rilevante, tanto più è impegnativo e perciò più bisognoso di maturazione a livello di costume». conquiste della laicità Attraverso queste indicazioni, la laicità nell’agire politico del cristiano si trova riscoperta come principio antiidolatrico e antiintegralista, di non appagamento, di razionalità e di libertà, capace di coerenza etica e di un pluralismo non relativistico di valori. Infine, la laicità nell’esercizio politico del cristiano postula una maturazione della coscienza critica per rapporto ai falsi assoluti del potere economico, del denaro, della sicurezza nazionale, della razza, della nazione, del sesso. Così definita, la laicità può sottrarsi alle riproduzioni, sempre in agguato, dell’integralismo o del modernismo pragmatico, offrendo ai cristiani l’opportunità di intervenire positivamente, a misura della loro laicità, nell’animazione della stessa laicità moderna, cogliendola nel suo intrinseco valore positivo o comunque valorizzandone l’ambivalenza e i chiaroscuri. Non si tratterebbe dunque di contrapporre, come in passato, degli «storici steccati», ma di far confluire le differenti visioni in una laicità valoriale comune. Divenuta il quadro ordinario della vita collettiva nella maggior parte dei paesi democratici, la laicità ha potuto segnare con le sue conquiste l’affermazione dei diritti umani, i principi della democrazia pluralista e il rispetto della libertà di culto e di coscienza, ciò vuol dire anche il rispetto delle minoranze e dell’autonomia del potere politico per rapporto a ogni potere religioso. Questi successi incontestabili sono stati riconosciuti dallo stesso Concilio Vaticano II allorché ha adottato la Dichiarazione sulla libertà religiosa e ha ammesso il valore dell’autonomia umana nel campo della scienza, della cultura e della stessa politica. Dio è amore Il Convegno di Verona ha la possibilità di riprendere e di sviluppare questa linea conciliare, e ciò sarà tanto più possibile se sarà colto come l’occasione per un profondo esame di coscienza autocritico del «kairos» sperperato dalla Chiesa negli anni postconciliari. Un grande sforzo intellettuale e spirituale sarà necessario per ridefinire l’identità del cristiano e la missione della Chiesa alla luce dell’assenza fondatrice, la tomba vuota della Resurrezione, la sola luce che possa illuminare l’operazione segreta dello Spirito nel cuore dell’intera umanità, sospinta misteriosamente verso la sua propria unità. Credo che con la prima enciclica di Benedetto XVI migliore aperitivo per la riflessione della Chiesa italiana non potesse esserci. Anzitutto il papa raccomanda alla Chiesa di spogliarsi della pretesa dell’autosufficienza e della superiorità: recuperando lo spirito penitenziale dei mea culpa del Giubileo, essa combatte la tentazione mai vinta della Chiesa di costituirsi in fonte di palingenesi sociale, di dettare con la religione l’ordine del mondo. L’enciclica mette la parola fine all’età funesta dell’integralismo cattolico e ai suoi soprassalti mai stanchi. Neanche per far valere nell’ordine sociale la propria dottrina sociale la Chiesa è abilitata a usurpare le istanze e le autonomie proprie dell’ordine politico. L’enciclica rilancia il sistema del dialogo varato dal Concilio Vaticano II, ra35 ROCCA 15 LUGLIO 2006 INSERTO ROCCA 15 LUGLIO 2006 tificando il riconoscimento dell’autonomia delle realtà profane e in particolare delle istanze civili della politica. È in nome della laicità del «date a Cesare… date a Dio» che Ratzinger afferma che la Chiesa « non può e non deve mettersi al posto dello Stato, non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica» e che «la società giusta non può essere opera della Chiesa ma deve essere realizzata dalla politica». La convinzione, già affermata da Benedetto XVI nei discorsi alle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia lo scorso agosto, muove nel senso del rifiuto di circoscrivere il cattolicesimo nella categoria delle «religioni politiche». L’opzione per un cristianesimo spiritualmente reinterpretato, ma non per questo disinteressato alle angosce del tempo, si traduce in una contestazione esplicita dell’uso del divino come arrotino delle spade e vernice religiosa da spalmare sui campi di battaglia. Tale la fondazione della critica al terrorismo come ultima forma di religione politica. L’enciclica rifiuta lo schema dello «scontro di civiltà». Il nome di Dio è amore e non lo si può piegare alla vendetta o perfino al dovere dell’odio e della violenza. Si potrebbe lamentare in un testo talmente ricco di contenuti l’omissione di una esplicita applicazione operativa dei principi all’impegno dei cristiani al servizio della pace del mondo. È essa rinviata semplicemente alla autonoma opzione dei laici cristiani, dunque unicamente pertinente all’ordine politico? Oppure, è da considerare la suprema forma della carità? È solo «politica» o anche e prioritariamente imperativo del Samaritano? Il testo lascia indeterminata l’indicazione al riguardo, anche se non evita di assicurare che la Chiesa assume l’ampio spazio del pre-politico per orientare le coscienze ai compiti sociali doverosi per i cristiani. La formazione delle coscienze e il risveglio delle forze morali sono la condizione preliminare per la costruzione di un giusto ordinamento sociale, una volta chiarito che «la norma fondamentale dello Stato deve essere il perseguimento della giustizia». Tuttavia, secondo il papa, proprio la distinzione fra ordine religioso e ordine civile porta ad avvalorare il ruolo originario della carità della Chiesa, chiamata a farsi interpellare non solo dai bisogni materiali di giustizia ma anche dalle disperazioni segrete e dalle immense solitudini sofferte dal cuore dell’umanità, quei bisogni che nessun programma di giustizia potrebbe esaudire. Contro ogni sorta di spiritualismo disincarnato e intimismo settario, la Chiesa è chia- 36 mata a riconoscere che la carità non è una attività accessoria o suppletiva ma «appartiene alla sua natura ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza», fino a costituirsi come «compito intrinseco della Chiesa intera». La centralità teologale dell’amore autorizza l’enciclica ad affermare che «ogni vilipendio dell’amore è allo stesso tempo un vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio». Ne deriva, clamorosa sulla bocca di un papa, una inusuale definizione dell’ateismo: è propriamente ateo chiunque rifiuti di amare il prossimo, anche se si dichiarasse «credente». Par di sentire in questo passaggio l’eco delle intuizioni di Simone Weil. Nella Lettera a un religioso (Paris 1951, Milano 1996) leggiamo: «Un ateo, un‘infedele’, capaci di compassione pura, sono altrettanto vicini a Dio di un cristiano, e quindi Lo conoscono altrettanto bene, sebbene la loro conoscenza si esprima con parole diverse, oppure resti muta. Perché ‘Dio è amore.’ E se Egli ricompensa coloro che Lo cercano, dà la luce a coloro che Gli si accostano, soprattutto se desiderano la luce (…). Quelli che posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza atei. Coloro che posseggono perfettamente queste due virtù anche se vivono e muoiono atei, sono santi» (p. 38-40). Vorrei concludere dicendo che c’è materia prima abbondante per incitare la Chiesa italiana a liberarsi dall’ossessione di dirigere l’ordine temporale e di farsi afferrare senza sgomentarsi dalla forza della Grazia che torna a scuoterla oggi con il sangue dei suoi martiri e con la parola ancora una volta profetica di un papa. Giancarlo Zizola Note 1. Bartolomeo Sorge S.I., «Tra profezia e normalizzazione. La Chiesa italiana da Roma 1976 a Verona 2006», in «Aggiornamenti Sociali», febbraio 2006, pp. 115-126. 2. Editoriale, «Verso il IV Convegno ecclesiale nazionale», «La Civiltà Cattolica», 2005 IV, pp. 213-222. 3. Cei, Evangelizzazione e promozione umana. Atti del Convegno ecclesiale (Roma, 30 ottobre- 4 novembre 1976) Ave, Roma 1977, p. 339. 4. Giorgio Campanini, «Verso Verona 2006. Un ‘senato’ laicale nella Chiesa italiana», in Aggiornamenti sociali, 11 (2005), pp. 703-713. 5. Guido Formigoni, «La lunga stagione di Ruini», Il Mulino 5, 2005, pp. 834–843. TEMPI MODERNI viaggiare con le scale mobili L Claudio Cagnazzo e città cambiano, e noi con loro. Ma nel cambiamento, non tutto di ciò che eravamo va perduto. Nel mutare reciproco talora si riscoprono vecchie abitudini o valori. Così l’avventuroso progresso apre la strada al passato. È il caso ad esempio delle Scale Mobili, che, nate per agevolare il cammino, in nome del vivere veloce, si ritrovano spesso invece a favorire incontri con gli altri e con sé. Il fatto è che esse interrompono un’azione, quella del camminare, e come tutte le interruzioni sollecitano a ripensare, seppur minimamente, il proprio esserci. Cammini frettolosamente per giun- gere ad un appuntamento e l’accesso alla scala mobile ti rallenta il passo, ti mette spesso in fila, dunque ti mostra gli altri e ti mostra contemporaneamente agli altri. Non sei il solo ad avere obiettivi rapidi da raggiungere. Per intanto l’operazione di sosta è quantomeno democratica. Poi l’agire della scala, il suo trasporto di uomini e donne immobili. Viandanti statici. Gruppi di persone come automi semoventi che attraggono l’attenzione di chi procede normalmente. Gli occhi in su di quelli sulla terraferma spiano coloro che si muovono verso l’alto pur stando fermi. Nessuno sfugge al giudizio degli altri se si muove sul 37 ROCCA 15 LUGLIO 2006 INSERTO mobilità e tenerezza ROCCA 15 LUGLIO 2006 Mai banali dunque quei meccanismi inseriti nel cuore delle città, stazioni, grandi magazzini o centri storici che sia. Luoghi in ogni caso di sentimenti. E inevitabilmente d’incontri. Favoriti da quell’andare e venire. Quello scendere e salire che alimentano curiosità visiva e non. Come quelli fortuiti e improvvisi che cambiano i ritmi interiori delle tue giornate, e che noi qui a Perugia, città di scale mobili nel cuore dell’acropoli, spesso sperimentiamo, ma come sicuramente tutti hanno, in qualche modo e in qualche luogo appunto sperimentato. Incrociando magari sulla scala un vecchio amico che scendeva, il tuo compagno di banco del liceo, decorosamente imbiancato, che cala verso l’inferno della strada in basso, mentre tu sali verso il paradiso del centro storico. O viceversa. Lì, su quei gradini meccanici si consuma un incontro di sguardi, di vecchie tenerezze amicali. Lì, luogo di transito per eccellenza, si materializza il senso del tempo passato, di tutto quel tempo, dai banchi della terza C alla scrivania della banca o di qualsiasi ufficio. E, proprio perché non ti è dato di fermarti per lo scorrere dei gradini, si acuisce rimpianto e si rafforza il sentimento del ricordo. Non come nell’incontrarsi passeggiando semplicemente per strada, con quelle effusioni irrisolte e con quel vano andare al tempo che fu, sorreggendoti a stanchi aneddoti studenteschi, che, chiaramente avverti, non ricompongono il puzzle iniziato da madama nostalgia. No, l’incontro sulle scale mobili, fugace e spesso silente, non favorisce il dialogo, ma fa risplendere la gemma dei ricordi che non ha bisogno di parole o di tristi bilanci di vita. Silenzio e memoria vanno da sempre insieme lungo la strada dell’esistere. Ma l’emozione vale anche con gli sconosciuti. Con 38 una bella donna ad esempio, che nelle scale mobili ti si avvicina lentamente, appena intravista tra le teste sempre più vicine dei passeggeri. La scruti di sottecchi da lontano e la guardi più intensamente mentre si avvicina, per poi abbassare lo sguardo quando la sua figura scivola vicino alla tua, per allontanarsi progressivamente. Gioco di sguardi, bellezza che fugge e fine del sogno. Senza rimpianti, senza più voltarsi. Incontri definitivi, senza futuro, perché gli attori passano via l’uno per l’altro come il paesaggio di un treno al finestrino. Puro e semplice godimento estetico. Due viaggiatori pacificati dentro una città convulsa. COSE DA GRANDI il piacere della lentezza Pacificati come solo i giovanissimi non sono. Essi sì, capaci di rumoreggiare anche sulle scale mobili, allo stesso modo che in un treno, o in macchina. I giovanissimi non ascoltano la realtà per sognare. La utilizzano per conquistare terreno. Per conoscere, dunque. Ecco infine la semplice constatazione: muoversi sulle scale mobili è come compiere un piccolo viaggio. E del viaggio ha tutti i tratti sentimentali. Quel sospendersi del tempo produttivo. Quel lasciarsi vivere con tenerezza nel bel mezzo del processo lavorativo o di studio. Quell’irrompere della lentezza nell’inconsulto del quotidiano. Un piccolo miracolo laico, diciamocelo, di cui quasi sempre non ci accorgiamo, ma che si ripete quotidianamente, per ricordarci che le città, anche le più caotiche e paurose, sono comunque luoghi dello spirito, anzi per meglio dire del sentimento, che tecnologia e caos, le quali hanno incredibilmente la stessa anima, non riescono e non riusciranno a tramortire mai definitivamente il pathos profondo che unisce gli uomini e che è semplicemente identificabile con il nostro bisogno di appartenenza reciproca che ci condiziona. La comunità comunque vissuta è il nostro destino. E con essa i sentimenti e le passioni che la animano. E non c’è Internet, o Alta Velocità, o chincaglierie simili che tengano. Da qualche parte la pacatezza distesa del vivere ci viene incontro e ci ricorda la nostra precisa vocazione. Come fa appunto una semplice scala mobile. La carrozzella dei nostri giorni. Una piccola oasi di libertà nell’indaffarato tempo che tutti siamo costretti a vivere. Claudio Cagnazzo tua per sempre Rosella De Leonibus h mein papa, sei l’uomo più adorabile... Così cominciava, accompagnata da una vibrante melodia su un ritmo di valzer, una vecchissima canzone – parliamo della metà del secolo scorso – che potrebbe fare da colonna sonora a molti racconti di vita di giovani donne. Che con gli uomini che incontrano sembrano replicare di volta in volta un’ antica storia. O figlie di padre Ecco Francesca, che a venticinque anni si è innamorata tre volte, e tutt’e tre le volte si è trattato di uomini già impegnati affettivamente. Ecco Giulia, che di anni ne ha ventiquattro, e se cerca il minimo comune multiplo dei suoi amori trova droga, marginalità sociale, ed infine, per restare in allenamento, una situazione di gelosia patologica e una con evidenti tratti psicopatici. C’è Piera, che i suoi amori non li può raccontare, perché semplicemente non ne ha avuti, ed è già adulta da un pezzo. Li sogna, ma non troppo, perché anche il sogno è un margine di libertà che non riesce a permettersi. E c’è Silvia, che a ventisei anni non guida ancora la macchina, così papà la accompagna ancora dovunque, anche agli incontri amorosi. E Giorgia, che quattro volte su quattro è riuscita ad innamorarsi di ragazzi in vario modo violenti, e dell’ultimo non riesce a liberarsi. E Titti, che a preso a frequentare locali per donne gay, però gay non si sente e non ci capisce più nulla. Cosa hanno in comune questi abbozzi di ritratti, questi frammenti di storie? Sono tutte ragazze che per altri versi sono molto avanti nel percorso della costruzione di una propria autonomia, per esempio lavorano, o comunque hanno alle spalle un brillante percorso di studi, non soffrono di particolari forme di disagio né di disturbi psicologici di entità rilevante. Sono belle ragazze, aperte, capaci di comunicare con freschezza e con una certa libertà, che affrontano ogni giorno il mondo e le relazioni interpersonali senza troppi problemi, che prendono decisioni e risolvono problemi, hanno amiche e amici, vivono. Bisogna andare tra le pareti domestiche, tra le quattro mura di casa loro, e bisogna andare indietro nel tempo, per trovare ciò cerchiamo. 39 ROCCA 15 LUGLIO 2006 TEMPI MODERNI tapis roulant delle scale mobili. La folla solitaria è costretta da terra a prendere atto di quei strani uomini volanti, così come dall’alto si controlla il mondo circostante, senza alterigia, perché si è in alto temporaneamente, poi toccherà agli altri. La difformità, comunque intesa, delle scale mobili rispetto all’architettura crea dunque attenzione. Come il Cinema ben sa, se è vero che spesso le scale mobili stesse sono luoghi importanti nella trama del film, con quegli sguardi intensi tra i protagonisti che s’incrociano o con le scene d’azione decisive. COSE DA GRANDI ROCCA 15 LUGLIO 2006 Cominciamo da Titti, che viene da una famiglia che ha cambiato città per lavoro quando lei aveva dieci anni, da Titti e dalla sua mamma-bambina fragile e sottomessa, dalla sua sorella minore piena di energia – il maschio di casa, viene definita – e dal papà di Titti, una persona di grande spessore intellettuale, il cui bisogno di controllo si è espresso nella revisione quotidiana dell’abbigliamento della figlia maggiore, del s23uo zainetto di scuola, dei suoi libri e dei suoi diari, e nella «confessione» serale a cui lui, tenero ed armato delle intenzioni migliori, la sottopone tutt’ora, seduto sul bordo del letto della figlia alla luce dell’abat-jour, con il sincero intento di seguirne la crescita e sgomberare per tempo ogni ostacolo dal suo cammino. La paterna sollecitudine è tanta, e altrettanta è la confusione di confini e ruoli e posizioni di Titti, che, mostrando un certo residuo istinto di sopravvivenza, è andata ad esplorare, vivaddio, proprio la sponda che per papà sarebbe quella più proibita, Chissà se oserà seguirla anche là… Giorgia ha vissuto invece una violenza più visibile, si è abituata fin da piccola alle crisi di nervi di papà, alle sue rumorose esternazioni, che naturalmente sono molto cresciute di numero e di intensità appena lei è diventata adolescente. Non ha ricevuto grandi quantità di percosse, ma ha sentito chiaramente che lei e suoi bisogni non contavano molto, e ha capito abbastanza presto che la cosa più importante era intuire in anticipo cosa avrebbe potuto far arrabbiare papà e, possibilmente, cercare in ogni modo di non scatenare le sue ire. Così, un giorno dopo l’altro, quel modo di esprimersi ha cominciato a considerarlo naturale, è riuscita a leggerci dentro anche un po’ di affetto per lei, l’unica maniera in cui questo affetto e questo interesse potessero esserle comunicati, e da lì in poi ha fatto parecchia confusione tra le mani alzate, le scenate in pubblico, le pretese di possesso totale e l’amore. Per tre volte si è sganciata, una scena troppo forte, una umiliazione di troppo l’hanno aiutata a dire basta, e tuttavia eccola per la quarta volta dentro un rapporto violento, che si sta finalmente domandando come mai questi 40 soggetti capitano sempre a lei. figlie della dedizione Giulia ha invece imparato che non c’è bisogno di chiedere niente, l’importante è che l’altro stia bene, che possiamo alleviare le sue pene, salvarlo, magari, se ci si riesce. Il suo principio guida si sintetizza in poche parole: in una relazione d’amore conta solo il prendersi cura. Lo ha fatto da quando aveva cinque anni, e suo padre la voleva con sé durante le sue serate «no», quando tornava coi nervi a pezzi, e questa figlia era l’unico suo conforto, l’unica luce della sua vita. Niente di improprio, nessun gesto o pensiero fuori dal segno, solo ricordati che sei tu l’amore di papà, la mia piccola infermiera dell’anima, e mi raccomando non voglio che porti qua i tuoi giochi, stai qui e lascia che ti abbracci. Giulia si sentiva molto importante, e dentro di sé si sentiva anche molto migliore della mamma, che non era in grado di far sorridere papà. Anzi, proprio per questo da più grandicella cercava di essere sempre brava e paziente, era lei a ricordarsi i cibi preferiti del padre, a scegliere il regalo che andava fatto per il suo compleanno, a dargli le medicine per il mal di testa che lo affliggeva così spesso. In premio riceveva uno sguardo speciale, citazioni pubbliche di ringraziamento, menzioni d’onore nella classifica familiare delle persone brave. A vent’anni aveva scoperto che sua madre aveva amato un altro uomo. Piera adora suo padre, lavora con lui nel suo studio legale, fin da piccola è stata designata come sua succeditrice. Prima studia, poi penserai al resto. Non vorrai mica perdere tempo con quelle stupidaggini, l’importante è che ti laurei, poi vedrai che sarai matura per incontrare anche l’amore. Nessuno dei suoi compagni di scuola né di università è stato degno del suo sguardo. È riuscita a passare indenne attraverso schiere di ragazzi che le facevano ala, lei algida e bella, superiore e vagamente sprezzante davanti a cotante basse pretese. Uno solo era il suo mito, uno è rimasto, e se sogna – pocosono uomini in doppiopetto grigio, in cravatta regimental, galanti e cortesi, e rigorosamente senza volto, anche quello lo sceglie- rà papà quando sarà il momento. È lei l’accompagnatrice ufficiale ai convegni, è lei che viene presentata ai colleghi, ne è fiera e anche, da un po’ di tempo, in qualche modo imbarazzata e confusa. La chiamano signora, sembra più vecchia della sua età, sedere alla destra di un tale Padre non le ha giovato all’aspetto. Silvia ha buon lavoro, all’altro capo della città. Suo padre è in pensione, e non chiede di meglio che farle da chauffeur. Ambrogio, lo chiama lei scherzosa, cercando di ironizzare su questa strana coppia, come ormai li definiscono. Lui non scende per aprirle la portiera, ma poco manca. Puntuale la aspetta all’uscita dal lavoro, e poi, via, è veramente democratico, la accompagna anche al pub, e su telefonata, strettamente entro i tempi tecnici, la va a riprendere, i ragazzi oggi sono così inaffidabili, magari guidano dopo aver bevuto. Nessuno dei due della strana coppia ha pensato all’ovvio, che potesse essere Silvia stessa a munirsi di macchina, visto che la patente invece ce l’ha già. L’altra notte Ambrogio è andato a riprendere la signora alle quattro, l’ha aspettata che uscisse dalla macchina di un altro uomo, stoicamente un solo sospiro gli è sfuggito. «È comunque, per un padre, un passaggio doloroso, – ha detto poi sottovoce alla figlia – ma almeno sono stato il primo a saperlo». Silvia non ha battuto ciglio, al sospiro ha risposto con un sorrisetto vagamente beffardo. Ha poi raccontato di essersi sentita un minimo crudele, e proprio per questo sottilmente soddisfatta. figlie da liberare Francesca infine sa bene ciò che è possibile e ciò che non lo sarà mai, lo sa con la testa, e col cuore ogni volta lo dimentica. E ogni volta piange come se lo scoprisse, inopinatamente, adesso. Se va bene sono già fidanzati, una volta era sposato e l’ultima, anche padre e di vent’anni più grande di lei, l’amore suo. Come succede non sa dirlo, certo l’ultimo lo doveva immaginare, ma era un signore così gentile e per lei era così naturale, si sentiva capita, e sentiva che lui era così sensibile alle sue manifestazione di ammirato affetto e devozione quasi...filiale. Quando a lui è sfuggita questa definizione, la parola filiale è stata il detonatore. La bella principessa si è svegliata dal sonno, ha colto il senso delle cose. Ha intuito un fatto centrale, a cui prima non aveva mai prestato importanza. E cioè che nei suoi amori c’era un terzo elemento, c’era un’altra donna che lei aveva in due casi anche conosciuto, e ammirato. Tanto da domandarsi come mai il signore in questione stesse manifestando interesse per lei, che non si vedeva neppure in grado di rappresentare una vera concorrenza rispetto alla consorte. E ha capito una cosa, Francesca. Che l’ha lasciata di stucco, che la sta facendo molto riflettere. Ha colto la sua invidia per queste donne, il suo bisogno di prendere qualcosa che apparteneva loro, e che questo sentimento era in lei ben più forte e più netto dell’attrattiva esercitata da quell’uomo. Si è resa conto che ogni volta era come se fossero non in due, ma in tre, e sottilmente ogni suo gesto, azione, slancio affettivo, era come se avesse un pubblico, e quel pubblico era l’altra, la compagna legittima, era come se Francesca potesse far vedere a quest’ultima come si fa a far felice quest’uomo, come se potesse dirle «Vedì? Ha preferito me, sono migliore di te». E allora ha pensato a sua madre, a come non è quasi mai riuscita a sentire il suo calore e la sua approvazione, e ha pensato a suo padre, a quante volte ha intuito i suoi bisogni, e la mamma invece no. Ha pensato a quante volte avrebbe voluto essere abbracciata da papà e invece lui la sgridava, decisamente troppo. A quante volte poi al contrario scorgeva in lui quello sguardo speciale che dice «accipicchia, sei una donna, ormai…» e con che turbamento poi questo sguardo le rimaneva addosso, nel corpo e nei pensieri. E tutti questi fatti così contraddittori, e la sua propria incapacità di sospendere, di non attivare il gioco della seduzione, specialmente con gli uomini più grandi, da cui, dice, si sente così capita e rassicurata, le hanno fatto intuire che c’è qualcosa nel rapporto con suo padre da rivedere, da snodare, da capire. Anche se quello che scoprirà su di sé o su suo padre sarà una verità scomoda o dolorosa. Perché finalmente Francesca ha colto che se vuole davvero un rapporto d’amore deve uscire dalla zona franca dove ancora mi gioco come figlia, dove lo sguardo di papà mi legittima, e però mi ipoteca, mi possiede e, foss’anche per interposta persona, mi lega a sé per sempre. ROCCA 15 LUGLIO 2006 figlie del controllo Rosella De Leonibus 41 ROCCA 15 LUGLIO 2006 i prepotenti Se, in un vocabolario italiano, andiamo alla ricerca del significato di «prepotente» troveremo che viene definito così» chi agisce di forza in modo da soverchiare la volontà ed i desideri altrui a proprio vantaggio» («Nuovo Zingarelli»). A me sembra che la prepotenza, più che un comportamento isolato, sia un atteggiamento, una caratteristica della personalità di alcuni individui che sovrastano, non solo i desideri e la volontà dell’altro, ma anche i suoi diritti e le sue giuste aspettative. Chi agisce con prepotenza si dimostra violento ed ingiusto anche nelle piccole cose quotidiane. Ad esempio, agisce con prepotenza chi esige o vuole la priorità gratuitamente, nei rapporti con gli altri, senza sentire nemmeno le ragioni di chi, giustamente, difende un suo diritto di precedenza; chi risponde con la forza o con 42 IO E GLI ALTRI la cultura della sopraffazione Manuel Tejera de Meer insulti a chi esprime una sua personale esigenza che l’altro non ha rispettata; chi estende questo comportamento a tutte quelle situazioni sociali in cui ci si trovi, come quando si toglie frettolosamente il posto, in un mezzo pubblico, a chi si dimostra più mite e accondiscendente; chi scavalca violentemente norme e comportamenti sociali che richiederebbero, invece, solidarietà e collaborazione; chi pretende d’essere primo o dei primi in tutte quelle circostanze della vita ordinaria in cui la priorità offre vantaggi di qualsiasi tipo; chi difende la propria opinione senza nemmeno voler sentire il parere degli altri, sottraendosi, perciò, ad un dialogo; chi cammina per la strada, quando c’è ressa, superando il prossimo con gomitate e spinte, senza avere l’accortezza di guardarsi intorno; chi risponde con offese ed insulti a chi rispettosamente fa un’osservazione per un torto ricevuto; chi risponde con voce stentorea o con urla a chi tenti di spiegare e di chiarire un malinteso con estrema serenità. Il prepotente che fa e si esprime con forza, senza sentire i diritti e le ragioni altrui, esercita una violenza: la violenza di chi disprezza o semplicemente ignora l’esistenza degli altri. Certi gesti d’inciviltà, come imbrattare le pareti o sporcare i luoghi pubblici, distruggere volutamente le panchine dei parchi o i sedili degli autobus, sono forme di prepotenza nei confronti della collettività. In questi casi, come in altri simili, alla prepotenza dei gesti si aggiunge la mancanza di senso civico. Forse l’unico «vantaggio» per i protagonisti clandestini di questi gesti d’inciviltà e di prepotenza è quello di sfogare la rabbia contro chi detiene il potere, ottenendo la fasulla autogratificazione di concedersi un comportamento trasgressivo come segno della propria volontà di potenza e della propria voluta autoemarginazione dalla società. la cultura contrapposta: senza esagerare Alla cultura della sopraffazione si contrappone la cultura della solidarietà. Si pensa ai bisogni, ai desideri, agli interessi degli altri, e si dimostra disponibilità a fare un favore, a dare una mano, a collaborare in funzione delle altrui esigenze.Ciò diventa un atteggiamento abituale in tante persone dotate di un buon capitale sociale. La cultura della solidarietà presenta, però, i suoi rischi fino al punto da impoverire pa- radossalmente il capitale sociale. Mi riferisco a quei casi in cui si vuole intervenire con la forza nelle scelte e nei comportamenti degli altri, presentandosi come eroi della solidarietà o salvatori dell’umanità e redentori del genere umano. È così che si feconda in chi agisce in questo modo il delirio di onnipotenza che si può impadronire della volontà della persona; questa si sentirà, pertanto, investita della missione autoassegnatasi d’intervenire in ogni situazione di difficoltà o di disagio degli altri, comportandosi come chi deve stare sempre allerta per capire chi ha bisogno d’aiuto. Si feconda pure la convinzione sul fatto che sia proprio lui l’unico capace di darlo. Sono persone che, con il loro interventismo, si fanno pesanti ed antipatiche. In questo senso ho parlato prima di «impoverimento» del proprio capitale sociale. Quando si dà alla propria vita l’unico significato d’agire per raddrizzare tutto ciò che è storto, ci assomigliamo a Don Quijote de la Mancha che si pose come obiettivo di « deshacer entuertos» («riparare ingiustizie»), con tutte le disavventure che chi abbia letto il divertente romanzo di Cervantes sicuramente ricorderà. Credo che se chi vive in modo egoistico produca la distruzione della libertà e generi violenza, chi vive solo per aiutare gli altri, in un interventismo senza sosta, produca gli stessi deleteri effetti. La cultura della solidarietà, perciò, si esprime attraverso la disponibilità abituale a dare accoglienza ed ascolto a chi si rivolge a noi, ed a suggerire, con estremo spirito di libertà, un parere ed una possibile soluzione, se vengono richiesti. Senza forzature né imposizioni. Non si può invadere la vita dell’altro suggerendo scelte e comportamenti senza che ci sia una richiesta di aiuto o di opinione, anche se questi tentativi invasivi possano essere vissuti, da parte di chi li fa, come dimostrazione di solidarietà. Per esprimere solidarietà non c’è bisogno di usare parole tante volte retoriche («conta su di me», «ti sono vicino», «fidati di me» ecc...); la vera disponibilità si riconosce nell’atteggiamento di ascolto e nelle risposte concrete alle richieste altrui. L’attenzione all’altro si esprime tante volte con la sola presenza, attraverso il linguaggio del corpo, che conduce alla consapevolezza della sua abituale disponibilità alla solidarietà. Valgono di più i fatti (essere presente, ascoltare con attenzione) che le parole. ROCCA 15 LUGLIO 2006 N ell’articolo precedente abbiamo parlato di quelle persone che agiscono e pensano come se gli altri non esistessero. Ci riferivamo a quella condizione di culto di se stessi che impedisce la visione degli altri. Una condizione che porta a non fare niente per riconoscere i bisogni, i desideri, gli interessi dei nostri simili. In questa categoria di persone includevamo quelli che trattano gli altri solo per i vantaggi che questi contatti possono arrecare. Sono gli spiriti interessati, quelli che sfruttano il prossimo, a volte sotto la maschera di solidarietà o di altruismo. Li abbiamo chiamati «mutilati di socievolezza». Sembra che oggi questa categoria sia numerosa. Ma non dobbiamo generalizzare. Il pericolo di allargare a tutta la società contemporanea questa condizione va evitato, considerando la presenza benefica di tante persone che si dedicano agli altri nei vari volontariati e che lavorano nel sociale. A me sembra che l’istanza umanitaria a favore dei bisogni altrui sviluppi ed aumenti il capitale sociale individuale e che questo effetto aiuti tutti a migliorare la qualità della vita. Nella prospettiva, però, di riconoscere quelli che prescindono dagli altri o che approfittano della disponibilità che gli altri offrono per ottenere qualcosa a favore del proprio tornaconto, vogliamo riferirci oggi ad alcuni esempi banali della vita quotidiana in cui la cultura della sopraffazione e del sopruso prevale con forza sulla cultura della solidarietà e dell’altruismo. Manuel Tejera de Meer 43 MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO ROCCA 15 LUGLIO 2006 le regole pratiche La speculazione filosofica ha spesso sottovalutato il pensare in atto a favore dell’atto del pensiero interessata a cogliere più gli elementi universali, logici e prelinguistici dell’attività riflessiva rispetto a quelli contestuali, dialogici e linguistici. Uno dei compiti filosofici che Strawson persegue già a partire dal 1952, in un saggio intitolato Introduzione alla teoria logica, è invece quello di stabilire le analogie e le differenze tra l’uno e l’altro aspetto del pensare. Scrive infatti di voler 44 Peter Fredrick Strawson i fili del discorso «rilevare alcuni punti di contrasto e di contatto fra il comportamento delle parole nel linguaggio ordinario e il comportamento dei simboli in un sistema logico». Uno scopo coerente con la lezione analitica che è stata quella di studiare e valorizzare il linguaggio comune e le sue regole. Il problema di fondo infatti è proprio questo: se il linguaggio ordinario ha delle regole, di che natura sono queste regole? Polemizzando con i logici formali come Russell Strawson arriva a formulare, insieme a Toulmin e ad altri filosofi analitici della seconda generazione, una teoria del discorso – più vicina all’argomentazione e alle scienze umane che alla logica e alla matematica – il cui principio non è quello di applicare le regole formali ai fatti linguistici ma quello di ricavare dai fatti linguistici le regole pragmatiche che stanno alla base della rappresentazione comune del mondo, del riconoscimento reciproco e dell’intesa intersoggettiva. Scrive infatti che « noi non giudichiamo la nostra pratica linguistica alla luce di regole antecedentemente studiate. Sono le regole che vengono formulate alla luce dello studio della pratica corrente». La filosofia non dovrebbe correggere, platonicamente, le regole reali alla luce di regole ideali (metafisica correttiva), ma limitarsi a descrivere, aristotelicamente, le regole reali (metafisica descrittiva). Queste regole reali, alla luce dei fatti, si rivelano più flessibili e più varie di quelle in uso nella logica formale. Ad esempio la pratica corrente ci dice che il ragionamento deduttivo, ritenuto lo standard delle relazioni tra proposizioni, non costituisce affatto un modello logico unico e universale. «Dobbiamo pensare – scrive Strawson – secondo un numero di dimensioni assai maggiore che quelle di implicanza e di contraddizione». Non c’è infatti un solo filo del discorso ma tanti fili del discorso o, meglio, tanti discorsi che filano. ragionamenti razionali Stefano Cazzato Basti pensare a quanto accade nella vita di ogni giorno dove è normale svolgere ragionamenti «sani» ma non deduttivi, sensati ma non necessariamente logici in quanto le conclusioni che deriviamo da certe premesse sono provate e probabili ma non certe e vincolanti. Non per questo i nostri discorsi sono contraddittori o assurdi così come non sono assurde le inferenze che fanno gli storici nell’interpretazione degli eventi umani, gli avvocati nella difesa degli imputati, gli ispettori di polizia nell’investigazione del crimine, gli scrittori nello sviluppo di una narrazione. Anche se il campo dell’argomentazione pratica è molto più raffinato, ricco e vibrante di quella della logica formale, un logico deduttivo non esiterebbe però a dichiarare invalidi ragionamenti del tipo «la pentola è da dieci minuti sul fuoco, sicché dovrebbe essere sul punto di bollire» o «stamani c’è un gelo che strina, senza cappotto piglierai un raffreddore». Eppure è innegabile che questi ragionamenti siano condivisi, familiari e perfettamente intelligibili. E lo sono in quanto guidano tutti noi ad agire e a vivere secondo principi di esperienza, di opportunità, di saggezza, di razionalità. Ecco perché, come si diceva all’inizio, il pensiero presenta una «tessitura». La metafora fa pensare alla trama più che alla linea, una trama i cui fili rappresentano le diverse forme linguistiche e argomentative attraverso le quali costruiamo concetti generali, regole di vita, verità comuni. Queste verità costituiscono la sostanza vitale e morale del linguaggio ordinario che i filosofi, secondo Strawson, non possono ritenere secondaria rispetto alla pur legittima ricerca dell’eleganza formale. Stefano Cazzato ROCCA 15 LUGLIO 2006 C i sono filosofi che credono nell’atto del pensiero e filosofi che credono nel pensiero in atto. In un senso molto lato i primi sono idealisti e i secondi pragmatici. Non si sbaglia a collocare in questa seconda categoria l’inglese Peter Fredrick Strawson (1919), allievo di Austin e Ryle, professore a Oxford e esponente di quella scuola analitica europea che ha avuto il merito di ripensare radicalmente i compiti e i metodi della filosofia occidentale. Strawson è però una personalità insolita nel movimento analitico in quanto ha proposto un’originale rilettura linguistica di Kant e si è occupato non solo di logica (Sul riferimento,’50) e di etica (Libertà e risentimento,’74) ma anche di metafisica (Individui,’59, Analisi e metafisica,’84). Ma soprattutto ha raccolto costruttivamente l’eredità dei primi analisti (impegnati più a decostruire che a ricostruire la filosofia) a partire da una domanda: cosa resta quando, sotto i colpi della critica filosofica, cominciano a crollare le «immense e imponenti cattedrali del pensiero»? Cosa resta quando il metodo dell’analisi fa pulizia degli equivoci linguistici e concettuali della tradizione, esigendo dalla filosofia chiarezza e razionalità? Quel che resta, secondo Strawson, è molto, anzi moltissimo. Resta «il senso della scoperta, l’avvertimento profondo della tessitura raffinata, ricca, vibrante del nostro pensare in atto, dell’attuarsi del nostro bagaglio concettuale e linguistico». Bibliografia P. F. Strawson, Introduzione alla teoria logica, Einaudi, 1975. R. Corvi, La filosofia di P.F. Strawson, Vita e pensiero, 1979. B. Magee, Filosofi inglesi contemporanei, Armando, 1996. 45 LETTERATURA Sandro Penna poeta insonne ribelle febbrile 46 S di Nietzsche, Hölderlin, Leopardi, D’Annunzio, Rimbaud; geniali le sue traduzioni di Merimée e Claudel. Un fatto significativo, che dice di come si è andata sviluppando tra tanti ostacoli la produzione di Penna, è quello per il quale – dopo le Giovanili ritrovate (1927-’36), composte tra Perugia, le Marche e Roma – uscirono le 305 copie della raccolta Poesie (1939) in seguito a mille ripensamenti e a mille indecisioni, vinti soprattutto grazie all’incoraggiamento continuo e convinto proprio di Saba, che lo chiamava Pennino e ne aveva intuito le grandi potenzialità liriche. Del ’50 è il volumetto Appunti, di sei anni dopo lo splendido Una strana gioia di vivere, l’opera preferita da Pasolini, il quale per l’occasione scrisse appositamente anche un saggio. Nel ’57 Penna pubblica le altre Poesie, premiate a Viareggio, e nel ’58 Croce e delizia; mentre sarà nel ’70 – altro fatto significativo – che recupererà nel volume intitolato Tutte le poesie anche quei versi che, lui colpito già prima dei trent’anni dalla censura di Stato, aveva via via dovuto tagliare fuori dalla produzione pubblica. Per quanto riguarda la prosa, i racconti composti tra il ’39 e il ’41 andranno a costituire la raccolta Un po’ di febbre, uscita solo nel ’73, mentre del ’76 sono le 119 poesie di Stranezze. lirismo genuino attuale e antico Lontano da ogni ideologia, vivo solo nel poetare libero e nell’agire svincolato dai dettami della società perbene («Fuggono i giorni lieti / lieti di bella età. / Non fuggono i divieti / alla felicità», quando felicità e libertà si confondono a fronte di un moralismo ‘borghese’ nel peggior senso del termine), quindi sempre pronto a evadere dal mondo delle norme e dei ruoli, Sandro Penna ha dato luce ad una produzione limpida, anche in prosa. È un’opera, la sua, che svela soprattutto completa indifferenza alle regole del mercato, che mai cede al commerciale e mai scade nel volgare e che anzi in ogni occasione ci si consegna so- stenuta da un lirismo genuino, fatto di visioni oniriche e di entusiastiche partecipazioni alla vita. Penna tocca vette di lirismo che possiamo definire vibrante, ma che propongo piuttosto di vedere come febbricitante: un lirismo che, lungi dall’essere mai artefatto, torna al gusto classico della poesia riuscendo peraltro a farsi modernissimo proprio in virtù di una sorta di insonnia creativa. Ecco la sua invocazione al cielo, con cui sembra avere un rapporto di odio e amore, quando si sente gettato e al contempo radicato nel mondo: «O cielo delicato / prima dell’alba ascoltami. / Forse io non sono nato / per vivere qua giù. / Ma cielo delicato / (mi ascolti?) io ben lo sento / che è tuo quello strumento / fierissimo e dannato. / Sei tu che l’hai buttato / a vivere qua giù. / Sei tu che l’hai legato / se sempre guarda in su». Quasi un primo attore, nel mondo poetico di Penna, il mare è scrutato nella sua ineffabile bellezza e avvertito quale fidato amico grazie al quale ritrovare se stesso: «Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo», scrive nel ’37; più tardi dirà: «E mi affaccio sul mare che si batte / contro gli scogli per ridere con sé»; e altrove ancora: «Quando tornai al mare di una volta, / nella sera fra i caldi viali / ricercavo i compagni di allora… / Come un lupo impazzito odoravo / la calda ombra fra le case. L’odore / antico e vuoto mi cacciava all’ampia / spiaggia sul mare aperto. Lì trovavo / l’amarezza più chiara e la mia ombra / lunare ferma su l’antico odore». Ma è proprio negli odori, e nei gusti, piuttosto che nelle immagini o nei suoni, che ritroviamo la via privilegiata per comprendere il verso di Penna: «Sulla mia pelle polvere e sudore / m’inebriano. / Negli occhi ancora canta / il sole […]», compone – guarda caso – in una stazione, quella di Recanati nel dicembre del ’29. Il poeta perugino trova nelle meditazioni sulla vita, sull’amore e sulle loro relazioni infinite la più alta ispirazione: «Forse la Sandro Penna Mi nasconda la notte e il dolce vento/ Da casa mia cacciato e a te venuto/ mio romantico amico fiume lento./ Guardo il cielo e le nuvole e le luci/ degli uomini laggiù così lontani/ sempre da me. Ed io non so chi voglio/ amare ormai se non il mio dolore. La luna si nasconde e poi riappare/ – lenta vicenda inutilmente mossa/ sovra il mio capo stanco di guardare. giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi», appuntava nel ’37. E la sua è una vita che lo spiazza e lo sorprende di continuo: una vita «stupida e dolorosa, o dolorosa e stupida», come confida a Montale, e in ogni caso perennemente «provvisoria», come scrive a Sergio Solmi. Eppure è una vita che gli fa dire: «Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà»; c’è dunque una speranza che brilla nel fondo dell’animo del poeta, il quale sa consolarsi anche di una natura ‘partecipante’ alle sue angosce, alla sua solitudine o meglio alla sua condizione di emarginato: «Mi avevano lasciato solo / nella campagna, sotto / la pioggia fina, solo. / Mi guardavano muti / meravigliati / i nudi pioppi: soffrivano / della mia pena […]». Un’emarginazione, la sua, che lo pone in un difficile rapporto con gli altri, ora visti con sospetto e ora cercati con spasmodico affanno; c’è un’espressione che trovo felice e significativa per rendere questo lacerante contrasto che si fa poesia: «Ero per la città, fra le viuzze / dell’amato sobborgo. E m’imbattevo / in cari visi sconosciuti…», dove questi cari visi sconosciuti dicono tutto di quel doppio movimento di avvicinamento e respinta, di quell’intreccio tra cura appassionata e limite invalicabile che consegna questa poetica all’immortalità. Giuseppe Moscati Per leggere Penna: S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; Stranezze, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano 1976; Il rombo immenso, Scheiwiller, Milano 1978; Confuso sogno, Garzanti, Milano 1989; Peccato di gola. Poesie al fermoposta, Scheiwiller, Milano 1989; Poesie scelte [Garzanti, Milano 1973], a cura di N. Naldini, Tea, Milano 1999. E. Montale-S. Penna, Lettere e minute 1932-1938, Archinto, Milano 1995; U. Saba, Lettere a Sandro Penna (1929-1940), Archinto, Milano 1997. 47 ROCCA 15 LUGLIO 2006 ROCCA 15 LUGLIO 2006 Giuseppe Moscati empre affacciato a una finestra io sono, / io della vita tanto innamorato. / Unir parole ad uomini fu il dono / breve e discreto che il cielo mi ha dato». È Sandro Penna che si presenta, poeta di un lirismo così forte e intenso che nell’epoca contemporanea fatichiamo a trovare termini di paragone che possano accostarvisi. Parlando della propria formazione, ha sempre ricordato con nostalgia il periodo giovanile nella sua Perugia, dove rimase fino all’età di 22-23 anni. Ed è lui che, «sempre alle prese con qualche nuova spina da strapparsi di dosso, da piegare in poesia» (A. Zanzotto), si è mosso tra mille difficoltà nel mondo dei borghesi della forma e della convenzione, quelli che per lo più lo condannavano, additandolo come il poeta dall’eros ‘irregolare’; quelli che ne boicottavano le pubblicazioni; quelli che, possiamo dire senza esitare, fondamentalmente non lo capivano. Ma Penna seppe farsi benvolere da ben altri spiriti nobili: gli furono vicini, nella sua vita di stenti e lavori occasionali e commerci vari, Saba e Montale, Pasolini, Macrì, Pannunzio… Si rendeva conto egli stesso, sin dagli anni giovanili, di avere una particolare propensione per l’eccezione e la ribellione, l’una e l’altra da lui poi sapientemente tramutate in fini strumenti poetici: l’afflato lirico nasce infatti proprio dall’essere anima in perenne pena, dal vivere le sensazioni come un precipitare ininterrotto e onnipotente. Ecco i suoi versi inquieti del 1939: «La vita… è ricordarsi di un risveglio / triste in un treno all’alba: aver veduto / fuori la luce incerta: aver sentito / nel corpo rotto la malinconia / vergine e aspra dell’aria pungente». Chissà se è lo stesso treno del suggestivo Il viaggiatore insonne, volume postumo di tredici liriche nate tra il ’57 ed il ’76: «Il viaggiatore insonne / se il treno si è fermato / un attimo in attesa / di riprendere il fiato / ha sentito il sospiro / di quel buio paese / in un accordo breve…». Assai vivaci le interpretazioni delle pagine IL CONCRETO DELLO SPIRITO speranza sovversiva T Lilia Sebastiani utti conosciamo ormai l’argomento del convegno ecclesiale di Verona del prossimo ottobre: Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. Al centro dunque, oltre alla testimonianza della Resurrezione, la speranza che ne è come il respiro interiore e, insieme, l’indice di autenticità. La speranza declinata nei suoi versanti inseparabili di «contemplazione e impegno», secondo un binomio classico che molti di noi amano molto, che sembra riportare gli anni ’70 e la vitalità della stagione che seguì il Concilio. fame di speranza ROCCA 15 LUGLIO 2006 L’epoca storica in cui viviamo non è particolarmente ricca di speranza, e nemmeno di speranze; ma nonostante questo (o forse proprio per questo) per la speranza sembra nutrire una strana predilezione. Da quando si è formata la triade delle virtù teologali (lasciamo aperta per ora la questione se la speranza sia una ‘virtù’, cosa che oggi viene messa in dubbio da diversi teologi), vi è sempre stata nel cristianesimo la tendenza, espressa o non espressa, a dare il primato ad una delle tre. Nell’antichità cristiana, per esempio, sulla scia di Paolo e di quanto dice sulla carità nella prima lettera ai Corinzi, domina quello che viene chiamato l’ordo amoris: cioè la tendenza a leggere, a interpretare tutta la triade delle virtù teologali a partire dalla carità. Lutero sostituisce all’ordo amoris l’ordo fidei: pone al centro non più la carità ma la fede, anche se si tratta di una fede terrena, animata nel profondo dalla speranza. La nostra epoca invece tende, non sempre consapevolmente, all’ordo spei: è come se si intuisse il necessario fondamento delle virtù (teologali, ma non solo) sulla speranza. Spesso però si tratta di una tensione contraddittoria, infelice, faticosa, densa di equivoci. Il momento presente è abbastanza duro e incerto in tutti gli ambiti (società, chiesa, politica, economia, situazione internazionale…), la speranza sembra provocarci e interpellarci con un’urgenza strana, tanto 48 che a volte si fa fatica a riconoscerla come speranza, almeno quando si abbia la tentazione di confondere la speranza con un ottimismo tranquillo. Nell’Ottocento si parlava molto di ‘ideali’, e oggi se ne parla molto meno. Questa potrebbe anche essere un’opportunissima forma di purificazione della nostra interiorità: che spesso, sotto il nobile manto dell’ideale, cede un po’ alla volontà di onnipotenza. Ma in certi momenti anche la nostra convinzione fondamentale di essere chiamati a rendere più umano il mondo vacilla o si vela di un silenzio troppo denso, la stessa ‘buona volontà’ non funziona più, come se fosse qualcosa di scontato, impotente e generico. Siamo abituati ad abbinare, in teoria almeno, evangelizzazione e promozione umana (fu il titolo felicissimo del primo Convegno della chiesa italiana, nel 1976); e oggi può sembrarci talvolta che l’evangelizzazione si allontani, affondando nella consuetudine e nella ripetizione, nel ‘tecnicismo pastorale’, o sfuggendo al di sopra e al di fuori della realtà che possiamo sperimentare; e che la promozione umana si attui (nella migliore delle ipotesi), in un modo che ci sfugge, con altri canali, altri criteri, altri soggetti. In certi casi le convinzioni che ancora riconosciamo come nostre sembrano inadeguate alle sfide del presente, insufficienti, impotenti, incomunicabili. Dinanzi a molti dilemmi concreti è difficile assumere una posizione netta, ogni scelta diviene tormentosa, la nostra coscienza in certi momenti sembra un gioco di specchi. Vorremmo ancora, e più di sempre, affermare con piena convinzione la centralità della persona umana, l’esigenza di un nuovo umanesimo (anche negli ambiti tecnico-scientifici) e di un’economia a misura d’uomo; ma nello stesso tempo si fa strada dentro di noi, anche se non vorremmo riconoscerla, l’impressione desolante che la persona non abbia gran rilevanza…, forse nemmeno la nostra. E forse in tutte le epoche di crisi – ammettendo che ve ne sia qualcuna di non-crisi – si accentua la tendenza a incontrare l’altro all’insegna del «da che parte sta», nell’assoluta evanescen- speranza, fedeltà, solidarietà La nostra speranza non si fonda su una dottrina, ma su un evento, su una persona; e sappiamo che anche Gesù ha attraversato momenti di crisi. Forse più numerosi di quelli che si possono ricavare dalla scarna e reticente testimonianza degli evangelisti, non interessati al dato psicologico. Anche per lui gioia e pace non sono state un pacifico possesso. Ha sperimentato il conflitto, la delusione, l’abbandono, la paura: non poteva ritirarsi a comando in una specie di sfera divina a sua disposizione, fasciarsi di impassibilità e di onniscienza per difendersi dalle contraddizioni. Ed essere radicati nell’evento di Gesù di Nazaret non scioglie i dubbi e le crisi, non risolve la precarietà, non anestetizza contro la sofferenza, neppure elimina l’incertezza inseparabile dal versante storico dell’esistenza. Il Vangelo non è un oracolo né un libro di ricette. Nella presente situazione, così poco ‘incoraggiante’ (almeno nel senso un po’ paternalistico che si tende a dare al termine), ci viene chiesto di vivere il discepolato in spirito di fedeltà, cioè in modo inedito e creativo, di scoprire e avvalorare la nostra corresponsabilità nell’opera di salvezza. Annodati agli altri da vincoli di ogni genere – non solo in orizzontale, ma anche in verticale, attraverso il tempo e la storia –, sappiamo che ogni nostro atto libero (purtroppo anche ogni atto non libero) influisce sulla libertà degli altri; e responsabilità significa certo tener presenti in ogni caso le conseguenze possibili del nostro agire, ma non solo. Responsabilità, nei termini della teologia dell’Alleanza, dilata il senso etimologico di «capacità di risposta»: richiede capacità di discernimento, ascolto degli altri e dei segni dei tempi, solidarietà con il mondo e con la storia umana. Una solidarietà tuttavia lontanissima da qualsiasi adattamento passivo e acritico allo ‘logica del mondo’, allo spirito di branco, alla massificazione delle coscienze, all’appiattimento, alla banalità, alla dissipazione. L’ethos delle persone responsabili e creative è agli antipodi dell’immobilismo e di ogni spinta distruttiva; la persona responsabile e creativa è intimamente ‘orientata’, dimostra per mezzo del proprio vivere la concretezza e la storicità dell’ideale in cui crede; ha uno stile di vita fondato sull’ascolto e sulla risposta. Anche se, proprio per questa centralità accordata alla risposta dinamica e progressiva a Dio che chiama – risposta che coin- cide con l’esistenza intera letta secondo l’ottica dell’Alleanza –, rifugge da risposte facili e preconfezionate, che calano frettolosamente dall’alto quasi più, si direbbe, per soffocare gli appelli della storia e i segni dei tempi che per accoglierli. Sa leggere in trasparenza le valenze spirituali dei momenti e degli eventi che si è tentati di considerare più violentemente antispirituali: la noia, l’impazienza, la delusione, la stanchezza, la paura… Sa che l’esperienza del silenzio di Dio – non ignota nemmeno a Gesù, e attraversata da tanti mistici quando abbiano superato la fase delle facili ebbrezze – può essere un nuovo arduo dono di grazia: il Dio che tace non è latitante, ma forse in attesa e in ascolto di una nostra parola diversa, autonoma. riconoscere la speranza presente e assente Sempre più scopriamo che un’infinità di persone, intorno a noi, non necessariamente più ‘cattive’ di altre (ché anzi spesso fanno e dicono cose buone), e nemmeno più tristi o lacrimose di altre, sopravvivono per lungo tempo, quasi per tutta la vita talvolta, alla morte della loro speranza. Sono effettivamente de-sperate, ma la disperazione può manifestarsi in molti modi diversi. Talvolta si aggira nella storia umana travestita da realismo, talvolta capita perfino che indossi i panni insospettabili dell’ottimismo evasivo; altre volte invece quelli dell’utopia esasperata e candidata al fallimento, che inevitabilmente porta con sé prima o poi il pessimismo, la delusione, la rabbia di chi ce l’ha con tutti in quanto colpevoli di aver deluso la sua speranza. In realtà non si tratta tanto di una speranza delusa, in quel caso, quanto piuttosto di un ego ferito. Bisogna distinguere l’utopia evasiva svincolata dalla realtà e dalla storia, quella che veramente «non sta in nessun posto», da quella «che non ha ancora un luogo», ma a cui un luogo si deve preparare. L’utopia buona è collegata con la speranza teologale (non sempre in modo consapevole) ed è animata dalla tensione a farsi progetto. La speranza teologale resta comunque altra cosa rispetto a tutte le nostre previsioni e le pianificazioni, anzi in certi casi sembra l’opposto. La speranza cristiana non ha nulla a che vedere con l’ottimismo superficiale (e forse nemmeno con l’ottimismo, semplicemente: ottimisti non si può essere sempre, mentre la speranza come virtù cristiana tende a configurarsi come stile di vita). Non che le speranze di previsione non siano importanti per la nostra vita associata e per il divenire storico; ma la speranza implica uno sguardo nuovo sulla realtà ROCCA 15 LUGLIO 2006 za del «chi è». 49 speranza come fede, fiducia, attesa La speranza certamente esiste, è anzi una delle idee portanti del Primo Testamento; ma non si chiama ‘speranza’, di solito. In molti casi non è distinguibile dalla fede, dalla fiducia, dall’attesa. Il verbo che possiamo tradurre ‘spero’, potrebbe anche tradursi ‘aspetto’; e ciò non avviene per caso. La speranza è fiducia, attesa, esperienza del fondamento. Si fonda su un Dio che entra in rapporto con l’essere umano, proprio facendogli spazio; si impegna con lui, è fedele alle sue promesse. Dalla promessa di Dio si dipanano tutte le altre speranze; e non vi è, all’inizio della vicenda di Israele, la tendenza a dividere le realtà (che noi chiamiamo) ‘spirituali’ dalle realtà concrete e terrestri. Nel vissuto personale, la speranza non è distinguibile dalla fede se non in modo teorico e un po’ artificioso. Dal punto di vista teologale, guardando alle promesse di Dio la speranza è un risvolto della fede; dal punto di vista umano-storico, è il dinamismo della fede. È molto difficile dire se e quale delle due preceda, sia nel tempo sia nel valore. La ‘priorità’ forse appartiene alla fede, ma il ‘primato’ alla speranza. Ricordo di aver incontrato un’espressione del teologo Rubem Alves (un esponente della teologia della liberazione), che dice in sostanza: la memoria è una profezia rivolta al passato, la speranza è una memoria rivolta verso il futuro. ROCCA 15 LUGLIO 2006 riconoscere la speranza Il fatto è che la speranza di solito non si aggira nel nostro mondo vestita da speranza. Così come molte false speranze che incontriamo nel nostro vivere terreno nascondono un’anima di disperazione, molto spesso chi dice «ho perso la speranza» 50 non è affatto una persona che non spera più. Semmai è una persona la cui carica ideale, la «passione del possibile» (Kierkegaard) e l’apertura al divenire sono state amaramente deluse; che perciò avverte uno scollamento tra il proprio essere, i propri sogni e bisogni, e ciò che invece gli viene offerto in questo momento dalla comunità umana e dalla storia. Ma l’apparente perdita della speranza dev’essere ascoltata, analizzata, convertita in progetto; questa ‘speranza perduta’ nell’orizzonte della salvezza può servire molto di più, essere più utilizzabile e feconda, oltre che più interessante di certi ottimismi pavidi e vuoti che in realtà sono soltanto un alibi, un rifiuto di essere disturbati, di scavare nelle situazioni e nei sentimenti, per paura dell’imprevisto. la grande speranza, le piccole speranze Le ‘piccole speranze’, anche quelle apparentemente banali, sono importanti per noi e anche misteriosamente eloquenti, perché ci additano un tendere verso. Quando aspetto qualcosa con desiderio intenso, anche se è un ‘qualcosa’ apparentemente tutto contenuto nel tempo, e a breve termine, limitato all’orizzonte terrestre…, se nella mia attesa c’è qualcosa di buono, di sano, di autenticamente umano, vuol dire che da questo evento mi attendo un potenziamento del mio essere, un arricchimento e un’intensificazione che riguardano la mia vita, ma anche il mio modo di essere con gli altri. È ben possibile che la cosa aspettata venga fuori meno bella di come l’abbiamo vagheggiata; e comunque passerà, per lasciare spazio ad altre attese. Anzi, un po’ di delusione è quasi fisiologica, poiché abbiamo scommesso un po’ del nostro infinito in quell’evento che, sebbene positivo, è comunque ‘finito’. In fondo a ogni speranza grande o piccola palpita un’aspirazione così immensa e misteriosa che suscita in noi un disagio strano quando proviamo a metterla in parole, ma somiglia a questo: «Io non morirò». La mia morte terrena non avrà l’ultima parola su di me. Le nostre piccole speranze vanno assunte come fanali che illuminano la strada, come linee di tendenza, come anticipazioni, come segni: nella certezza che là dove tende la nostra speranza infinita ci sarà ancora un divenire, ci saranno ancora rapporti, ci sarà ancora qualcosa da attendere. Non sappiamo dire ‘come’ sarà la vita eterna, ma nella logica della salvezza possiamo intuirla, sperarla come un dinamismo infinito. Lilia Sebastiani FATTI E SEGNI Enrico Peyretti A ho l’età nni – Quando gli anni diventano tanti sono come una di quelle collinette di riporto, che crescono ancora. Ci sei sopra e vedi via via più lontano: la tua vita passata, come va l’umanità, come i tempi mutano, i ricordi solo tuoi, le scuse che non puoi più chiedere, i grazie che non hai detto, i volti di chi è partito, la carezza che ti ha consolato, le parole che ti hanno dato respiro. Da ragazzo non lo sapevi, guardavi dritto davanti a te. Il panorama ora si allarga. Da quel lato c’è un colle, ancora da valicare. E non sai quanto sarà dura. Calma – Se non è vera può diventarla. In un consiglio provinciale un consigliere insulta pesantemente un avversario. Questi chiede calmo la parola e dice soltanto: «Signor Tale, le sono caduti a terra degli insulti. Li raccolga. È roba sua». Capire – Se volete capire, non fate mai un’ipotesi sola. Chiesa – Le perdono tutto, perché mi ha portato il vangelo di Gesù, che è salvezza e perdono per me, purché anch’io perdoni. Il vangelo che porta le brucia le mani. Ma badi a non lasciarlo cadere, come quando per accodarsi alle potenze chiama pace la guerra. Differenza – Il malato sente, come nessun altro può sentire, che la sua barca è incorsa in uno scoglio e si va sfasciando. Mentre si sente affondare, ha attorno persone che lo assistono, sono buone, lui vede che soffrono, ma la loro navigazione continua. Si alternano tra la vicinanza al suo affondare e la loro vita normale, attiva. Arrivano al suo letto dal lavoro, dalla vita, e a queste cose ritornano quando si allontanano da lui. Vanno e vengono dalla vita alla morte, in cui il malato sta scivolando. Nessun’altra differenza tra noi umani è più grande di questa. Ognuno muore solo. Elogio dell’ombelico – Ora che le ragazze lo mostrano al sole, per obbedire alla moda (più forte della legge) bisogna pure parlare dell’ombelico. Diciamo con disprezzo «guardarsi l’ombelico» per dire chi non guarda più in là di sé. In realtà, se lo guardiamo bene, ci porta molto in là. Possiamo nascere senza camicia né fortuna, mai senza ombelico. Nasciamo con quella cicatrice, l’unica naturale. Ci ricorda continuamente che non ci siamo fatti da soli. Certi arrivisti credono di non averlo. È la firma di nostra madre, per ricordarla per sempre. È la traccia di quel cordone che ci ha nutriti e formati, l’ultimo anello di una catena di carne viva, che ci unisce, man mano, a tutta l’umanità. No, non è da stupidi guardarsi l’ombelico. Vederne per strada, invita a pensare. Età – I settantenni mi parevano molto vecchi. Ora ho settant’anni. Grazie a Dio, sto bene e lavoro. Ma vecchio lo sono. Ho l’età di Berlusconi. Se va tutto molto bene, abbiamo davanti dieci veloci anni, forse meno, di più è poco probabile. Se potessi, vorrei dirgli: «La nostra non è più l’età delle ambizioni, ma delle riflessioni. Non le pare, cavaliere?». È il modo migliore per essere ancora un po’ utili agli altri. Perché l’utile giusto è sempre quello degli altri. Anche questo vorrei dirgli. Ieri e oggi – Andiamo indietro nel tempo e pensiamo come furono ciechi sordi e tardi nel (non voler) capire fascismo e nazismo. Torniamo ad oggi. Non stiamo facendo lo stesso con le violenze odierne? Leggere – Bravissimo quel critico che disse, di uno di quei libri fatti solo per mungere tanti soldi al pubblico: «Non l’ho letto, e non mi piace niente!». Parole – Parliamo senza pensare. Barella vuol dire piccola bara. Politica – Vedere uomini «politici» che, prima di essere cercati per essere in-caricati (cioè caricati di un peso), «aspirano» a posti importanti, fa disperare della politica, e di chi la fa. Ma non è onesto dimenticare quanti vi si impegnano con vero spirito di servizio. Platone proponeva di eleggere quelli che non vogliono essere eletti. Prescrizione – «Lei è colpevole, ma il suo reato lo ha commesso troppo presto. La giustizia non ha fatto in tempo a punirlo. Vada pure, ma non si vanti di essere innocente». Resistere – Pochi resistono al solletico senza ridere. Ancora meno quelli che resistono all’adulazione senza sorridere di compiaciuta ridicolissima vanità. Confessiamolo. Ben altra cosa è un complimento sincero e amico. Vita – Non sai quanta vita ha dentro un vecchio. Molta nel cuore, poca di fronte. Bisogna prevedere anche triboli amari, dolori disperanti, perdite vaste. Sarà la sfida tra la fede antica e l’orizzonte che si chiude, la notte prima del giorno. ❑ 51 ROCCA 15 LUGLIO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO umana. Nello stesso tempo, è un appello diretto alla nostra libertà e fedeltà creativa, perciò è il contrario di ogni passività e rassegnazione. Se uno dicesse che ‘spera’ in Dio e nella Vita eterna, tanto che non sente il bisogno di muovere un dito, e non è né lieto né triste, e non gl’importa nulla che le cose vadano male o bene…, questa roba non è speranza, è solo un alibi per la passività e la rassegnazione, per la propria sostanziale sfiducia nella storia e mancanza assoluta di solidarietà con gli altri. Forse non esiste la speranza ‘collettiva’ (la disperazione collettiva può esistere, invece), ma esiste la speranza comunitaria, che è una cosa diversa. non la verità meteora lontana il Dio recluso Questo lamento si coglie facilmente non solo all’alto livello filosofico, ma in esperienze più umili. Credo che ognuno di noi porti con sé ricordi di risposte che suonano addirittura prepotenti di fronte ad angosce giovanili vissute nelle inevitabili crisi di fede. E così non sentendosi accolti, credere o lasciare. Le risposte di questo tipo sono proprie di quei credenti nei quali la «verità» non ha compiuto la sua funzione liberante. Per rispondere con amore bisogna che si avveri la promessa dello Spirito: la verità vi farà liberi. Non la verità metafisica, meteora lontana nello spazio, ma quella definita come fare la verità nell’amore (Ef. 4,15). Il progresso del pensiero filosofico, un vero bagliore nel tramonto dell’occidente, richiede di ripensare come trasmettere il messaggio di fede in un linguaggio adatto ad un pensiero filosofico che si è staccato dal metodo metafisico e si è avvicinato all’esistenza degli uomini e alla loro responsabilità di essere al mondo. Lévinas ha dichiarato la fine della filosofia (come metodo metafisico) e il suo sbocco nell’etica. E questo farà più stridente e inaccettabile il comportamento di persone che si dichiarano cristiani di fede e sono allo stesso tempo responsabili di pratiche economiche e politiche che esportano progetti che causano l’estensio- L’occidente è giudicato oggi dal fallimento dei progetti politici creati al di fuori e al di sopra dell’uomo in questa cultura caratterizzata dalla ricerca degli assoluti: lo stato, la razza, il mercato, il proletariato, usato come l’armadio contenente la camicia bianca e la cravatta, con cui rivestire l’operaio; il Dio celeste recluso nelle accademie teologiche e filosofiche. Per salvarlo dalla sua passione per i bassifondi. La chiesa e la società politica sono messi in crisi da questo epilogo culturale, altro che conflitto di civiltà. Una risurrezione è possibile solo rispondendo ai veri bisogni umani gridati dai poveri che chiedono pane, e dai sazi di pane gettati fuori dallo spazio occupato dagli oggetti della tecnica. Una fede che non è capace di formare l’uomo dell’amore, è una fede morta; diventa concetti che sono strali da lanciare contro nemici. Galimberti ci lancia una sfida: «sembra che questa terra della sera, dopo aver fornito nella sua storia bimillenaria numerose soluzioni filosofiche al dolore e alla meraviglia dell’homo sapiens, oggi vada altrove a cercare la proprie risposte pensando così l’impostazione e il senso filosofico delle domande». C’è un silenzio rispettoso dei filosofi che hanno capito che i grandi sistemi sono la causa di questa apparente fecondità dell’occidente, che ha negato lo spazio CERCATE ANCORA la verità come amore ROCCA 15 LUGLIO 2006 Arturo Paoli 52 A ll’epilogo di una lunga vita vedo con sempre maggiore chiarezza di essere stato accompagnato, e talvolta inseguito, da una grazia dello Spirito. Quella di non abbandonare mai la ricerca del pensiero filosofico e l’esperienza della vita, come componenti della spiritualità. Per questa fedeltà mi sono dovuto spesso spostare da un impianto statico del messaggio biblico a quello richiesto dal progresso della storia. Ho sentito particolarmente l’importanza e la gioia di questa grazia in un breve ritorno in Brasile, l’ultima tappa del mio percorso lungo oltre quarant’anni in America Latina. Questi ritorni sempre ricchi di emozione mi promettono la sorpresa, sempre meno sorpresa, di trovare la pratica cristiana espressa in una forma borghese, separata dall’impegno profetico di mettere al primo posto, anteriore alla preghiera e all’adorazione di Dio, il diritto e la giustizia. È la forma propria delle sette che disperdono nell’aria il grido dei poveri, che pure decise la discesa di Dio nella storia dell’uomo. La mia speranza non è del tutto delusa perché so che le comunità ecclesiali di base (Ceb) vegliano nel silenzio attendendo il momento opportuno di rientrare nella storia reale del continente latino americano, ancora dipendente ed oppresso. Sono sicuro che l’America Latina è la parte dell’occidente destinata a una inculturazione del messaggio cristiano più incarnato, più realista, più storico, e più libero dalle mostruose contaminazioni politiche ed economiche che hanno tolto vigore al messaggio di giustizia e di pace che il Cristo ha gridato dalla croce al Padre e all’umanità. Mi permetto a questo punto una lunga citazione di un pensatore che il filosofo Galimberti ha presentato alla mia ricerca che non è curiosità ma bisogno. Un bisogno di equilibrio in un ambiente che scompensa continuamente la nostra stabilità mentale, per le incoerenze macroscopiche dove ci aspetteremmo di trovare coerenza e insegnamento. «È una sofferenza della mia vita che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa di incondizionato, di- all’uomo e di conseguenza grandi parole come amore, libertà, pace, che sono le mete additate dal Vangelo, appaiono sempre più lontane. Il Dio amore, nascosto e rivelato nell’uomo Gesù che ha scelto l’ultimo posto, oggi appare come la sola speranza di un mondo più veramente umano. I dogmi rappresentano una definizione che non si può facilmente trascurare, ma non impediscono assolutamente il dialogo fraterno e l’ascolto paziente dell’altro. Restano nel fondo delle nostre convinzioni ma non appaiono come strumento per sconfiggere un avversario. Nel vero amore si cela la verità, mentre è possibile una verità spogliata dall’amore. La storia delle inquisizioni lo dimostra abbondantemente. vivere la verità come amore Il compito dei laici cristiani che oggi vivono in un mondo sempre più pluralista religiosamente e culturalmente, è quello di vivere la verità nell’amore e riscoprire nel Cristo il vero autentico progetto, quello indicato da Theilard de Chardin «amorizzare il mondo». L’amore, dicevano gli antichi greci, è lo sposo di Penia, che significa povertà e per questo non è compatibile con posizioni di superiorità ed orgoglio. L’amore chiede con umiltà di essere accolto, non comanda. Il vivere la fede come amore non vuol dire rinunziare ad una fede dottrinale, ma vuol dire averla assimilata così definitivamente nella vita che la verità si è come fusa nell’amore. E questo cambia sostanzialmente un metodo pastorale che ha la sua espressione fondamentale nella dottrina. Il prete di domani più che maestro deve diventare compagno di cammino dell’uomo che, ferito dall’amore, cerca di metterlo nella storia di tutti gli incontri. Lévinas parla di uno sbocco della filosofia nell’etica che vede come inevitabile. E credo che analogamente debba avvenire nella religiosità vissuta, uno sbocco nella mistica. Sono molti quelli che vedono il futuro del cristianesimo come contemplazione e mistica. Quando la pubblicità entrerà in crisi, la tentazione dei pastori di servirsene tramonterà. Il cristianesimo si farà più silenzioso e più profondo, sarà trasmesso non dalle parole dei credenti ma dalla loro vita. E le parole non diffonderanno più separazione ma unione e pace. E questo è il nostro sogno e l’utopia che vogliamo trasmettere specialmente alla generazione di domani. ROCCA 15 LUGLIO 2006 scorrono amichevolmente senza avere realmente presente ciò che prima s’era detto e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte, infatti, si sentono sicuri, terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altra, pare loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta a soggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio contenuto di fede (1)». Così scrive Jaspers. ne della miseria e della morte di esseri umani che crediamo chiamati alla vita dallo stesso Padre che noi adoriamo. Vogliamo una società cristiana per uomini cristiani e non cristiani che vivono in una società che cancella il Vangelo nella prassi di vita. Il Dio cristiano sembra sfuggito dalla reggia costruita per lui, ed è stato Benedetto XVI ad affidare Dio al mondo come amore. Prima di lui il filosofo ebreo Lévinas, chiamato a partecipare ad un congresso di professori francesi cattolici per rispondere alla domanda: un Dio uomo? ha messo in luce un Dio uomo spogliato di ogni potere. Questo pensatore che ha dichiarato la fine della filosofia, scopre il potere vittorioso del Dio svuotato, ridotto ad una tale condizione di povertà da sentirsi fra gli altri senza luogo dove stare, senza sapere dove posare il capo, che non osa chiedere quasi il diritto di esistere fra gli altri. Profeticamente Lévinas ha visto che l’impero della tecnica e dell’idolatria del mercato può essere vinta e sradicata per sempre solo da questa suprema umiltà vissuta nell’uomo Gesù. Il filosofo ebreo raggiunge l’intuizione di Charles De Foucauld quando scopre l’ultimo posto scelto da questo amico che improvvisamente sbarra il cammino della sua esistenza. Arturo Paoli (1) Jaspers, La fede filosofica, Marietti, citato da Galimberti in La casa di psiche, Feltrinelli, pag. 360. 53 TEOLOGIA pluralismo sinfonia differita? ROCCA 15 LUGLIO 2006 Carlo Molari 54 olti rappresentanti delle religioni impegnati nel dialogo hanno cercato per molto tempo di fissare i possibili punti comuni su cui poggiare il dialogo interreligioso e i criteri di metodo per un confronto fruttuoso. Sembrava infatti necessario partire da una piattaforma comune che consentisse lo scambio di esperienze. Anche i teologi cristiani furono indotti a ricercare un fondamento universale. Per i cattolici il Concilio Vaticano II aveva indicato due riferimenti essenziali: l’unica origine e l’unico fine del genere umano fondati sull’unità di Dio creatore/salvatore. Nella dichiarazione sulle altre religioni ha scritto: «Tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti» (NAe 1). Questo tema è stato ripreso più volte negli anni successivi dai documenti del magistero romano. In particolare Giovanni Paolo II ha richiamato anche i semi del Verbo e soprattutto la presenza attiva dello Spirito nelle altre religioni. Nella enciclica Redemptoris Missio (1990), ad es., scrive che «la presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma le società, i popoli, le culture, le religioni» (n. 28). Questo modo di fondare il dialogo consentiva ai cristiani di riconoscere anche nelle altre religioni elementi appartenenti alla propria struttura religiosa e anche altri estranei alla propria tradizione in virtù della stessa azione del Verbo eterno e dello Spirito che in Gesù Cristo ha raggiunto M alla ricerca del criterio di unità Alcuni teologi hanno giudicato questo modo di esprimersi troppo cristiano per costituire una base di dialogo con altri. Hanno quindi creduto di stabilire il riferimento a Dio, quale unico e comune principio della realtà e della storia (teocentrismo), prescindendo completamente dal riferimento a Cristo anzi negando una sua funzione salvifica unica e universale, come è stata proposta da sempre nella tradizione cristiana. In particolare il protestante John Hick ha difeso con molta insistenza questa ‘rivoluzione copernicana’, come egli l’ha definita. Tra i cattolici Paul F. Knitter, ha assunto una posizione analoga ma meno polemica e radicale nel volume Nessun altro nome? (GdT 207 Queriniana Brescia 1982 trad. parziale). I due teologi organizzarono un convegno per analizzare questa prospettiva i cui atti sono stati tradotti anche in italiano dalla editrice Cittadella (1994 ediz. originale 1987): L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralistica delle religioni. Ben presto però anche il riferimento a Dio è apparso inadeguato per un dialogo con coloro che non utilizzano un concetto personale di Dio, come i seguaci di alcune religioni orientali. Alcuni perciò, hanno preferito parlare di Regno di Dio (regnocentrismo) come elemento comune su cui instaurare un dialogo. È stato però notato che «Regno di Dio e la sua giustizia è una locuzione vacua se non le viene dato qualche contenuto normativo sia esso cristiano, junghiano o buddista» (Gavin D’Costa). Altri, perciò, hanno creduto necessario scegliere un orizzonte esclusivamente antropologico spesso tradotto con il termine di benessere umano o di salvezza umana (soteriocentrismo). Claude Geffrè ad esempio parla dell’«umano autentico» come «criterio di unità tra tutte le religioni». Per precisare la sua formula egli distingue un criterio etico e un criterio mistico ed osserva: «Tutte le religioni, … sono, per lo meno in senso molto generale, delle religioni di salvezza nel senso che sono alla ricerca di una liberazione in rapporto a quello che è il limite dell’io o il limite del mondo delle apparenze per contrasto con la Realtà ultima». (Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, (GdT 288), Queriniana, Brescia 2002 p. 123 ed orig. Du Cerf, Paris 2001). In questa linea va anche letta la proposta di Hans Küng per un progetto mondiale di principi etici (Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli, Milano 1991). Molti però osservano che il concetto di salvezza è troppo generico e che i principi etici come anche i diritti della persona, sono formulati secondo i modelli della cultura occidentale così da suscitare il sospetto di un nuovo imperialismo. I timori che «sia in agguato una forma di imperialismo divengono veri e propri incubi quando alcuni critici passano a mettere in evidenza che il vangelo che i sostenitori di tale modello vanno predicando alle altre religioni appartiene non soltanto all’Occidente, ma a quelle culture e nazioni che già esercitano il loro predominio sulla maggior parte del mondo» (Knitter P. F., Introduzione alle teologie delle religioni (GdT 315) Queriniana, Brescia 2005 p. 323). alla fine dei tempi Per le difficoltà notevoli incontrate nel dialogo interreligioso non pochi teologi, sono giunti alla convinzione che allo stato attuale è inutile ricercare un comune orizzonte per il dialogo fra le religioni. Occorre praticarlo nella convinzione che dialogando si potrà forse pervenire un giorno a scoprire un fondamento comune, senza la pretesa di anticipare i tempi. Forse solo alla fine del cammino sarà possibile ritrovarsi insieme nella dimensione definitiva dell’esistenza umana. Nel mondo protestante George Lindbeck soprattutto nel volume Natura della dottrina: religione e teologia in un’epoca postliberale (Westmunster Press, Philadephia 1984) sostiene che in realtà non vi è nulla di comune tra le religioni. Seguendo un approccio culturale e linguistico egli sostiene che ogni cultura come ogni religione ha il suo linguaggio e utilizza i suoi simboli attraverso i quali crea il suo mondo e struttura l’ambito della propria esperienza. «Diversamente da altre prospettive, questo approccio non propone alcuna cornice comune» (o. c. p. 49). Come non esiste un linguaggio generale, ma solo linguaggi particolari, così non esiste una struttura religiosa comune o generica, ma ciascuna offre modelli e linguaggi propri. Ogni religione offre esperienze specifiche, come tali incomunicabili. Occorre perciò che ogni religione accetti le altre come ambiti di esperienze significative per coloro che le vivono. Ma soprattutto occorre che ciascuno viva la specificità della propria esperienza religiosa senza presumere di adattarne la prospettiva a quella delle altre religioni e tanto meno di volere utilizzare un paradigma comune, che potrebbe non esistere. Occorre praticare il dialogo «come politica di buon vicinato» nella convinzione di un valore che ciascuno deve conservare riconoscendo la legittimità delle altre ricchezza religiose. Per alcuni la prospettiva da tenere presente è solo quella escatologica. Occorre camminare nella storia attendendo la fine per ritrovarsi insieme nella dimensione definitiva di vita. In ogni caso occorre lasciare a Dio i tempi e i modi di una eventuale perfetta armonia tra le diverse religioni. Fra i cattolici Christian Duquoc propone in modo insistente e articolato un’analoga convinzione con la metafora della sinfonia differita. Egli sostiene di avere ormai «abbandonato qualsiasi riferimento ad un contenuto unificante» per il dialogo religioso (L’unico Cristo. La sinfonia differita, (GdT 298) Queriniana, Brescia 2003 p. 145). Secondo lui «il teologo cristiano può accettare che il frammento rimanga frammento: è il modo di prendere atto della molteplicità delle religioni; senza tradire le proprie convinzioni, egli può rinunciare ad una realtà unificatrice, concettualmente designabile» (o. c., p. 144). Precisa poi: «Ciascuna religione è frammento nel senso che fa parte della sua essenza di non poter dominare l’ambivalenza positiva e insieme negativa del presente. Ciascuna ne suggerisce la profondità nella misura in cui gli permette di fare segno. Ciascuna entra in capacità di dialogo nel momento in cui accetta di non dominarlo, di non abolirne la distanza» (o. c., p. 145). In questa prospettiva viene affermata con chiarezza la possibile funzione salvifica delle religioni e la loro convergenza verso una pienezza non ancora realizzata da nessuna di esse, neppure dal cristianesimo. Possiamo aggiungere che riconoscere il valore positivo delle diverse religioni e accettare la loro funzione nell’ambito in cui viene vissuta, implica oltre al rispetto e alla politica di buon vicinato, anche la possibile convergenza operativa in ordine al benessere comune, alla pace e alla giustizia nel mondo. Nonostante la suggestione e la validità delle proposte esaminate ritengo sia un dovere per noi cristiani di continuare a riflettere sui dati biblici, sulle intuizioni dei Padri e sulle acquisizioni della pratica del dialogo, convinti che la Verità racchiuse nelle loro formule è più profonda delle nostre interpretazioni, come spesso è apparso dai cambiamenti anche radicali, verificatisi in teologia. La fiducia in Dio, per i discepoli di Gesù, si traduce nella certezza che la pratica del dialogo consentirà la scoperta di nuove vie da percorre insieme agli altri credenti verso la Verità. (continua) ROCCA 15 LUGLIO 2006 un’espressione suprema. Carlo Molari 55 CINEMA EVA E LE SUE SORELLE ROCCA 15 LUGLIO 2006 Lidia Maggi 56 S ulla sedia del parto, formata da due pietre distanziate, Rachele, in travaglio, spinge. Mani forti di levatrice accolgono il neonato. I gemiti e le grida si smorzano col pianto del bambino. Il dolore scompare. Le lacrime di gioia sostituiscono quelle della sofferenza. Ora il cordone è reciso, la placenta espulsa e la pelle del piccolo viene frizionata con il sale perché si rafforzi. Fasciato in morbido lino, il bimbo riposa quieto sul seno della madre. Sono tantissimi nella Scrittura i riferimenti al parto. A questa immagine attingono i profeti per dire la fede ed il profondo rapporto con Dio, spesso attraversato dal dolore. Il linguaggio delle doglie diviene allora una metafora imponente. Non solo per evocare una speranza in cammino (la creazione che geme in attesa della redenzione); ma anche per esprimere l’impossibilità di frenare il processo, denunciare un punto di non ritorno, proprio come nel travaglio. Quando le doglie iniziano, chi può arrestarle? La metafora serve dunque per dire l’ineluttabilità di una situazione. Sarà soprattutto la tradizione profetica a ricorrere alla metafora del parto per annunciare salvezza o giudizio. Tanti sono i parti nella storia della teologia biblica. Il parto veloce di Sion, che annuncia la salvezza: «Eppure Sion, appena entrata in doglie partorì i suoi figli» (Isaia 66,8). A volte la metafora è usata per dire un sentire di Dio, per lo più inarrestabile: «Ho conservato il silenzio per lungo tempo, ho taciuto, mi sono contenuto. Ora gemo come una partoriente, sospiro e sbuffo insieme...» (Isaia 42, 14). Alcuni parti presentano patologie e servono al profeta per descrivere le resistenze alla salvezza del popolo e la sua conseguente autocondanna a morte: «Le doglie del parto arrivano per lui, ma egli è un figlio senza senno, poiché è giunto il tempo, ma egli non viene fuori dal ventre materno» (Osea 13,13). Il parto dunque, con il suo processo inarrestabile, le doglie e la gioia della nascita, diventa una delle categorie profetiche per dire la relazione tra Dio e Israele nei diversi momenti storici. Se il partorire ha chiaramente una connotazione di genere, l’evento del nascere riguarda ogni creatura. Ogni individuo nasce con un parto. Questo fragile ingresso nel mondo viene spesso evocato nella Scrittura per riflettere sul senso della vita e riacquistare fiducia in Dio. Accanto ai grandi memo- riali della storia del popolo, come l’esodo, la creazione, il dono della Torà, si aggiunge anche questo, più squisitamente antropologico. Esso non occupa certo la scena centrale della narrazione sacra, tuttavia è presente, spesso volutamente tematizzato. È come se il parto, con le sue caratteristiche di fragilità e dolore, servisse di continuo da memoriale per non rimuovere la morte e la fragilità dell’esistenza: «Anch’io sono un uomo mortale come tutti e discendente dal primo essere plasmato di terra. Fui scolpito nel seno di una madre di carne. Coagulato nel sangue in dieci mesi. Dal seme maschile e dal piacere di un sonno. Appena nato anch’io ho respirato aria comune e sono caduto su una terra che ha le medesime condizioni essendo come per tutti, il pianto del neonato la mia prima voce. Fui allevato in fasce e nelle preoccupazioni. Nessun re ebbe diverso principio di nascita; eguale è l’ingresso di tutti nella vita e eguale la dipartita» (Sapienza 7,1-6). A parlare è il re Salomone, o meglio la maschera che lo rappresenta con un’ironica confessione antropologica, ricca di nozioni mediche sulla fecondazione, la gravidanza, il parto fino allo svezzamento. Audace il riferimento al fragile piacere sessuale che accompagna ogni nascita: esperienza poco mitica e molto biologica. È uno strano re che non esibisce nobili genealogie. Si riconosce invece simile a tanti altri. Il riferimento al parto rappresenta qui un livellamento sociale, una porta che abbatte qualsiasi differenza e rende comune ogni essere umano. Non solo la morte segna la comunanza con il destino umano, ma anche il fragile ingresso nella vita attraverso il parto. Nemmeno il re è esentato da tale inizio. Qui l’evocazione della nascita riconcilia con la fragilità della vita e crea un legame col destino comune di tutti gli esseri umani. Nasciamo tutti nello stesso modo, veniamo tutti da un ventre di donna, abbiamo tutti gli stessi bisogni: bisogno d’amore, di essere accolti e nutriti da un seno caldo. Eppure solo alcuni nel mondo trovano braccia avvolgenti e un ambiente sicuro dove crescere. Sbattuti sulla nuda terra molti bambini non sopravvivono alla fame e alle malattie, alle guerre e alle violenze domestiche. È un effetto collaterale della moderna civiltà. Chi restituirà loro i giorni non vissuti, chi renderà loro ragione della vita rubata? Chi li strapperà dall’anonimato per dar loro un nome, una storia? Chi consolerà le tante Rachele che piangono i figli che non sono più? C on una serie veramente inesauribile di sorprese, una dentro all’altra, di ogni genere, il regista Spike Lee ha realizzato questo Inside Man, un film di ampie vedute avventurose. E non è facile raccontare una trama che, sotto gli occhi dello spettatore, cambia continuamente strada: vuole cambiare, si capisce. Alcuni individui vestiti da imbianchini si introducono abilmente in una grande banca nel centro di New York, super controllata e super custodita, impadronendosi subito di un gruppo di ostaggi – impiegati e clienti – minacciando terrore e morte. Il detective Frazier viene incaricato di condurre le trattative, fino a che il capo della banda gli comunica che per chiudere la faccenda vuole gli siano messi a disposizione un autobus sulla strada (per trasportarvi gli ostaggi) e un jet all’aereoporto. Ma, come abbiamo accennato, tutto si complica. Il presidente del consiglio di amministrazione – in realtà il proprietario della banca – l’anziano, ricchissimo, temutissimo Arthur Case, è preoccupato soprattutto della sua cassetta di sicurezza (custodita nel caveau della banca) nella quale conserva un qualcosa che è per lui prezioso. Case incarica una dipendente della banca, giovane e spregiudicata avvocatessa, che lui conosce per curriculum e informazioni interne, di «salvare», mantenendo ogni segreto, quel suo misterioso tesoro, di cui non le rivela la natura. Se fin qui sembra sia tutto abbastanza chiaro, è d’ora in avanti che le cose si complicano, perché il detective Frazier, a sua volta con un passato non limpidissimo, a mano a mano esclude che la banda voglia rapinare la Colpi di scena Inside Man banca, e anch’egli si indirizza verso la misteriosa cassetta di sicurezza numero 392. Altrettanto l’avvocatessa, grazie a Case, viene introdotta dal Sindaco (!) nella banca, con poteri superiori a Frazier e a tutta la polizia, limitandosi lei a promettere a Frazier una promozione di grado, per ringraziarlo della collaborazione. In effetti lei trova nella cassetta un documento da cui risulta che, durante l’ultima guerra, il signor Case, ebreo, ha fatto fortuna trafficando coi nazisti a danno dei propri correligionari. È questo il documento che Case – ovviamente! – non vuole divenga pubblico, c’è di mezzo tutta la propria fortuna (sembra addirittura che egli sia proprietario non di una soltanto, ma di altre banche). Intanto all’interno della banca la situazione è sempre molto tesa: gli ostaggi sono maltrattati, picchiati, il comportamento dei banditi risulta spietato, il loro ultimatum non cambia. Ma, andando avanti (senza pretesa, come abbiamo av- vertito all’inizio, di dare una precisa continuità logica a una trama volutamente smontata e tagliata in disordine), vediamo addirittura gli interrogatori successivi alla fine dell’avventura di alcuni degli ostaggi, da parte di Frazier. Allo stesso Frazier a un certo punto l’inchiesta viena tolta per essere affidata al capitano della polizia (questi è in divisa, mentre Frazier veste sempre in abiti civili): Frazier viene infatti incolpato del brutale assassinio di un ostaggio, da parte dei banditi, addirittura nel corso di una «diretta» televisiva. Per tentare di avvicinarci alla fine, diremo che l’assassinio era finto, così come le varie brutalità dei banditi; diremo che non un soldo è stato tolto dalla banca; che, oltre al documento, nella famosa cassetta 392 era contenuto un anello sottratto a suo tempo da Case a una ricca e famosa famiglia ebrea perduta in un campo di sterminio; che lo stesso Frazier va a trovare Case mostrando di sapere tutto di lui e del suo passato. Negli interrogatori ai quali si è accennato affiorano continui sospetti da parte di Frazier nei confronti di ostaggi, che sono stati prigionieri della banda, a ogni passo sospettati a loro volta di chissà quali complicità, affiorano allusioni a coinvolgimenti arabi, non di rado allusioni di carattere paradossale e quasi comico – per uno spettatore appena «critico» – che si ritorcono su un giudizio non nascosto di stupidità nei riguardi dell’intero sistema investigativo. In realtà Spike Lee, che è un regista di pelle nera, dotato (anche come attore) di ottime capacità umoristico-satiriche, e di molta spregiudicatezza narrativa, mette in piedi una macchina che via via si arrovella su se stessa fino a volere continuamente sorprendere o addirittura contraddirsi. Ci sono volute allusioni ironiche alla psicosi postundici settembre, c’è una chiara citazione dell’invadenza televisiva e delle intromissioni politico-psicologiche, c’è dunque un ovvio mescolamento di carte e di situazioni. E mentre i primi tre quarti del film procedono su una avventura tutto sommato di routine, sia pure con le caratteristiche di originalità negli avvenimenti e soprattutto nel montaggio che il regista intende offrire, la parte finale è davvero sovrabbondante e caotica. Il racconto è costruito con un gruppo di attori di primissimo ordine, ciascuno ha un suo ruolo-cliché: se Christopher Plummer è un impeccabile Arthur Case, Denzel Washington è un bravo Frazier, Clive Owen è il capo dei banditi, Jodie Foster è l’avvocatessa, Willem Dafoe il capitano di polizia. ❑ 57 ROCCA 15 LUGLIO 2006 partorire e nascere Giacomo Gambetti RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Agenda del mondo Senza parole ROCCA 15 LUGLIO 2006 L a compagnia teatrale Quelli di Grock sta riscoprendo una vena congeniale al proprio stile (clownesco e circense) nei testi cosiddetti d’avanguardia dell’ultimo secolo. Dopo la felice prova con Beckett (Aspettando Godot), è ora la volta di Ubu re di Alfred Jarry, autore francese di fine Ottocento, morto prematuramente ma non tanto da non lasciare il segno nel teatro europeo contemporaneo. Tra il decadentismo e il simbolismo, Jarry se ne distacca creando un grottesco emblema del totalitarismo qual è quella grossa marionetta semovente che è il personaggio di Ubu. Il suo aspirare alla conquista del potere a qualsiasi costo non può certo essere accostato ai tragici greci né ai cicli shakespeariani e neanche anticipa il didascalismo brechtiano. Eppure la sua forza vien proprio dal far finta di prendere sul serio ciò che serio non è, e viceversa. In tal senso mi è piacita la riduzione registica a quattro mani di Susanna Baccari e Claudio Orlandini, che del testo di Jarry han fatto un grande gioco di ritmi e di colori, di gestualità e vocalità esasperate. In questo – tra i bamboleggiamenti e le infantili coprolalìe dei protagonisti (non va dimenticata Madre Ubu, degna consorte del «grande dittatore») – i due registi sono stati ben assecondati dai geniali costumi, scenografie e oggetti di scena che Carlo Sala ha ideato e realizzato con la collaborazione degli allievi dell’Accademia di Brera. Nondimeno caratterizzano con efficacia la messin58 scena le coinvolgenti musiche di Gipo Gurrado. Uno spettacolo, quindi, piacevole e intelligente sul quale permane solo qualche perplessità. La prima è che l’aver affidato più personaggi agli stessi attori (i bravi Pietro De Pascalis, Marco Oliva, Manola Vignato e Max Zatta) rischia di rendere ancor più oscura la «trama» originale ch’è già volutamente aggrovigliata. La seconda è che lo spunto letterario dell’autore è reso con tale precisa tridimensionalità corporea e oggettuale da apparire quasi superfluo (ciò che invece non è o non dovrebbe essere). Analoga considerazione su un teatro che può essere «senza parole», me l’ha offerta un bel laboratorio del Teatro delle Biglie: Il sogno di Jonathan (adattamento del famoso Gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach) diretto, al Politecnico di Milano, da William Medini – anch’egli, e non a caso, di dinastia circense – con la collaborazione di Riccardo Mazzarella. Anche qui gli echi – ben recepiti – dalle modalità corporee di Pina Bausch e della «povertà» di Peter Brook fanno sì che i venticinque giovani attori e attrici in scena riescano ad esprimere con movimenti, luci e musiche di sottofondo il senso del testo originario (ormai un po’ datato letterariamente) che appare così quasi superfluo. Riflessioni sulle quali varrà forse la pena di ritornare. ❑ C i sono programmi che si trovano soltanto spigolando negli angoli di palinsesto. Agenda del mondo è in un angolo addirittura nascosto: dopo l’ultima edizione del Tg3 (di cui è uno speciale), con inizio all’incirca alle 0.15, per un solo quarto d’ora, una sola volta la settimana, nella notte del sabato. Val la pena guardarlo. O registrarlo. O cercarlo su RaiClik, anche attraverso il sito internet della Rai. Per altro spesso accade che solo guardandolo o cercandolo si scopra di quale monotema o su quali spezzoni tematici faccia perno questa o quella puntata. La caratterizzazione degli argomenti riguarda, come da ragione sociale, il quadro internazionale e quelle sue dimensioni politiche e culturali che – poco dette, ancor meno indagate – sono le cause, le ragioni ed i motivi di molti degli eventi di cui, quotidianamente si hanno i riflessi informativi di superficie: passano dalla situazione di Gaza «ai tempi di Hamas» (oggi, insomma) alla vicenda del Sub-Comandante Marcos (che non è soltanto folklore), da reportages su regioni interne della Russia (l’Altari, terra d’origine degli Sciti) alla vicenda degli scacchi, vietati dai Talebani e riconquistati da un ragazzino afghano appena giunto in Italia, dal ricordo di Sabra e Chatila (due campi palestinesi luoghi di strage ad opera di milizie cristiano-maronite libanesi, con copertura dell’allora «falco» Sharon) alla presenza dei latinos nel nord-America. Spesso anche i titoli hanno qualche piacevolezza: La ballata della migra, L’isola dei non-famosi, In piazza con Julie… Mentre dal punto di vista del «genere» si passa dal servizio giornalistico (verrebbe da dire classico, tanto que- sta modalità risulta scomparsa) con interviste, commenti e, persino, raccordi musicali, al microdocumentario, con belle immagini e voce narrativa fuori-campo, in cui il giornalista compare poco, al più come figura d’appoggio all’intervistato, mai facendo il proprio commento – sguardo in camera – sullo sfondo dell’ambiente di cui si parla. Il 17 giugno, un po’ a caso, ché non si davano ricorrenze d’evento, Agenda del mondo ha delineato il quadro delle interpretazioni complottistiche, a carico del Governo e/o dei Servizi segreti statunitensi, dell’attentato dell’11 settembre – il nine/eleven del lessico corrente neo-fondativo americano – contro il World Trade Center a New York. I 15 minuti sono risultati, sul tema, più chiari, per informazione su quel che pensano questi ri/lettori (americani) dell’evento, di una intera puntata di Matrix (Canale5, conduzione di Chicco Mentana) dedicata al medesimo argomento. Non ci sono stati commenti su questi commenti fuori dal coro: le immagini dell’evento hanno fatto da sfondo, i fuori-campo hanno fatto da accompagnamento alla documentazione di convegni, manifestazioni, pubblicazioni dei gruppi di contro-informazione, gli interventi di questi protagonisti, pur brevi, non sono piegati alla logica del 15’’/30’’/45’’, ovvero al dar la parola per un attimo solo al testimone di un fatto (15’’), aumentando questo tempo (30’’) se il testimone piange, e aumentandolo ancora di più (45’’) se piange e sanguina. Chi ha parlato, brevemente, lo ha fatto in nome di quel che aveva da dire. È giornalismo. ❑ FOTOGRAFIA Michele De Luca Almagno N ella intelligente disponibilità del Soprintendente, Claudio Strinati, l’opera di un artista contemporaneo che cavalca la militanza dell’attualità, Roberto Almagno, è godibile a Roma a Palazzo Venezia, per la organizzazione di Ines Musumeci Greco. Il giovane Almagno viene dagli studi con Pericle Fazzini, all’Accademia di Roma, e già nel 1994 indicai, in una mostra dedicata agli eremi di S. Marco ad Ascoli Piceno, la discendenza di alcune sue opere dalla iconografia e dalla geometria naturalistica del Fazzini del Ragazzo con i gabbiani in riva al mare. E non si trattava di una ripresa citazionista, si trattava di un omaggio nella tradizione ad un maestro riconosciuto. Così questa odierna grande opera, dal titolo: «Sciamare», a palazzo Venezia istituzionalizza quella consapevolezza nella conferma della tradizione ribadita. Non tradizionalismo, ma tradizione. Così la grandezza quantificabile dell’opera, non cede al monumentalismo ma propone una dilatazione dell’idea in cui si informa l’opera. Così l’opera non va intesa come istallazione essendo l’istallazione retaggio della tautologia concettuale. E la tautologia concettuale è assente da questa poetica di Almagno. La sua è la poetica del fare in quanto pensiero del fare nella tramatura astratta della idea della figura. In questo senso l’artista opera una riduzione alla astrazione dell’idea della di- mostrata figura che infatti non si detta quale figurazione. Ma non si propone neanche come astrazione. E, di più, non si esprime neanche come astratto-concreto, come risoluzione astratta di quel che è figurativo. Almagno vuole giungere a visualizzare la energia della idea che informa l’immagine. Si tratta per lo scultore di realizzare, con questa opera, «Sciamare», un incrocio tra la dilatazione di quelle geometrie offerte dal Fazzini del Giovane con Gabbiani, con la Città che Sale del caro Boccioni, facendo roteare al flusso magnetico ed elettrico della idea la struttura della immagine. Questa immagine è data dalla lavorazione del legno di ornello. E la genialità degli appigli che consentono ai legni di sfidare la gravitazione e di imporre il movimento alla staticità dei fissaggi, esprime la capacità culturale e dunque linguistica da parte dell’artista di decidere la coscienza dell’immagine senza nascondersi dietro le capacità artigianali del lavoro per il lavoro. Da cui ne consegue la sapienza linguistica della manipolazione dei materiali, eliminando qual si voglia retorica del saper ben usare il mestiere, attraverso cui di solito si fa passare per buono il decorativismo della superficialità. Roberto Almagno, invece, esprime la profondità del pensiero e con la profondità del pensiero esprime l’aspirazione alla religiosità dell’icona. ❑ Il Ruwenzori I l Ruwenzori fu esplorato, giusto cento anni fa’, grazie ad una spedizione alpinistica sul grande massiccio africano, guidata da Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi, che rivelò, grazie soprattutto al contributo della fotografia, una delle regioni montane più interessanti dell’Africa sotto il profilo paesaggistico, botanico e antropologico. Posta ai confini tra il Congo e l’Uganda, quest’area è abitata da diversi gruppi etnici di lingua bantu, tra cui i Bakonzo, i Banande e i pigmei Bambuti, i quali, pur in una grande varietà di forme di adattamento all’ambiente montano (sviluppando chi l’agricoltura d’alta quota, chi la caccia o l’allevamento del bestiame), hanno tratti comuni specie nelle credenze e nelle pratiche magico-religiose fondate principalmente sulla possessione spiritica. Una interessante mostra al Museo della Montagna di Torino, curata da Cecilia Pennacini con il coordinamento di Angelica NattaSoleri, ci mette a contatto con questa realtà geografica ed umana con una selezione di immagini (alcune delle quali rarissime) che privilegia l’impostazione antropologica dell’approccio con le diverse culture sviluppatesi e tuttora presenti intorno al Ruwenzori. L’esposizione è articolata in due sezioni, con una sorta di affascinante raffronto tra un ieri ed un oggi che, scrutati ad un secolo di distanza, non ci sembrano poi così distanti tra loro sotto l’aspetto più strettamente etnografico ed economico. Si comincia con la spedizione del 1906, testimoniata dallo splendido reportage di Vittorio Sella, dal quale paesaggi e popolazioni indigene appaiono in una dimensione tutto sommato idilliaca. Sono le immagini più «realistiche» dell’antropologo polacco Jan Czekanowski (nato vicino a Varsavia nel 1882), che partecipa l’anno successivo alla prima vera spedizione scientifica nell’Africa equatoriale, a fornirci, unitamente ai suoi scritti, un quadro socio-etnologico arricchito da considerazioni storiche ed economiche; il suo obiettivo, come ha scritto Jean-Pierre Chretien, non è puntato sui «primitivi», ma sulle tipologie umane, sul lavoro e sulle istituzioni; la sua «è una visione socio-culturale e non razziale». Insiste sui cambiamenti di condizione legati alle variazioni economiche e sullo sfruttamento dei «civilizzatori europei». La sezione contemporanea si impernia principalmente negli scatti del fotografo canadese Craig Richards (curatore del settore fotografico del Whyte Museum di Banff) realizzate nell’estate del 2005. Si tratta di raffinate immagini che esaltano la bellezza naturale dei luoghi e della lussureggiante vegetazione, riprendono il duro lavoro degli «sherpa» e dei raccoglitori di banane, le danze tradizionali, la serenità della convivenza familiare e sociale. Ma il piatto forte, dal punto di vista fotografico, è quello di una serie di splendidi ritratti in nitido bianco e nero, da cui emerge tutta la carica umana e la dignità dei popoli che vivono ai piedi della «grande montagna». ❑ 59 ROCCA 15 LUGLIO 2006 TEATRO SITI INTERNET MUSICA Enrico Romani Giovanni Ruggeri L ROCCA 15 LUGLIO 2006 60 cita culturale e politica. Ma mentre gli Enemy si manifestano soprattutto come agitatori quasi inquadrati militarmente, è al collo dei primi che vediamo i primi simboli del «riscatto dei neri», le grosse catene in oro, oltre a giganteschi anelli con il loro nome, e perfino auto in cui il prezioso metallo ricopre alcune parti come i paraurti, per esempio. Altri nomi importanti di quel periodo sono LL Cool J e le Salt’n’Pepa, primo gruppo rap femminile. Al successo del rap contribuì in maniera fulminante il rifacimento di «Walk This Way», brano che vedeva i Run DMC affiancati dagli Aerosmith, in un rap-metal che fece da traino per l’affermazione di queste due musiche. E non a caso furono i bianchi Beastie Boys, con il loro album Licensed To Ill, a portare nel 1984 il rap per la prima volta in cima alle classifiche americane. Per vedere un artista nero raggiungere quella posizione bisognerà aspettare l’album Loc’ed After Dark del 1989 di Tone-Loc, esponente della label californiana indipendente Delicious Vinyl, che con i suoi testi molto più frivoli e disimpegnati contrastò efficacemente la supremazia della newyorkese Def Jam, la prima etichetta indipendente rap di successo, i cui artisti erano, come abbiamo visto, molto più impegnati. D’altronde come era già successo con il rock’n’roll delle origini, furono proprio le etichette indipendenti le regine della prima fase. Ricordiamo qui un altro gruppo molto influente, attivo dal 1988, ovvero DJ Jazzy Jeff & The Fresh Prince, dove sotto il nome The Fresh Prince si celava Will Smith, divenuto poi l’attore hollywoodiano che tutti conosciamo. (continua) ❑ Forse è @more S e qualcuno, prima di conoscere i fatti, volesse subito arricciare il naso e liquidare la faccenda come un colossale equivoco si sbaglierebbe di grosso: conoscersi tramite Internet e addirittura innamorarsi, sposarsi e vivere felici non costituisce un tema di ispirazione per registi in cerca di nuove fantasie, bensì – lo dicono apposite ricerche – possibilità reali dei nostri giorni. Il tema è delicato e presenta diversi aspetti, ma è un fatto che di continuo cresce il numero di quanti si servono di Internet per conoscere nuove persone con cui avviare una relazione. I cercatori di avventure fanno parte di questa popolazione ma sono tutt’altro che la maggioranza: «Il dating online (questo il nome del servizio svolto da siffatti siti, ndr) è una delle trasformazioni di Internet nella piazza del paese. In due casi su tre, vi si rivolge chi cerca davvero un amore importante», sostiene Enrico Finzi, sociologo e presidente di Astra, che ha realizzato una recente ricerca sul fenomeno. Il meccanismo di funzionamento dei siti di incontro online è semplice e si prefigge di creare possibilità di contatto tra profili di personalità affini, compatibili. In linea generale, chi si iscrive deve esprimere una serie di informazioni personali di vario tipo (età, aspetto fisico, professione, preferenze culturali, convinzioni religiose, aspettative circa la famiglia, hobbies ecc.), atte a delineare un sia pur minimo profilo, con possibilità di inserire eventualmente anche una o più fotografie. Lo stesso utente, quindi, può a sua volta trovare, mediante apposite funzioni di ricerca (per età, città, re- gione, nazione, preferenze personali ecc.), il profilo di altre persone e, se interessato, scrivere loro una email o anche comunicarvi direttamente via chat. Tra i siti più noti e usati si segnalano www.meetic.it (con versioni anche in altre lingue europee), www.match.com, w w w. c u p i d . i t , www.heartsineurope.com, ma vi sono anche portali che includono questa funzione nei loro servizi, come ad esempio Excite. I numeri? Tutt’altro che irrilevanti. Secondo una ricerca Intel, il 13% di chi possiede un computer si è iscritto almeno una volta a questi siti, mentre comScore Media Metrix sostiene che nel mondo sono più di 140 milioni gli individui che visitano ogni mese un sito d’incontri. In Italia, in particolare, si parla di circa 4 milioni, per lo più tra i 35 e 45 anni, in leggera prevalenza uomini, equamente ripartiti tra single, separati e divorziati. Non manca, poi, il côtè del business: se spesso le donne possono iscriversi gratis, gli uomini devono invece sottoscrivere un abbonamento, che oscilla tra i 25 euro al mese e i 120 euro all’anno (il sopracitato Meetic è addirittura quotato alla borsa di Parigi). Come in ogni realtà, non manca anche qui la devianza, ma nemmeno mancano (e sono i più) coloro che usano questa nuova possibilità di contatto come un’occasione di successiva (e tutta da approfondire) conoscenza. Proprio come altri incontrano in libreria, al cineclub, in discoteca… colui/colei che, semmai, diventerà compagno/a della vita. Perché Internet saggiamente usato – non ci stancheremo di ripeterlo – non è altra cosa dalla vita. ❑ Christopher W. Steck La gloria di Dio appare. Il pensiero etico di H. U. von Balthasar Cittadella, Assisi 2006, pp. 320 Patrologo illustre, saggista affascinante e profondo, lettore e fine interprete di Barth, polemista d’innegabile talento, a volte mordente fino al paradosso, e, infine, sistematico rigoroso, uno dei pochi che, nel ’900, ha congiunto il desiderio d’una sintesi teologica profonda con la necessità di battere vie nuove: tutto questo è stato Hans Urs von Balthasar, che Henri de Lubac non esitò a definire «l’uomo forse più colto del nostro tempo». La teologia balthasariana, consegnata soprattutto nel suo Gloria e nella grande opera della Teodrammatica, è paragonabile ad un grande fiume, le cui acque abbondanti conservano la freschezza dell’origine, nei vari meandri che formano e per i diversi terreni che irrigano. Il suo pensiero, estremamente vario, è stato pur sempre molto unitario, ridotto continuamente a quella sorgente da cui trae la sua linfa e a cui intendeva ricondurre coloro che lo ascoltavano, incentrato com’era sulla ricerca delle condizioni dell’agire cristiano alla luce della rivelazione. Ora il denso volume di Steck cerca persuasivamente di costruire la teoria etica implicita negli scritti di von Balthasar, partendo dal suo modo di accostarsi a concetti come azione umana, antropologia e libertà, e ritrovando il nesso prezioso che il celebre teologo svizzero stabilì fra la risposta morale cristiana e la percezione della bellezza divina, lente primaria per interpretare l’opera di Dio in Cristo. Nella sua estetica teologica, infatti, Balthasar aveva parlato di due momenti a proposito dell’incontro con la bellezza: il primo è il cammino che attraverso l’esperienza di fede conduce alla percezione del mistero; il secondo è il sentiero che il mistero divino intraprende per manifestarsi all’uomo. L’estetica balthasariana, secondo Steck, partendo dalla manifestazione di Dio che è gloriosa, e dunque si impone, attrae e trasforma colui che la osserva, porrebbe un fondamento inedito per reimpostare i motivi della teoria del comando divino. Darebbe loro una forma che risponde almeno ad alcune delle preoccupazioni sollevate dai critici della teoria dell’etica dei comandamenti, tradizionalmente basata sull’enfasi dell’opposizione fra il divino e l’umano, sulla visione nominalistica dell’ordine creato e sul concetto di un’obbligazione morale eteronoma e a-razionale. Leo Lestingi Arturo Paoli «Vivo sotto la tenda» Lettere ad Adele Toscano a cura di Pier Giorgio Camaiani e Paola Paterni San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 542 Il libro raccoglie le lettere scritte, tra il 1960 e il1988, da Arturo Paoli alla sua «consigliera» e «sorella amatissima» Adele Toscano. Esse, come si legge nell’introduzione, «consentono di cogliere le sue riflessioni religiose, i suoi stati d’animo, le sue sofferenze, le sue gioie, i suoi giudizi sull’America Latina e sulla Chiesa». Le lettere permettono di seguire le tappe della vita latinoamericana di Paoli ma anche il suo itinerario sociale e spirituale al cui centro c’è la relazione con gli altri e in modo privilegiato con i poveri, che bisogna assumere come parte integrante di sé per arrivare al volto di Cristo. Dalla lettura di questo epistolario si comprende che Paoli glorifica Dio penetrando nella storia delle nazioni che egli attraversa durante la sua vita (dall’Italia all’America Latina) e costruendo il Regno con i poveri di varie nazionalità e culture. La fedeltà a Cristo lo porta ad amare la Chiesa nonostante le sue contraddizioni e ad amare i poveri «soggetti di storia e non oggetti di beneficenza». Tra i tanti temi affrontati con semplicità in circa trent’anni di corrispondenza, la fede: «la sola prova di amore che possiamo dare a Dio sulla terra», l’amore per la Chiesa: «ma mi riesce sempre più difficile l’accettare tante cose della Chiesa ... che sarà sempre una relazione dialettica fra l’istituzione e la profezia», la giustizia sociale: «è inutile commuoversi sulle miserie del popolo e poi sostenere il sistema che è causa di queste miserie», la preghiera: «è assumere la responsabilità di fare fraternità nel mondo» ... «il mio centro è sempre l’eucarestia e scopro che l’abbiamo fraintesa», la famiglia: «abbiamo dato troppa importanza al vincolo religioso e molte volte abbiamo lasciato nell’ombra il vincolo umano che è intrinsecamente religioso», il male: «per me è la discordia e la divisione», la vita religiosa: «troppo diretta alla sua autoconservazione. Bisogna che il popolo la invada come un fiume in piena». Paoli ha identificato il senso della propria vita nell’annunzio del vangelo. I tanti viaggi per annunciare il Vangelo lo portano a dire «Mi pare di essere sempre sotto una tenda»: è il pellegrino che cerca Dio e lo trova nei poveri; quando resta nello stesso posto, contribuisce a realizzare delle fraternità o delle comunità come la fattoria «Madre Terra» di Foz do Iguacù (Brasile) nella quale Paoli è tuttora impegnato. Questo testimone scomodo è riuscito a dare un senso alla propria vita e a quella delle persone che si sono formate avendolo conosciuto direttamente o attraverso i tanti suoi scritti che considera «strumenti a disposizione del regno». Bartolomeo Mainardi Giulio Albanese Soldatini di piombo Feltrinelli, Milano 2005, pp.158 Il libro descrive il fenomeno dei bambini soldato, centinaia di migliaia di ragazzini costretti dalla barbarie degli adulti a scegliere fra uccidere o essere uccisi, nelle tante guerre del silenzio. L’Autore, il fondatore dell’agenzia on line Misna, raccoglie le testimonianze di alcuni di questi combattenti, trasformati in spietate macchine per uccidere e capaci di ogni nefandezza, con grande partecipazione. Albanese è stato fra i pochi giornalisti ad averli incontrarli in situazioni di guerra, con sprezzo del pericolo e descrive una situazione inaccettabile. Sottolinea che questi soldatini sono burattini nelle mani di «Signori della guerra» e di insospettabili uomini di affari, anche occidentali, per accaparrarsi enormi ricchezze naturali, il vero motivo di tante guerre definite «tribali», una ragione in più per scuotere le coscienze e la nostra capacità di indignazione. ROCCA 15 LUGLIO 2006 Il rap adulto o stile di parlare serrato a ritmo non nasce naturalmente dal nulla. Nella tradizione orale africana troviamo infatti (come d’altronde in quasi tutte le culture) i «griots», sorta di cantastorie itineranti lungo la savana occidentale. Il «jive swinging» dei cantanti jazz, il frenetico intercalare di molti dee-jay radiofonici e i «toastin» dei cantanti reggae sono altri elementi a cui il rap si ispira. Va detto, a proposito del reggae, che i due generi si legano quasi spontaneamente, in virtù della medesima condizione sociale su cui si basano, tanto da dare vita a un genere rap particolare, il raggamuffin, le cui basi sonore sono di netta derivazione giamaicana. Le ultime due fonti di ispirazione, forse le più influenti, sono rappresentate dai «toasts» degli ambienti carcerari, e dalle «dirty dozen» del sud degli States (dispute semiserie in rima), entrambe dal contenuto piuttosto osceno, paragonabili in qualche modo ai nostri «stornelli romaneschi». Bo Diddley li usò nei suoi blues, ma altri pionieri del parlato furono James Brown, Sly Stone e lo stesso Jimi Hendrix. Fra i nomi più importanti del primo periodo ricordiamo Grandmaster Flash (e i suoi Furious Five), e Africa Bambaataa, ma i primi ad affermarsi su tutto il territorio federale furono i Run DMC e i Public Enemy, diversissimi fra loro, eppure entrambi «militanti». L’obiettivo di questi primi gruppi di New York, nei primi ’80, sono molteplici: soppiantare la disco-music bianca imperante nei club, affermare orgogliosamente la propria «negritudine», unire la nazione nera in termini di netta contrapposizione alla maggioranza bianca, e preparare la rivin- LIBRI Luciano Bertozzi 61 Nello Giostra Dignità e decoro Panama ROCCA 15 LUGLIO 2006 S tato dell’America centrale delimitato a nordovest dal Costa Rica e a sud-est dalla Colombia, il Panama è bagnato a nord dal mar dei Carabi, a sud dall’Oceano Pacifico ed è attraversato dal canale di Panamà. Prima della conquista spagnola iniziata nel 1501 dall’esploratore Rodrigo de Bastidas, a cui seguì l’anno successivo l’arrivo di Cristoforo Colombo, la regione era abitata da popolazioni amerinde, fortemente influenzate dalle civiltà dei Maya e degli Inca. La storia del Paese fu profondamente segnata dalla sua posizione di grande interesse strategico e commerciale. Nel 1821 Panama ruppe i suoi legami con la Spagna, unendosi alla Repubblica della Grande Colombia, costituita da Colombia, Venezuela ed Ecuador. Nel 1826 Simón Bolivar scelse come sede del Congresso panamericano, che avrebbe dovuto sancire l’unione dell’America latina in un’unica grande federazione proprio questa regione. Malgrado tale progetto non riuscì ad andare in porto, ciò provocò nella popolazione un profondo sentimento nazionalista che cominciò a maturare una progressiva volontà di creare uno stato indipendente. L’anno della svolta per il Panama fu rappresentato dal 1903, allorché gli Stati Uniti, dopo aver siglato il trattato di Hay-Herran con la Colombia, ottennero in appalto la costruzione di un canale intraoceanico. Quando però il Senato colombiano si rifiutò di ratificare l’accordo, il movimento nazionalista ispirato dagli Stati Uniti insorse, proclamando l’indipendenza. Subito dopo il nuovo stato firmò 62 un accordo con gli Stati Uniti, in base al quale questi imponevano la propria sovranità sul canale oltre a un serrato controllo sul Paese. Malgrado l’apertura del canale apportasse una vistosa prosperità economica, i ripetuti interventi delle truppe americane negli affari del Paese, sfociarono in una forte tensione diplomatica con gli Stati Uniti. Nel secondo dopo guerra, in seguito a violente manifestazioni di protesta contro l’ostinata ingerenza americana, vennero interrotte le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Nel 1977 tali dissidi vennero superati grazie al trattato firmato dal Presidente statunitense Jimmy Carter, con il quale, pur riconoscendo la sovranità panamense, assicurava agli Usa l’amministrazione del canale fino al 1999. Salito al potere nel 1984, il generale Manuel Noriega assunse, sin dalle prime battute, le vesti di leader fortemente spietato. L’assassinio di avversari politici, la sistematica soppressione dei principi democratici, il traffico di droga e il riciclaggio di denaro sporco furono tra le sue principali attività durante gli anni Ottanta. Gli Stati Uniti non indugiarono ad infliggere sanzioni al Paese e a congelare le attività produttive. Quando nel 1989 il candidato uscito vittorioso dalle elezioni presidenziali venne picchiato in diretta sulla rete televisiva nazionale e la votazione dichiarata nulla, Noriega si dichiarò capo del governo, suscitando un forte clamore a livello internazionale. Gli Stati Uniti stavano cercando ormai da mesi un pretesto per attaccare il Paese. In seguito all’uccisione di un militare americano in abiti civili da parte di soldati panamensi, gli Usa colsero la palla al balzo per intraprendere un’azione militare. Scattata l’«Operazione Giustizia», che mirava a destituire il dittatore e ad instaurare una democrazia, Noriega, (che nel frattempo si era rifugiato presso l’ambasciata vaticana), fu condotto negli Stati Uniti e condannato a quaranta anni di prigione. Nel 1994, con il neo eletto presidente Ernesto Pérez Balladares, venne avviato un programma economico, fondato sul rafforzamento delle infrastrutture, sull’assistenza sanitaria e sull’educazione, volto a rilanciare lo sviluppo del Paese. Nel 1999, quando giunse l’anelato momento di restituire il canale di Panamà alle autorità panamensi, ponendo fine a un lungo periodo di tensione tra Stati Uniti e governo panamense, il Paese era governato dal primo leader politico donna del Panama, Mireya Moscoso. Popolazione: nonostante l’esiguo numero degli abitanti del Paese (si contano poco più di tre milioni di persone), la popolazione presenta una realtà etnica molto varia, composta da meticci (64%), da neri (14%), da bianchi (10%) e da amerindi (8%). Un dato interessante è che il Panama, un Paese posizionato in una zona logisticamente strategica, non ha un esercito. Religione: numerose sono le sette religiose presenti nel Paese, essendo prevista dalla Costituzione la libertà di culto. La maggioranza degli abitanti tuttavia professa il cattolicesimo, ma la diversità di razze fa sì che vi sia un consistente numero di chiese e templi per ogni confessione. FRATERNITÀ Economia: la p2rincipale fonte di reddito del Paese è costituita dalle attività che ruotano intorno al canale di Panamà. Nonostante l’imponente volume di affari, che ha reso il Panama una delle principali piazze finanziarie internazionali, grazie soprattutto alla quasi totale mancanza di controlli sui movimenti di valuta straniera e sulla costituzione di imprese commerciali (zona franca di Colón), oltre alle consistenti agevolazioni fiscali, il Paese registra una distribuzione della ricchezza del tutto disomogenea. Il 21% della popolazione infatti vive in condizione di estrema indigenza. Il settore terziario è quello più imponente, coinvolgendo quasi il 65% della popolazione. Importante è anche il settore del turismo e dell’industria, segnatamente nel comparto della pesca e della raffinazione. Situazione politica e relazioni internazionali: nel maggio 2004 il Partito rivoluzionario democratico si è aggiudicato la vittoria nelle elezioni presidenziali con il suo candidato Martín Torrijos Espino. Alle prese con le promesse fatte in campagna elettorale, il Presidente si trova su una strada per le riforme tutta in salita. Benché si registri un notevole ritardo nel settore delle finanze pubbliche e del welfare state, nell’aprile 2006 il governo ha presentato un progetto di ampliamento del canale, sollevando forti critiche tra chi lo reputa un significativo passo verso l’ammodernamento del Paese e chi ritiene che crei soltanto un grave indebitamento per lo stato. ❑ Appartiene alla mia parrocchia una famiglia albanese che sta vivendo una condizione penosa di povertà, portata con dignità e decoro. Il capofamiglia non ha una occupazione stabile, lavora alla giornata. La moglie, dopo la nascita del secondo figlio che ora ha cinque mesi, ha dovuto lasciare il servizio a ore. Questo bambino è nato con una grave malformazione all’occhio destro che sta compromettendo anche gli organi vitali, così come viene menzionata dalla diagnosi medica che accludo: subatrofia iridea nel settore nasale in occhio destro. Questi genitori sono disperati perché con urgenza devono portare il piccolo in un centro specializzato per gli accertamenti e le cure del caso. Ogni offerta è preziosissima. Don L.G. Offende la dignità umana Il 18 aprile scorso ricorreva il quarantesimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale. Alle dieci del mattino ebbi un infarto molto grave, ma grazie al pronto intervento medico e alla preghiera dei tanti che mi ricordano quel giorno in varie parti del mondo, il mio viaggio verso la «patria» è stato interrotto. Nel piano di Dio devo continuare questo mio pellegrinaggio in questa valle di lacrime indiana e dobbiamo insieme realizzare altre cose buone. Ultimamente grazie all’aiuto dei nostri amici abbiamo costruito due case per gli anziani, i malati incurabili, i disabili e tre casette per famiglie povere. È stata iniziata la costruzione di un centro per dare da mangiare e un rifugio notturno per i mendicanti. Si sta realizzando anche una scuola ele- «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 mentare ed ora la notizia più bella è che ci sono stati offerti quattro ettari di terra per costruirne un’altra con una casa per i bambini abbandonati. L’analfabetismo sicuramente è la causa principale per il male fisico e sociale. Aiutateci ad educare un bambino bisognoso; diamo a lui un’opportunità di vita. Solo così si può uscire dall’oppressione e dal peso della povertà. Il vostro sostegno per le nostre scuole offre a questi bambini un futuro brillante. Molte popolazioni rurali sono analfabete e non qualificate nei lavori manuali. In molti villaggi c’è una grande scarsità di acqua potabile; la gente beve acqua inquinata dai serbatoi pubblici, che sono condivisi da uomini e bestie; questo è causa dell’80% delle malattie. Cerchiamo di dotare i villaggi di pozzi trivellati, ma occorrono tanti soldi... La situazione di questa gente offende la dignità umana. Ricordatela con la vostra solidarietà sempre generosa. Padre J.K. Giovane vedova Un sentito ringraziamento per la disponibilità e l’attenzione dimostrata dai vostri lettori per i più sofferenti. Vi presento un appello per Barbara, giovane mamma di 38 anni, divenuta vedova di recente. Si trova in precarie condizioni economiche; ha una figlia di undici anni a carico e le sue condizioni fisiche non la rendono idonea a svolgere alcuna attività lavorativa (stend del giunto pielo renale destro, sindrome depressiva e ipoacusia bilaterale). Allego il certificato medico e il certificato Isee relativo alla sua situazione economica. Ringrazio di cuore per l’accoglimento della richiesta. Restiamo in sintonia di apostolato e disponibili per qualsiasi collaborazione. Don N.L. Sembrava risolto, invece... Dopo la lunga malattia del marito che lo ha portato alla morte Aldina si è ammalata di esaurimento nervoso e non si è più ripresa anche se è passato qualche anno. Due figlie sono sposate e il maschio, dopo la separazione, è tornato a vivere con la mamma. La salute di Aldina non è buona; è sofferente di cuore e deve curarsi continuamente. A causa di una forte artrosi alla colonna vertebrale porta un busto rigidissimo senza il quale non può sorreggersi. È una persona dolcissima, discreta che soffre molto. Con molta dignità racconta i drammi che colpiscono la sua famiglia e in particolare una delle figliole, alla quale due anni fa è morta la figlia di 27 anni in un incidente stradale. Poi aveva ritrovato un po’ di serenità con un nipotino di due anni che spesso era con lei perché i genitori lavoravano. Si erano accorti tutti che il piccolino non parlava, ma il medico diceva di non preoccuparsi. Purtroppo è stata poi diagnosticata la sordità a tutte e due le orecchie e non vi sto a descrivere la disperazione della famiglia. Un anno fa è stato sottoposto ad intervento chirurgico da una parte per l’impianto di un apparecchio acustico in una città lontana dal paese dove vivono. Per qualche mese il piccolo è stato seguito dal centro collegato con l’ospedale per imparare a parlare. La mamma ha lasciato il lavoro e ha dovuto prendere lì una casa in affitto... Per il momento il problema sembrava risolto, ma ora dalla visita di controllo risulta che il micro apparecchio si è spostato per cui il bambino deve essere operato nuovamente. La famiglia è partita subito con spese da affrontare ancora per alloggio ecc. Possiamo aiutarla con qualche offerta per coprire almeno le più urgenti? Sono sicura che gli amici di «Fraternità» non l’abbandoneranno. Grazie. M.P. *** Sempre grande è la gratitudine di chi riceve un aiuto: ... vi ringrazio di cuore per la comprensione avuta nei riguardi di Basilio. La somma di 350 euro ricevuta ha sollevato molto, moralmente e materialmente, tutta la famiglia ed anche da parte loro vi giunga il più caloroso e cordiale ringraziamento. È venuta parte della famiglia a trovarmi per ritirare gli aiuti alimentari che io ricevo e che distribuisco con piacere ed è in questa occasione che mi hanno assicurato della gratitudine che essi hanno nei vostri riguardi. È commovente sentire il ringraziamento da parte di giovani riconoscenti! Il merito, però, è vostro che sensibili alla domanda sapete rispondere positivamente... I.S. «Sono pessime». Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 15 LUGLIO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede Rocca/foto d’archivio Mario Giacomelli