N°14 – 15 Luglio - Rocca - Pro Civitate Christiana

Transcript

N°14 – 15 Luglio - Rocca - Pro Civitate Christiana
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Non ha taciuto Partitocrazia di ritorno
Tempi moderni Amnistia Anche l’ambiente rende
Teologia: Pluralismo, sinfonia differita?
$#
ANNO
NUMERO
14
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
15 luglio 2006
e 2,00
Cattolici italiani: L’etica al posto della politica
La cultura della sopraffazione Droga: La stanza del buco
La Chiesa verso il Convegno a Verona
Somalia nuovo Iraq?
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
Rocca
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sommario
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20
occa
opinioni critiche
informazioni attuali
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15 luglio
2006
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Ci scrivono i lettori
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Non ha taciuto
Maurizio Salvi
Cono d’Africa
Somalia nuovo Iraq?
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Partitocrazia di ritorno
Filippo Gentiloni
Cattolici italiani
L’etica al posto della politica
Fiorella Farinelli
Droga
La stanza del buco
Aldo Abenavoli
Ecologia
Anche l’ambiente rende
Romolo Menighetti
Parole chiave
Amnistia
Giancarlo Zizola
Inserto
La Chiesa italiana verso il IV Convegno a Verona
Claudio Cagnazzo
Tempi moderni
Viaggiare con le scale mobili
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Tua per sempre
Manuel Tejera de Meer
Io e gli altri
La cultura della sopraffazione
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Peter F. Strawson
I fili del discorso
Giuseppe Moscati
Letteratura
Sandro Penna
Poeta insonne ribelle febbrile
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Speranza sovversiva
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Enrico Peyretti
Fatti e segni
Ho l’età
Arturo Paoli
Cercate ancora
L’ospite e l’amore
Carlo Molari
Teologia
Pluralismo, sinfonia differita?
Lidia Maggi
Eva e le sue sorelle
Partorire e nascere
Giacomo Gambetti
Cinema
Colpi di scena
Inside Man
Roberto Carusi
Teatro
Senza parole
Renzo Salvi
RF&TV
Agenda del mondo
Mariano Apa
Arte
Almagno
Michele De Luca
Fotografia
Il Ruwenzori
Enrico Romani
Musica
Il rap adulto
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Forse è @more
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Panama
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 14 – 15 luglio 2006
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ANNO
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
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è stato chiuso il 20/06/2006 e spedito da
Città di Castello il 23/06/2006
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Don Ernesto
Buonaiuti: un
prete dimenticato
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
In un’epoca che ama le celebrazioni per gli anniversari più disparati, è triste
il silenzio assordante che
ha accompagnato i sessanta anni dalla morte di don
Ernesto Buonaiuti (avvenuta il 20 aprile 1946), a
cui in Italia nessuno ha dedicato un ricordo, se non
gli amici di «Noi Siamo
Chiesa» in un grigio pomeriggio bolognese.
Personaggio scomodo all’autorità fascista – sarà uno dei
dodici professori universitari
a rifiutarsi di prestare il giuramento di fedeltà al regime
(cfr. Giorgio Boatti, «Preferirei di no», Einaudi, 2001)
– e scomodissimo al Vaticano, don Ernesto è morto
stritolato dalla repressione
antimodernista della Chiesa (di cui aveva scritto nel
1933 che è «ormai incapace di pronunciare parole
che scuotano in profondità le viscere del mondo»)
prima sospeso a divinis, poi
scomunicato vitando, ritenuto indegno dell’estrema
unzione e del funerale cattolico, la sua salma è stata
benedetta di nascosto da un
sacerdote amico.
Raramente nella storia della Chiesa più recente si è trovata tanta avversione ad un
proprio figlio (dirà don Ernesto in punto di morte:
«Ho trascorso ore angosciose, rese tanto più gravose
dai tentativi inumani compiuti intorno a me da altissimi dignitari ecclesiastici
per indurmi a sconfessioni
e ritrattazioni. Ho resistito
impavido. Ne sono fiero»),
figlio che continuerà a vestire la tonaca pur in presenza del divieto e che scriverà
nel testamento di volere «incisi sulla tomba i simboli
dell’eterno sacerdozio cristiano: il calice e l’Ostia».
Ma chi era questo personaggio così odiato, da non suscitare nella Chiesa alcuna
misericordia, né oggi alcun
desiderio di memoria?
E soprattutto cosa ha da
dirci oggi il suo pensiero?
Ernesto Buonaiuti è stato un
sacerdote che ha tentato una
rilettura della missione della Chiesa e del ruolo del cristiano nel mondo, nel tentativo di recuperare al cristianesimo quella purezza ed
idealità primitiva propria
delle prime comunità cristiane, così facendo ha sviluppato con decenni di anticipo
una serie di riflessioni poi
sorprendentemente riprese
dal Concilio Vaticano II.
In conseguenza della sua
complessa produzione teologica, Bonaiuti non poteva
sottrarsi all’accusa di eresia
(essendo giunto implicitamente a negare la presenza
reale di Cristo nell’Eucarestia), tuttavia egli meritava
ben altra considerazione
per il grande contributo
dato al delicato tema del
rapporto del cristianesimo
con la modernità.
Contro quello che definiva
l’«assolutismo curiale» della Chiesa, don Ernesto ha
intravisto per primo il valore del laicato ecclesiale,
ha contrastato il concetto
di «guerra giusta» fino ad
allora in voga nella Chiesa
con quello di costruzione
della pace, ha sostituito allo
status ecclesiastico il primato della fraternità, ha
rivisto completamente il
rapporto fra le leggi della
Chiesa e la libertà dell’uomo («Quel che io rimprovero alla Chiesa è di aver
adottato nella educazione
morale del popolo italiano
una casistica fatta tutta di
sotterfugi, di evasioni, di
restrizioni mentali, per cui
noi abbiamo perduto ogni
capacità di guardare in faccia la vita, le sue leggi, le sue
istanze, le sue esigenze, con
lealtà e virilità»).
Ernesto Bonaiuti ha intuito
la centralità del Regno di Dio
nell’esperienza cristiana, verso cui camminano il credente e la comunità, e quindi il
carattere subordinato ad
esso della stessa Chiesa, che
non coincide con il Regno
ma esiste in funzione di esso,
e verso cui deve tendere, al
servizio non già dei battezzati ma di tutta l’umanità.
Dirà che la Chiesa deve perdere la convinzione di esse-
re una cittadella assediata,
impegnata in una guerra di
trincea in cui l’immobilismo
appare come l’unica resistenza possibile; al contrario, il cristianesimo deve
essere vissuto dentro le contraddizioni della storia
umana, e Cristo va cercato
negli uomini e negli avvenimenti, non malgrado loro:
soltanto allora la Chiesa rivela la sua autentica natura
di comunione con il Cristo
e tra i fratelli, lungo un cammino dove tutto può cambiare, salvo il Vangelo.
La concezione di Chiesa di
questo prete non era poi così
blasfema ed inaccettabile, se
il Concilio Vaticano II nella
Lumen Gentium ha poi aperto alla Chiesa gli orizzonti
del mondo ricollocandola al
suo interno; di ciò dobbiamo
renderci conto anche oggi,
per rendere davvero vive le
riflessioni conciliari, rimaste
spesso lettera morta.
Astorre Mancini
Cattolica
E gli integralisti
scoprirono
il boicottaggio
Dove non riuscirono i bambini morti per malnutrizione
o schiavizzati nel Terzo Mondo, riuscirono le accuse all’Opus Dei e il presunto matrimonio di Gesù con la Maddalena. Grazie al Codice Da
Vinci, infatti, anche gli integralisti cattolici hanno scoperto l’arma del boicottaggio
contro le multinazionali.
Il portale Fattisentire.net ha
lanciato una campagna di
boicottaggio contro la Sony,
produttrice del film di Ron
Howard, e contro l’acqua
minerale Sant’Anna, che ha
promosso un concorso legato al lancio del kolossal hollywoodiano, utilizzando gli
stessi metodi di pressione
sulle società che da anni vengono utilizzati dai promotori del consumo critico contro
le multinazionali che operano in paradisi fiscali, sfruttano i lavoratori o inquinano
pesantemente l’ambiente.
Il boicottaggio è l’astensione
organizzata dall'acquisto di
uno o più prodotti di un’impresa allo scopo di indurre
il produttore ad abbandonare le pratiche inopportune.
Tra le multinazionali attualmente sotto boicottaggio ci
sono McDonald’s (sfruttamento dei dipendenti, inquinamento, maltrattamento
degli animali, politica pubblicitaria), Philip MorrisKraft (uso di Ogm, finanziamento di politici e scienziati
che ostacolano la lotta al
fumo), Chiquita (coinvolgimento in colpi di stato, inquinamento, repressione di
attività sindacali), Coca Cola
(collaborazione con regimi
dittatoriali, uso di pesticidi
e sostanze tossiche, sfruttamento di lavoro infantile in
Pakistan e India, discriminazioni razziali e atteggiamenti antisindacali). Esso
(si batte contro il protocollo di Kyoto e sostiene la
guerra in Iraq).
Il caso più celebre è quello
della Nestlé, che contravvenendo alle disposizioni Fao,
continua a promuovere il
latte in polvere in paesi del
terzo mondo rendendosi
responsabile della morte
per malnutrizione di migliaia di bambini.
Negli anni l’arma nonviolenta del boicottaggio ha dimostrato la sua efficacia: molti
boicottaggi hanno infatti
portato le società a cambiare alcuni comportamenti in
una via più etica. Tra i più
celebri quello del 1995 contro la Shell per protestare
contro l’affondamento di
una piattaforma petrolifera
nell’oceano, quando bastarono quattro mesi per costringere l’azienda a fare marcia
indietro. Anche un altro celebre boicottaggio, quello
contro la Del Monte, ha avuto successo. Risultati clamorosi hanno poi avuto le campagne di boicottaggio nei
confronti delle Banche Armate: dall’inizio della campagna promossa nel 2000 da
Pax Christi, Nigrizia e Missione Oggi molti gruppi bancari (tra cui Unicredit, Monte dei Paschi di Siena e Banca Intesa) hanno cessato la
fornitura dei propri servizi al
commercio di armi italiane.
Anche i numeri sono incoraggianti: dal 2002 al 2003
la percentuale di italiani
che hanno aderito a qualche forma di boicottaggio
per motivi etici è passata
dal 21 al 31%.
Fattisentire.net, portale per
una valutazione etica della
politica è nato nel 2004 su
modello di un analogo sito
spagnolo, con l’intento di
promuovere azioni di lobbing e influire sull’azione di
«coloro che prendono le
decisioni per noi» facendo
sentire la propria voce ad
aziende, politici, giornali.
Fino ad oggi Fattisentire non
ha aderito a nessuna delle
campagne di boicottaggio
sopra citate, ma ne ha promosse di nuove: ad esempio
contro le ditte farmaceutiche
Norlevo e Angelini, produttrici della «Pillola del giorno
dopo» e contro Famiglia Cristiana, «un periodico, da
scartare come cristiano e da
estromettere dalle chiese»,
resosi colpevole di una «mirata condivisione dei temi
cari alla sinistra».
Ad illuminarci su cosa intende per etica questo gruppo di cattolici è il sondaggio effettuato tra i propri
utenti sulle priorità dell’etica sociale.
Al primo posto, con il 27%
dei voti risulta l’aborto. Al
secondo la tutela della famiglia (24%); seguono tutela
degli embrioni (10,19%), lotta al terrorismo e alla violenza (9,92%), tutela del matrimonio tra persone di sesso
diverso (9.64%), tutela della
libertà religiosa (6,89%), tutela del matrimonio come
sacramento indissolubile
(4,96), tutela delle scuole libere (4,13%). Bisogna scendere fino al 3,99% per trovare la lotta «al socialismo e al
capitalismo rigido», la lotta
all’eutanasia (3,72 %), la lotta alla droga e alla prostituzione (2,48%) e la tutela sociale dei minori (2,34%).
Da notare come tra le opzioni offerte dal sondaggio non
figurino affatto l’opposizione alla guerra né la lotta
contro le ingiustizie sociali.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
Arnaldo Casali
Terni
5
i 23 NUMERI integrali dell’anno
gli INDICI
per numero
per autore
per rubriche
per tematiche principali
TUTTA ROCCA
con 10 E
compresa spedizione
Richiedere
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CD-ROM
ROCCA 2004
a E 10
spese comprese
Religioni
il luogo
dei
dialoghi
Vienna
l’America
latina
è alternativa
«Filosofia e dialogo» è il tema
della lectio magistralis tenuta all’Università ebraica di Gerusalemme dal cardinale Carlo Maria Martini, in occasione della laurea in filosofia
conferitagli honoris causa.
Uno stralcio importante di
tale lezione è apparso su «La
Repubblica» del 13 giugno e
– in attesa di poterne leggere
tutto il testo – ne riprendiamo
anche noi alcuni spunti.
Ci sembrano importanti gli
interrogativi circa la effettiva
possibilità di un dialogo tra
religioni e culture, tra religiosi e filosofi di orientamenti
diversi. Dall’analisi linguistica sui problemi di linguaggio,
diversi ma interrelati tra di
loro, la lezione si sposta all’analisi filosofica, spaziando
dal linguaggio alla conoscenza della realtà espressa in
modi diversi. Parte cioè dalla
conoscenza comune – «la lingua del mercato» – fino alla
comunicazione scientifica e al
rapporto che s’instaura nel
dialogo tra diversi, dove si ha
anche a che fare col mistero
della persona umana e con il
supremo mistero della vita. E
l’analisi, oltre a mostrare la
tessitura ricca e raffinata del
pensiero del Cardinale, fa concludere che il dialogo è possibile: «Nei momenti in cui il
linguaggio arriva a quella profondità che chiamiamo interiorità e preghiera, riesce a
raggiungere significati e valori
anche più profondi... Vorrei
sottolineare che quello dell’interiorità e della preghiera è il
luogo in cui s’incontrano tutti i sinceri ricercatori della
verità e della giustizia, dove è
realmente possibile superare
le diversità dei linguaggi. Solo
procedendo su questa via si
possono trovare le profonde
motivazioni di quella comprensione, di quella fiducia
reciproca di cui sentiamo la
grande importanza della nostra attuale situazione».
Il quarto vertice tra Unione europea, America latina e Carabi, svoltosi in maggio a Vienna, è stato un modo molto eloquente per mostrare la portata
dei cambiamenti in corso in
America latina. Era stato previsto come un controvertice rispetto al precedente svoltosi
nella stessa capitale austriaca
tra ministri del continente europeo e del sub continente latino-americano. Si sottolineava
la conferma – per molti sconcertante – del presidente Evo
Morales della nazionalizzazione degli idrocarburi ( e poi della distribuzione delle terre). Ma
si è visto anche quanto superficiale fosse la presentazione
dello scontro tra le due sinistre:
quella moderata e ragionevole
portata avanti dalla presidente
del Cile Bachelet, dal presidente uruguayano Tabaré Vasquez,
dal presidente del Costarica
Oscar Arias e dal presidente del
Brasile Lula. L’altra sinistra
partirebbe da Caracas e passando per La Paz, prolungandosi
fino ai Caraibi e a Cuba.
Ma l’America latina questa volta ha presentato un volto unitario e alternativo. Ha discusso un tema di forte impatto
politico, l’estensione del trattato sul libero scambio firmato a
L’Avana il 29 aprile dai presidenti boliviano, cubano e venezuelano, che stabilisce norme di commercio internazionale in radicale contrapposizione
con tutti gli accordi di libero
scambio esistenti o in preparazione. È stato chiamato «trattato di commercio tra i popoli» perché per la prima volta si
pongono come priorità la solidarietà e non la concorrenza,
la creazione di posti di lavoro,
l’inserimento sociale, la sicurezza alimentare e la tutela dell’ambiente. L’accordo aggira i
circuiti finanziari e si fonda talvolta sulla reciprocità tra gli
Stati. Dimostra, in altre parole, che un altro commercio è
possibile.
Cile
la protesta
degli
studenti
È durata un mese la protesta
dei «pinguini» (così sono chiamati gli studenti di Santiago,
ragazzi tra i 13 e i 17 anni),
presto estesasi a tutto il Paese,
che ha messo a dura prova il
governo della neo-presidente
Michelle Bachelet. Il malessere della classe studentesca, con
la richiesta di un sistema scolastico più equo e accessibile
a tutti, ha in realtà radici lontane. Si ricorderà come la dittatura di Pinochet portò fino
al 1990 un alto livello di sovvenzioni statali alle scuole private messe in piedi da imprenditori, con conseguente segregazione delle classi sociali più
deboli. Gli studenti dell’Instituto nacional, il più prestigioso istituto pubblico di Santiago, occupando la scuola hanno chiesto per prima cosa la
deroga di questa Legge che
assegna ai privati il ruolo eminente nell’istruzione. La battaglia è stata vinta nonostante i
tentativi di repressione. Altro
argomento ricorrente è stato
quello della disparità tra le elevate spese militari (due miliardi e 700 milioni di dollari) e i
fondi stanziati per l’istruzione
(800 milioni di dollari).
ROCCA 15 LUGLIO 2006
IN soli 5 MILLIMETRI trovi
Anna Portoghese
ti sei ricordato
di ordinare il
Cd-rom 2005?
a cura di
TUTTA Rocca
minimo SPAZIO
primipiani
ATTUALITÀ
7
ATTUALITÀ
Nepal
pace
tra maoisti
e governo
Bose
gli incontri
con i Bizantini
e i Russi
Europa
ad Assisi
la Convention
della Croce rossa
Storico accordo di pace a Katmandu, il 15 giugno, tra governo e i guerriglieri maoisti
dopo 10 anni di guerra civile
e più di 13 mila vittime. Prevede lo scioglimento del Parlamento per dar vita a un esecutivo ad interim con la partecipazione della guerriglia.
La pace è stata aggiunta durante undici ore di colloqui tra
il premier Prasad Koirala e il
leader maoista Prachanda.
L’accordo, in otto punti, prevede l’invito a osservatori nelle Nazioni Unite a gestire
l’esercito e alcune procedure
durante la realizzazione dell’assemblea costituente e delle elezioni nepalesi e, oltre allo
scioglimento dell’attuale Parlamento, anche di quelle Amministrazioni costituite in alcune aree del Paese dai ribelli
maoisti. Si sancisce il maggiore rispetto dei diritti civili e
delle libertà individuali. Si ricorderà come dopo le manifestazioni di piazza dello scorso aprile, il Nepal è uscito dal
regime di monarchia assoluta.. La commissione che dovrà redigere la nuova Costituzione è già stata nominata.
Il Monastero di Bose organizza anche quest’anno – dal 14 al
20 settembre – un Convegno
ecumenico internazionale di
spiritualità ortodossa, patrocinato dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e da quello di Mosca. Nei dialoghi, in
genere, il confronto avviene a
diversi livelli. A quelli che chiamiamo di interiorità o di preghiera cui i monaci sono deputati per vocazione, è certo più
possibile armonizzare punti di
vista plurali coinvolgendosi nel
mistero dell’altro e di Dio, in un
processo di ricerca e di scoperta impensabili a livelli solo teologici, culturali o storici. L’iniziativa di Bose si svolge quest’anno su temi essenziali: la liturgia e la missione, «Nicola
Cabasilas e la Divina liturgia»
(14-16 settembre), «Le missioni della Chiesa ortodossa russa» (18-20 settembre). Accanto
agli specialisti sono attesi metropoliti, vescovi, monaci e fedeli delle Chiese sorelle bizantine e russa, pastori delle Chiese riformate. Informazioni:
Monastero di Bose, Magnano
(Bi), tel 015 679 185, convegno
@monasterodibose.it.
La Convention europea del primo soccorso della Croce rossa
( Face) si è tenuta in Assisi dal
14 al 18 giugno. Le squadre (di
oltre millecinquecento giovani
volontari) rappresentavano le
società di Armenia, Austria,
Belgio, Bosnia, Bulgaria, Croazia, Repubblica ceca, Danimarca, Finlandia, Germania,
Irlanda, Islanda, Kirgystan, Lituania, Macedonia, Monaco,
Norvegia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Romania, Serbia,
Slovacchia, Slovenia, Spagna,
Svizzera, Ungheria. Scopo dell’incontro, punteggiato anche
da momenti di festa, è stato
quello di confrontare le tecniche di primo soccorso, i protocolli d’intervento più aggiornati, scambiandosi esperienze ed
idee per una rete di comunicazione europea. In Assisi e dintorni c’è stata un’ imponente
gara di soccorso a squadre, con
simulazione di disastri e di
emergenze, alla quale, per motivi di ospitalità, l’Italia non ha
partecipato e che ha visto la vittoria della squadra serba. Massimo Barra, il presidente nazionale Cri, ha parlato di responsabilità, di «valori universali
condivisi».
Darfur
per una iniziativa dell’Onu
ROCCA 15 LUGLIO 2006
«Se i principi fondatori delle Nazioni unite sono qualcosa di
più che un semplice sogno (…) allora il Consiglio di Sicurezza
deve agire». Così il segretario di Stato americano Condoleezza
Rice ha esortato il 9 maggio il Consiglio ad assumere una decisione immediata per reagire al «genocidio» perpetrato dal governo di Kartum e dai suoi alleati nella regione del Darfur.
George Bush aveva anche denunciato «i janjawids, milizie armate dal governo sudanese che assassinano uomini, violentano donne, picchiano a morte i bambini» tra le tribù che si
suppone nascondano i ribelli. Il presidente americano ha annunciato l’invio immediato di cinque navi cariche di cibo a
Porto Sudan e chiesto un aiuto al Congresso per consentire al
Programma alimentare mondiale (Pam) di fare la sua parte.
L’iniziativa americana contempla anche l’invio di truppe Onu
in Sudan, ma il capo della diplomazia sudanese Lam Akol, pur
dicendosi disponibile al dialogo, non ne vuole sentir parlare.
8
notizie
seminari
&
convegni
Mosca. Frère Alois, responsabile della Comunità di Taizé
dopo la morte di frère Roger,
ha voluto far visita alla Chiesa
ortodossa russa dal 28 maggio
al 2 giugno. Accolto calorosamente dal Patriarca Alessio e
dal metropolita Kirill, frère
Alois ha spiegato: «La Chiesa
ortodossa russa occupava un
posto speciale nel cuore di
frère Roger. Aveva un infinito
rispetto per essa, a motivo delle prove che aveva attraversato e ricordava come tanti cristiani ortodossi avessero saputo amare e perdonare».
Lussemburgo. Hanno preso il
via i negoziati tra Unione europea e Turchia per l’ingresso
di quest’ultima nell’Ue. I Paesi europei sono riusciti a trovare un acordo per superare
il veto greco-ciprioti all’apertura del dialogo con Ankara.
A Lussemburgo il ministro
degli esteri Abdullah Gull ha
discusso il primo dei 35 capitoli delle trattative, che riguarda la scienza e la ricerca.
16-21 luglio. Santulussurgiu
(Or). Settimana biblica sul
Vangelo di Giovanni, guidata
da mons. Arrigo Miglio e d.
Roberto Filippini. Informazioni: 070 237 288; e-mail
[email protected]
17-21 luglio. Martina Franca
(Ta). Esercizi spirituali per sacerdoti e laici impegnati, presso il Centro climatico san Paolo
di Lanzo di Martina Franca, diretti da mons. Franco Castellana. Informazioni: 080 700 039.
23-29 luglio. Domodossola
(Vb). XXIV Sessione biblica,
presso il Centro di spiritualità
dei Padri Rosminiani, tenuta
dall’esegeta biblico p. Xavier
Léon Dufour s.J. sul tema «Dio
è amore», scandita in quattro
sotto-tematiche. Informazioni:
Adele Fratus tel. 0382 423515;
333 674 1358, p. Mario Reguzzoni s.J. 335 61 648 46.
30 luglio-6 agosto. Cavandone (Vb). Campo estivo del
Movimento nonviolento sul
tema «Stili di vita a confronto». Informazioni: Sergio Albesano, cell. 349 4031 378, email; [email protected].
31 luglio- 6 agosto. Firenze.
Alla Casa per la Pace di Tavarnuzze Percorso in 10 tappe di
spiritualità e prassi della nonviolenza attiva. Coordinano
Giovanni Scudiero, Fabio Corazzina, Carmine Campana.
Informazioni: Pax Christi, via
Quintole per le rose, 15, Tavarnuzze (Fi).
2-29 agosto. Urbino. Dedicato ai 500 anni dell’Università
«Carlo Bo», un fitto programma di eventi filosofici, politici
e letterari al Palazzo Petrangolini. Da segnalare in particolare il 22 agosto, ore 11,15: Giannino Piana presenta il suo ultimo libro: «Etica, Scienza e Società» I nodi critici emergenti
(Cittadella editrice 2005) ; il 24
agosto, ore 17,30: Seminario
del biblista Guido Benzi su «Lo
straniero nella Bibbia». Informazioni: [email protected].
6-13 agosto. Torino. Campo
estivo organizzato dal Sermig
sul tema: «Le parole e i gesti
dell’accoglienza». Informazioni: Maria Pia Catania tel. 346
0831 939; A. Arenghi e-mail:
[email protected].
12-19 agosto. San Giacomo
d’Entracque (Cn). Settimana biblica guidata da Rosanna Virgili sul tema: «La piccola sorgente che divenne un
fiume» Ester, una donna nelle tensioni di una società multietnica. Informazioni: 347
591 4923, fax 011 985 9774,
e-mail:[email protected].
13-16 agosto. Assisi. Incontro biblico, organizzato dal
Gruppo Missioni della Pro Civitate Christiana, sul tema: «Il
perché della nostra speranza».
Rilettura dei libri di Aggeo,
Gioele, Zaccaria e Malachia.
Relatori: Lucio Sembrano,
Porzia Quagliarella, Sennen
Nuziale, Gruppo Salzano (Ve),
Bruno Baioli. Informazioni:
Cittadella Cristiana Assisi, tel.
075 813231, fax 075 812 445.
13-22 agosto. Selva di Valgardena (Bz). A Villa Capriolo due proposte a scelta: «Miraggi e segreti dell’amore»,
corso per fidanzati, diretto da
d. Aristide Fumagalli; Lettura
del Vangelo di Giovanni «Il
dramma dell’uomo e di Dio»,
condotto da p. Silvano Fausti
e p. Stefano Titta. Informazioni: 0471 793 389, e-mail
[email protected].
14-19 agosto. Ostuni (Br).
Corso biblico alla Fraternità di
Bose sul tema «Perché ha molto amato», guidato da Sabino
Chialà. Informazioni: Fraternità monastica di Bose, Loc. Lamacavallo 72017 Ostuni (Br),
tel/fax 0831/ 304390; e-mail:
[email protected].
19-20 agosto. Catania. Campo missionario di strada
«Scendere nelle piazze per
farsi portatori di speranza».
Animazione diretta da p.
Gianluca Tavola. Informazioni: 0422 707486.
20-30 agosto. Vatolla (Sa).
Corso di ricerca vocazionale
per i giovani guidato da Gesuiti e Laici. Informazioni: P.
Michelangelo Maglie, tel. 099
561 0002, cell. 349 360 9908,
e-mail: [email protected].
24-29 agosto. Viterbo. 45°
Convegno nazionale Cem
Mondialità sul tema: «Tra
bene e male? Il conflitto negli immaginari dell’educazione».
Informazioni:
[email protected].
25-31 agosto. Barza d’Ispra
(Va). Al Centro di spiritualità
don Guanella Corso teoricopratico di vocalità per il canto liturgico. Sono previsti anche percorsi individualizzati
e la fornitura di materiali didattici. Informazioni: 338 704
5235.
26-28 agosto. Fano. All’eremo di Montegiove incontro
sul tema: «L’esodo: Mosé e il
Faraone». Relatori: A. Luzzatto, G.A. Borgonovo, G. Ripanti, M.Miegge, M. Tronti,
P. Virno, R. Rossanda, S. Portelli, Coordinatore G. Barbaglio. Informazioni: Eremo
0721 864 603; e-mail:
[email protected]; cell. 349
432 7149., tel. 0721 809 496.
26-31 agosto. Trevi (Pg). Settimana di spiritualità per il quotidiano sul tema: «Credere perché? Immagini di Dio e volti
dell’uomo». Relatori: M. De
Maio, A. Paoli, A. Zaffiro, C.
Molari, R. Mancini, G.E. Rusconi, O. Diz, E. Marie, A. Valerio, p. F. Scalia. Laboratori
esperienziali, gruppi tematici e
di approfondimento. Informazioni: Ore undici onlus, Via Ottaviano 105 -00192 Roma tel.
06/398 874 28 – 06/397 456 04
fax 06 397 337 67; e-mail
[email protected].
ROCCA 15 LUGLIO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
10
Superato dall’Unione europea, nella riunione a Bruxelles del 16 giugno, il blocco
degli aiuti finanziari all’Autorità palestinese, che la comunità dei donatori internazionali attuò all’indomani della
vittoria di Hamas alle elezioni politiche (25 gennaio
2006).
Allora Israele decise una «serrata finanziaria» contro il
nuovo governo e anche l’Europa e gli Stati Uniti interruppero i contatti bloccando tutti gli aiuti ad Hamas (in totale circa 1 miliardo di euro).
Tra i territori palestinesi la
crisi economica scoppiò gravissima, sconcertando anche
l’inviato americano Wolfensohn per i suoi risvolti tra la
popolazione civile. A questo
punto si fece strada la mediazione dell’Ue che, con uno
schema inedito, per evitare
che i fondi finissero al governo, si orientò a soddisfare la
situazione di emergenza con
donazioni dirette, per sanità
e forniture energetiche, sotto
la supervisione del presidente palestinese Abu Mazen. La
prima somma da elargire si
aggirava in 100 milioni di
euro. Tuttavia, c’era da ottenere l’approvazione dell’intero «Quartetto» (oltre all’Ue, gli
Usa, l’Onu e la Russia), impegnato a riportare la pace in
Medioriente, che aveva chiesto ad Hamas di riconoscere
Israele, rinunciare al terrorismo e alla violenza. Il commissario Ue per le relazioni
internazionali, signora Benita Ferrero-Waldner, ha ricevuto in tempi brevi l’assenso del
«Quartetto» all’operazione, allargata a Romania e Bulgaria.
Intanto, sempre a Bruxelles,
Romano Prodi ha presentato
un piano di cooperazione rafforzata tra l’Ue e i Paesi del
Mediterraneo, anche per frenare da quelle aree l’immigrazione clandestina.
Ci si sente smarriti di fronte
agli abusi (impuniti e nascosti) in una società che si dice
democratica. Non avremmo
saputo, se non con ritardo,
dell’ assassinio in Guatemala di un agricoltore indio e
sua moglie, Antonio Ixbalan
e Maria Petzey, colpevoli di
indagare e di aver svelato le
dimensioni atroci delle violenze commesse durante il
passato conflitto. Ma in questo frammento di storia si è
rispecchiata la violenza omicida persistente. Il Guatemala, piccolo paese centroamericano, culla della civiltà
Maya, ha subìto negli anni 80
un genocidio cui la comunità internazionale è rimasta
quasi indifferente. Antonio
era il presidente del Conic
(Coordinamento di Organizzazioni indigene e contadine), indagava per conto della
«Commissione per la verità»,
costituita dalle Nazioni Unite, e il suo omicidio sarebbe
passato inosservato se la vittima non fosse stata un collaboratore di «Mani Tese», organismo contro la fame e per
lo sviluppo dei popoli. Rimandiamo all’ampio servizio
della rivista di questo movimento (giugno 2006) per
un’analisi della situazione
guatemalteca. Rileviamo solo
che, a partire dal 1996, quando gli accordi di pace sancirono la fine del genocidio e
della repressione contro i
Maya, in realtà si costituì una
«democrazia a bassa intensità» perché tuttora le cause del
conflitto restano non affrontate. Esse sono, come ha
scritto la Commissione per il
chiarimento storico, l’ingiustizia strutturale, la chiusura degli spazi politici, il razzismo, l’esistenza di istituzioni escludenti ed antidemocratiche. Nell’attuale governo, su
30 incarichi, due sono per le
donne e solo due per gli indigeni.
Migranti
denuncia
vaticana
contro i Cpt
Ormai anche migranti che approdano alle nostre coste costituiscono un dato ineludibile della storia contemporanea
e in Italia i Cpt (Centri di permanenza temporanea) hanno
tentato di dare una risposta
agli approdi. Ma la battaglia
per la loro chiusura continua
e si è fatta ancora più pressante dopo la denuncia presentata dal cardinale Renato Martino in un convegno romano sul
tema della «detenzione dei rifugiati richiedenti asilo». Il
presidente del Consiglio vaticano «Giustizia e Pace» ha dichiarato che i Centri sono ridotti ormai a vere prigioni
dove si violano sistematicamente i diritti dell’uomo, dove
viene umiliata la dignità umana e che occorre trovare soluzioni alternative perché «i rifugiati e gli immigrati rinchiusi
in questi centri non hanno
commesso alcun crimine se
non quello di arrivare in Italia
con una speranza di salvezza».
Critiche ai Cpt sono venute
anche dalle comunità islamica e da quella ebraica. Per contro, critiche anche ai religiosi...
per «ingerenza».
della quindicina
Guatemala
democrazia
senza
partecipazione
il meglio
Bruxelles
l’Ue sblocca
gli aiuti
ai Palestinesi
vignette
ATTUALITÀ
da IL CORRIERE DELLA SERA, 12 giugno
da IL CORRIERE DELLA SERA, 12 giugno
da L’UNITÀ, 12 giugno
da L’UNITÀ, 12 giugno
da IL MANIFESTO, 13 giugno
da IL CORRIERE DELLA SERA, 14 giugno
da LA REPUBBLICA, 17 giugno
da MADRE, giugno 2006
ROCCA 15 LUGLIO 2006
ROCCA 15 LUGLIO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
11
cittadella convegni
Cittadella di Assisi, 20-25 agosto
senza i sandali dell’identità?
“… non c’è giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo, o donna…” (Gal 3, 28-29)
Il Corso è proposto dalla Cittadella con la collaborazione della Comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana
ogni giorno ore 8,30 preghiera del mattino
domenica 20
chi sono io? percorso in prosa e in versi tra identità di popoli e persone - a cura di
ore 21,15
Roberto CARUSI, regista; Carlo MATTI al pianoforte
lunedì 21
ore 9
ore 16,30
ore 21,15
martedì 22
ore 9
ore 16,30
non ha taciuto
esplorare l’identità
Eugenio BORGNA, psichiatra; Sergio GIVONE, filosofo
se l’identita’ cammina con la storia
Raniero LA VALLE, giornalista e scrittore
quando sei nato non puoi più nasconderti film di Marco Tullio GIORDANA
culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile?
Nacera BENALI, giornalista algerina; Kossi KOMLA-EBRI, chirurgo togolese, scrittore
migrante; Rosino GIBELLINI, teologo – coordina Franca CICORIA, della Cittadella
crescere con le differenze incontro con Marco PIAZZA, maestro di musica classica
dell’India; intervista TV esclusiva a Raimòn PANIKKAR, indiano, filosofo delle religioni
a cura di Renzo SALVI, capo-progetto Rai Educational
mercoledì 23
nelle derive integraliste… vivere la laicità Corrado AUGIAS, scrittore; Giannino
ore 9
PIANA, teologo morale – coordina Catiuscia MARINI, sociologa, sindaco di Todi
ore 16,30
cos’è di Cesare? cos’è di Dio? Enzo BIANCHI, priore della Comunità monastica
ecumenica di Bose
chi non si mette la maschera?: Il ‘Miserere’ di Georges Rouault; presentazione di
Tony BERNARDINI, della Cittadella
ore 21,15
ri-trovarsi nell’Eucaristia – celebrazione presieduta da mons. Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi, Nocera, Gualdo Tadino
giovedì 24
ore 9
l’identità feriale Lilia SEBASTIANI, teologa
le identità negate interpellano la politica personalità del mondo politico
coordina Tonio DELL’OLIO, di ‘Libera International’
ore 17
“...chiunque io sia, tu mi conosci “ Rosanna VIRGILI, biblista
a piedi nudi… consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio Enzo BIANCHI
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
Raniero
La Valle
o non vorrei più sentir dire che Dio ha
taciuto ad Auschwitz. Se fosse solo
un’espressione retorica, per rendere
l’idea dell’enormità di quanto lì è accaduto, un tale abisso di male che perfino
Dio era ridotto al silenzio, si tratterebbe
di una retorica efficace solo per quanti ritengono che Dio c’è e parla; ma in chi non lo
crede ciò non suscita alcuna emozione e anche Auschwitz rientra nella normalità.
Un papa teologo come Benedetto XVI non
può essere sospettato di parlare di Dio ad
uso di un paradosso retorico; e se chiede
conto a Dio del suo silenzio, del suo non
muoversi dinanzi alla tragedia culminata ad
Auschwitz, come ha fatto lì, nel cuore del
campo di sterminio, lo fa sul serio, sulla scia
dei Salmi, di Hans Jonas, di Lévinas e di
Wiesel, come ha scritto Giancarlo Zizola
nell’ultimo numero di Rocca. In effetti è una
domanda molto ebraica, di chi crede in Dio
ma pur sapendo di essere «polvere e cenere», come Giobbe, contende con Lui. È una
domanda anche un po’ pericolosa. L’idea
degli ebrei sionisti dopo la Shoah, è stata che
se non ci pensava Dio ci dovevano pensare
loro; come gridava Begin nelle comunità
della diaspora: «mai più gli ebrei deboli e
senza potere»; questa divenne la spinta maggiore per la costituzione dello Stato di Israele; ma quanto a sicurezza, da Dio allo Stato
gli ebrei non ci hanno guadagnato.
Per un Papa è meno abituale questo discutere con Dio. Giovanni XXIII non avrebbe
mai detto che Dio taceva; per lui Dio parlava
anche nell’ascesa delle classi lavoratrici, nella
nuova coscienza della dignità della donna,
nella liberazione dei popoli coloniali, e perfino nella Carta dell’Onu e nelle Costituzioni come quella che è oggi sotto scacco in Italia, cose in cui vedeva dei «segni dei tempi».
Ma poi i Papi si sono fatti più arditi: Paolo
VI si lamentò che Dio non era intervenuto
per Moro, e ne morì di crepacuore; papa
Wojtyla nel libro di Rizzoli scritto prima di
morire, libro di successo ma di debole teologia, mise in conto a Dio i dodici anni «concessi» al nazismo, e quelli molto più numerosi permessi invece al comunismo; e papa
Benedetto ha riaperto la domanda su Auschwitz.
Ma Dio non ha taciuto affatto ad Auschwitz;
e lo stesso papa Ratzinger lo suggerisce,
quando riconosce Dio all’opera nell’amore
I
testimoniato dalle vittime, e cita i nomi di
Massimiliano Kolbe e di Edith Stein; un
amore così vittorioso, anche lì, che Roberto
Benigni ha potuto intitolare il suo film, eco
di una grande teologia, «La vita è bella».
In effetti alla domanda sull’assenza di Dio
ad Auschwitz ha dato una precoce risposta,
proprio in quegli anni, un’altra vittima e
grande teologo tedesco, Dietrich Bonhoeffer, quando ha enunciato un’altra idea della
provvidenza di Dio nella storia, licenziando
l’immagine di un Dio tuttofare, «tappabuchi» dei nostri vuoti di conoscenza e di azione, escludendo che lo si possa chiamare a
rapporto per i mali che ci sopraggiungono e
per i disastri provocati da noi. All’alternativa posta da Jonas, o Dio non è buono o non
è onnipotente, la risposta è: «la seconda che
hai detto»; non è onnipotente al modo antropomorfico in cui noi pensiamo il potere e
la potenza; e perciò non è neanche un enigma per cui è incomprensibile in quel che fa
con la sua potenza. Dicono i biblisti che nel
Nuovo Testamento il termine onnipotente è
stato una creazione di San Girolamo, e nell’Apocalisse, dove frequentemente ricorre, è
traduzione della parola greca «pantocrator»
che, come spiega Alberto Maggi, significa che
Dio ha potere su tutti, non che «può fare
qualunque cosa che gli venga in mente». C’è
un senso in cui la Parola di Dio è Dio stesso,
è la Parola creatrice, e questa non viene mai
meno; e c’è un senso in cui la Parola di Dio
parla attraverso la parola degli uomini; anche la Scrittura è parola di Dio che si fa largo, a fatica, attraverso la parola degli uomini; e spesso è taciuta o fraintesa. Se gli uomini tacciono davanti al genocidio non è Dio
che tace. Nè si possono contestare a Dio i
miracoli che non fa. Questa è una tentazione che il Vangelo respinge. Dunque nemmeno si può chiedere a Dio conto di Auschwitz;
e se lì, come ha detto il Papa, volevano uccidere Dio stesso, ebbene questo è un Dio che
si fa uccidere.
Del resto lo stesso papa Benedetto ci porta
su quest’altra strada, quando dice che quel
grido verso Dio deve al contempo essere un
grido che penetra il nostro stesso cuore, deve
rivolgersi a noi stessi «proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono
nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure».
❑
13
ROCCA 15 LUGLIO 2006
64° Corso internazionale di Studi cristiani
RESISTENZA E PACE
CONO D’AFRICA
Somalia
nuovo Iraq?
14
L
ti. Inutile dire che questo ha creato molti problemi di prospettiva al Governo di
transizione somalo, che siede a Baidoa
(250 km a nord-ovest di Mogadiscio) e
di cui sono rispettivamente presidente
Abdullahi Yussuf e premier Ali Mohammed Gedi.
È impossibile esaminare questa nuova
crisi africana senza ricordare da una parte che il Corno d’Africa è stato al centro
di numerosi sanguinosi conflitti che in
Somalia hanno causato la bellezza di
500.000 morti in 15 anni. Da sola, la guerra somalo-etiope per il controllo dell’Ogaden alla fine degli anni ’70 ha lasciato sul terreno 80.000 morti. Dall’altra, bisognerà anche sottolineare che il territorio somalo si affaccia sullo Stretto di
Aden, all’uscita dal Mar Rosso, rotta di
navigazione delle petroliere che trasportano il petrolio saudita verso il mondo
occidentale.
ritorno dei marines
Dopo il colpo di stato che mise fine nel
1991 alla dittatura di Siad Barre, la Somalia fu teatro l’anno successivo del primo intervento ‘umanitario’ della nuova
Onu nata dalla fine della Guerra fredda,
di cui faceva parte un consistente contingente statunitense. Che fu protagonista nel 1993 di una clamorosa ritirata
dopo l’abbattimento da parte di guerriglieri armati con fucili kalashnikov
piazzati su furgoni di due elicotteri Black
Hawk e il massacro di 18 Rangers.
Per nove anni Washington si è mantenu15
ROCCA 15 LUGLIO 2006
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Maurizio
Salvi
a Somalia, paese africano esistente in pratica dal 1991 solo sulla
carta geografica, è tornato a far
parlare prepotentemente di sé, e
rischia di trasformarsi in una sorta di nuovo Iraq infiammando tutto il Corno d’Africa se la comunità internazionale non mostrerà di avere tirato
dalle paludi irachene la giusta lezione
dell’atteggiamento da prendere di fronte
alla spinta del mondo islamico in fermento. Durante tutto il corso del 2006, infatti, forze militari emanate dalle cosiddette Corti islamiche hanno moltiplicato i
loro successi sul terreno, conquistando
in giugno Mogadiscio e Jowhar (già sede
del governo) e mettendo fuori gioco i Signori della Guerra, una volta potenti, e
finanziati per l’occasione dagli Stati Uni-
il Gruppo di Contatto
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Comunque, il cocente fallimento del progetto americano ha convinto Washington
ad operare un mutamento rapido di strategia. Considerando inopportuno, e nella
sostanza impossibile, aprire un nuovo
fronte militare con l’invio di truppe, il Dipartimento di Stato americano ha mobilitato al massimo tutte le sue potenzialità
diplomatiche, ponendo prima di tutto in
servizio attivo un Gruppo di Contatto
composto da nazioni con passato coloniale (Italia e Gran Bretagna), paesi con lunghe tradizioni umanitarie (Norvegia e
Svezia), la Tanzania nella sua qualità di
membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e l’Unione europea (Ue). Le Nazioni Unite e l’Unione africana (Ua) sono invece presenti con il titolo di osservatori.
Questo gesto fra l’altro è stato considerato dagli osservatori come una decisione della stessa Condoleezza Rice di riprendere in mano il dossier somalo, dopo
averlo lasciato in gestione alla Cia che,
come abbiamo visto, aveva puntato senza successo sul rafforzamento dei Signori
della Guerra. La prima riunione del
16
Gruppo, presieduto dal Segretario di Stato aggiunto per l’Africa, Jendayi Frazer,
si è chiusa con la diffusione di un comunicato in cui si ribadisce l’appoggio alle
«istituzioni federali di transizione» considerate come «quadro legittimo e praticabile «e si incoraggia il dialogo fra il governo di transizione le Corti islamiche».
Naturalmente il documento chiede anche
a tutte le parti di «tenere conto delle preoccupazioni della comunità internazionale riguardanti il terrorismo» e di garantire l’accesso «senza restrizioni» alle
organizzazioni umanitarie.
Caschi Blu africani
Su questo cammino tracciato a New York,
il 19 giugno si è tenuto ad Addis Abeba un
incontro fra Unione africana, Igad (organizzazione a cui aderiscono sei paesi dell’Africa orientale più il governo di transizione somalo) ed Unione europea che ha
stabilito l’invio di una missione per studiare la possibilità del dispiegamento in Etiopia di una forza di pace africana. L’intervento dei Caschi Blu africani, auspicato ripetutamente dal presidente somalo Yussuf,
non è invece affatto gradito al presidente
delle Corti, sceicco Shariff Sheikh Ahmed,
che ha chiesto di evitare qualsiasi ingerenza esterna nel regolamento di conti in corso in Somalia. La decisione di avviare il progetto esplorativo per l’invio della forza militare di pace è giunta pochi giorni dopo che
lo stesso leader islamico aveva denunciato
la presenza di truppe etiopiche «fuori e dentro i confini somali». «Rivolgiamo un appello alla comunità internazionale – aveva
detto Shariff Sheikh Ahmed – a fare pressioni su Addis Abeba affinché ritiri le truppe dal territorio somalo, al fine di evitare
un nuovo conflitto».
Questo duro confronto fra il governo
provvisorio somalo (il 14° creato dalla
fine della dittatura di Barre) che gode dell’appoggio della comunità internazionale e le Corti sarà decisivo per il futuro
del paese. Se è impensabile infatti che il
governo possa farcela senza sostegno
esterno, va detto anche che le autorità
islamiche non possono non rendersi conto che il progetto di voler riproporre
l’esperienza afghana in questa parte del
mondo senza disporre della compattezza mostrata dai talebani non avrebbe
grandi possibilità di successo.
Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
partitocrazia di ritorno
Romolo
Menighetti
U
no dei fatti negativamente più rilevanti della nostra storia politica recente è il prepotente e arrogante ritorno della partitocrazia.
Buttata fuori dalla finestra come
conseguenza di Tangentopoli, è
rientrata dalla porta attraverso la nuova
legge elettorale, varata dalla precedente
maggioranza di centrodestra, e con la quale
siamo andati a votare il 9 aprile scorso. La
partitocrazia è ritornata portata trionfalmente a spalla da molti di coloro che non
più di quindici anni fa vedevano nel sistema proporzionale e nello strapotere dei
partiti, la fonte di ogni degenerazione e corruzione della vita pubblica.
I partiti con la recente riforma elettorale
hanno scippato quel poco di potere che i
cittadini ancora avevano in ordine alla designazione dei loro rappresentanti in Parlamento. Infatti le liste dei candidati le
hanno compilate i loro vertici nel chiuso
delle segreterie, stabilendo a priori chi
dovesse essere eletto e chi no. I cittadini
sono stati chiamati solamente a ratificare
nelle urne le loro decisioni.
Per comprendere appieno la grossa involuzione democratica perpetrata è bene riflettere un po’ più approfonditamente su ciò che
è la partitocrazia, e su ciò che ha comportato per noi italiani in un recente passato.
La partitocrazia è una degenerazione del
sistema democratico perché trasforma i
partiti – in sé indispensabili per la democrazia in quanto espressione della volontà
e del controllo popolare – in strumenti per
l’occupazione delle istituzioni da parte
delle loro oligarchie.
Il fenomeno interessò l’Italia tra gli anni
Settanta e Novanta, e raggiunse proporzioni tali da mettere a repentaglio la stessa
Repubblica. La successiva conquista della
ribalta politica da parte di forze nuove
espresse dalla cosiddetta società civile sembrò porre fine alla partitocrazia. Ben presto però queste forze si sono consolidate e
costituite in sistema, e in esso si sono blindate. Una volta strappato il potere al sistema dei partiti tradizionali, ne hanno creato uno analogo a loro uso e consumo.
Caratteristiche generali della partitocrazia
sono: l’occupazione di ogni spazio istitu-
zionale, rigorose norme per regolare la
spartizione degli incarichi, assenza di spessore e di originalità programmatica, clientelismo, corruzione.
Gli organi costituzionali destinati a regolare i rapporti Stato-società vengono così
invasi, e quindi svuotati, dai partiti.
In tal modo le forze politiche, che dovrebbero porsi al servizio del dialogo tra cittadini e istituzioni, garantendo rappresentanza ai primi e rappresentatività alle seconde, da comprimarie diventano quasi le
uniche protagoniste. Il consenso popolare
che aggregano, invece di trasformarsi in
risorsa arricchente e legittimante l’intero
apparato pubblico, si ricicla in potere a
servizio di interessi privati e particolari.
Inoltre la partitocrazia distorce le relazioni tra un’istituzione e l’altra. Invadendo
tutti i centri decisionali, i partiti vanificano il sistema dei contrappesi voluto dal costituzionalismo moderno, aprendo così la
strada che potrebbe portare ad un regime
potenzialmente totalitario.
I partiti che ora hanno restaurato la partitocrazia in Italia, solo in parte rappresentano i cittadini.
Oggi la forza dei partiti poggia per lo più
sulla notevole massa di denaro che, con
astute leggi aggiranti il voto referendario,
convogliano entro le loro casse. In più, l’occupazione del potere rende possibile il consolidarsi di un vasto sistema clientelare. Il
tutto concorre a creare e ad alimentare la
numerosa corporazione partitica, che accomuna tutte le sigle (più di 300.000 persone in Italia vivono, a diversi livelli, di politica). Tale corporazione è tenuta insieme
da ottime indennità per gli eletti (dal parlamentare europeo al consigliere di quartiere), da privilegiate condizioni in materia previdenziale ed assistenziale, dalla
quasi certezza di impunità a livello civile e
penale, e da buone probabilità di restare
in ogni caso «nel giro» (come manager di
Asl o altro) in caso di mancata elezione.
Perciò l’abrogazione dell’attuale legge elettorale dovrà essere uno dei primi atti del
nuovo governo di centrosinistra. Solo così,
almeno una parte della sovranità che la Costituzione attribuisce ai cittadini potrà ritornare nelle mani dei suoi legittimi titolari. ❑
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
CONO
D’AFRICA
ta lontana dalle sabbie mobili somale,
dove i Signori della Guerra hanno scomposto il paese in un mosaico di potentati
locali a fini affaristici, mentre si moltiplicavano secessioni e proclamazioni di indipendenza mai prese in conto dalla comunità internazionale (Somaliland, Puntland, Jubaland e quella proclamata dall’Esercito di resistenza Rahamweyn). Nel
2002, però, i marines sono tornati sull’Oceano Indiano per espandere la lotta
al terrorismo islamico ed agli elementi di
Al Qaida presumibilmente rifugiatisi in
questa regione del Continente nero. La
Casa Bianca ha portato all’estremo questa strategia convincendo, ovviamente con
argomenti finanziari, i Signori della Guerra ad unirsi in febbraio in una improbabile Alleanza per il ripristino della pace e
contro il terrorismo, che è andata in frantumi quando i miliziani delle Corti islamiche sono entrati nella capitale somala
il 5 giugno. Nelle zone sotto il loro controllo le Corti - finanziate fra l’altro da
uomini d’affari somali operanti da paesi
vicini che hanno intuito il potenziale unificante della religione islamica nel paese
– hanno introdotto immediatamente la
Sharia (la legge fondamentale coranica),
sullo stile di quanto fecero i talebani dopo
la loro vittoria in Afghanistan.
CATTOLICI ITALIANI
l’etica
al posto
della
politica
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Filippo
Gentiloni
18
ostalgia della antica e gloriosa
Democrazia Cristiana? Quel partito permetteva di riunire cittadini di destra e di sinistra in una
larga piazza di centro, all’insegna
di un pensiero politico chiaramente cattolico, pur senza chiamare in
causa direttamente né la chiesa né il Vaticano. Era stata una bella e lunga stagione,
all’insegna di quella dottrina sociale della
chiesa che pretendeva di assumere il meglio – e di lasciare il peggio – sia della destra liberale che della sinistra socialista e
comunista.
Una stagione che ormai è finita: i tentativi
di resuscitarla appaiono vani. Anche quelli di questi giorni che, pure, sembrano particolarmente impegnativi, sia per i temi
affrontati sia per la presenza di protagonisti cattolici da una parte e dall’altra. Un
«intergruppo» che qualcuno ha definito
«lobby virtuosa». Il suo contributo al dialogo potrebbe rivelarsi prezioso.
Eppure… Il loro sforzo appare sterile,
N
marginale. Si ha l’impressione che il grande gioco politico si svolga altrove, che la
grande piazza del centro cattolico rimanga vuota o quasi.
cara vecchia Dc
Come mai? I temi in discussione che impegnano il pensiero e il voto cattolico non sono
irrilevanti, dai Pacs, alla pillola RU486, alle
cellule staminali. Ma si tratta di temi più
etici che politici, si potrebbe dire, semplificando. Temi che non coinvolgono quella
dottrina sociale della chiesa che aveva permesso – e giustificato – il partito «a ispirazione cristiana» e che oggi è scomparsa.
Allora non si trattava soltanto della posizione cattolica su alcuni temi etici, soprattutto
quelli riguardanti la famiglia e il matrimonio. Si trattava di una posizione cattolica
nella grande politica nazionale e internazionale, sul terreno dell’economia, del risparmio, del lavoro. Si pensi alle grandi encicliche pontificie da quelle di Leone XIII a quelle
di Giovanni Paolo II. La speranza della costruzione di un assetto sociale che salvaguardasse insieme la società e l’individuo, l’autorità e la libertà. Oggi questa grande speranza sembra svanita e l’impegno cattolico sembra ridursi a temi particolari. In poche parole, l’etica invece della politica.
Qualcuno dirà che doveva essere così perché la grande sistemazione politica non
rientra nei compiti del magistero ecclesiastico. Forse è così: comunque si comprende la difficoltà di riunire oggi alcune forze
di destra e di sinistra all’insegna della dottrina cattolica. Nonostante la buona volontà di molti cattolici impegnati in politica
l’«intergruppo» stenta a decollare.
Bisognerà piuttosto accettare che i cattolici facciano politica in ordine sparso, scegliendo di volta in volta secondo coscienza.
Così per la famiglia e il matrimonio così
per il lavoro e l’immigrazione, per la scuola
e la salute, per la nascita e la morte. Così è
già, d’altronde, in molte parti del mondo.
Filippo Gentiloni
19
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Paola Binetti
e Fabio Mussi,
accanto;
Giuliano Amato,
sotto
DROGA
la stanza del buco
I
il gioco degli schieramenti
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Perché da tempo il nostro sterminato ceto
politico preferisce il gioco degli schieramenti, il palio dei simboli, la presa di distanza o di prossimità invece che la responsabilità collettiva della mediazione e della
decisione. È successo per l’amnistia e succede per molti altri argomenti.
Perfino sul testamento biologico, che riguarda il diritto della persona a una decisione
cosciente circa le terapie che vorrebbe o non
vorrebbe ricevere nel caso in cui diventasse
impossibile una espressione consapevole,
quattro anni di discussioni e di prese di
posizione coerenti con le aspettative di un
paese evoluto non sono bastati a convincere il parlamento ad approdare ad una qualche decisione. «Se la politica non ascolta i
bisogni della popolazione – conclude oggi
20
su Repubblica il professor Umberto Veronesi – la popolazione fa a meno della politica». Ma purtroppo non è sempre così. Della politica come capacità di misurarsi con i
problemi concreti e di vagliare con onesta
attenzione, prima di decidere, gli esiti dell’una o dell’altra delle soluzioni praticate o
possibili, c’è un assoluto bisogno. E anche
di un atteggiamento laico, prudente, meditato, in grado di analizzare i fatti e i processi reali, di seguire e interpretare i passaggi
controversi della complessità, alieno dalle
semplificazioni ideologiche e strumentali.
strutture di ultima istanza
Ma tutto ciò scarseggia, nell’Italia di oggi.
La prova è proprio nella maggior parte
delle polemiche seguite alle dichiarazioni
di Ferrero, in verità solo possibiliste e con
tutta evidenza non programmatiche, sull’opportunità di sperimentare anche in Italia le consumption rooms, che fanno parte
dei programmi di riduzione del danno di
diversi paesi europei: l’Olanda, la Svizzera, la Germania, la Spagna (fin da quella
di Aznar), il Lussemburgo, la Norvegia. In
alcuni casi lo strumento è già legalizzato,
in altri si tratta di progetti-pilota, mentre
in diverse realtà – per esempio il Portogallo – i governi si apprestano a sperimentarlo. Ma di che cosa siano davvero, a chi siano destinate, quali siano i loro risultati non
c’è praticamente nessuna traccia, nelle
sparate dettate alle agenzie e nelle interviste ai giornali. Bisogna rivolgersi altrove
per sapere che si tratta di strutture di ultima istanza, riservate esclusivamente ai
tossicodipendenti di lunga durata, su cui
non ha avuto effetto nessun altro intervento e nessuna altra terapia, neppure il metadone. Dunque malati che non hanno altra prospettiva che la prigione o la morte,
persone a rischio continuo di overdose, di
malattie infettive, di gravissimi malori.
Le consumption rooms sono, in effetti, una
specie di ambulatori dove i tossicodipendenti vengono assistiti e controllati nell’assunzione di sostanze che si sono procurati
da soli. Non sono, dunque, luoghi dove si
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Fiorella
Farinelli
l fuoco incrociato delle polemiche seguite alle dichiarazioni del ministro
della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero sulle «stanze del buco» non dovrebbe nascondere la questione più importante. Cioè che il belpaese, anche sulle droghe, si è finora sottratto alle indicazioni dell’Unione Europea. Che, ovviamente, non si pronunciano sulle politiche specifiche che nei diversi contesti nazionali si
vogliano adottare sul consumo delle sostanze stupefacenti o sul dramma delle tossicodipendenze, ma che stabiliscono che
ogni paese membro deve dotarsi di una
strategia basata su quattro punti cardine:
prevenzione, trattamento, riduzione del
danno e lotta al narcotraffico.
Da quell’indicazione, che è stata condivisa
ed approvata nel 2000, sono passati sei
anni. Un tempo ragionevole per mettersi
in regola, ma non per l’Italia, l’unico dei
29 paesi (i 25 dell’Ue più quelli candidati),
a non avere ancora un piano. E non perché il tema non interessi i politici, pronti
anzi – come si è appena visto – ad azzuffarsi con il massimo vigore quando si tratti di temi «eticamente sensibili» o comunque tali da sommuovere e dividere l’opinione pubblica, ma per un altro motivo.
21
riduzione del danno
Chi sostiene, dunque, che le stanze del buco
non sono la soluzione ai problemi della droga e al dramma delle tossicodipendenze
sfonda una porta aperta. Chi le contrappone alle comunità di accoglienza, alle terapie di disintossicazione, ai servizi che si
occupano delle cause della dipendenza, agli
interventi di prevenzione e di educazione,
invece, non sa di che cosa parla. La questione è un’altra, ed è anch’essa serissima:
si tratta, con tutta evidenza, dell’importanza delle strategie di riduzione del danno e,
in questo contesto, della loro effettiva efficacia. Del resto ancora controversa, come
si deduce dalla cautela con cui si esprime
in proposito l’Organizzazione Mondiale
della Sanità: che dichiara di non avere una
posizione ufficiale perchè non dispone ancora di dati certi sull’impatto positivo delle
consumption rooms sulla salute dei tossicomani. Anche se sembra accertato che il
rischio overdose viene ridotto praticamente a zero in strutture dove gli interventi
medici sono immediati; e anche se si osserva una riduzione dei comportamenti a rischio tra le persone che le frequentano.
la politica dei veti incrociati
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Il povero ministro Ferrero, dunque, non
meritava una tale tempesta. E tanto più in
un paese dove si stanno lasciando morire i
servizi pubblici dedicati all’accoglienza e
alla cura dei tossicodipendenti: strangolati, prima ancora che dalla riduzione dei
finanziamenti, da una diffusa incuria alimentata dal prevalere di una cultura politica di tipo punitivo che fa dell’assunzione
delle sostanze stupefacenti un reato, che
vede in quasi- continuità l’uso personale e
lo spaccio, e che non distingue abbastanza tra droghe leggere e pesanti. Con sicuri
effetti su un ulteriore affollamento delle
22
patrie galere e su un ulteriore ingrossarsi
della criminalità collegata al proibizionismo. Mentre prospera un narcotraffico che
è la fonte principale dell’impero economico della mafia.
Ma non sarà semplice cambiare le cose.
Sebbene nel programma della coalizione
oggi al governo ci siano impegni importanti, come l’obiettivo della cura delle tossicodipendenze «al di fuori delle strutture
detentive», l’abolizione delle sanzioni amministrative per chi detiene sostanze stupefacenti per uso personale, l’abrogazione
della norma Fini-Giovanardi, il rilancio del
ruolo dei Sert, l’attenzione alle strategie di
riduzione del danno «come parte integrante della rete dei servizi», anche nel centrosinistra ci sono posizioni diverse che rischiano, attraverso la pratica dei veti incrociati, di rallentare i processi decisionali e di diminuirne la portata.
tra depenalizzazione e liberalizzazione
È, in particolare, ancora irrisolta la questione di fondo: se cioé si debba adottare una
logica di depenalizzazione del consumo e,
in questo quadro, debbano avere spazio e
possibilità di sviluppo le strategie di riduzione del danno; o se, viceversa, si debba
assumere un approccio antiproibizionista
di piena liberalizzazione dell’uso delle sostanze stupefacenti. Il ministro Ferrero si
dichiara a favore della prima alternativa, l’ex
ministro della salute Veronesi, invece, sostiene le ragioni della seconda.
Una questione effettivamente molto complessa, dietro cui vivono visioni opposte non
solo del rapporto tra lo Stato e le libertà
individuali, ma anche e di nuovo posizioni
diverse sul significato etico dell’uso delle
droghe. Anche a questo proposito, ovviamente, si ripropone la guerra dei numeri,
cioè il confronto tra i risultati delle diverse
politiche nell’uno o nell’altro paese dell’
Unione Europea o di altre aree del mondo.
Ma è evidente che il problema non si risolve solo con i dati statistici. Anche prima del
governo Berlusconi che ha dato il massimo
spazio alle posizioni più rigide e conservatrici nei confronti del problema droga, era
stato del resto molto difficile approdare a
mediazioni convincenti e a soluzioni efficaci. E non è affatto detto che il contesto
attuale, caratterizzato da un allungarsi incessante dell’elenco delle questioni eticamente sensibili e da un modo di discuterne
sempre più surriscaldato, possa presentare
condizioni più favorevoli.
Fiorella Farinelli
ECOLOGIA
anche
l’ambiente
rende
Aldo
Abenavoli
redi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo obblighi
verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno
dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana». Con queste
parole la Populorum Progressio (par. 17) di
Paolo VI introduce il tema dell’ambiente
nella dottrina sociale della Chiesa.
La chiave di lettura del brano sembrerebbe racchiusa nella parola «obblighi», termine perentorio che lascia intendere il preciso dovere di difendere il giardino dell’Eden affidato dal Signore alla umanità
perché lo trasmetta integro alle generazioni future.
A prima vista il termine mal si concilia con
una corretta attitudine verso la natura che
dovrebbe essere improntata più all’amore
che alla coercizione: va da sé che la dimensione ecologica dovrebbe esprimersi preferibilmente attraverso un atteggiamento
mentale e una vera e propria passione verso il «Creato» che può essere innata o acquisita attraverso una intensa opera di educazione e di informazione. Per chi ad esempio si propone di contribuire al risparmio
energetico e alla limitazione dei gas serra,
la prima azione da compiere è di lasciare
l’automobile in garage tutte le volte che è
possibile utilizzare senza grossi scompensi il mezzo pubblico. Parimenti, se nel momento in cui ci rechiamo in un supermercato, ci ricordassimo del grande potere che
E
abbiamo come consumatori e decidessimo
di indirizzare gli acquisti verso i prodotti
recanti un marchio ecologico, il contributo alla tutela della natura sarebbe molto
più incisivo di quello garantito da una miriade di leggi, decreti e circolari ministeriali.
È tuttavia evidente che il rispetto dell’ambiente, ove fosse affidato alla esclusiva buona volontà delle singole persone avrebbe
vita breve; occorre dunque dare a Cesare
quello che gli spetta.
norme di legge e interventi pattizi
La politica nell’ambiente può agire essenzialmente attraverso due strumenti: il primo è quello della norma vincolante, tanto
per intendersi quella che ad esempio definisce i limiti massimi delle sostanze inquinanti che possono essere emesse nella atmosfera o scaricate nelle acque: una volta
superati detti limiti scatta la sanzione che
a seconda della gravità può essere di natura amministrativa o penale.
Le norme di legge possono essere emanate direttamente dallo Stato che, in base alla
riforma della Costituzione del 2001, ha acquisito in materia una competenza esclusiva o dalle regioni, che comunque possono legiferare sugli aspetti applicativi ed esecutivi o dalla Unione Europea che opera
attraverso regolamenti, direttamente vincolanti per i cittadini, o direttive che invece si rivolgono agli stati membri; non van23
ROCCA 15 LUGLIO 2006
DROGA
distribuisce «eroina di Stato», ma solo centri in cui si mettono a disposizione siringhe
non infette, controlli sanitari, assistenza infermieristica e medica, spazi riservati per
assumere le sostanze. Dunque tutt’altra cosa
rispetto ai servizi che tentano di liberare
dalla dipendenza, attraverso terapie di disintossicazione graduale combinate con interventi psicologici, sociali e di altro tipo. E
infatti i loro risultati si misurano non in
numeri o percentuali di persone uscite dal
dramma della droga, ma in riduzione delle
infezioni da Hiv e di epatiti, in contenimento delle morti da overdose, in diminuzione
dell’uso di droghe in pubblico.
cultura della legalità
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Peraltro anche un approccio di tipo volontario non può prescindere dalla condivisione di un minimo di regole da rispettare
comunque e in ogni caso.
Prendiamo ad esempio le norme che subordinano la costruzione di un edificio al
rilascio di una licenza edilizia; in questo
caso non esistono alternative, la norma va
applicata senza se e senza ma altrimenti
scatta, anzi dovrebbe scattare, la sanzione. Tutto questo significa in parole povere
che la tutela dell’ambiente non può prescindere dal rispetto integrale della legalità; purtroppo nel nostro paese la cultura
della legalità è assai scarsa e questo per
24
una nazione che si vanta di essere la culla
della civiltà e il centro della cristianità è
molto preoccupante.
Che la sensibilità del cittadino medio verso il rispetto della legge sia molto ridotta
si evince del resto dai numerosi condoni
edilizi che si sono susseguiti nel tempo e
che hanno dato gettiti tutt’altro che trascurabili, a dimostrazione di come il fenomeno sia profondamente radicato nella mentalità comune, tanto è vero che quasi mai
viene avvertito come disdicevole. «Così fan
tutti, dunque evidentemente non c’è nulla
di male». «E poi regole eccessivamente
severe in materia ambientale sono di ostacolo al progresso e allo sviluppo economico».
Eppure non dovrebbe essere difficile comprendere come una abitazione costruita in
località proibite o con modalità non consentite sia un vero e proprio attentato a quel
giardino che il Signore ci ha affidato in custodia (Genesi 2,15) e che dobbiamo trasmettere integro alle generazioni future.
incentivi e disincentivi
Una volta assicurato il rispetto degli standard minimi, quelli al di sotto dei quali non
si può scendere in nessun caso, ecco allora soccorrere lo strumento che potremmo
chiamare volontario.
Non a caso il mondo delle imprese, rispetto al criterio del «command and control»,
cioè delle regole rigide verificate da una
autorità severa, esprime una naturale preferenza per l’approccio volontaristico anche se questo presuppone sempre un quadro di norme all’interno del quale l’azienda può assumere gli impegni volontari. In
altri termini gli accordi devono essere il
veicolo per implementare al meglio le regole ambientali e non un comodo alibi per
eluderle.
Lo strumento volontario, se collocato entro un preciso quadro di riferimento, si
lascia preferire in quanto consente di inquadrare la tutela dell’ambiente nell’ambito più generale della politica economica
e dello sviluppo equilibrato del paese.
Infatti, attraverso lo strumento degli incentivi e dei disincentivi, si possono orientare
le scelte delle imprese e di riflesso dei consumatori; in questo modo la opzione ambientale viene a coincidere con quella economicamente più conveniente.
Per fare un esempio, al fine di promuovere lo sviluppo delle energie rinnovabili si
tende a fissare l’accisa sui prodotti petroliferi su livelli abbastanza elevati e contestualmente a defiscalizzare quella sui bio-
carburanti quali il biodiesel e il bioetanolo che derivano dalla coltivazioni agricole; queste fonti, oltre ad essere rinnovabili, sono particolarmente positive per l’ambiente in quanto il gas serra emesso nella
combustione viene recuperato attraverso
la fotosintesi. In questo caso anche le
aziende petrolifere possono trovare conveniente miscelare il biocarburante, che
grazie alla defiscalizzazione diventa competitivo, con il gasolio di propria produzione mentre la coltivazione delle colture
energetiche, dalle quali vengono ottenuti
i biocarburanti, serve a promuovere la
agricoltura che a sua volta, attraverso la
cura e la manutenzione dei terreni agricoli, svolge una funzione ambientale e sociale.
La leva fiscale come strumento di politica
economica trova nelle emergenze ambientali ampie possibilità di utilizzo. Allorquando si parla di fisco, il cittadino comune a prescindere dalle ideologie politiche
pensa inevitabilmente a qualche cosa di
mostruoso dal quale spontaneamente allontanarsi; tutto questo in controtendenza con la già citata Populorum Progressio
(par. 47) la quale ammonisce chiunque a
contribuire secondo i propri mezzi al bene
comune, aiutando coloro che sono più bisognosi.
Le ragioni della naturale avversione del
cittadino verso il fisco sono ricollegabili
al più generale clima di sospetto e sfiducia verso lo Stato che ha origine storiche
sulle quali non ci possiamo dilungare ma
che sono facilmente intuibili. Ecco allora
che il trasformare il fisco da marchingegno diabolico ideato per prosciugare le
esangui tasche dei cittadini, ad uno dei
pilastri della politica economica volto a
promuovere atteggiamenti virtuosi e a penalizzare comportamenti non conformi
all’interesse generale, può essere il mezzo
per fare accettare meglio il fisco.
utilità della leva fiscale
La leva fiscale come strumento di politica
economica può essere utile in tutti i campi (si pensi ad esempio agli incentivi a favore della assunzione di lavoratori giovani) ma nella dimensione ambientale può
essere il volano per costruire quello che
viene comunemente definito lo sviluppo
sostenibile.
L’ambiente come strumento di politica
economica è inoltre elemento essenziale
nelle relazioni internazionali soprattutto
con riferimento ai paesi del terzo mondo.
È chiaro che, se desideriamo che i paesi
più poveri possano svilupparsi e raggiungere standard di vita accettabili, occorre
che le limitate risorse a disposizione siano
utilizzate secondo criteri razionali ed efficienti. Fino a quando gli Stati Uniti con il
5% della popolazione continueranno a consumare il 25% delle risorse energetiche e a
causare un pari ammontare di emissioni
in atmosfera, qualsiasi progetto di sviluppo della parte più sfortunata del pianeta è
destinato a restare sulla carta. Ne è riprova la preoccupante impennata dei prezzi
dei prodotti petroliferi connessa al tumultuoso sviluppo di paesi emergenti come la
Cina e l’India che si affacciano nel mondo
del consumo e reclamano la loro parte di
torta che peraltro, con tutto il «lievito» che
vi può essere aggiunto, non può crescere
più di tanto.
Ecco allora che una politica di risparmio
energetico non solo è raccomandabile ma
diventa anche la condizione per la sopravvivenza della civiltà umana. Per questi
motivi decisioni di politica economica e
fiscale, che a prima vista sembrano orientate a ridimensionare il nostro tenore di
vita, vanno accettate in quanto sono necessarie per mantenerlo.
una Carta Costituzionale della natura
Osserva a questo proposito la Centesimus
Annus (par. 36) che» il sistema economico
non possiede al proprio interno criteri che
consentano di distinguere correttamente
le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti che ostacolano la formazione
di una matura personalità. È necessaria
quindi un’opera educativa e culturale che
comprenda l’educazione dei consumatori
ad un uso responsabile del proprio potere
e la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e nelle imprese di
pubblicità».
Ambiente e politica si possono coniugare
solo se le forze politiche e i cittadini che le
esprimono trovano un terreno comune di
intesa sui valori e i principi, una sorta di
Carta Costituzionale della natura che prescriva regole condivise valide a prescindere dalle coalizioni che di volta in volta sono
chiamate a governare il paese.
Ecco dunque che il percorso che, partendo dall’individuo, arriva alla politica finisce poi inevitabilmente per ritornare all’individuo, anzi per meglio dire alla persona
umana, unica responsabile del presente ed
artefice del futuro.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
ECOLOGIA
no dimenticati infine gli impegni derivanti dagli accordi internazionali come ad
esempio il protocollo di Kyoto sulle emissioni in atmosfera.
Un secondo tipo di interventi è quello che
potremmo definire di tipo pattizio; con
questo strumento la autorità politica cerca di concordare con gli operatori economici un accordo con il quale, a fronte di
un impegno a conseguire determinati standard ambientali, vengono riconosciuti benefici di natura economica quale finanziamenti, agevolazioni fiscali e così via.
Rientrano in questa categoria le certificazioni ambientali (Emas o Iso) con le quali
la azienda si assoggetta volontariamente
ad una serie di controlli a fronte dei quali
acquisisce un attestato di «benemerenza
ambientale», una sorta di diploma che può
essere vantato anche nelle etichette del
prodotto ed essere utile per valorizzare
l’immagine verso la clientela ed il consumatore.
Un altro strumento di tipo volontario è
quello adottato per il recupero e il riciclaggio degli imballaggi. Premesso che l’Unione Europea ha fissato obiettivi di recupero e riciclaggio che devono essere conseguiti entro un determinato tempo, le autorità politiche del nostro paese hanno preferito lasciarne la gestione direttamente
alle categorie interessate e cioè ai produttori di imballaggi, agli utilizzatori e ai commercianti dei prodotti confezionati negli
stessi imballaggi, i quali hanno costituito
un consorzio (Conai) che si finanzia con
un contributo di riciclaggio pagato dalle
imprese e trasferito alla fine sul consumatore finale. A detta degli interessati il sistema funziona molto bene e può essere
considerato un modello di sintesi tra l’interesse pubblico che è il fine e intervento
privato che è il mezzo.
Aldo Abenavoli
25
INSERTO
amnistia e indulto
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Romolo
Menighetti
26
’amnistia, nella sua accezione originaria, è un provvedimento generale
di clemenza sovrana. In quanto tale
è un atto non dovuto, ma scaturisce
unicamente dalla volontà del sovrano, che può concederla per favorire
la pacificazione sociale o per ragioni di opportunità politica.
È perciò riduttivo, e per certi aspetti costituisce una degenerazione del suo significato originario, fare dell’amnistia uno strumento per sfoltire periodicamente le carceri.
Nell’ordinamento italiano attualmente
l’amnistia è prevista dall’articolo 79 della
Costituzione, e dall’articolo 151 del Codice penale.
Essa estingue il reato. Si applica per reati
che prevedono un massimo della pena di
4/5 anni, secondo quanto stabilisce il legislatore. Non si applica in caso di reati particolarmente gravi, e ai recidivi. L’amnistia
non è da considerarsi un’assoluzione. È,
infatti, possibile per un imputato rinunciare ai benefici dell’amnistia e chiedere di
essere processato, al fine di ottenere
un’eventuale assoluzione.
L’amnistia si differenzia dall’indulto. Questo si limita a condonare un certo periodo
di pena (2 o 3 anni, secondo quanto stabilito di volta in volta dalla legge). Anche in
questo caso sono esclusi i reati particolarmente gravi.
La procedura di approvazione, da parte del
Parlamento, di un provvedimento di amnistia o di indulto, è particolarmente laboriosa. Infatti, prevede che la legge sia deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera «in ogni suo
articolo e nella votazione finale». Questa regola, introdotta con legge Costituzionale n.
1 del 6 maggio 1992, da sedici anni impedisce di fatto la concessione di amnistie e indulti, mentre dal 1942 al 1992 se n’ebbero
ben 34 (eccetto il cosiddetto «indultino» –
legge 207 del 2003 – che fu concesso con
legge ordinaria, richiedente solo la maggioranza del 50 per cento dei votanti).
Amnistiare alcuni reati e condonare una
parte delle pene già comminate attraverso
l’indulto è sempre una forma di rinuncia
da parte dello Stato al suo diritto-dovere di
L
amministrare correttamente la giustizia.
Infatti ciò comporta una lesione del diritto
dei cittadini alla sicurezza, in conseguenza
della rimessa in libertà di pregiudicati. È
inoltre una lesione del diritto di tutti a che
la legge sia sempre pienamente applicata.
In particolare è una lesione del diritto di
coloro che hanno subìto un reato, a vedere
pienamente applicata la legge nei casi che
li vede vittime. D’altro canto però c’è la violazione del diritto dei detenuti ad un trattamento rispettoso della dignità umana, diritto calpestato dal sovraffollamento delle
carceri italiane (dovuto anche all’eccessiva
lunghezza dei processi) e dal conseguente
degrado fisico e psicologico entro cui sono
costretti a vivere. Si determina così una situazione di conflitto tra sacrosanti diritti
dei cittadini, quelli carcerati e quelli che con
la prigione non hanno niente a che fare. La
qual cosa denuncia una situazione di fallimento della macchina della giustizia.
In ogni caso, se la situazione delle carceri
risulta essere esplosiva al punto che si rende
necessario far prevalere il diritto alla dignità dei detenuti sul diritto alla sicurezza e alla
certezza della pena dell’intera collettività, i
conseguenti provvedimenti di clemenza dovrebbero almeno essere considerati come il
primo passo di una riforma della giustizia
(processi più rapidi, stesse opportunità di difesa per ricchi e poveri) e del sistema carcerario (umanizzazione della reclusione, pene
alternative al carcere, misure per l’accoglienza e il reinserimento di chi viene scarcerato).
In particolare, a proposito del problema della sicurezza collettiva, considerato che solo
una piccolissima parte degli autori di reato
finiscono in carcere (nel 2003, secondo l’Associazione Giuristi Democratici, l’80 per
cento degli autori dei reati denunciati era
ignoto), risulta evidente che il problema
della sicurezza e della legalità riguarda solo
in parte il carcere, ma più in generale tutta
la società libera. È perciò entro tale ambito
che debbono essere create le condizioni di
vita, di convivenza e di opportunità, affinché risulti preferibile e più conveniente, per
i cittadini tentati dall’illegalità, puntare sul
rispetto delle leggi e delle norme, piuttosto
che sulla loro trasgressione.
la Chiesa italiana
verso
il IV Convegno
a Verona
Giancarlo Zizola
L
e ultime notizie dalla Chiesa italiana arrivano dal sud est
della Turchia, dalla piccola comunità cattolica di UrfaHarran, sul Mar Nero, dove Andrea Santoro, prete cattolico della Chiesa di Roma, inerme testimone del dialogo
tra cristiani e islamici, è stato assassinato domenica 5
febbraio a colpi di pistola. Un altro caso, l’ennesimo, di eliminazione violenta di figure impegnate nel mettere in relazione mondi diversi, lontani o non comunicanti tra loro, in congiunture critiche della storia.
Le notizie arrivano anche dal profondo sud dell’Italia, dalla Chiesa di Locri la quale, facendosi fermento della società civile, ha
reagito con coraggio profetico, guidata dal suo vescovo Giancarlo Bregantini, all’assassinio mafioso dell’onorevole Francesco
Fortugno il 16 ottobre 2005, contrastando la posizione governativa dominante formulata dal ministro delle Infrastrutture Pietro
Lunardi con l’incredibile affermazione: «Con la mafia e la camorra bisogna convivere e i problemi della criminalità ognuno li risolva come vuole» (la Repubblica, 24 agosto 2001).
Arrivano anche da Trento, dove il 31 dicembre 2005 decine di
migliaia di giovani hanno partecipato alla marcia nazionale di
Pax Christi per la giornata mondiale della pace.
Per essere equanimi bisogna anche aggiungere che notizia di cui
tener conto è anche il timido balbettio del Consiglio permanente
della Conferenza episcopale italiana che, di fronte alla legge appena approvata sulla «legittima difesa», il 1° febbraio ha saputo
contenere la propria appassionata preoccupazione per il primato della vita al semplice «auspicio che la normativa sull’uso delle
armi per la legittima difesa non oscuri e non relativizzi il valore
della vita umana». Come se l’autorizzazione dello Stato a uccide-
ROCCA 15 LUGLIO 2006
re per difendere il possesso di beni materiali non fosse così grave da attirare da parte dei pastori almeno una goccia del vibrante sdegno manifestato nelle Giornate per la
Vita contro l’interruzione volontaria della
gravidanza di madri spesso sole e in difficoltà.
Notizia è però anche il silenzio mantenuto
al riguardo dalle associazioni del Volontariato, dalla stessa Pax Christi, dalle Acli,
dall’Azione Cattolica Italiana, dalla Caritas
eccetera, che un tempo non avrebbero mancato di innalzare la loro protesta. Del resto,
che fine aveva fatto l’appello firmato da centinaia di religiosi, religiose, preti, diaconi e
laici perché la Cei si pronunciasse sul fosforo «democratico» che aveva distrutto la
città santa di Falluja? E che dire della controversia sulle indebite ingerenze della Cei
nell’ordine politico, sull’attivismo tendente
a stabilire la sua egemonia nei settori della
vita pubblica? La denuncia di una tale deriva temporalistica della Chiesa dovrà essere
sbrigativamente versata sul conto di un rigurgito di laicismo incapace di fare i conti
con la propria afasia culturale e la propria
tautologia storica?
Non sono evidentemente solo queste le ultime notizie dalla Chiesa italiana, ma queste che ho voluto richiamare, in modo antologico, mi sembrano sufficienti ad assaggiare l’ambivalenza che connota l’attuale situazione generale della Chiesa cattolica nel
nostro Paese: una Chiesa incerta «tra profezia e normalizzazione», secondo il riepilogo storiografico proposto da Padre Bartolomeo Sorge in un articolo pubblicato da
Aggiornamenti sociali cui faremo ampio riferimento (1). Una Chiesa che un’altra autorevole rivista dei gesuiti italiani, La Civiltà Cattolica, non ha esitato a presentare da
un lato «viva e capace di rispondere alle sfide, in gran parte nuove e radicali, di tipo
socioculturale, morale e scientifico che il
mondo moderno pone alla fede e alla morale cristiana», dall’altra parte, pervasa in
parecchi cristiani da «un senso di smarrimento e di incertezza, che giunge a mettere in questione le verità essenziali della fede
e della morale cristiana e a creare un senso
di distacco – affettivo ed effettivo – dalla
Chiesa e di affievolimento della pratica cristiana, specialmente tra i giovani» (2).
parola chiave: speranza
È in questa situazione di incertezza che la
Chiesa italiana prepara il suo IV Convegno
ecclesiale nazionale, in programma a Verona dal 16 al 20 ottobre 2006. Il tema, scelto
dopo una approfondita riflessione dell’epi28
scopato nella 51° assemblea generale
(Roma, 15-23 maggio 2003) è Testimoni di
Gesù risorto, speranza del mondo. L’obiettivo dichiarato è di rilanciare il ruolo che i
cristiani, e in primo luogo i laici, sono chiamati a svolgere nel contesto della società
italiana. La parola chiave è «speranza», la
speranza che interpella e suscita la testimonianza in vari ambiti.
La riflessione si articola su quattro grandi
arcate: 1) ripartire da Cristo Risorto fonte
della testimonianza; 2) testimoniare l’identità cristiana attraverso la parresia, ossia il
coraggio dell’annuncio e della vita; 3) seminare speranza attraverso l’impegno storico del cristiano per un mondo migliore;
4) incarnare la testimonianza cristiana nell’esperienza quotidiana, cioè negli spazi
concreti nei quali si svolge il quotidiano, e
si edificano società e civiltà.
In particolare, il Convegno è sollecitato a
occuparsi di cinque ambiti concreti considerati più bisognosi dell’annuncio cristiano:
a) la vita affettiva (come superare la emotività, la fragilità dei sentimenti che è all’origine di tante crisi della famiglia e della vita
personale e sociale);
b) il lavoro e la festa (che cosa fare perché
la necessaria flessibilità non si traduca in
precarietà e il riposo settimanale e le feste
non siano tempo ‘vuoto’ o di stordimento,
ma anche lo svago serva alla crescita spirituale e umana);
c) la fragilità umana (come accogliere i deboli, i nascituri e i bambini, i malati e i poveri, i senzatetto e gli immigrati, i carcerati
e gli anziani);
d) la tradizione (come trasmettere ai giovani una formazione morale e intellettuale
adeguata, non solo nelle aule scolastiche,
ma anche attraverso un uso responsabile
dei mass media);
e) la cittadinanza (come educare a pensare
in globale mentre si agisce nel locale, partecipare da cittadini del mondo alla soluzione dei problemi che affliggono la famiglia umana: fame, ingiustizia, emigrazione
forzata, assenza di pace, degrado ambientale).
Nella Traccia di riflessione che ha fornito la
piattaforma preparatoria del Convegno si
sottolinea che «questo nostro tempo ha una
grande nostalgia di speranza, anche per i rischi insiti nelle rapide trasformazioni culturali, in particolare per la deriva individualistica, per la negazione della capacità di verità da parte della ragione, per l’offuscamento
del senso morale. Ogni cristiano è chiamato
a collaborare con gli uomini e le donne di
oggi nella ricerca e nella costruzione di una
civiltà più umana e di un futuro buono».
Non si tratta di un appuntamento calendariale, ma di una opportunità per la Chiesa
di riflettere sulle sue risorse spirituali, culturali, organizzative, sulla sua capacità di
riprendere il cammino, non di rado poco
lineare, del rinnovamento conciliare per
contribuire alle risposte da elaborare insieme ai portatori di altri pensieri e da offrire
ad una società spesso smarrita nelle contraddizioni e negli incendi degli inizi del terzo millennio.
prospettive dissimili
È di ogni evidenza che il tema fondamentale di questa riflessione, forse la posta in
gioco più alta, è l’auspicato riequilibrio tra
due prospettive dissimili. Da un lato, la prospettiva adottata dalla gestione del cardinale Ruini lungo i 15 anni della sua presidenza della Cei, prospettiva che potremmo
brevemente indicare come quella di una
Chiesa istituzionale impegnata a forgiare,
grazie alla sua presenza sociale e alla sua
incisività culturale, una identità credibile
nel tessuto civile, al punto di influenzare
col proprio stock di valori etici l’orientamento antropologico della società, in dialogo
con le istituzioni e le forze politiche. Una
prospettiva dunque, per cercare di riassumere, tale da permettere alla Chiesa istituzionale di rimanere una forza sociale consistente e centrale nella società italiana ed
europea, valorizzando quel fondo di eredità cristiana che viene considerato un dato
strutturale e radicato della cultura diffusa
del Paese.
Dall’altro lato, la prospettiva più dichiaratamente testimoniale e religiosa, che assuma senz’altro l’irrinunciabile dimensione
pubblica della fede cristiana, ma preferisca
concentrarsi per significarla sulla forza intrinseca dell’annuncio evangelico e della testimonianza personale dei cristiani, secondo l’opzione della «scelta religiosa» compiuta nel 1° Convegno Ecclesiale di Roma nel
1976 e poi realizzata con la svolta pastorale
imperniata sul rinnovamento interno della
Chiesa e delle modalità della sua presenza
in Italia.
Siamo in molti a chiederci, con Padre Sorge, «che fine abbiano fatto le grandi speranze suscitate dal 1° convegno, trent’anni
or sono» Infatti, si diffonde la sensazione
che, alla stagione profetica del primo postconcilio, sia subentrata una fase, se non
di Ecclesia dormiens, di Chiesa normalizzata. Una tale operazione ha investito specialmente il posto del laicato nella Chiesa,
che era uscito rivalutato dall’ecclesiologia
del Concilio Vaticano II.
Al Convegno del 1976, forgiato dalla passione conciliare del segretario dell’episcopato mons. Enrico Bartoletti, si dichiarava
che «illuminati dalla fede e orientati dal
magistero vivente della Chiesa, tocca ai laici compiere autonomamente, responsabilmente e sempre in coerenza con la loro coscienza cristianamente formata, la necessaria mediazione dal Vangelo alla vita, dalla fede alla storia, dai valori perennemente
validi alla politica contingente». La richiesta formale che venne rivolta nelle conclusioni era per l’istituzione di un organismo
nazionale permanente di partecipazione dei
laici. Ecco il testo del «voto finale»: «Affinché la presa di coscienza maturata nella preparazione e nella celebrazione di questo
Convegno nazionale non svanisca nel nulla
o non resti frustrata, è necessario dar vita a
strutture permanenti di consultazione e di
collaborazione tra Vescovi, rappresentanti
delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i
movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia. È urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di
dialogo, di analisi e di iniziativa» (3).
ritorno alla clericalizzazione
Quel voto fu lasciato cadere. Parallelamente non fu recepita l’altra proposta sulle nuove forme di presenza politica dei cattolici
in Italia. La Cei non condivise la previsione
(adottata invece dal Convegno) circa l’esaurimento imminente della Dc e della crisi del
marxismo. I vescovi continuarono a far leva
sull’unità politica dei cattolici, anche dopo
il convegno ecclesiale di Loreto del 1985,
per abbandonarla solo quando la Dc era già
scomparsa.
Nella stessa preparazione del Convegno di
Loreto il ruolo dei laici venne ridimensionato, specialmente dopo la lettera con cui
Giovanni Paolo II, il 9 maggio 1984, volle
raccomandare che l’episcopato avesse «il
posto che gli compete per istituzione divina». In effetti il documento di base, che a
Roma era stato redatto da un comitato preparatorio, in cui sedeva anche un laico della statura di Giuseppe Lazzati, venne prodotto per Loreto solo dalla segreteria generale della Cei.
Mentre a Roma Paolo VI si astenne da interventi diretti sul Convegno, il convegno
di Loreto vide frequente l’intervento diretto di Giovanni Paolo II: un convegno dunque fortemente clericalizzato, concepito più
per una ripresa in mano da parte della gerarchia che come un convenire di ogni componente della comunità ecclesiale per
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
INSERTO
un’assunzione di responsabilità da parte del
popolo di Dio nella formazione delle decisioni della Chiesa, secondo l’antico principio per cui «ciò che riguarda tutti da tutti
deve essere deciso».
Non senza ragione osservava Giorgio Campanini: «Dopo il Concilio e alla luce del
Concilio è possibile accettare una pura e
semplice identificazione tra Chiesa italiana e Conferenza episcopale? (…). L’immagine della Chiesa popolo di Dio non appare
pienamente realizzata in una Chiesa in cui
vi è una sorta di afasia del laicato non solo
per quanto riguarda l’ambito delle decisioni, come è giusto, ma anche per quanto concerne l’importante e non meno significativo aspetto della preparazione delle decisioni: decisioni che vengono prese dalla Conferenza episcopale in un certo senso ‘in solitudine’, dato che di fatto pochissimi sono
i laici interpellati in ordine alle grandi scelte che concernono la vita della comunità
cristiana» (4).
normalizzazione dei movimenti
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Tornava dunque a riemergere il nodo critico del superamento del clericalismo attraverso la ricostituzione di un ruolo non solo
«ad extra» ma anche «ad intra» dei laici protagonisti della missione della Chiesa. La
stessa apertura verso i nuovi movimenti
ecclesiali era accettata a patto che si inserissero nella strategia istituzionale e quindi
con un taglio netto delle punte polemiche e
delle tendenze verso una Chiesa alternativa o delle pretese di una sostanziale egemonia culturale che in alcuni movimenti
come Cl sotterraneamente circolavano.
Come ha osservato lo storico Guido Formigoni, «si tratta di un grande compromesso,
degno di altri tempi, tra movimento e istituzione, con uno scambio dispiegato tra riconoscimento e fedeltà, avvenuto nell’ultimo decennio. Non a caso ci sono state nomine episcopali e cardinalizie di esponenti
importanti di movimenti che segnano questo intreccio reciproco ormai stretto: valorizzazione e controllo. Ulteriore aspetto del
quadro è lo scarso investimento sull’autonomia del laicato credente, organizzato o
meno. Del laicato non si parla nel ricordo
che il cardinale Ruini ci ha offerto del Concilio, che pure dedicò a tale parte del popolo di Dio un’attenzione non secondaria (seppur teologicamente controversa). L’importante è insomma la mediazione istituzionale
ecclesiastica: non a caso molti dei (non tutti i) riferimenti di vertice dei movimenti
sono ecclesiastici. Come anche ecclesiastici sono tutti i personaggi accreditati come
30
volto del cristianesimo italiano nella comunicazione pubblica.
In questo orizzonte l’Azione Cattolica stessa si trova valorizzata nel suo decantato ‘rinnovamento’ ma anche ridimensionata a una
forma aggregativa tra le tante, venendo richiamata a non esprimere autonomia sul
terreno culturale e politico. La ricostruita e
ostentata unità pubblica tra i movimenti
cattolici, superando le divisioni del passato, (come se fosse solo un problema di buona volontà e non ci si fosse divisi negli anni
Ottanta su questioni serie, legate alla forma teologica della lettura del rapporto Chiesa-storia) appare come una ulteriore manifestazione decisiva della forza visibile e organizzata della Chiesa nella società. Al Meeting di Rimini nell’estate 2004 il segretario della Cei ha officiato la pubblica riconciliazione tra Azione Cattolica e Cl e ha definito l’intesa ‘segnale nuovo e consolante’.
Ecco quindi l’approvazione a tutte le iniziative di convergenza sociale delle aggregazioni cattoliche lanciate negli ultimi anni.
Ecco l’impegno ancor maggiore dedicato a
tutte quelle forme di coordinamento come
i «Forum tematici» (su scuola, famiglia, volontariato sociale) che esprimono in termini istituzionali, dipendendo dalla Cei, la
concorde azione delle organizzazioni del sociale cattolico: sono quindi ritenuti i modelli più plausibili per rendere visibile una
presenza forte dell’istituzione nelle dinamiche pubbliche del Paese (5).
il corto circuito Chiesa-storia
Nello stesso processo di normalizzazione in
vista del rafforzamento istituzionale della
Chiesa potrebbe essere compreso anche
l’evento pubblico che lo ha coronato: la
mobilitazione diretta della gerarchia ecclesiastica per ottenere, attraverso una massiccia campagna astensionista, il fallimento del referendum abrogativo di alcune norme della legge sulla procreazione medicalmente assistita il 12 giugno 2005.
Ma a questo punto, per meglio individuare
e analizzare il processo che ha portato vicino al corto circuito il rapporto tra Chiesa e
storia, tra missione spirituale della Chiesa
e l’ambito della legittima autonomia della
sfera politica, occorre riprendere il filo della narrazione storica, sia pure per ampie
falcate. E riandare al III Convegno ecclesiale di Palermo nel 1995. In esso infatti fu
avvertita in modo più sensibile l’esigenza
di rilanciare una presenza responsabile dei
laici nella vita della Chiesa e della società
italiana, tanto più che nel frattempo la Dc
era scomparsa, malgrado le iniezioni revi-
talizzanti dell’infermeria della Cei. L’epigrafe fu dettata dallo stesso Giovanni Paolo II quando disse che «la Chiesa non deve
e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito,
come del resto non esprime preferenze per
l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale che sia rispettosa dell’autentica democrazia».
Era una decisa rottura rispetto alle titubanti
durate della prassi ecclesiastica precedente, che si serviva della premura del papa
polacco per riaffermare la centralità del fattore religioso nel gioco sociale della moderna società secolare al fine di prolungare artificialmente la vita delle antiquate forme
teocratiche residuate nella Dc.
Un’ipotesi che doveva rastrellare ogni risorsa
e persino l’alleanza con il primo Berlusconi
affarista per sostenere coi suoi trenta denari
la riproduzione di una forma di partito cattolico nel Ppi di Rocco Buttiglione. Un’ipotesi
che ha continuato a seminare ambiguità e a
gravare di ipoteche politiche la missione evangelizzatrice della Chiesa, lasciando il principio liberatorio affermato dal papa a Palermo
nelle astrazioni generalizzanti.
Di qui ritengo sia derivata la lenta ma inesorabile parabola discendente subita dalla
cultura della laicità in ambito cristiano, data
la sua originaria pertinenza al principio
chiave della laicità: «Date a Cesare quello
che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»
(Marco 12,13-17).
il ruolo dei laici
Toccò al Cardinale Carlo Maria Martini il
compito di invitare a calare nel concreto l’indirizzo pontificio di Palermo, col famoso
discorso della festa di Sant’Ambrogio del
1995 «C’è un tempo per tacere e un tempo
per parlare». Egli sottolineava che era venuta l’ora «che siano i laici a trasformare i
principi della fede in valori per l’uomo e per
la città, in modo che risultino vivibili e appetibili anche per gli altri e meritino il più
ampio consenso democratico. Nella nuova
situazione del Paese, non basta più proclamare in via di principio i valori discendenti
dal patrimonio di fede (la vita, la famiglia e
altri). In una società pluralistica e secolare
come la nostra, vale più la proposta di cammini positivi se pur graduali, che non la
chiusura su dei ‘no’ che, alla lunga, rimangono sterili (...). Non ogni lentezza nel procedere è necessariamente un cedimento. C’è
pure il rischio che, pretendendo l’ottimo si
lasci regredire la situazione a livelli sempre
meno umani».
Indubbiamente la Chiesa non deve parteg-
giare per l’una o per l’altra fazione o frazione politica, sosteneva il cardinale di Milano, riprendendo quasi letteralmente una
raccomandazione rivolta da Papa Giovanni XXIII ai vescovi italiani nel 1962, allorché, nei contrasti durissimi circa l’apertura
a sinistra, a lui sembrava inaccettabile la
tentazione cui cedevano di intromettersi «al
di là di ogni misura» nella controversia politica, mentre avevano così tanto da fare nel
culto, nella pastorale, nella Catechesi, in
tutto ciò che riguarda la santificazione del
popolo cristiano e la autentica formazione
delle coscienze.
Discorso ripreso dal Concilio Vaticano II nel
suo gigantesco tentativo di ridefinire, all’interno di una Chiesa di comunione, pellegrina nel tempo verso il Regno, un modello
di presenza cristiana nel mondo moderno
capace di rivedere l’ottica integralistica della cristianità, e dunque riconoscendo non
solo la piena cittadinanza laicale dei cristiani nella profanità del mondo e nella stessa
Chiesa, ma anzitutto il valore propriamente
teologico della laicità dei processi storici.
chiesa e comunità politica
Torna opportuno allora richiamarci alla
costituzione pastorale di quel Concilio sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Nel
paragrafo 76 la costituzione pastorale Gaudium et Spes ha cura di mettere in rilievo
tre principi: la necessaria distinzione, nei
rapporti tra Chiesa e comunità politica, tra
le azioni che i fedeli, individualmente o in
gruppo, compiono in nome proprio come
cittadini guidati dalla coscienza cristiana,
e le azioni che essi compiono in nome della
Chiesa e in comunione con i loro pastori; la
necessaria distinzione che sussiste fra la
Chiesa, che non è né deve essere legata ad
alcun sistema politico, e la comunità politica; l’indipendenza e l’autonomia della
Chiesa e della comunità politica l’una dall’altra, ciascuna nel proprio campo.
Alunno di Jacques Maritain, nelle cui mani
Papa Montini volle deporre alla chiusura
del Concilio il messaggio agli uomini politici, Paolo VI portava una acuta sensibilità
per l’esigenza di evitare sia la confessionalizzazione della politica sia la politicizzazione della religione. Con l’avvertenza, del
resto, che l’autonomia delle realtà terrene
non potrebbe significare la rimozione dall’impegno socio-politico di ogni riferimento ad un ordine morale oggettivo.
Giova ricordare che Paolo VI nella «Octogesima adveniens» (1971) ricavava dalla
nuova dottrina conciliare l’indicazione fortemente innovativa e anti-integralistica se31
ROCCA 15 LUGLIO 2006
INSERTO
ROCCA 15 LUGLIO 2006
condo la quale «non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete, e meno
ancora soluzioni uniche, per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno, anche se è suo
diritto e dovere pronunciare giudizi morali
su realtà temporali quando ciò sia richiesto dalla fede o dalla legge morale». Un indirizzo che è sembrato abrogato dalle esorbitanti derive politiche di alcuni dirigenti
dell’episcopato italiano negli ultimi mesi,
anche se inclini a guardare dall’alto al basso la confusione tra religione e politica ancora vigente nel mondo islamico.
Dunque, le mediazioni, anche sul piano
politico, sono state prese in carico dal vertice ecclesiastico e convogliate sull’obiettivo strategico di una forte riaffermazione
della «nostra identità spirituale e culturale». Assumendo in proprio la rappresentanza dell’unità e delle esigenze del ruolo sociale della Chiesa, la Cei di Ruini si è sentita abilitata a intavolare trattative con le istituzioni e le forze politiche, sia quando fossero in gioco interessi ecclesiastici sia quando si trattasse di una o l’altra variabile dipendente dell’opzione antropologica-culturale adottata dalla Chiesa.
Al punto che, a lato della raccomandazione
fatta dal papa a Palermo, si è varato un «progetto culturale cristianamente ispirato» nel
cui teorema di fondo si ricomprende sia il
coordinamento dei molteplici soggetti pastorali delle Chiese sia un collegamento fra
i cattolici presenti pluralisticamente nelle
varie forze politiche al fine di incarnare i
valori umani e cristiani propri e caratteristici della dottrina sociale della Chiesa. La
fine dell’unità politica dei cattolici non doveva quindi autorizzare una diaspora dei
cattolici ma una opportunità in più per una
convergenza preliminare sui valori (in particolare il carattere sacro e inviolabile della
vita umana dal concepimento alla morte naturale, la stabilità del modello della famiglia, il pluralismo sociale e la libertà di educazione, l’attenzione privilegiata ai ceti deboli, la libertà e la giustizia sociale a livello
globale, i temi di bioetica come quelli
espressivi di una identità cattolica, ecc.)
Una simile prospettiva, ha notato Guido
Formigoni, «non si è contrapposta in modo
frontale al recente passato, ma ha molti
evidenti punti di discontinuità con l’ispirazione essenziale del percorso postconciliare della cosiddetta ‘scelta religiosa’ della
Chiesa italiana». Il problema è di sapere se
la scelta «istituzionale-sociale» centrata
sull’ambizione della Chiesa istituzionale di
contribuire a forgiare una identità cristiana forte nella società secolarizzata sia una
32
via lungimirante e praticabile per superare
la crisi fortissima della Chiesa nel ritrovare
il senso della sua missione spirituale di fronte alle sfide di una società in vertiginosa trasformazione. O se al contrario la Chiesa non
rischi di arroccarsi intorno al proprio mondo, a sviluppare di nuovo pretese di «società perfetta» competitiva, o concorrenziale,
che deprezza la prospettiva della reciprocità necessaria tra Chiesa e mondo affermata
dal Vaticano II, nella celebre formula della
Gaudium et spes, «la Chiesa dà e riceve» che
vibrò un colpo epocale all’integralismo cattolico.
La questione dunque decisiva nella situazione presente è di capire se la Chiesa sia
disposta ad accreditare il processo secolare
di una valenza teologica, nella teologia dei
«segni del tempo» e se sia altresì disponibile a farsi interpellare da queste trasformazioni che aprono al Vangelo le molteplici
vie del mondo globale ma impongono alla
Chiesa, se vuole imboccarle, delle costose
sofferenze per una radicale riforma delle sue
figure storiche.
Sarà con le sicurezze dei Concordati o con
la forza disarmata e inerme del Cristo crocifisso che la Chiesa potrà riprendere il cammino evangelizzatore nel mondo? Come
potrebbe una Chiesa ricca e politicamente
compromessa con gli Epuloni trovarsi inginocchiata dinanzi ai Lazzari che a miliardi bussano affamati alla nostra mensa?
Come l’annuncio del Cristo crocifisso e della
sua Resurrezione potrà accendere la denuncia profetica della Chiesa delle violenze
strutturali sull’umanità, delle guerre ingiuste, delle ingiustizie? Come fare della Chiesa uno scudo per le vittime dei soprusi da
qualsiasi parte vengano, un fermento di speranza in mezzo al popolo, un fattore di accoglienza per gli immigrati e di solidarietà
con gli esclusi? Come la Chiesa potrebbe
essere la bocca della speranza pasquale per
le disperazioni esistenziali, un agente di dialogo fra i credenti nelle diverse fedi?
dalla cattolicità alla laicità
È ben noto che il processo di secolarizzazione, che ha fatto irruzione nei secoli moderni in Europa, sarebbe difficilmente comprensibile fuori di una prospettiva propriamente cristiana. Non a caso esso si innesta
nel cuore della civiltà sorta dalle radici cristiane, anche se sfocia in una emancipazione spesso ostile e aggressiva, oggi piuttosto
sorniona e consumistica, rispetto al patrimonio della religione dalla quale era sgorgato. Ma nella situazione attuale mi sembra che la Chiesa incontri ancora delle re-
more a riconoscere i valori culturali e storici, persino teologali, di questo processo,
esponendosi così al rischio di aprire una
nuova fenditura di tipo intransigente rispetto alla realtà mondana.
Se questa ipotesi interpretativa è almeno
verosimile, penso che sarebbe sconsigliabile sottovalutare il fatto che la concezione moderna della laicità scaturisce comunque da una rottura, da una rivolta contro
le sue origini religiose, occasionata spesso
dall’assolutismo teologico e clericale. La
scienza vi ha avuto la sua parte, così come
la Riforma luterana e la Rivoluzione dell’Illuminismo.
Essa ha avviato il processo di declericalizzazione del cristianesimo, indebolendo il
potere sociale del clero e delle Chiese. Ha
desacralizzato il potere religioso, facilitando la desacralizzazione della sovranità politica e la secolarizzazione della politica.
Infine, avendo insistito sulle prerogative
religiose dell’individuo e legittimato il pluralismo, non si può negare che la laicità
abbia egualmente concorso al riconoscimento della libertà di coscienza e della separazione della Chiesa dallo Stato.
Il passaggio dalla cattolicità alla laicità non
è dunque appena un semplice cambiamento di regime: dal riconoscimento del monopolio della verità al pluralismo dei sistemi
di convinzione e di riferimento, a ciò che
Weber definiva «politeismo dei valori», una
pagina della storia dell’umanità è stata voltata. Siamo passati da una società fondata
sulla verità assoluta e sull’autorità suprema ad una società formata di coscienze singolari e di libertà inalienabili, nella quale
l’autorità della coscienza precede l’amministrazione del divino e ne contesta le pretese assolute.
Sebbene la quérelle della Chiesa coi Lumi
moderni e liberali non si sia ancora del tutto esaurita, pure non si potrebbe riproporre, di fronte a questi innegabili progressi,
lo stereotipo dualistico della cultura cattolica intransigente, che continua a tingersi
di nero catastrofista dinanzi alle derive fatalmente malefiche della modernità.
Riflesso del discorso della Chiesa sulla libertà e sulla democrazia, la figura del laico
e l’idea della laicità sono state strette in un
unico destino, e largamente utilizzate per
la contestazione della Chiesa di fronte alla
insostenibile laicizzazione della storia.
Nella Chiesa dell’Intransigenza ottocentesca, la cui cultura ha irrorato la stagione
antimodernista fino a lambire il Concilio
Vaticano II, il laico cattolico non poteva che
subire nella sua struttura la scissione tra le
due potenze, società perfette ciascuna nel
proprio ordine. Il mondo non potendo configurarsi che come campo profano da consacrare, più che come spazio o casa comune di una ricerca di salvezza da compiere
insieme, il laicato era adibito al ruolo puramente strumentale dell’avamposto del clero «in partibus infidelium».
A lungo considerate con diffidenza, se non
conculcate, le autonomie laicali nel sindacato, nel partito popolare prima, poi democratico cristiano, in Italia, nell’associazionismo apostolico erano coperte dalla dottrina
della «potestas indirecta in temporalibus», la
quale non intaccava la forma stabilita della
cristianità come modello privilegiato della
presenza della Chiesa nel mondo.
laicità credente
Di fatto però il movimento cattolico, nell’esperienza storica della laicità, istituisce dal
basso un nuovo schema di relazioni fra lo
spirituale e il temporale, e in particolare tra
la Chiesa e lo Stato. Le tensioni fra una laicità cattolica incorporata al modello della
Chiesa «societas perfecta», arroccata nei suoi
bastioni, e una laicità credente che si incorpora nella complessità e nelle dinamiche
della città terrena, per cooperare alla evoluzione spirituale dell’umanità, costituiscono
una parte non secondaria della vicenda dell’Azione Cattolica Italiana, in particolare all’epoca della crisi della Giac negli anni Cinquanta.
A dire il vero, l’esperienza della laicità delle
scelte politiche dei cattolici era già, sia pure
in altra forma, un dato qualificante la vicenda politica di Luigi Sturzo prima, e di Alcide De Gasperi poi, come lo rivela il nodo del
suo conflitto con Pio XII e con Luigi Gedda
per il rifiuto opposto alle ingiunzioni vaticane miranti ad un provvedimento di messa
fuori legge del Partito Comunista Italiano.
E basterebbe rileggere il discorso di Aldo
Moro il 27 gennaio 1962 al Congresso della
Dc a Napoli per cogliere la drammaticità
dello statista, financo la sua solitudine, nel
proporre al partito cattolico l’esplorazione
del campo dell’autonomia laicale della politica per apportare i valori morali e religiosi nel terreno della società democratica. È
un «salto qualitativo», disse Moro, che la
coscienza morale e religiosa è costretta a
fare quando si passa ad esprimersi sul terreno del contingente, con strumenti e modi
propri della lotta politica. «E ciò vale naturalmente» aggiungeva «in misura anche
maggiore per quelle che sono propriamente applicazioni o specificazioni di quei valori, scelte concrete di ordine politico, che
evidentemente nessun cristiano si indurreb33
ROCCA 15 LUGLIO 2006
INSERTO
be a ritenere del tutto estranee ai supremi
valori della vita morale e religiosa, ma che
obbediscono tuttavia alla legge di opportunità, di relatività, di prudenza, che caratterizza la vita politica, che soprattutto risentono della necessità del confronto, si affermano nella misura in cui riescono a conquistare un maggior numero di consensi,
si presentano su di un terreno comune con
altre ideologie, il quale non può essere quello proprio delle idealità cristiane e con un
preciso e rigoroso criterio di verità».
Una lezione elevata, che senza dubbio integra uno dei legati più significativi dell’eredità del cattolicesimo democratico e
che, insieme alla lettera inviata da Moro a
papa Giovanni XXIII dopo quel Congresso, costituisce un modello esemplare della
giusta forma e relazione tra la laicità politica del credente e la sua appartenenza etica e religiosa.
Come ha rilevato Padre Bartolomeo Sorge,
«l’attualità di questo suo testamento è addirittura sorprendente, mentre oggi si discute di coerenza e di efficacia del servizio
cristiano in politica; mentre i cattolici italiani di destra e di sinistra si accusano vicendevolmente di essere lassisti o integralisti nell’ispirare l’azione politica ai valori
cristiani in cui tutti credono».
La concezione polemica, sospettosa e negativa intrattenuta dalla cultura cattolica
dominante circa la laicità subiva, grazie ai
pronunciamenti del Concilio, una riconversione: ne prendeva atto Paolo VI che in un
discorso del 1968 dichiarava che la Chiesa
«oggi distingue tra la laicità, cioè tra la sfera propria delle realtà temporali, che si reggono con principi propri e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali realtà – scientifiche, tecniche, amministrative, politiche – e il laicismo, che
persegue l’esclusione dell’ordinamento
umano dai riferimenti morali e globalmente umani, che postulano rapporti imprescrittibili con la religione».
chiesa e mondo cattolico
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Questo sviluppo non ha tardato a incrociarsi
con i processi della secolarizzazione, particolarmente impetuosi e preoccupanti a partire
dagli anni Ottanta. Essi hanno dissolto la visibile e larga coincidenza della Chiesa cattolica e del cristianesimo con la società e hanno obbligato i cristiani a confrontarsi con una
situazione profondamente mutata, in parte
inedita: la situazione di minoranza, il pluralismo razziale, culturale e religioso, il diffondersi delle religioni dell’individuo, riflesso di
una forte corrente di soggettivizzazione so34
ciale; la mobilità sempre più diffusa, che tende a dissolvere i riferimenti alle tradizionali
forme istituzionali e comunitarie.
Veniva ad esaurirsi così, nelle forme ereditarie, quella fase storica, durata circa un
secolo, che aveva prodotto il cosiddetto
«mondo cattolico». Con la disintegrazione
della Dc, uno dei pilastri tradizionali del regime di cristianità veniva meno. Il rapporto tra la Chiesa e il «mondo cattolico» doveva ricostituirsi ormai al di fuori della rappresentanza politica. In questa congiuntura la stessa funzione del laicato cattolico organizzato doveva essere ripensata. La fine
dell’unità politica dei cattolici riapriva la
possibilità di inverare apertamente e liberamente la scelta conciliare della distinzione dei piani tra fede e politica.
Conseguenze di vasta portata ne scaturivano.
Per la Chiesa, la ricerca di una forma di
presenza missionaria, a partire dalla sua
condizione di minoranza, sfuggendo possibilmente alle seduzioni della regressione
nella cultura intransigente e nell’arroccamento spiritualistico, ostile verso gli sviluppi indebiti della modernità, ma anche controllando le spinte verso l’attivismo esasperato, il presenzialismo identitario, la rioccupazione degli spazi della società con un
protagonismo competitivo e invadente, una
volta perduti gli strumenti di influenza
mediante lo Stato.
Per il laicato, un’investitura di nuova laicità nello spirito della Lettera a Diogneto. E
dunque, il confronto con una laicità non
banale del campo politico, in un nuovo pluralismo che non si confonda con l’indifferentismo e con l’agnosticismo.
principi etici e azione politica
Illuminante, al riguardo, l’indicazione fornita
dal cardinale Martini in un discorso al convegno regionale lombardo delle Scuole di
formazione all’impegno sociale e politico, il
13 giugno 1998, circa il «principio fondamentale» cui attenersi nell’azione politica:
la ricerca cioè del «miglior bene comune concretamente possibile». Infatti, spiegava il
Cardinale, «occorre distinguere anzitutto tra
principi etici e azione politica. I principi etici sono assoluti e immutabili. L’azione politica, che pure deve ispirarsi ai principi etici,
non consiste per sé nella realizzazione immediata dei principi etici assoluti, ma nella
realizzazione del bene comune concretamente possibile, in una determinata situazione. Nel quadro di un ordinamento democratico, poi, il bene comune viene ricercato
e promosso mediante i mezzi del consenso e
della convergenza politica. Nel fare ciò non
è mai possibile ammettere un male morale.
Può però accadere che, in concreto – quando non sia possibile ottenere di più, proprio
in forza del principio della ricerca del miglior bene comune concretamente possibile
–, si debba o sia opportuno accettare un bene
minore o tollerare un male rispetto a un male
maggiore».
Sono problemi relativamente nuovi per i
cattolici italiani, ai quali il pluralismo delle
scelte politiche ha offerto l’opportunità di
misurarsi da soli e sotto la propria responsabilità con i rischi della laicità politica, e
con le mediazioni necessarie tra valori morali e realtà sociopolitica.
Ma per i laici cattolici impegnati in politica
la laicità si presenta non solo come l’inevitabile salario da versare alla laicità della società moderna, ma anzi come la forma etica
della propria vocazione sociale, senza estrapolazioni premature in un transfert soprannaturale e fuori di ogni massimalismo.
Per citare ancora la lezione del Cardinale
Martini: «Siamo in una situazione pluralistica e complessa, dove ciò che consideriamo come bene anche morale non sempre
può essere tradotto immediatamente in legge, perché si devono fare i conti col consenso di molti. Bisogna dunque saper mettere
in bilancio una sapiente gradualità. E, specialmente in un’epoca di caduta di evidenze etiche quale la nostra, può accadere che
neppure il valore che a qualcuno pare preminente possa essere politicamente proposto per primo e diventare senz’altro norma
cogente, qualora la sua imposizione fosse
tale da provocare una deflagrazione della
convivenza. Quanto più un valore è eticamente rilevante, tanto più è impegnativo e
perciò più bisognoso di maturazione a livello di costume».
conquiste della laicità
Attraverso queste indicazioni, la laicità nell’agire politico del cristiano si trova riscoperta
come principio antiidolatrico e antiintegralista, di non appagamento, di razionalità e
di libertà, capace di coerenza etica e di un
pluralismo non relativistico di valori.
Infine, la laicità nell’esercizio politico del
cristiano postula una maturazione della
coscienza critica per rapporto ai falsi assoluti del potere economico, del denaro, della sicurezza nazionale, della razza, della
nazione, del sesso. Così definita, la laicità
può sottrarsi alle riproduzioni, sempre in
agguato, dell’integralismo o del modernismo pragmatico, offrendo ai cristiani l’opportunità di intervenire positivamente, a
misura della loro laicità, nell’animazione
della stessa laicità moderna, cogliendola nel
suo intrinseco valore positivo o comunque
valorizzandone l’ambivalenza e i chiaroscuri. Non si tratterebbe dunque di contrapporre, come in passato, degli «storici steccati», ma di far confluire le differenti visioni in una laicità valoriale comune.
Divenuta il quadro ordinario della vita collettiva nella maggior parte dei paesi democratici, la laicità ha potuto segnare con le
sue conquiste l’affermazione dei diritti umani, i principi della democrazia pluralista e il
rispetto della libertà di culto e di coscienza,
ciò vuol dire anche il rispetto delle minoranze e dell’autonomia del potere politico per
rapporto a ogni potere religioso. Questi successi incontestabili sono stati riconosciuti
dallo stesso Concilio Vaticano II allorché ha
adottato la Dichiarazione sulla libertà religiosa e ha ammesso il valore dell’autonomia
umana nel campo della scienza, della cultura e della stessa politica.
Dio è amore
Il Convegno di Verona ha la possibilità di
riprendere e di sviluppare questa linea conciliare, e ciò sarà tanto più possibile se sarà
colto come l’occasione per un profondo
esame di coscienza autocritico del «kairos»
sperperato dalla Chiesa negli anni postconciliari.
Un grande sforzo intellettuale e spirituale
sarà necessario per ridefinire l’identità del
cristiano e la missione della Chiesa alla
luce dell’assenza fondatrice, la tomba vuota della Resurrezione, la sola luce che possa illuminare l’operazione segreta dello
Spirito nel cuore dell’intera umanità, sospinta misteriosamente verso la sua propria unità.
Credo che con la prima enciclica di Benedetto XVI migliore aperitivo per la riflessione della Chiesa italiana non potesse esserci. Anzitutto il papa raccomanda alla
Chiesa di spogliarsi della pretesa dell’autosufficienza e della superiorità: recuperando lo spirito penitenziale dei mea culpa del Giubileo, essa combatte la tentazione mai vinta della Chiesa di costituirsi in
fonte di palingenesi sociale, di dettare con
la religione l’ordine del mondo.
L’enciclica mette la parola fine all’età funesta dell’integralismo cattolico e ai suoi soprassalti mai stanchi. Neanche per far valere nell’ordine sociale la propria dottrina
sociale la Chiesa è abilitata a usurpare le
istanze e le autonomie proprie dell’ordine
politico. L’enciclica rilancia il sistema del
dialogo varato dal Concilio Vaticano II, ra35
ROCCA 15 LUGLIO 2006
INSERTO
ROCCA 15 LUGLIO 2006
tificando il riconoscimento dell’autonomia
delle realtà profane e in particolare delle
istanze civili della politica.
È in nome della laicità del «date a Cesare…
date a Dio» che Ratzinger afferma che la
Chiesa « non può e non deve mettersi al
posto dello Stato, non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica» e
che «la società giusta non può essere opera
della Chiesa ma deve essere realizzata dalla politica».
La convinzione, già affermata da Benedetto
XVI nei discorsi alle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia lo scorso agosto, muove nel senso del rifiuto di circoscrivere il cattolicesimo nella categoria delle «religioni
politiche». L’opzione per un cristianesimo
spiritualmente reinterpretato, ma non per
questo disinteressato alle angosce del tempo, si traduce in una contestazione esplicita
dell’uso del divino come arrotino delle spade e vernice religiosa da spalmare sui campi
di battaglia. Tale la fondazione della critica
al terrorismo come ultima forma di religione politica. L’enciclica rifiuta lo schema dello «scontro di civiltà». Il nome di Dio è amore e non lo si può piegare alla vendetta o perfino al dovere dell’odio e della violenza.
Si potrebbe lamentare in un testo talmente
ricco di contenuti l’omissione di una esplicita applicazione operativa dei principi all’impegno dei cristiani al servizio della pace
del mondo. È essa rinviata semplicemente
alla autonoma opzione dei laici cristiani,
dunque unicamente pertinente all’ordine
politico? Oppure, è da considerare la suprema forma della carità? È solo «politica» o
anche e prioritariamente imperativo del
Samaritano?
Il testo lascia indeterminata l’indicazione
al riguardo, anche se non evita di assicurare che la Chiesa assume l’ampio spazio del
pre-politico per orientare le coscienze ai
compiti sociali doverosi per i cristiani.
La formazione delle coscienze e il risveglio
delle forze morali sono la condizione preliminare per la costruzione di un giusto ordinamento sociale, una volta chiarito che
«la norma fondamentale dello Stato deve
essere il perseguimento della giustizia».
Tuttavia, secondo il papa, proprio la distinzione fra ordine religioso e ordine civile
porta ad avvalorare il ruolo originario della
carità della Chiesa, chiamata a farsi interpellare non solo dai bisogni materiali di giustizia ma anche dalle disperazioni segrete e
dalle immense solitudini sofferte dal cuore
dell’umanità, quei bisogni che nessun programma di giustizia potrebbe esaudire.
Contro ogni sorta di spiritualismo disincarnato e intimismo settario, la Chiesa è chia-
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mata a riconoscere che la carità non è una
attività accessoria o suppletiva ma «appartiene alla sua natura ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza», fino a
costituirsi come «compito intrinseco della
Chiesa intera». La centralità teologale dell’amore autorizza l’enciclica ad affermare
che «ogni vilipendio dell’amore è allo stesso tempo un vilipendio di Dio e dell’uomo,
è il tentativo di fare a meno di Dio». Ne deriva, clamorosa sulla bocca di un papa, una
inusuale definizione dell’ateismo: è propriamente ateo chiunque rifiuti di amare il
prossimo, anche se si dichiarasse «credente».
Par di sentire in questo passaggio l’eco delle
intuizioni di Simone Weil. Nella Lettera a un
religioso (Paris 1951, Milano 1996) leggiamo:
«Un ateo, un‘infedele’, capaci di compassione pura, sono altrettanto vicini a Dio di un
cristiano, e quindi Lo conoscono altrettanto
bene, sebbene la loro conoscenza si esprima
con parole diverse, oppure resti muta. Perché ‘Dio è amore.’ E se Egli ricompensa coloro che Lo cercano, dà la luce a coloro che
Gli si accostano, soprattutto se desiderano
la luce (…). Quelli che posseggono allo stato
puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati,
anche se vivono e muoiono in apparenza atei.
Coloro che posseggono perfettamente queste due virtù anche se vivono e muoiono atei,
sono santi» (p. 38-40).
Vorrei concludere dicendo che c’è materia
prima abbondante per incitare la Chiesa italiana a liberarsi dall’ossessione di dirigere
l’ordine temporale e di farsi afferrare senza
sgomentarsi dalla forza della Grazia che
torna a scuoterla oggi con il sangue dei suoi
martiri e con la parola ancora una volta
profetica di un papa.
Giancarlo Zizola
Note
1. Bartolomeo Sorge S.I., «Tra profezia e normalizzazione. La Chiesa italiana da Roma 1976 a
Verona 2006», in «Aggiornamenti Sociali», febbraio 2006, pp. 115-126.
2. Editoriale, «Verso il IV Convegno ecclesiale
nazionale», «La Civiltà Cattolica», 2005 IV, pp.
213-222.
3. Cei, Evangelizzazione e promozione umana.
Atti del Convegno ecclesiale (Roma, 30 ottobre- 4
novembre 1976) Ave, Roma 1977, p. 339.
4. Giorgio Campanini, «Verso Verona 2006. Un
‘senato’ laicale nella Chiesa italiana», in Aggiornamenti sociali, 11 (2005), pp. 703-713.
5. Guido Formigoni, «La lunga stagione di Ruini», Il Mulino 5, 2005, pp. 834–843.
TEMPI MODERNI
viaggiare
con le scale mobili
L
Claudio
Cagnazzo
e città cambiano, e noi con loro.
Ma nel cambiamento, non tutto di
ciò che eravamo va perduto. Nel
mutare reciproco talora si riscoprono vecchie abitudini o valori.
Così l’avventuroso progresso apre
la strada al passato. È il caso ad esempio delle Scale Mobili, che, nate per agevolare il cammino, in nome del vivere
veloce, si ritrovano spesso invece a favorire incontri con gli altri e con sé. Il
fatto è che esse interrompono un’azione, quella del camminare, e come tutte
le interruzioni sollecitano a ripensare,
seppur minimamente, il proprio esserci. Cammini frettolosamente per giun-
gere ad un appuntamento e l’accesso alla
scala mobile ti rallenta il passo, ti mette spesso in fila, dunque ti mostra gli
altri e ti mostra contemporaneamente
agli altri. Non sei il solo ad avere obiettivi rapidi da raggiungere. Per intanto
l’operazione di sosta è quantomeno democratica. Poi l’agire della scala, il suo
trasporto di uomini e donne immobili.
Viandanti statici. Gruppi di persone
come automi semoventi che attraggono
l’attenzione di chi procede normalmente. Gli occhi in su di quelli sulla terraferma spiano coloro che si muovono verso l’alto pur stando fermi. Nessuno sfugge al giudizio degli altri se si muove sul
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
INSERTO
mobilità e tenerezza
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Mai banali dunque quei meccanismi inseriti nel cuore delle città, stazioni, grandi magazzini o centri storici che sia. Luoghi in ogni caso di sentimenti. E inevitabilmente d’incontri. Favoriti da quell’andare e venire. Quello scendere e salire che
alimentano curiosità visiva e non. Come
quelli fortuiti e improvvisi che cambiano i ritmi interiori delle tue giornate, e
che noi qui a Perugia, città di scale mobili nel cuore dell’acropoli, spesso sperimentiamo, ma come sicuramente tutti
hanno, in qualche modo e in qualche luogo appunto sperimentato. Incrociando
magari sulla scala un vecchio amico che
scendeva, il tuo compagno di banco del
liceo, decorosamente imbiancato, che
cala verso l’inferno della strada in basso,
mentre tu sali verso il paradiso del centro storico. O viceversa. Lì, su quei gradini meccanici si consuma un incontro
di sguardi, di vecchie tenerezze amicali.
Lì, luogo di transito per eccellenza, si materializza il senso del tempo passato, di
tutto quel tempo, dai banchi della terza
C alla scrivania della banca o di qualsiasi ufficio. E, proprio perché non ti è dato
di fermarti per lo scorrere dei gradini, si
acuisce rimpianto e si rafforza il sentimento del ricordo. Non come nell’incontrarsi passeggiando semplicemente per
strada, con quelle effusioni irrisolte e con
quel vano andare al tempo che fu, sorreggendoti a stanchi aneddoti studenteschi, che, chiaramente avverti, non ricompongono il puzzle iniziato da madama nostalgia. No, l’incontro sulle scale
mobili, fugace e spesso silente, non favorisce il dialogo, ma fa risplendere la
gemma dei ricordi che non ha bisogno
di parole o di tristi bilanci di vita. Silenzio e memoria vanno da sempre insieme
lungo la strada dell’esistere. Ma l’emozione vale anche con gli sconosciuti. Con
38
una bella donna ad esempio, che nelle
scale mobili ti si avvicina lentamente,
appena intravista tra le teste sempre più
vicine dei passeggeri. La scruti di sottecchi da lontano e la guardi più intensamente mentre si avvicina, per poi abbassare lo sguardo quando la sua figura scivola vicino alla tua, per allontanarsi progressivamente. Gioco di sguardi, bellezza che fugge e fine del sogno. Senza rimpianti, senza più voltarsi. Incontri definitivi, senza futuro, perché gli attori passano via l’uno per l’altro come il paesaggio di un treno al finestrino. Puro e semplice godimento estetico. Due viaggiatori pacificati dentro una città convulsa.
COSE DA GRANDI
il piacere della lentezza
Pacificati come solo i giovanissimi non
sono. Essi sì, capaci di rumoreggiare anche sulle scale mobili, allo stesso modo
che in un treno, o in macchina. I giovanissimi non ascoltano la realtà per sognare. La utilizzano per conquistare terreno. Per conoscere, dunque. Ecco infine
la semplice constatazione: muoversi sulle scale mobili è come compiere un piccolo viaggio. E del viaggio ha tutti i tratti sentimentali. Quel sospendersi del tempo produttivo. Quel lasciarsi vivere con
tenerezza nel bel mezzo del processo lavorativo o di studio. Quell’irrompere della lentezza nell’inconsulto del quotidiano. Un piccolo miracolo laico, diciamocelo, di cui quasi sempre non ci accorgiamo, ma che si ripete quotidianamente, per ricordarci che le città, anche le
più caotiche e paurose, sono comunque
luoghi dello spirito, anzi per meglio dire
del sentimento, che tecnologia e caos, le
quali hanno incredibilmente la stessa
anima, non riescono e non riusciranno a
tramortire mai definitivamente il pathos
profondo che unisce gli uomini e che è
semplicemente identificabile con il nostro bisogno di appartenenza reciproca
che ci condiziona. La comunità comunque vissuta è il nostro destino. E con essa
i sentimenti e le passioni che la animano. E non c’è Internet, o Alta Velocità, o
chincaglierie simili che tengano. Da qualche parte la pacatezza distesa del vivere
ci viene incontro e ci ricorda la nostra
precisa vocazione. Come fa appunto una
semplice scala mobile. La carrozzella dei
nostri giorni. Una piccola oasi di libertà
nell’indaffarato tempo che tutti siamo
costretti a vivere.
Claudio Cagnazzo
tua per sempre
Rosella
De Leonibus
h mein papa, sei l’uomo più adorabile...
Così cominciava, accompagnata da
una vibrante melodia su un ritmo
di valzer, una vecchissima canzone – parliamo della metà del secolo scorso – che potrebbe fare da colonna sonora a molti racconti di vita di giovani donne. Che con gli uomini che incontrano sembrano replicare di volta in volta un’ antica
storia.
O
figlie di padre
Ecco Francesca, che a venticinque anni si è
innamorata tre volte, e tutt’e tre le volte si è
trattato di uomini già impegnati affettivamente.
Ecco Giulia, che di anni ne ha ventiquattro,
e se cerca il minimo comune multiplo dei
suoi amori trova droga, marginalità sociale,
ed infine, per restare in allenamento, una
situazione di gelosia patologica e una con
evidenti tratti psicopatici.
C’è Piera, che i suoi amori non li può raccontare, perché semplicemente non ne ha
avuti, ed è già adulta da un pezzo. Li sogna,
ma non troppo, perché anche il sogno è un
margine di libertà che non riesce a permettersi.
E c’è Silvia, che a ventisei anni non guida
ancora la macchina, così papà la accompagna ancora dovunque, anche agli incontri
amorosi.
E Giorgia, che quattro volte su quattro è
riuscita ad innamorarsi di ragazzi in vario
modo violenti, e dell’ultimo non riesce a liberarsi.
E Titti, che a preso a frequentare locali per
donne gay, però gay non si sente e non ci
capisce più nulla.
Cosa hanno in comune questi abbozzi di
ritratti, questi frammenti di storie? Sono
tutte ragazze che per altri versi sono molto
avanti nel percorso della costruzione di una
propria autonomia, per esempio lavorano,
o comunque hanno alle spalle un brillante
percorso di studi, non soffrono di particolari forme di disagio né di disturbi psicologici di entità rilevante.
Sono belle ragazze, aperte, capaci di comunicare con freschezza e con una certa libertà, che affrontano ogni giorno il mondo e le
relazioni interpersonali senza troppi problemi, che prendono decisioni e risolvono problemi, hanno amiche e amici, vivono.
Bisogna andare tra le pareti domestiche, tra
le quattro mura di casa loro, e bisogna andare indietro nel tempo, per trovare ciò cerchiamo.
39
ROCCA 15 LUGLIO 2006
TEMPI
MODERNI
tapis roulant delle scale mobili. La folla
solitaria è costretta da terra a prendere
atto di quei strani uomini volanti, così
come dall’alto si controlla il mondo
circostante, senza alterigia, perché si è
in alto temporaneamente, poi toccherà
agli altri. La difformità, comunque intesa, delle scale mobili rispetto all’architettura crea dunque attenzione. Come il
Cinema ben sa, se è vero che spesso le
scale mobili stesse sono luoghi importanti nella trama del film, con quegli sguardi intensi tra i protagonisti che s’incrociano o con le scene d’azione decisive.
COSE DA GRANDI
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Cominciamo da Titti, che viene da una famiglia che ha cambiato città per lavoro
quando lei aveva dieci anni, da Titti e dalla
sua mamma-bambina fragile e sottomessa, dalla sua sorella minore piena di energia – il maschio di casa, viene definita – e
dal papà di Titti, una persona di grande
spessore intellettuale, il cui bisogno di controllo si è espresso nella revisione quotidiana dell’abbigliamento della figlia maggiore, del s23uo zainetto di scuola, dei suoi
libri e dei suoi diari, e nella «confessione»
serale a cui lui, tenero ed armato delle intenzioni migliori, la sottopone tutt’ora, seduto sul bordo del letto della figlia alla luce
dell’abat-jour, con il sincero intento di seguirne la crescita e sgomberare per tempo
ogni ostacolo dal suo cammino.
La paterna sollecitudine è tanta, e altrettanta è la confusione di confini e ruoli e
posizioni di Titti, che, mostrando un certo
residuo istinto di sopravvivenza, è andata
ad esplorare, vivaddio, proprio la sponda
che per papà sarebbe quella più proibita,
Chissà se oserà seguirla anche là…
Giorgia ha vissuto invece una violenza più
visibile, si è abituata fin da piccola alle crisi
di nervi di papà, alle sue rumorose esternazioni, che naturalmente sono molto cresciute di numero e di intensità appena lei
è diventata adolescente. Non ha ricevuto
grandi quantità di percosse, ma ha sentito
chiaramente che lei e suoi bisogni non contavano molto, e ha capito abbastanza presto che la cosa più importante era intuire
in anticipo cosa avrebbe potuto far arrabbiare papà e, possibilmente, cercare in ogni
modo di non scatenare le sue ire.
Così, un giorno dopo l’altro, quel modo di
esprimersi ha cominciato a considerarlo
naturale, è riuscita a leggerci dentro anche un po’ di affetto per lei, l’unica maniera in cui questo affetto e questo interesse
potessero esserle comunicati, e da lì in poi
ha fatto parecchia confusione tra le mani
alzate, le scenate in pubblico, le pretese di
possesso totale e l’amore. Per tre volte si è
sganciata, una scena troppo forte, una umiliazione di troppo l’hanno aiutata a dire
basta, e tuttavia eccola per la quarta volta
dentro un rapporto violento, che si sta finalmente domandando come mai questi
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soggetti capitano sempre a lei.
figlie della dedizione
Giulia ha invece imparato che non c’è bisogno di chiedere niente, l’importante è che
l’altro stia bene, che possiamo alleviare le
sue pene, salvarlo, magari, se ci si riesce.
Il suo principio guida si sintetizza in poche parole: in una relazione d’amore conta solo il prendersi cura. Lo ha fatto da
quando aveva cinque anni, e suo padre la
voleva con sé durante le sue serate «no»,
quando tornava coi nervi a pezzi, e questa
figlia era l’unico suo conforto, l’unica luce
della sua vita. Niente di improprio, nessun
gesto o pensiero fuori dal segno, solo ricordati che sei tu l’amore di papà, la mia
piccola infermiera dell’anima, e mi raccomando non voglio che porti qua i tuoi giochi, stai qui e lascia che ti abbracci. Giulia
si sentiva molto importante, e dentro di sé
si sentiva anche molto migliore della mamma, che non era in grado di far sorridere
papà. Anzi, proprio per questo da più grandicella cercava di essere sempre brava e
paziente, era lei a ricordarsi i cibi preferiti
del padre, a scegliere il regalo che andava
fatto per il suo compleanno, a dargli le
medicine per il mal di testa che lo affliggeva così spesso. In premio riceveva uno
sguardo speciale, citazioni pubbliche di
ringraziamento, menzioni d’onore nella
classifica familiare delle persone brave. A
vent’anni aveva scoperto che sua madre
aveva amato un altro uomo.
Piera adora suo padre, lavora con lui nel
suo studio legale, fin da piccola è stata
designata come sua succeditrice. Prima
studia, poi penserai al resto. Non vorrai
mica perdere tempo con quelle stupidaggini, l’importante è che ti laurei, poi vedrai che sarai matura per incontrare anche l’amore.
Nessuno dei suoi compagni di scuola né di
università è stato degno del suo sguardo. È
riuscita a passare indenne attraverso schiere di ragazzi che le facevano ala, lei algida e
bella, superiore e vagamente sprezzante davanti a cotante basse pretese. Uno solo era il
suo mito, uno è rimasto, e se sogna – pocosono uomini in doppiopetto grigio, in cravatta regimental, galanti e cortesi, e rigorosamente senza volto, anche quello lo sceglie-
rà papà quando sarà il momento.
È lei l’accompagnatrice ufficiale ai convegni, è lei che viene presentata ai colleghi,
ne è fiera e anche, da un po’ di tempo, in
qualche modo imbarazzata e confusa. La
chiamano signora, sembra più vecchia della sua età, sedere alla destra di un tale Padre non le ha giovato all’aspetto.
Silvia ha buon lavoro, all’altro capo della città. Suo padre è in pensione, e non chiede di
meglio che farle da chauffeur. Ambrogio, lo
chiama lei scherzosa, cercando di ironizzare su questa strana coppia, come ormai li
definiscono. Lui non scende per aprirle la
portiera, ma poco manca. Puntuale la aspetta
all’uscita dal lavoro, e poi, via, è veramente
democratico, la accompagna anche al pub,
e su telefonata, strettamente entro i tempi
tecnici, la va a riprendere, i ragazzi oggi sono
così inaffidabili, magari guidano dopo aver
bevuto. Nessuno dei due della strana coppia
ha pensato all’ovvio, che potesse essere Silvia stessa a munirsi di macchina, visto che
la patente invece ce l’ha già. L’altra notte
Ambrogio è andato a riprendere la signora
alle quattro, l’ha aspettata che uscisse dalla
macchina di un altro uomo, stoicamente un
solo sospiro gli è sfuggito. «È comunque, per
un padre, un passaggio doloroso, – ha detto
poi sottovoce alla figlia – ma almeno sono
stato il primo a saperlo». Silvia non ha battuto ciglio, al sospiro ha risposto con un sorrisetto vagamente beffardo. Ha poi raccontato di essersi sentita un minimo crudele, e
proprio per questo sottilmente soddisfatta.
figlie da liberare
Francesca infine sa bene ciò che è possibile
e ciò che non lo sarà mai, lo sa con la testa, e
col cuore ogni volta lo dimentica. E ogni volta
piange come se lo scoprisse, inopinatamente, adesso. Se va bene sono già fidanzati, una
volta era sposato e l’ultima, anche padre e di
vent’anni più grande di lei, l’amore suo.
Come succede non sa dirlo, certo l’ultimo lo
doveva immaginare, ma era un signore così
gentile e per lei era così naturale, si sentiva
capita, e sentiva che lui era così sensibile alle
sue manifestazione di ammirato affetto e devozione quasi...filiale. Quando a lui è sfuggita questa definizione, la parola filiale è stata
il detonatore. La bella principessa si è svegliata dal sonno, ha colto il senso delle cose.
Ha intuito un fatto centrale, a cui prima non
aveva mai prestato importanza. E cioè che
nei suoi amori c’era un terzo elemento, c’era
un’altra donna che lei aveva in due casi anche conosciuto, e ammirato. Tanto da domandarsi come mai il signore in questione
stesse manifestando interesse per lei, che non
si vedeva neppure in grado di rappresentare
una vera concorrenza rispetto alla consorte.
E ha capito una cosa, Francesca. Che l’ha
lasciata di stucco, che la sta facendo molto
riflettere. Ha colto la sua invidia per queste
donne, il suo bisogno di prendere qualcosa
che apparteneva loro, e che questo sentimento era in lei ben più forte e più netto dell’attrattiva esercitata da quell’uomo. Si è resa
conto che ogni volta era come se fossero non
in due, ma in tre, e sottilmente ogni suo gesto, azione, slancio affettivo, era come se
avesse un pubblico, e quel pubblico era l’altra, la compagna legittima, era come se Francesca potesse far vedere a quest’ultima come
si fa a far felice quest’uomo, come se potesse dirle «Vedì? Ha preferito me, sono migliore di te». E allora ha pensato a sua madre, a
come non è quasi mai riuscita a sentire il
suo calore e la sua approvazione, e ha pensato a suo padre, a quante volte ha intuito i
suoi bisogni, e la mamma invece no. Ha pensato a quante volte avrebbe voluto essere
abbracciata da papà e invece lui la sgridava,
decisamente troppo. A quante volte poi al
contrario scorgeva in lui quello sguardo speciale che dice «accipicchia, sei una donna,
ormai…» e con che turbamento poi questo
sguardo le rimaneva addosso, nel corpo e nei
pensieri. E tutti questi fatti così contraddittori, e la sua propria incapacità di sospendere, di non attivare il gioco della seduzione,
specialmente con gli uomini più grandi, da
cui, dice, si sente così capita e rassicurata, le
hanno fatto intuire che c’è qualcosa nel rapporto con suo padre da rivedere, da snodare, da capire. Anche se quello che scoprirà
su di sé o su suo padre sarà una verità scomoda o dolorosa. Perché finalmente Francesca ha colto che se vuole davvero un rapporto d’amore deve uscire dalla zona franca
dove ancora mi gioco come figlia, dove lo
sguardo di papà mi legittima, e però mi ipoteca, mi possiede e, foss’anche per interposta persona, mi lega a sé per sempre.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
figlie del controllo
Rosella De Leonibus
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
i prepotenti
Se, in un vocabolario italiano, andiamo
alla ricerca del significato di «prepotente» troveremo che viene definito così» chi
agisce di forza in modo da soverchiare la
volontà ed i desideri altrui a proprio vantaggio» («Nuovo Zingarelli»). A me sembra che la prepotenza, più che un comportamento isolato, sia un atteggiamento, una caratteristica della personalità di
alcuni individui che sovrastano, non solo
i desideri e la volontà dell’altro, ma anche i suoi diritti e le sue giuste aspettative. Chi agisce con prepotenza si dimostra
violento ed ingiusto anche nelle piccole
cose quotidiane. Ad esempio, agisce con
prepotenza chi esige o vuole la priorità
gratuitamente, nei rapporti con gli altri,
senza sentire nemmeno le ragioni di chi,
giustamente, difende un suo diritto di precedenza; chi risponde con la forza o con
42
IO E GLI ALTRI
la cultura
della
sopraffazione
Manuel Tejera de Meer
insulti a chi esprime una sua personale
esigenza che l’altro non ha rispettata; chi
estende questo comportamento a tutte
quelle situazioni sociali in cui ci si trovi,
come quando si toglie frettolosamente il
posto, in un mezzo pubblico, a chi si dimostra più mite e accondiscendente; chi
scavalca violentemente norme e comportamenti sociali che richiederebbero, invece, solidarietà e collaborazione; chi pretende d’essere primo o dei primi in tutte
quelle circostanze della vita ordinaria in
cui la priorità offre vantaggi di qualsiasi
tipo; chi difende la propria opinione senza nemmeno voler sentire il parere degli
altri, sottraendosi, perciò, ad un dialogo;
chi cammina per la strada, quando c’è ressa, superando il prossimo con gomitate e
spinte, senza avere l’accortezza di guardarsi intorno; chi risponde con offese ed
insulti a chi rispettosamente fa un’osservazione per un torto ricevuto; chi risponde con voce stentorea o con urla a chi tenti
di spiegare e di chiarire un malinteso con
estrema serenità. Il prepotente che fa e si
esprime con forza, senza sentire i diritti e
le ragioni altrui, esercita una violenza: la
violenza di chi disprezza o semplicemente ignora l’esistenza degli altri.
Certi gesti d’inciviltà, come imbrattare le
pareti o sporcare i luoghi pubblici, distruggere volutamente le panchine dei
parchi o i sedili degli autobus, sono forme di prepotenza nei confronti della collettività. In questi casi, come in altri simili, alla prepotenza dei gesti si aggiunge
la mancanza di senso civico. Forse l’unico «vantaggio» per i protagonisti clandestini di questi gesti d’inciviltà e di prepotenza è quello di sfogare la rabbia contro
chi detiene il potere, ottenendo la fasulla
autogratificazione di concedersi un comportamento trasgressivo come segno della propria volontà di potenza e della propria voluta autoemarginazione dalla società.
la cultura contrapposta:
senza esagerare
Alla cultura della sopraffazione si contrappone la cultura della solidarietà. Si pensa
ai bisogni, ai desideri, agli interessi degli
altri, e si dimostra disponibilità a fare un
favore, a dare una mano, a collaborare in
funzione delle altrui esigenze.Ciò diventa
un atteggiamento abituale in tante persone dotate di un buon capitale sociale. La
cultura della solidarietà presenta, però, i
suoi rischi fino al punto da impoverire pa-
radossalmente il capitale sociale. Mi riferisco a quei casi in cui si vuole intervenire
con la forza nelle scelte e nei comportamenti degli altri, presentandosi come eroi
della solidarietà o salvatori dell’umanità e
redentori del genere umano. È così che si
feconda in chi agisce in questo modo il
delirio di onnipotenza che si può impadronire della volontà della persona; questa si
sentirà, pertanto, investita della missione
autoassegnatasi d’intervenire in ogni situazione di difficoltà o di disagio degli altri,
comportandosi come chi deve stare sempre allerta per capire chi ha bisogno d’aiuto. Si feconda pure la convinzione sul fatto che sia proprio lui l’unico capace di darlo. Sono persone che, con il loro interventismo, si fanno pesanti ed antipatiche. In
questo senso ho parlato prima di «impoverimento» del proprio capitale sociale.
Quando si dà alla propria vita l’unico significato d’agire per raddrizzare tutto ciò
che è storto, ci assomigliamo a Don Quijote de la Mancha che si pose come obiettivo di « deshacer entuertos» («riparare ingiustizie»), con tutte le disavventure che
chi abbia letto il divertente romanzo di
Cervantes sicuramente ricorderà. Credo
che se chi vive in modo egoistico produca
la distruzione della libertà e generi violenza, chi vive solo per aiutare gli altri, in un
interventismo senza sosta, produca gli stessi deleteri effetti.
La cultura della solidarietà, perciò, si esprime attraverso la disponibilità abituale a
dare accoglienza ed ascolto a chi si rivolge
a noi, ed a suggerire, con estremo spirito
di libertà, un parere ed una possibile soluzione, se vengono richiesti. Senza forzature né imposizioni.
Non si può invadere la vita dell’altro suggerendo scelte e comportamenti senza che
ci sia una richiesta di aiuto o di opinione,
anche se questi tentativi invasivi possano
essere vissuti, da parte di chi li fa, come
dimostrazione di solidarietà. Per esprimere solidarietà non c’è bisogno di usare parole tante volte retoriche («conta su di
me», «ti sono vicino», «fidati di me»
ecc...); la vera disponibilità si riconosce
nell’atteggiamento di ascolto e nelle risposte concrete alle richieste altrui. L’attenzione all’altro si esprime tante volte con
la sola presenza, attraverso il linguaggio
del corpo, che conduce alla consapevolezza della sua abituale disponibilità alla solidarietà. Valgono di più i fatti (essere presente, ascoltare con attenzione) che le parole.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
N
ell’articolo precedente abbiamo parlato di quelle persone
che agiscono e pensano come
se gli altri non esistessero. Ci
riferivamo a quella condizione di culto di se stessi che impedisce la visione degli altri. Una condizione che porta a non fare niente per riconoscere i bisogni, i desideri, gli interessi dei nostri simili. In questa categoria di persone includevamo quelli che trattano gli altri solo per i
vantaggi che questi contatti possono arrecare. Sono gli spiriti interessati, quelli che
sfruttano il prossimo, a volte sotto la maschera di solidarietà o di altruismo. Li abbiamo chiamati «mutilati di socievolezza».
Sembra che oggi questa categoria sia numerosa. Ma non dobbiamo generalizzare.
Il pericolo di allargare a tutta la società
contemporanea questa condizione va evitato, considerando la presenza benefica di
tante persone che si dedicano agli altri nei
vari volontariati e che lavorano nel sociale. A me sembra che l’istanza umanitaria a
favore dei bisogni altrui sviluppi ed aumenti il capitale sociale individuale e che questo effetto aiuti tutti a migliorare la qualità della vita.
Nella prospettiva, però, di riconoscere
quelli che prescindono dagli altri o che
approfittano della disponibilità che gli altri offrono per ottenere qualcosa a favore
del proprio tornaconto, vogliamo riferirci oggi ad alcuni esempi banali della vita
quotidiana in cui la cultura della sopraffazione e del sopruso prevale con forza
sulla cultura della solidarietà e dell’altruismo.
Manuel Tejera de Meer
43
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
ROCCA 15 LUGLIO 2006
le regole pratiche
La speculazione filosofica ha spesso sottovalutato il pensare in atto a favore dell’atto del pensiero interessata a cogliere più
gli elementi universali, logici e
prelinguistici dell’attività riflessiva rispetto a quelli contestuali, dialogici e linguistici. Uno dei compiti filosofici che
Strawson persegue già a partire dal 1952,
in un saggio intitolato Introduzione alla
teoria logica, è invece quello di stabilire le
analogie e le differenze tra l’uno e l’altro
aspetto del pensare. Scrive infatti di voler
44
Peter
Fredrick
Strawson
i fili del discorso
«rilevare alcuni punti di contrasto e di contatto fra il comportamento delle parole nel
linguaggio ordinario e il comportamento
dei simboli in un sistema logico». Uno scopo coerente con la lezione analitica che è
stata quella di studiare e valorizzare il linguaggio comune e le sue regole. Il problema di fondo infatti è proprio questo: se il
linguaggio ordinario ha delle regole, di che
natura sono queste regole?
Polemizzando con i logici formali come
Russell Strawson arriva a formulare, insieme a Toulmin e ad altri filosofi analitici
della seconda generazione, una teoria del
discorso – più vicina all’argomentazione e
alle scienze umane che alla logica e alla
matematica – il cui principio non è quello
di applicare le regole formali ai fatti linguistici ma quello di ricavare dai fatti linguistici le regole pragmatiche che stanno
alla base della rappresentazione comune
del mondo, del riconoscimento reciproco
e dell’intesa intersoggettiva. Scrive infatti
che « noi non giudichiamo la nostra pratica linguistica alla luce di regole
antecedentemente studiate. Sono le regole che vengono formulate alla luce dello
studio della pratica corrente». La filosofia
non dovrebbe correggere, platonicamente, le regole reali alla luce di regole ideali
(metafisica correttiva), ma limitarsi a descrivere, aristotelicamente, le regole reali
(metafisica descrittiva).
Queste regole reali, alla luce dei fatti, si
rivelano più flessibili e più varie di quelle
in uso nella logica formale. Ad esempio la
pratica corrente ci dice che il ragionamento deduttivo, ritenuto lo standard delle relazioni tra proposizioni, non costituisce
affatto un modello logico unico e universale. «Dobbiamo pensare – scrive Strawson
– secondo un numero di dimensioni assai
maggiore che quelle di implicanza e di contraddizione». Non c’è infatti un solo filo
del discorso ma tanti fili del discorso o,
meglio, tanti discorsi che filano.
ragionamenti razionali
Stefano Cazzato
Basti pensare a quanto accade nella vita
di ogni giorno dove è normale svolgere
ragionamenti «sani» ma non deduttivi,
sensati ma non necessariamente logici in
quanto le conclusioni che deriviamo da
certe premesse sono provate e probabili
ma non certe e vincolanti. Non per questo
i nostri discorsi sono contraddittori o assurdi così come non sono assurde le
inferenze che fanno gli storici nell’interpretazione degli eventi umani, gli avvocati
nella difesa degli imputati, gli ispettori di
polizia nell’investigazione del crimine, gli
scrittori nello sviluppo di una narrazione.
Anche se il campo dell’argomentazione
pratica è molto più raffinato, ricco e vibrante di quella della logica formale, un
logico deduttivo non esiterebbe però a dichiarare invalidi ragionamenti del tipo «la
pentola è da dieci minuti sul fuoco, sicché
dovrebbe essere sul punto di bollire» o «stamani c’è un gelo che strina, senza cappotto piglierai un raffreddore». Eppure è innegabile che questi ragionamenti siano
condivisi, familiari e perfettamente intelligibili. E lo sono in quanto guidano tutti
noi ad agire e a vivere secondo principi di
esperienza, di opportunità, di saggezza, di
razionalità.
Ecco perché, come si diceva all’inizio, il
pensiero presenta una «tessitura». La metafora fa pensare alla trama più che alla
linea, una trama i cui fili rappresentano
le diverse forme linguistiche e argomentative attraverso le quali costruiamo
concetti generali, regole di vita, verità comuni.
Queste verità costituiscono la sostanza vitale e morale del linguaggio ordinario che
i filosofi, secondo Strawson, non possono
ritenere secondaria rispetto alla pur legittima ricerca dell’eleganza formale.
Stefano Cazzato
ROCCA 15 LUGLIO 2006
C
i sono filosofi che credono nell’atto del pensiero e filosofi che credono nel pensiero in atto. In un
senso molto lato i primi sono idealisti e i secondi pragmatici. Non si
sbaglia a collocare in questa seconda categoria l’inglese Peter Fredrick Strawson
(1919), allievo di Austin e Ryle, professore
a Oxford e esponente di quella scuola analitica europea che ha avuto il merito di ripensare radicalmente i compiti e i metodi
della filosofia occidentale.
Strawson è però una personalità insolita
nel movimento analitico in quanto ha proposto un’originale rilettura linguistica di
Kant e si è occupato non solo di logica (Sul
riferimento,’50) e di etica (Libertà e risentimento,’74) ma anche di metafisica (Individui,’59, Analisi e metafisica,’84). Ma soprattutto ha raccolto costruttivamente l’eredità dei primi analisti (impegnati più a
decostruire che a ricostruire la filosofia) a
partire da una domanda: cosa resta quando, sotto i colpi della critica filosofica, cominciano a crollare le «immense e imponenti cattedrali del pensiero»? Cosa resta
quando il metodo dell’analisi fa pulizia
degli equivoci linguistici e concettuali della tradizione, esigendo dalla filosofia chiarezza e razionalità? Quel che resta, secondo Strawson, è molto, anzi moltissimo.
Resta «il senso della scoperta, l’avvertimento profondo della tessitura raffinata, ricca, vibrante del nostro pensare in atto, dell’attuarsi del nostro bagaglio concettuale
e linguistico».
Bibliografia
P. F. Strawson, Introduzione alla teoria logica,
Einaudi, 1975.
R. Corvi, La filosofia di P.F. Strawson, Vita e pensiero, 1979.
B. Magee, Filosofi inglesi contemporanei, Armando, 1996.
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LETTERATURA
Sandro Penna
poeta insonne ribelle febbrile
46
S
di Nietzsche, Hölderlin, Leopardi, D’Annunzio, Rimbaud; geniali le sue traduzioni di Merimée e Claudel. Un fatto significativo, che dice di come si è andata sviluppando tra tanti ostacoli la produzione di
Penna, è quello per il quale – dopo le Giovanili ritrovate (1927-’36), composte tra
Perugia, le Marche e Roma – uscirono le
305 copie della raccolta Poesie (1939) in
seguito a mille ripensamenti e a mille indecisioni, vinti soprattutto grazie all’incoraggiamento continuo e convinto proprio
di Saba, che lo chiamava Pennino e ne aveva intuito le grandi potenzialità liriche. Del
’50 è il volumetto Appunti, di sei anni dopo
lo splendido Una strana gioia di vivere,
l’opera preferita da Pasolini, il quale per
l’occasione scrisse appositamente anche un
saggio. Nel ’57 Penna pubblica le altre Poesie, premiate a Viareggio, e nel ’58 Croce e
delizia; mentre sarà nel ’70 – altro fatto significativo – che recupererà nel volume
intitolato Tutte le poesie anche quei versi
che, lui colpito già prima dei trent’anni
dalla censura di Stato, aveva via via dovuto tagliare fuori dalla produzione pubblica. Per quanto riguarda la prosa, i racconti composti tra il ’39 e il ’41 andranno a
costituire la raccolta Un po’ di febbre, uscita solo nel ’73, mentre del ’76 sono le 119
poesie di Stranezze.
lirismo genuino attuale e antico
Lontano da ogni ideologia, vivo solo nel
poetare libero e nell’agire svincolato dai
dettami della società perbene («Fuggono i
giorni lieti / lieti di bella età. / Non fuggono i divieti / alla felicità», quando felicità e
libertà si confondono a fronte di un
moralismo ‘borghese’ nel peggior senso del
termine), quindi sempre pronto a evadere
dal mondo delle norme e dei ruoli, Sandro
Penna ha dato luce ad una produzione limpida, anche in prosa. È un’opera, la sua,
che svela soprattutto completa indifferenza alle regole del mercato, che mai cede al
commerciale e mai scade nel volgare e che
anzi in ogni occasione ci si consegna so-
stenuta da un lirismo genuino, fatto di visioni oniriche e di entusiastiche partecipazioni alla vita.
Penna tocca vette di lirismo che possiamo
definire vibrante, ma che propongo piuttosto di vedere come febbricitante: un
lirismo che, lungi dall’essere mai artefatto, torna al gusto classico della poesia riuscendo peraltro a farsi modernissimo proprio in virtù di una sorta di insonnia
creativa. Ecco la sua invocazione al cielo,
con cui sembra avere un rapporto di odio
e amore, quando si sente gettato e al
contempo radicato nel mondo: «O cielo
delicato / prima dell’alba ascoltami. / Forse io non sono nato / per vivere qua giù. /
Ma cielo delicato / (mi ascolti?) io ben lo
sento / che è tuo quello strumento / fierissimo e dannato. / Sei tu che l’hai buttato /
a vivere qua giù. / Sei tu che l’hai legato /
se sempre guarda in su».
Quasi un primo attore, nel mondo poetico
di Penna, il mare è scrutato nella sua ineffabile bellezza e avvertito quale fidato
amico grazie al quale ritrovare se stesso:
«Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto
calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo», scrive nel ’37; più tardi dirà: «E mi affaccio sul mare che si batte / contro gli scogli per ridere con sé»; e
altrove ancora: «Quando tornai al mare di
una volta, / nella sera fra i caldi viali / ricercavo i compagni di allora… / Come un
lupo impazzito odoravo / la calda ombra
fra le case. L’odore / antico e vuoto mi cacciava all’ampia / spiaggia sul mare aperto.
Lì trovavo / l’amarezza più chiara e la mia
ombra / lunare ferma su l’antico odore».
Ma è proprio negli odori, e nei gusti, piuttosto che nelle immagini o nei suoni, che
ritroviamo la via privilegiata per comprendere il verso di Penna: «Sulla mia pelle
polvere e sudore / m’inebriano. / Negli occhi ancora canta / il sole […]», compone –
guarda caso – in una stazione, quella di
Recanati nel dicembre del ’29.
Il poeta perugino trova nelle meditazioni
sulla vita, sull’amore e sulle loro relazioni
infinite la più alta ispirazione: «Forse la
Sandro Penna
Mi nasconda la notte e
il dolce vento/
Da casa mia cacciato
e a te venuto/
mio romantico amico
fiume lento./
Guardo il cielo e le
nuvole e le luci/
degli uomini laggiù
così lontani/
sempre da me. Ed io
non so chi voglio/
amare ormai se non il
mio dolore.
La luna si nasconde e
poi riappare/
– lenta vicenda
inutilmente mossa/
sovra il mio capo
stanco di guardare.
giovinezza è solo questo / perenne amare i
sensi e non pentirsi», appuntava nel ’37. E
la sua è una vita che lo spiazza e lo sorprende di continuo: una vita «stupida e
dolorosa, o dolorosa e stupida», come confida a Montale, e in ogni caso perennemente «provvisoria», come scrive a Sergio
Solmi. Eppure è una vita che gli fa dire:
«Non c’è più quella grazia fulminante / ma
il soffio di qualcosa che verrà»; c’è dunque
una speranza che brilla nel fondo dell’animo del poeta, il quale sa consolarsi anche
di una natura ‘partecipante’ alle sue angosce, alla sua solitudine o meglio alla sua
condizione di emarginato: «Mi avevano
lasciato solo / nella campagna, sotto / la
pioggia fina, solo. / Mi guardavano muti /
meravigliati / i nudi pioppi: soffrivano /
della mia pena […]». Un’emarginazione, la
sua, che lo pone in un difficile rapporto
con gli altri, ora visti con sospetto e ora
cercati con spasmodico affanno; c’è
un’espressione che trovo felice e significativa per rendere questo lacerante contrasto che si fa poesia: «Ero per la città, fra le
viuzze / dell’amato sobborgo. E m’imbattevo / in cari visi sconosciuti…», dove questi cari visi sconosciuti dicono tutto di quel
doppio movimento di avvicinamento e respinta, di quell’intreccio tra cura appassionata e limite invalicabile che consegna
questa poetica all’immortalità.
Giuseppe Moscati
Per leggere Penna:
S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970;
Stranezze, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano 1976; Il rombo immenso, Scheiwiller, Milano 1978; Confuso sogno, Garzanti, Milano 1989;
Peccato di gola. Poesie al fermoposta,
Scheiwiller, Milano 1989; Poesie scelte
[Garzanti, Milano 1973], a cura di N. Naldini,
Tea, Milano 1999.
E. Montale-S. Penna, Lettere e minute 1932-1938,
Archinto, Milano 1995; U. Saba, Lettere a Sandro
Penna (1929-1940), Archinto, Milano 1997.
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Giuseppe
Moscati
empre affacciato a una finestra io
sono, / io della vita tanto innamorato. / Unir parole ad uomini fu il
dono / breve e discreto che il cielo
mi ha dato». È Sandro Penna che
si presenta, poeta di un lirismo così
forte e intenso che nell’epoca contemporanea fatichiamo a trovare termini di paragone che possano accostarvisi.
Parlando della propria formazione, ha
sempre ricordato con nostalgia il periodo
giovanile nella sua Perugia, dove rimase
fino all’età di 22-23 anni. Ed è lui che,
«sempre alle prese con qualche nuova spina da strapparsi di dosso, da piegare in
poesia» (A. Zanzotto), si è mosso tra mille
difficoltà nel mondo dei borghesi della forma e della convenzione, quelli che per lo
più lo condannavano, additandolo come il
poeta dall’eros ‘irregolare’; quelli che ne
boicottavano le pubblicazioni; quelli che,
possiamo dire senza esitare, fondamentalmente non lo capivano.
Ma Penna seppe farsi benvolere da ben altri spiriti nobili: gli furono vicini, nella sua
vita di stenti e lavori occasionali e commerci vari, Saba e Montale, Pasolini,
Macrì, Pannunzio… Si rendeva conto egli
stesso, sin dagli anni giovanili, di avere una
particolare propensione per l’eccezione e
la ribellione, l’una e l’altra da lui poi
sapientemente tramutate in fini strumenti poetici: l’afflato lirico nasce infatti proprio dall’essere anima in perenne pena, dal
vivere le sensazioni come un precipitare
ininterrotto e onnipotente. Ecco i suoi versi
inquieti del 1939: «La vita… è ricordarsi di
un risveglio / triste in un treno all’alba: aver
veduto / fuori la luce incerta: aver sentito /
nel corpo rotto la malinconia / vergine e
aspra dell’aria pungente». Chissà se è lo
stesso treno del suggestivo Il viaggiatore
insonne, volume postumo di tredici liriche
nate tra il ’57 ed il ’76: «Il viaggiatore insonne / se il treno si è fermato / un attimo
in attesa / di riprendere il fiato / ha sentito
il sospiro / di quel buio paese / in un accordo breve…».
Assai vivaci le interpretazioni delle pagine
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
speranza sovversiva
T
Lilia
Sebastiani
utti conosciamo ormai l’argomento del convegno ecclesiale di Verona del prossimo ottobre: Testimoni di Gesù Risorto, speranza del
mondo.
Al centro dunque, oltre alla testimonianza della Resurrezione, la speranza che ne è come il respiro interiore e, insieme, l’indice di autenticità. La speranza
declinata nei suoi versanti inseparabili di
«contemplazione e impegno», secondo un
binomio classico che molti di noi amano
molto, che sembra riportare gli anni ’70 e
la vitalità della stagione che seguì il Concilio.
fame di speranza
ROCCA 15 LUGLIO 2006
L’epoca storica in cui viviamo non è particolarmente ricca di speranza, e nemmeno
di speranze; ma nonostante questo (o forse proprio per questo) per la speranza sembra nutrire una strana predilezione. Da
quando si è formata la triade delle virtù
teologali (lasciamo aperta per ora la questione se la speranza sia una ‘virtù’, cosa
che oggi viene messa in dubbio da diversi
teologi), vi è sempre stata nel cristianesimo la tendenza, espressa o non espressa, a
dare il primato ad una delle tre. Nell’antichità cristiana, per esempio, sulla scia di
Paolo e di quanto dice sulla carità nella
prima lettera ai Corinzi, domina quello che
viene chiamato l’ordo amoris: cioè la tendenza a leggere, a interpretare tutta la triade delle virtù teologali a partire dalla carità. Lutero sostituisce all’ordo amoris l’ordo fidei: pone al centro non più la carità
ma la fede, anche se si tratta di una fede
terrena, animata nel profondo dalla speranza. La nostra epoca invece tende, non
sempre consapevolmente, all’ordo spei: è
come se si intuisse il necessario fondamento delle virtù (teologali, ma non solo) sulla
speranza. Spesso però si tratta di una tensione contraddittoria, infelice, faticosa,
densa di equivoci.
Il momento presente è abbastanza duro e
incerto in tutti gli ambiti (società, chiesa,
politica, economia, situazione internazionale…), la speranza sembra provocarci e
interpellarci con un’urgenza strana, tanto
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che a volte si fa fatica a riconoscerla come
speranza, almeno quando si abbia la tentazione di confondere la speranza con un
ottimismo tranquillo.
Nell’Ottocento si parlava molto di ‘ideali’,
e oggi se ne parla molto meno. Questa potrebbe anche essere un’opportunissima
forma di purificazione della nostra interiorità: che spesso, sotto il nobile manto
dell’ideale, cede un po’ alla volontà di onnipotenza. Ma in certi momenti anche la
nostra convinzione fondamentale di essere chiamati a rendere più umano il mondo vacilla o si vela di un silenzio troppo
denso, la stessa ‘buona volontà’ non funziona più, come se fosse qualcosa di scontato, impotente e generico.
Siamo abituati ad abbinare, in teoria almeno, evangelizzazione e promozione
umana (fu il titolo felicissimo del primo
Convegno della chiesa italiana, nel 1976);
e oggi può sembrarci talvolta che l’evangelizzazione si allontani, affondando nella consuetudine e nella ripetizione, nel ‘tecnicismo pastorale’, o sfuggendo al di sopra e al di fuori della realtà che possiamo
sperimentare; e che la promozione umana
si attui (nella migliore delle ipotesi), in un
modo che ci sfugge, con altri canali, altri
criteri, altri soggetti. In certi casi le convinzioni che ancora riconosciamo come
nostre sembrano inadeguate alle sfide del
presente, insufficienti, impotenti, incomunicabili. Dinanzi a molti dilemmi concreti
è difficile assumere una posizione netta,
ogni scelta diviene tormentosa, la nostra
coscienza in certi momenti sembra un gioco di specchi.
Vorremmo ancora, e più di sempre, affermare con piena convinzione la centralità
della persona umana, l’esigenza di un nuovo umanesimo (anche negli ambiti tecnico-scientifici) e di un’economia a misura
d’uomo; ma nello stesso tempo si fa strada
dentro di noi, anche se non vorremmo riconoscerla, l’impressione desolante che la
persona non abbia gran rilevanza…, forse
nemmeno la nostra. E forse in tutte le epoche di crisi – ammettendo che ve ne sia
qualcuna di non-crisi – si accentua la tendenza a incontrare l’altro all’insegna del
«da che parte sta», nell’assoluta evanescen-
speranza, fedeltà, solidarietà
La nostra speranza non si fonda su una
dottrina, ma su un evento, su una persona; e sappiamo che anche Gesù ha attraversato momenti di crisi. Forse più numerosi di quelli che si possono ricavare dalla
scarna e reticente testimonianza degli
evangelisti, non interessati al dato psicologico. Anche per lui gioia e pace non sono
state un pacifico possesso. Ha sperimentato il conflitto, la delusione, l’abbandono,
la paura: non poteva ritirarsi a comando
in una specie di sfera divina a sua disposizione, fasciarsi di impassibilità e di onniscienza per difendersi dalle contraddizioni.
Ed essere radicati nell’evento di Gesù di
Nazaret non scioglie i dubbi e le crisi, non
risolve la precarietà, non anestetizza contro la sofferenza, neppure elimina l’incertezza inseparabile dal versante storico dell’esistenza. Il Vangelo non è un oracolo né
un libro di ricette. Nella presente situazione, così poco ‘incoraggiante’ (almeno nel
senso un po’ paternalistico che si tende a
dare al termine), ci viene chiesto di vivere
il discepolato in spirito di fedeltà, cioè in
modo inedito e creativo, di scoprire e avvalorare la nostra corresponsabilità nell’opera di salvezza.
Annodati agli altri da vincoli di ogni genere – non solo in orizzontale, ma anche in
verticale, attraverso il tempo e la storia –,
sappiamo che ogni nostro atto libero (purtroppo anche ogni atto non libero) influisce sulla libertà degli altri; e responsabilità significa certo tener presenti in ogni caso
le conseguenze possibili del nostro agire,
ma non solo. Responsabilità, nei termini
della teologia dell’Alleanza, dilata il senso
etimologico di «capacità di risposta»: richiede capacità di discernimento, ascolto
degli altri e dei segni dei tempi, solidarietà
con il mondo e con la storia umana. Una
solidarietà tuttavia lontanissima da qualsiasi adattamento passivo e acritico allo
‘logica del mondo’, allo spirito di branco,
alla massificazione delle coscienze, all’appiattimento, alla banalità, alla dissipazione.
L’ethos delle persone responsabili e creative è agli antipodi dell’immobilismo e di
ogni spinta distruttiva; la persona responsabile e creativa è intimamente ‘orientata’, dimostra per mezzo del proprio vivere
la concretezza e la storicità dell’ideale in
cui crede; ha uno stile di vita fondato sull’ascolto e sulla risposta.
Anche se, proprio per questa centralità
accordata alla risposta dinamica e progressiva a Dio che chiama – risposta che coin-
cide con l’esistenza intera letta secondo
l’ottica dell’Alleanza –, rifugge da risposte
facili e preconfezionate, che calano frettolosamente dall’alto quasi più, si direbbe,
per soffocare gli appelli della storia e i segni dei tempi che per accoglierli. Sa leggere in trasparenza le valenze spirituali dei
momenti e degli eventi che si è tentati di
considerare più violentemente antispirituali: la noia, l’impazienza, la delusione,
la stanchezza, la paura… Sa che l’esperienza del silenzio di Dio – non ignota nemmeno a Gesù, e attraversata da tanti mistici
quando abbiano superato la fase delle facili ebbrezze – può essere un nuovo arduo
dono di grazia: il Dio che tace non è latitante, ma forse in attesa e in ascolto di una
nostra parola diversa, autonoma.
riconoscere la speranza presente e assente
Sempre più scopriamo che un’infinità di
persone, intorno a noi, non necessariamente più ‘cattive’ di altre (ché anzi spesso fanno e dicono cose buone), e nemmeno più
tristi o lacrimose di altre, sopravvivono per
lungo tempo, quasi per tutta la vita talvolta, alla morte della loro speranza. Sono
effettivamente de-sperate, ma la disperazione può manifestarsi in molti modi diversi. Talvolta si aggira nella storia umana
travestita da realismo, talvolta capita perfino che indossi i panni insospettabili dell’ottimismo evasivo; altre volte invece quelli dell’utopia esasperata e candidata al fallimento, che inevitabilmente porta con sé
prima o poi il pessimismo, la delusione, la
rabbia di chi ce l’ha con tutti in quanto
colpevoli di aver deluso la sua speranza.
In realtà non si tratta tanto di una speranza delusa, in quel caso, quanto piuttosto
di un ego ferito.
Bisogna distinguere l’utopia evasiva svincolata dalla realtà e dalla storia, quella che
veramente «non sta in nessun posto», da
quella «che non ha ancora un luogo», ma
a cui un luogo si deve preparare. L’utopia
buona è collegata con la speranza teologale (non sempre in modo consapevole) ed è
animata dalla tensione a farsi progetto.
La speranza teologale resta comunque altra cosa rispetto a tutte le nostre previsioni e le pianificazioni, anzi in certi casi sembra l’opposto.
La speranza cristiana non ha nulla a che
vedere con l’ottimismo superficiale (e forse nemmeno con l’ottimismo, semplicemente: ottimisti non si può essere sempre,
mentre la speranza come virtù cristiana
tende a configurarsi come stile di vita).
Non che le speranze di previsione non siano importanti per la nostra vita associata
e per il divenire storico; ma la speranza
implica uno sguardo nuovo sulla realtà
ROCCA 15 LUGLIO 2006
za del «chi è».
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speranza come fede, fiducia, attesa
La speranza certamente esiste, è anzi una
delle idee portanti del Primo Testamento;
ma non si chiama ‘speranza’, di solito. In
molti casi non è distinguibile dalla fede,
dalla fiducia, dall’attesa. Il verbo che possiamo tradurre ‘spero’, potrebbe anche tradursi ‘aspetto’; e ciò non avviene per caso.
La speranza è fiducia, attesa, esperienza
del fondamento. Si fonda su un Dio che
entra in rapporto con l’essere umano, proprio facendogli spazio; si impegna con lui,
è fedele alle sue promesse. Dalla promessa di Dio si dipanano tutte le altre speranze; e non vi è, all’inizio della vicenda di Israele, la tendenza a dividere le realtà (che
noi chiamiamo) ‘spirituali’ dalle realtà concrete e terrestri.
Nel vissuto personale, la speranza non è
distinguibile dalla fede se non in modo teorico e un po’ artificioso. Dal punto di vista
teologale, guardando alle promesse di Dio
la speranza è un risvolto della fede; dal
punto di vista umano-storico, è il dinamismo della fede. È molto difficile dire se e
quale delle due preceda, sia nel tempo sia
nel valore. La ‘priorità’ forse appartiene alla
fede, ma il ‘primato’ alla speranza.
Ricordo di aver incontrato un’espressione
del teologo Rubem Alves (un esponente
della teologia della liberazione), che dice
in sostanza: la memoria è una profezia rivolta al passato, la speranza è una memoria rivolta verso il futuro.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
riconoscere la speranza
Il fatto è che la speranza di solito non si
aggira nel nostro mondo vestita da speranza. Così come molte false speranze che incontriamo nel nostro vivere terreno nascondono un’anima di disperazione, molto spesso chi dice «ho perso la speranza»
50
non è affatto una persona che non spera
più. Semmai è una persona la cui carica
ideale, la «passione del possibile» (Kierkegaard) e l’apertura al divenire sono state
amaramente deluse; che perciò avverte uno
scollamento tra il proprio essere, i propri
sogni e bisogni, e ciò che invece gli viene
offerto in questo momento dalla comunità
umana e dalla storia. Ma l’apparente perdita della speranza dev’essere ascoltata, analizzata, convertita in progetto; questa ‘speranza perduta’ nell’orizzonte della salvezza
può servire molto di più, essere più utilizzabile e feconda, oltre che più interessante
di certi ottimismi pavidi e vuoti che in realtà sono soltanto un alibi, un rifiuto di essere disturbati, di scavare nelle situazioni e
nei sentimenti, per paura dell’imprevisto.
la grande speranza, le piccole speranze
Le ‘piccole speranze’, anche quelle apparentemente banali, sono importanti per noi
e anche misteriosamente eloquenti, perché
ci additano un tendere verso. Quando aspetto qualcosa con desiderio intenso, anche
se è un ‘qualcosa’ apparentemente tutto
contenuto nel tempo, e a breve termine,
limitato all’orizzonte terrestre…, se nella
mia attesa c’è qualcosa di buono, di sano,
di autenticamente umano, vuol dire che da
questo evento mi attendo un potenziamento del mio essere, un arricchimento e un’intensificazione che riguardano la mia vita,
ma anche il mio modo di essere con gli altri. È ben possibile che la cosa aspettata
venga fuori meno bella di come l’abbiamo
vagheggiata; e comunque passerà, per lasciare spazio ad altre attese. Anzi, un po’
di delusione è quasi fisiologica, poiché
abbiamo scommesso un po’ del nostro infinito in quell’evento che, sebbene positivo, è comunque ‘finito’.
In fondo a ogni speranza grande o piccola
palpita un’aspirazione così immensa e misteriosa che suscita in noi un disagio strano
quando proviamo a metterla in parole, ma
somiglia a questo: «Io non morirò». La mia
morte terrena non avrà l’ultima parola su di
me. Le nostre piccole speranze vanno assunte come fanali che illuminano la strada, come
linee di tendenza, come anticipazioni, come
segni: nella certezza che là dove tende la
nostra speranza infinita ci sarà ancora un
divenire, ci saranno ancora rapporti, ci sarà
ancora qualcosa da attendere. Non sappiamo dire ‘come’ sarà la vita eterna, ma nella
logica della salvezza possiamo intuirla, sperarla come un dinamismo infinito.
Lilia Sebastiani
FATTI E SEGNI
Enrico
Peyretti
A
ho l’età
nni – Quando gli anni diventano
tanti sono come una di quelle
collinette di riporto, che crescono ancora. Ci sei sopra e vedi via
via più lontano: la tua vita passata, come va l’umanità, come i
tempi mutano, i ricordi
solo tuoi, le scuse che non puoi più chiedere, i grazie che non hai detto, i volti di
chi è partito, la carezza che ti ha consolato, le parole che ti hanno dato respiro. Da
ragazzo non lo sapevi, guardavi dritto davanti a te. Il panorama ora si allarga. Da
quel lato c’è un colle, ancora da valicare. E
non sai quanto sarà dura.
Calma – Se non è vera può diventarla. In
un consiglio provinciale un consigliere insulta pesantemente un avversario. Questi
chiede calmo la parola e dice soltanto: «Signor Tale, le sono caduti a terra degli insulti. Li raccolga. È roba sua».
Capire – Se volete capire, non fate mai
un’ipotesi sola.
Chiesa – Le perdono tutto, perché mi ha
portato il vangelo di Gesù, che è salvezza e
perdono per me, purché anch’io perdoni.
Il vangelo che porta le brucia le mani. Ma
badi a non lasciarlo cadere, come quando
per accodarsi alle potenze chiama pace la
guerra.
Differenza – Il malato sente, come nessun
altro può sentire, che la sua barca è incorsa in uno scoglio e si va sfasciando. Mentre si sente affondare, ha attorno persone
che lo assistono, sono buone, lui vede che
soffrono, ma la loro navigazione continua.
Si alternano tra la vicinanza al suo affondare e la loro vita normale, attiva. Arrivano al suo letto dal lavoro, dalla vita, e a
queste cose ritornano quando si allontanano da lui. Vanno e vengono dalla vita
alla morte, in cui il malato sta scivolando.
Nessun’altra differenza tra noi umani è più
grande di questa. Ognuno muore solo.
Elogio dell’ombelico – Ora che le ragazze
lo mostrano al sole, per obbedire alla moda
(più forte della legge) bisogna pure parlare dell’ombelico. Diciamo con disprezzo
«guardarsi l’ombelico» per dire chi non
guarda più in là di sé. In realtà, se lo guardiamo bene, ci porta molto in là. Possiamo nascere senza camicia né fortuna, mai
senza ombelico. Nasciamo con quella cicatrice, l’unica naturale. Ci ricorda continuamente che non ci siamo fatti da soli.
Certi arrivisti credono di non averlo. È la
firma di nostra madre, per ricordarla per
sempre. È la traccia di quel cordone che ci
ha nutriti e formati, l’ultimo anello di una
catena di carne viva, che ci unisce, man
mano, a tutta l’umanità. No, non è da stupidi guardarsi l’ombelico. Vederne per strada, invita a pensare.
Età – I settantenni mi parevano molto vecchi. Ora ho settant’anni. Grazie a Dio, sto
bene e lavoro. Ma vecchio lo sono. Ho l’età
di Berlusconi. Se va tutto molto bene, abbiamo davanti dieci veloci anni, forse
meno, di più è poco probabile. Se potessi,
vorrei dirgli: «La nostra non è più l’età delle
ambizioni, ma delle riflessioni. Non le
pare, cavaliere?». È il modo migliore per
essere ancora un po’ utili agli altri. Perché
l’utile giusto è sempre quello degli altri.
Anche questo vorrei dirgli.
Ieri e oggi – Andiamo indietro nel tempo e
pensiamo come furono ciechi sordi e tardi
nel (non voler) capire fascismo e nazismo.
Torniamo ad oggi. Non stiamo facendo lo
stesso con le violenze odierne?
Leggere – Bravissimo quel critico che disse, di uno di quei libri fatti solo per mungere tanti soldi al pubblico: «Non l’ho letto, e non mi piace niente!».
Parole – Parliamo senza pensare. Barella
vuol dire piccola bara.
Politica – Vedere uomini «politici» che,
prima di essere cercati per essere in-caricati (cioè caricati di un peso), «aspirano»
a posti importanti, fa disperare della politica, e di chi la fa. Ma non è onesto dimenticare quanti vi si impegnano con vero spirito di servizio. Platone proponeva di eleggere quelli che non vogliono essere eletti.
Prescrizione – «Lei è colpevole, ma il suo
reato lo ha commesso troppo presto. La giustizia non ha fatto in tempo a punirlo. Vada
pure, ma non si vanti di essere innocente».
Resistere – Pochi resistono al solletico senza ridere. Ancora meno quelli che resistono all’adulazione senza sorridere di compiaciuta ridicolissima vanità. Confessiamolo. Ben altra cosa è un complimento sincero e amico.
Vita – Non sai quanta vita ha dentro un
vecchio. Molta nel cuore, poca di fronte.
Bisogna prevedere anche triboli amari,
dolori disperanti, perdite vaste. Sarà la
sfida tra la fede antica e l’orizzonte che
si chiude, la notte prima del giorno. ❑
51
ROCCA 15 LUGLIO 2006
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
umana. Nello stesso tempo, è un appello
diretto alla nostra libertà e fedeltà creativa, perciò è il contrario di ogni passività e
rassegnazione. Se uno dicesse che ‘spera’
in Dio e nella Vita eterna, tanto che non
sente il bisogno di muovere un dito, e non
è né lieto né triste, e non gl’importa nulla
che le cose vadano male o bene…, questa
roba non è speranza, è solo un alibi per la
passività e la rassegnazione, per la propria
sostanziale sfiducia nella storia e mancanza assoluta di solidarietà con gli altri.
Forse non esiste la speranza ‘collettiva’ (la
disperazione collettiva può esistere, invece), ma esiste la speranza comunitaria, che
è una cosa diversa.
non la verità meteora lontana
il Dio recluso
Questo lamento si coglie facilmente non
solo all’alto livello filosofico, ma in esperienze più umili. Credo che ognuno di noi porti
con sé ricordi di risposte che suonano addirittura prepotenti di fronte ad angosce
giovanili vissute nelle inevitabili crisi di
fede. E così non sentendosi accolti, credere
o lasciare. Le risposte di questo tipo sono
proprie di quei credenti nei quali la «verità» non ha compiuto la sua funzione liberante. Per rispondere con amore bisogna
che si avveri la promessa dello Spirito: la
verità vi farà liberi. Non la verità metafisica, meteora lontana nello spazio, ma quella definita come fare la verità nell’amore (Ef.
4,15).
Il progresso del pensiero filosofico, un vero
bagliore nel tramonto dell’occidente, richiede di ripensare come trasmettere il messaggio di fede in un linguaggio adatto ad un
pensiero filosofico che si è staccato dal metodo metafisico e si è avvicinato all’esistenza degli uomini e alla loro responsabilità di
essere al mondo. Lévinas ha dichiarato la
fine della filosofia (come metodo metafisico) e il suo sbocco nell’etica. E questo farà
più stridente e inaccettabile il comportamento di persone che si dichiarano cristiani di fede e sono allo stesso tempo responsabili di pratiche economiche e politiche che
esportano progetti che causano l’estensio-
L’occidente è giudicato oggi dal fallimento
dei progetti politici creati al di fuori e al di
sopra dell’uomo in questa cultura caratterizzata dalla ricerca degli assoluti: lo stato,
la razza, il mercato, il proletariato, usato
come l’armadio contenente la camicia bianca e la cravatta, con cui rivestire l’operaio;
il Dio celeste recluso nelle accademie teologiche e filosofiche. Per salvarlo dalla sua
passione per i bassifondi. La chiesa e la società politica sono messi in crisi da questo
epilogo culturale, altro che conflitto di civiltà. Una risurrezione è possibile solo rispondendo ai veri bisogni umani gridati dai
poveri che chiedono pane, e dai sazi di pane
gettati fuori dallo spazio occupato dagli
oggetti della tecnica. Una fede che non è
capace di formare l’uomo dell’amore, è una
fede morta; diventa concetti che sono strali
da lanciare contro nemici.
Galimberti ci lancia una sfida: «sembra che
questa terra della sera, dopo aver fornito
nella sua storia bimillenaria numerose soluzioni filosofiche al dolore e alla meraviglia dell’homo sapiens, oggi vada altrove a
cercare la proprie risposte pensando così
l’impostazione e il senso filosofico delle
domande». C’è un silenzio rispettoso dei filosofi che hanno capito che i grandi sistemi sono la causa di questa apparente fecondità dell’occidente, che ha negato lo spazio
CERCATE ANCORA
la verità come amore
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Arturo
Paoli
52
A
ll’epilogo di una lunga vita vedo
con sempre maggiore chiarezza di
essere stato accompagnato, e talvolta inseguito, da una grazia dello Spirito. Quella di non abbandonare mai la ricerca del
pensiero filosofico e l’esperienza della vita,
come componenti della spiritualità. Per
questa fedeltà mi sono dovuto spesso spostare da un impianto statico del messaggio
biblico a quello richiesto dal progresso della storia. Ho sentito particolarmente l’importanza e la gioia di questa grazia in un
breve ritorno in Brasile, l’ultima tappa del
mio percorso lungo oltre quarant’anni in
America Latina.
Questi ritorni sempre ricchi di emozione mi
promettono la sorpresa, sempre meno sorpresa, di trovare la pratica cristiana espressa in una forma borghese, separata dall’impegno profetico di mettere al primo posto,
anteriore alla preghiera e all’adorazione di
Dio, il diritto e la giustizia. È la forma propria delle sette che disperdono nell’aria il
grido dei poveri, che pure decise la discesa
di Dio nella storia dell’uomo. La mia speranza non è del tutto delusa perché so che
le comunità ecclesiali di base (Ceb) vegliano nel silenzio attendendo il momento opportuno di rientrare nella storia reale del
continente latino americano, ancora dipendente ed oppresso. Sono sicuro che l’America Latina è la parte dell’occidente destinata a una inculturazione del messaggio cristiano più incarnato, più realista, più storico, e più libero dalle mostruose contaminazioni politiche ed economiche che hanno tolto vigore al messaggio di giustizia e
di pace che il Cristo ha gridato dalla croce
al Padre e all’umanità.
Mi permetto a questo punto una lunga citazione di un pensatore che il filosofo Galimberti ha presentato alla mia ricerca che
non è curiosità ma bisogno. Un bisogno di
equilibrio in un ambiente che scompensa
continuamente la nostra stabilità mentale,
per le incoerenze macroscopiche dove ci
aspetteremmo di trovare coerenza e insegnamento. «È una sofferenza della mia vita
che si affatica nella ricerca della verità, il
constatare che la discussione con i teologi
si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro,
affermano qualcosa di incondizionato, di-
all’uomo e di conseguenza grandi parole
come amore, libertà, pace, che sono le mete
additate dal Vangelo, appaiono sempre più
lontane. Il Dio amore, nascosto e rivelato
nell’uomo Gesù che ha scelto l’ultimo posto, oggi appare come la sola speranza di
un mondo più veramente umano. I dogmi
rappresentano una definizione che non si
può facilmente trascurare, ma non impediscono assolutamente il dialogo fraterno e
l’ascolto paziente dell’altro. Restano nel fondo delle nostre convinzioni ma non appaiono come strumento per sconfiggere un
avversario.
Nel vero amore si cela la verità, mentre è
possibile una verità spogliata dall’amore. La
storia delle inquisizioni lo dimostra abbondantemente.
vivere la verità come amore
Il compito dei laici cristiani che oggi vivono in un mondo sempre più pluralista religiosamente e culturalmente, è quello di vivere la verità nell’amore e riscoprire nel
Cristo il vero autentico progetto, quello indicato da Theilard de Chardin «amorizzare
il mondo». L’amore, dicevano gli antichi
greci, è lo sposo di Penia, che significa povertà e per questo non è compatibile con
posizioni di superiorità ed orgoglio. L’amore chiede con umiltà di essere accolto, non
comanda. Il vivere la fede come amore non
vuol dire rinunziare ad una fede dottrinale,
ma vuol dire averla assimilata così definitivamente nella vita che la verità si è come
fusa nell’amore.
E questo cambia sostanzialmente un metodo pastorale che ha la sua espressione fondamentale nella dottrina. Il prete di domani più che maestro deve diventare compagno di cammino dell’uomo che, ferito dall’amore, cerca di metterlo nella storia di tutti
gli incontri. Lévinas parla di uno sbocco
della filosofia nell’etica che vede come inevitabile. E credo che analogamente debba
avvenire nella religiosità vissuta, uno sbocco nella mistica. Sono molti quelli che vedono il futuro del cristianesimo come contemplazione e mistica. Quando la pubblicità entrerà in crisi, la tentazione dei pastori
di servirsene tramonterà. Il cristianesimo
si farà più silenzioso e più profondo, sarà
trasmesso non dalle parole dei credenti ma
dalla loro vita. E le parole non diffonderanno più separazione ma unione e pace. E
questo è il nostro sogno e l’utopia che vogliamo trasmettere specialmente alla generazione di domani.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
scorrono amichevolmente senza avere realmente presente ciò che prima s’era detto
e alla fine non mostrano alcun autentico
interesse per la discussione. Da una parte,
infatti, si sentono sicuri, terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altra, pare loro
che non valga la pena prendersi cura di noi,
uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo
richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione fideistica, in quanto enunciata nel
linguaggio umano, in quanto rivolta a soggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo
esteriormente a parole, ma dal profondo di
noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio
contenuto di fede (1)». Così scrive Jaspers.
ne della miseria e della morte di esseri umani che crediamo chiamati alla vita dallo stesso Padre che noi adoriamo. Vogliamo una
società cristiana per uomini cristiani e non
cristiani che vivono in una società che cancella il Vangelo nella prassi di vita.
Il Dio cristiano sembra sfuggito dalla reggia costruita per lui, ed è stato Benedetto
XVI ad affidare Dio al mondo come amore.
Prima di lui il filosofo ebreo Lévinas, chiamato a partecipare ad un congresso di professori francesi cattolici per rispondere alla
domanda: un Dio uomo? ha messo in luce
un Dio uomo spogliato di ogni potere. Questo pensatore che ha dichiarato la fine della filosofia, scopre il potere vittorioso del
Dio svuotato, ridotto ad una tale condizione di povertà da sentirsi fra gli altri senza
luogo dove stare, senza sapere dove posare
il capo, che non osa chiedere quasi il diritto di esistere fra gli altri. Profeticamente
Lévinas ha visto che l’impero della tecnica
e dell’idolatria del mercato può essere vinta e sradicata per sempre solo da questa
suprema umiltà vissuta nell’uomo Gesù. Il
filosofo ebreo raggiunge l’intuizione di
Charles De Foucauld quando scopre l’ultimo posto scelto da questo amico che improvvisamente sbarra il cammino della sua
esistenza.
Arturo Paoli
(1) Jaspers, La fede filosofica, Marietti, citato
da Galimberti in La casa di psiche, Feltrinelli,
pag. 360.
53
TEOLOGIA
pluralismo
sinfonia
differita?
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Carlo
Molari
54
olti rappresentanti delle religioni impegnati nel dialogo
hanno cercato per molto tempo di fissare i possibili punti
comuni su cui poggiare il dialogo interreligioso e i criteri di
metodo per un confronto fruttuoso. Sembrava infatti necessario partire da una piattaforma comune che consentisse lo scambio di esperienze. Anche i teologi cristiani
furono indotti a ricercare un fondamento
universale. Per i cattolici il Concilio Vaticano II aveva indicato due riferimenti essenziali: l’unica origine e l’unico fine del
genere umano fondati sull’unità di Dio creatore/salvatore. Nella dichiarazione sulle
altre religioni ha scritto: «Tutti i popoli
costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto
abitare l’intero genere umano su tutta la
faccia della terra; essi hanno anche un solo
fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza,
la testimonianza di bontà e il disegno di
salvezza si estendono a tutti» (NAe 1).
Questo tema è stato ripreso più volte negli
anni successivi dai documenti del magistero romano. In particolare Giovanni Paolo
II ha richiamato anche i semi del Verbo e
soprattutto la presenza attiva dello Spirito nelle altre religioni. Nella enciclica
Redemptoris Missio (1990), ad es., scrive
che «la presenza e l’attività dello Spirito
non toccano solo gli individui, ma le società, i popoli, le culture, le religioni» (n.
28). Questo modo di fondare il dialogo consentiva ai cristiani di riconoscere anche
nelle altre religioni elementi appartenenti
alla propria struttura religiosa e anche altri estranei alla propria tradizione in virtù
della stessa azione del Verbo eterno e dello Spirito che in Gesù Cristo ha raggiunto
M
alla ricerca del criterio di unità
Alcuni teologi hanno giudicato questo modo
di esprimersi troppo cristiano per costituire una base di dialogo con altri. Hanno quindi creduto di stabilire il riferimento a Dio,
quale unico e comune principio della realtà e della storia (teocentrismo), prescindendo completamente dal riferimento a Cristo
anzi negando una sua funzione salvifica
unica e universale, come è stata proposta
da sempre nella tradizione cristiana. In particolare il protestante John Hick ha difeso
con molta insistenza questa ‘rivoluzione
copernicana’, come egli l’ha definita. Tra i
cattolici Paul F. Knitter, ha assunto una
posizione analoga ma meno polemica e radicale nel volume Nessun altro nome? (GdT
207 Queriniana Brescia 1982 trad. parziale). I due teologi organizzarono un convegno per analizzare questa prospettiva i cui
atti sono stati tradotti anche in italiano dalla
editrice Cittadella (1994 ediz. originale
1987): L’unicità cristiana: un mito? Per una
teologia pluralistica delle religioni.
Ben presto però anche il riferimento a Dio
è apparso inadeguato per un dialogo con
coloro che non utilizzano un concetto personale di Dio, come i seguaci di alcune religioni orientali. Alcuni perciò, hanno preferito parlare di Regno di Dio (regnocentrismo) come elemento comune su cui instaurare un dialogo. È stato però notato
che «Regno di Dio e la sua giustizia è una
locuzione vacua se non le viene dato qualche contenuto normativo sia esso cristiano, junghiano o buddista» (Gavin D’Costa).
Altri, perciò, hanno creduto necessario scegliere un orizzonte esclusivamente antropologico spesso tradotto con il termine di
benessere umano o di salvezza umana (soteriocentrismo). Claude Geffrè ad esempio
parla dell’«umano autentico» come «criterio di unità tra tutte le religioni». Per
precisare la sua formula egli distingue un
criterio etico e un criterio mistico ed osserva: «Tutte le religioni, … sono, per lo
meno in senso molto generale, delle religioni di salvezza nel senso che sono alla
ricerca di una liberazione in rapporto a
quello che è il limite dell’io o il limite del
mondo delle apparenze per contrasto con
la Realtà ultima». (Credere e interpretare.
La svolta ermeneutica della teologia, (GdT
288), Queriniana, Brescia 2002 p. 123 ed
orig. Du Cerf, Paris 2001). In questa linea
va anche letta la proposta di Hans Küng
per un progetto mondiale di principi etici
(Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli,
Milano 1991). Molti però osservano che il
concetto di salvezza è troppo generico e
che i principi etici come anche i diritti della persona, sono formulati secondo i modelli della cultura occidentale così da suscitare il sospetto di un nuovo imperialismo. I timori che «sia in agguato una forma di imperialismo divengono veri e propri incubi quando alcuni critici passano a
mettere in evidenza che il vangelo che i sostenitori di tale modello vanno predicando
alle altre religioni appartiene non soltanto
all’Occidente, ma a quelle culture e nazioni
che già esercitano il loro predominio sulla
maggior parte del mondo» (Knitter P. F.,
Introduzione alle teologie delle religioni (GdT
315) Queriniana, Brescia 2005 p. 323).
alla fine dei tempi
Per le difficoltà notevoli incontrate nel dialogo interreligioso non pochi teologi, sono
giunti alla convinzione che allo stato attuale è inutile ricercare un comune orizzonte per il dialogo fra le religioni. Occorre praticarlo nella convinzione che dialogando si potrà forse pervenire un giorno a
scoprire un fondamento comune, senza la
pretesa di anticipare i tempi. Forse solo alla
fine del cammino sarà possibile ritrovarsi
insieme nella dimensione definitiva dell’esistenza umana.
Nel mondo protestante George Lindbeck
soprattutto nel volume Natura della dottrina: religione e teologia in un’epoca postliberale (Westmunster Press, Philadephia 1984)
sostiene che in realtà non vi è nulla di comune tra le religioni. Seguendo un approccio
culturale e linguistico egli sostiene che ogni
cultura come ogni religione ha il suo linguaggio e utilizza i suoi simboli attraverso i quali
crea il suo mondo e struttura l’ambito della
propria esperienza. «Diversamente da altre
prospettive, questo approccio non propone
alcuna cornice comune» (o. c. p. 49). Come
non esiste un linguaggio generale, ma solo
linguaggi particolari, così non esiste una
struttura religiosa comune o generica, ma
ciascuna offre modelli e linguaggi propri.
Ogni religione offre esperienze specifiche,
come tali incomunicabili. Occorre perciò che
ogni religione accetti le altre come ambiti di
esperienze significative per coloro che le vivono. Ma soprattutto occorre che ciascuno
viva la specificità della propria esperienza
religiosa senza presumere di adattarne la
prospettiva a quella delle altre religioni e tanto meno di volere utilizzare un paradigma
comune, che potrebbe non esistere.
Occorre praticare il dialogo «come politica
di buon vicinato» nella convinzione di un
valore che ciascuno deve conservare riconoscendo la legittimità delle altre ricchezza
religiose. Per alcuni la prospettiva da tenere
presente è solo quella escatologica. Occorre
camminare nella storia attendendo la fine
per ritrovarsi insieme nella dimensione definitiva di vita. In ogni caso occorre lasciare
a Dio i tempi e i modi di una eventuale perfetta armonia tra le diverse religioni.
Fra i cattolici Christian Duquoc propone in
modo insistente e articolato un’analoga convinzione con la metafora della sinfonia differita. Egli sostiene di avere ormai «abbandonato qualsiasi riferimento ad un contenuto
unificante» per il dialogo religioso (L’unico
Cristo. La sinfonia differita, (GdT 298) Queriniana, Brescia 2003 p. 145). Secondo lui
«il teologo cristiano può accettare che il
frammento rimanga frammento: è il modo
di prendere atto della molteplicità delle religioni; senza tradire le proprie convinzioni, egli può rinunciare ad una realtà unificatrice, concettualmente designabile» (o. c.,
p. 144). Precisa poi: «Ciascuna religione è
frammento nel senso che fa parte della sua
essenza di non poter dominare l’ambivalenza positiva e insieme negativa del presente.
Ciascuna ne suggerisce la profondità nella
misura in cui gli permette di fare segno. Ciascuna entra in capacità di dialogo nel momento in cui accetta di non dominarlo, di
non abolirne la distanza» (o. c., p. 145).
In questa prospettiva viene affermata con
chiarezza la possibile funzione salvifica delle religioni e la loro convergenza verso una
pienezza non ancora realizzata da nessuna
di esse, neppure dal cristianesimo. Possiamo aggiungere che riconoscere il valore positivo delle diverse religioni e accettare la loro
funzione nell’ambito in cui viene vissuta,
implica oltre al rispetto e alla politica di buon
vicinato, anche la possibile convergenza operativa in ordine al benessere comune, alla
pace e alla giustizia nel mondo.
Nonostante la suggestione e la validità delle
proposte esaminate ritengo sia un dovere per
noi cristiani di continuare a riflettere sui dati
biblici, sulle intuizioni dei Padri e sulle acquisizioni della pratica del dialogo, convinti
che la Verità racchiuse nelle loro formule è
più profonda delle nostre interpretazioni,
come spesso è apparso dai cambiamenti
anche radicali, verificatisi in teologia.
La fiducia in Dio, per i discepoli di Gesù,
si traduce nella certezza che la pratica del
dialogo consentirà la scoperta di nuove vie
da percorre insieme agli altri credenti verso la Verità.
(continua)
ROCCA 15 LUGLIO 2006
un’espressione suprema.
Carlo Molari
55
CINEMA
EVA E LE SUE SORELLE
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Lidia
Maggi
56
S
ulla sedia del parto, formata da due
pietre distanziate, Rachele, in travaglio, spinge. Mani forti di levatrice accolgono il neonato. I gemiti e le grida
si smorzano col pianto del bambino.
Il dolore scompare. Le lacrime
di gioia sostituiscono quelle della sofferenza.
Ora il cordone è reciso, la placenta espulsa e
la pelle del piccolo viene frizionata con il sale
perché si rafforzi. Fasciato in morbido lino, il
bimbo riposa quieto sul seno della madre.
Sono tantissimi nella Scrittura i riferimenti
al parto. A questa immagine attingono i profeti per dire la fede ed il profondo rapporto
con Dio, spesso attraversato dal dolore. Il linguaggio delle doglie diviene allora una metafora imponente. Non solo per evocare una
speranza in cammino (la creazione che geme
in attesa della redenzione); ma anche per esprimere l’impossibilità di frenare il processo,
denunciare un punto di non ritorno, proprio
come nel travaglio. Quando le doglie iniziano, chi può arrestarle? La metafora serve dunque per dire l’ineluttabilità di una situazione.
Sarà soprattutto la tradizione profetica a ricorrere alla metafora del parto per annunciare salvezza o giudizio. Tanti sono i parti
nella storia della teologia biblica. Il parto veloce di Sion, che annuncia la salvezza: «Eppure Sion, appena entrata in doglie partorì i
suoi figli» (Isaia 66,8).
A volte la metafora è usata per dire un sentire
di Dio, per lo più inarrestabile: «Ho conservato il silenzio per lungo tempo, ho taciuto,
mi sono contenuto. Ora gemo come una
partoriente, sospiro e sbuffo insieme...» (Isaia
42, 14).
Alcuni parti presentano patologie e servono
al profeta per descrivere le resistenze alla salvezza del popolo e la sua conseguente
autocondanna a morte: «Le doglie del parto
arrivano per lui, ma egli è un figlio senza senno, poiché è giunto il tempo, ma egli non viene fuori dal ventre materno» (Osea 13,13).
Il parto dunque, con il suo processo
inarrestabile, le doglie e la gioia della nascita, diventa una delle categorie profetiche per
dire la relazione tra Dio e Israele nei diversi
momenti storici.
Se il partorire ha chiaramente una
connotazione di genere, l’evento del nascere
riguarda ogni creatura. Ogni individuo nasce con un parto. Questo fragile ingresso nel
mondo viene spesso evocato nella Scrittura
per riflettere sul senso della vita e riacquistare fiducia in Dio. Accanto ai grandi memo-
riali della storia del popolo, come l’esodo, la
creazione, il dono della Torà, si aggiunge anche questo, più squisitamente antropologico.
Esso non occupa certo la scena centrale della narrazione sacra, tuttavia è presente, spesso volutamente tematizzato. È come se il parto, con le sue caratteristiche di fragilità e dolore, servisse di continuo da memoriale per
non rimuovere la morte e la fragilità dell’esistenza: «Anch’io sono un uomo mortale come
tutti e discendente dal primo essere plasmato di terra. Fui scolpito nel seno di una madre di carne. Coagulato nel sangue in dieci
mesi. Dal seme maschile e dal piacere di un
sonno. Appena nato anch’io ho respirato aria
comune e sono caduto su una terra che ha le
medesime condizioni essendo come per tutti, il pianto del neonato la mia prima voce.
Fui allevato in fasce e nelle preoccupazioni.
Nessun re ebbe diverso principio di nascita;
eguale è l’ingresso di tutti nella vita e eguale
la dipartita» (Sapienza 7,1-6).
A parlare è il re Salomone, o meglio la maschera che lo rappresenta con un’ironica confessione antropologica, ricca di nozioni mediche sulla fecondazione, la gravidanza, il parto fino allo svezzamento. Audace il riferimento
al fragile piacere sessuale che accompagna
ogni nascita: esperienza poco mitica e molto
biologica. È uno strano re che non esibisce
nobili genealogie. Si riconosce invece simile
a tanti altri. Il riferimento al parto rappresenta qui un livellamento sociale, una porta che
abbatte qualsiasi differenza e rende comune
ogni essere umano. Non solo la morte segna
la comunanza con il destino umano, ma anche il fragile ingresso nella vita attraverso il
parto. Nemmeno il re è esentato da tale inizio. Qui l’evocazione della nascita riconcilia
con la fragilità della vita e crea un legame col
destino comune di tutti gli esseri umani.
Nasciamo tutti nello stesso modo, veniamo
tutti da un ventre di donna, abbiamo tutti gli
stessi bisogni: bisogno d’amore, di essere accolti e nutriti da un seno caldo. Eppure solo
alcuni nel mondo trovano braccia avvolgenti
e un ambiente sicuro dove crescere. Sbattuti
sulla nuda terra molti bambini non sopravvivono alla fame e alle malattie, alle guerre e
alle violenze domestiche. È un effetto
collaterale della moderna civiltà. Chi restituirà loro i giorni non vissuti, chi renderà
loro ragione della vita rubata? Chi li strapperà dall’anonimato per dar loro un nome, una
storia? Chi consolerà le tante Rachele che
piangono i figli che non sono più?
C
on una serie veramente inesauribile
di sorprese, una
dentro all’altra, di ogni genere, il regista Spike Lee ha
realizzato questo Inside
Man, un film di ampie vedute avventurose. E non è
facile raccontare una trama che, sotto gli occhi dello spettatore, cambia continuamente strada: vuole
cambiare, si capisce.
Alcuni individui vestiti da
imbianchini si introducono abilmente in una grande banca nel centro di New
York, super controllata e
super custodita, impadronendosi subito di un gruppo di ostaggi – impiegati e
clienti – minacciando terrore e morte. Il detective
Frazier viene incaricato di
condurre le trattative, fino
a che il capo della banda gli
comunica che per chiudere la faccenda vuole gli siano messi a disposizione
un autobus sulla strada
(per trasportarvi gli ostaggi) e un jet all’aereoporto.
Ma, come abbiamo accennato, tutto si complica. Il
presidente del consiglio di
amministrazione – in realtà il proprietario della banca – l’anziano, ricchissimo,
temutissimo Arthur Case, è
preoccupato soprattutto
della sua cassetta di sicurezza (custodita nel caveau
della banca) nella quale
conserva un qualcosa che
è per lui prezioso. Case incarica una dipendente della banca, giovane e spregiudicata avvocatessa, che lui
conosce per curriculum e
informazioni interne, di
«salvare», mantenendo
ogni segreto, quel suo misterioso tesoro, di cui non
le rivela la natura.
Se fin qui sembra sia tutto
abbastanza chiaro, è d’ora
in avanti che le cose si complicano, perché il detective
Frazier, a sua volta con un
passato non limpidissimo,
a mano a mano esclude che
la banda voglia rapinare la
Colpi di scena
Inside Man
banca, e anch’egli si indirizza verso la misteriosa cassetta di sicurezza numero
392. Altrettanto l’avvocatessa, grazie a Case, viene introdotta dal Sindaco (!) nella banca, con poteri superiori a Frazier e a tutta la
polizia, limitandosi lei a
promettere a Frazier una
promozione di grado, per
ringraziarlo della collaborazione. In effetti lei trova
nella cassetta un documento da cui risulta che, durante l’ultima guerra, il signor
Case, ebreo, ha fatto fortuna trafficando coi nazisti a
danno dei propri correligionari. È questo il documento che Case – ovviamente! –
non vuole divenga pubblico, c’è di mezzo tutta la propria fortuna (sembra addirittura che egli sia proprietario non di una soltanto,
ma di altre banche).
Intanto all’interno della
banca la situazione è sempre molto tesa: gli ostaggi
sono maltrattati, picchiati,
il comportamento dei banditi risulta spietato, il loro
ultimatum non cambia.
Ma, andando avanti (senza
pretesa, come abbiamo av-
vertito all’inizio, di dare una
precisa continuità logica a
una trama volutamente
smontata e tagliata in disordine), vediamo addirittura
gli interrogatori successivi
alla fine dell’avventura di
alcuni degli ostaggi, da parte di Frazier. Allo stesso Frazier a un certo punto l’inchiesta viena tolta per essere affidata al capitano della polizia (questi è in divisa, mentre Frazier veste
sempre in abiti civili): Frazier viene infatti incolpato
del brutale assassinio di un
ostaggio, da parte dei banditi, addirittura nel corso di
una «diretta» televisiva.
Per tentare di avvicinarci
alla fine, diremo che l’assassinio era finto, così
come le varie brutalità dei
banditi; diremo che non un
soldo è stato tolto dalla
banca; che, oltre al documento, nella famosa cassetta 392 era contenuto un
anello sottratto a suo tempo da Case a una ricca e famosa famiglia ebrea perduta in un campo di sterminio; che lo stesso Frazier
va a trovare Case mostrando di sapere tutto di lui e
del suo passato.
Negli interrogatori ai quali si è accennato affiorano
continui sospetti da parte
di Frazier nei confronti di
ostaggi, che sono stati prigionieri della banda, a ogni
passo sospettati a loro volta di chissà quali complicità, affiorano allusioni a
coinvolgimenti arabi, non
di rado allusioni di carattere paradossale e quasi
comico – per uno spettatore appena «critico» – che
si ritorcono su un giudizio
non nascosto di stupidità
nei riguardi dell’intero sistema investigativo.
In realtà Spike Lee, che è
un regista di pelle nera,
dotato (anche come attore)
di ottime capacità umoristico-satiriche, e di molta
spregiudicatezza narrativa, mette in piedi una macchina che via via si arrovella su se stessa fino a volere
continuamente sorprendere o addirittura contraddirsi. Ci sono volute allusioni
ironiche alla psicosi postundici settembre, c’è una
chiara citazione dell’invadenza televisiva e delle intromissioni politico-psicologiche, c’è dunque un ovvio mescolamento di carte
e di situazioni. E mentre i
primi tre quarti del film
procedono su una avventura tutto sommato di routine, sia pure con le caratteristiche di originalità negli
avvenimenti e soprattutto
nel montaggio che il regista intende offrire, la parte finale è davvero sovrabbondante e caotica.
Il racconto è costruito con
un gruppo di attori di primissimo ordine, ciascuno
ha un suo ruolo-cliché: se
Christopher Plummer è un
impeccabile Arthur Case,
Denzel Washington è un
bravo Frazier, Clive Owen è
il capo dei banditi, Jodie
Foster è l’avvocatessa, Willem Dafoe il capitano di polizia.
❑
57
ROCCA 15 LUGLIO 2006
partorire e nascere
Giacomo Gambetti
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Agenda del mondo
Senza parole
ROCCA 15 LUGLIO 2006
L
a compagnia teatrale Quelli di Grock sta
riscoprendo una
vena congeniale al proprio
stile (clownesco e circense) nei testi cosiddetti
d’avanguardia dell’ultimo
secolo. Dopo la felice prova con Beckett (Aspettando Godot), è ora la volta di
Ubu re di Alfred Jarry, autore francese di fine Ottocento, morto prematuramente ma non tanto da
non lasciare il segno nel
teatro europeo contemporaneo.
Tra il decadentismo e il
simbolismo, Jarry se ne distacca creando un grottesco emblema del totalitarismo qual è quella grossa
marionetta semovente che
è il personaggio di Ubu. Il
suo aspirare alla conquista
del potere a qualsiasi costo
non può certo essere accostato ai tragici greci né ai
cicli shakespeariani e neanche anticipa il didascalismo brechtiano. Eppure
la sua forza vien proprio
dal far finta di prendere sul
serio ciò che serio non è, e
viceversa. In tal senso mi è
piacita la riduzione registica a quattro mani di Susanna Baccari e Claudio
Orlandini, che del testo di
Jarry han fatto un grande
gioco di ritmi e di colori,
di gestualità e vocalità esasperate.
In questo – tra i bamboleggiamenti e le infantili coprolalìe dei protagonisti
(non va dimenticata Madre
Ubu, degna consorte del
«grande dittatore») – i due
registi sono stati ben assecondati dai geniali costumi, scenografie e oggetti di
scena che Carlo Sala ha
ideato e realizzato con la
collaborazione degli allievi dell’Accademia di Brera.
Nondimeno caratterizzano con efficacia la messin58
scena le coinvolgenti musiche di Gipo Gurrado.
Uno spettacolo, quindi,
piacevole e intelligente
sul quale permane solo
qualche perplessità. La
prima è che l’aver affidato più personaggi agli
stessi attori (i bravi Pietro De Pascalis, Marco
Oliva, Manola Vignato e
Max Zatta) rischia di rendere ancor più oscura la
«trama» originale ch’è già
volutamente aggrovigliata. La seconda è che lo
spunto letterario dell’autore è reso con tale precisa tridimensionalità corporea e oggettuale da apparire quasi superfluo
(ciò che invece non è o
non dovrebbe essere).
Analoga considerazione
su un teatro che può essere «senza parole», me l’ha
offerta un bel laboratorio
del Teatro delle Biglie: Il
sogno di Jonathan (adattamento del famoso Gabbiano Jonathan Livingston di
Richard Bach) diretto, al
Politecnico di Milano, da
William Medini – anch’egli, e non a caso, di
dinastia circense – con la
collaborazione di Riccardo Mazzarella.
Anche qui gli echi – ben
recepiti – dalle modalità
corporee di Pina Bausch e
della «povertà» di Peter
Brook fanno sì che i venticinque giovani attori e
attrici in scena riescano
ad esprimere con movimenti, luci e musiche di
sottofondo il senso del testo originario (ormai un
po’ datato letterariamente) che appare così quasi
superfluo.
Riflessioni sulle quali varrà forse la pena di ritornare.
❑
C
i sono programmi
che si trovano soltanto spigolando negli
angoli di palinsesto. Agenda
del mondo è in un angolo addirittura nascosto: dopo l’ultima edizione del Tg3 (di cui
è uno speciale), con inizio all’incirca alle 0.15, per un solo
quarto d’ora, una sola volta
la settimana, nella notte del
sabato.
Val la pena guardarlo. O registrarlo. O cercarlo su RaiClik, anche attraverso il sito
internet della Rai. Per altro
spesso accade che solo guardandolo o cercandolo si scopra di quale monotema o su
quali spezzoni tematici faccia perno questa o quella
puntata.
La caratterizzazione degli
argomenti riguarda, come da
ragione sociale, il quadro internazionale e quelle sue dimensioni politiche e culturali
che – poco dette, ancor meno
indagate – sono le cause, le
ragioni ed i motivi di molti
degli eventi di cui, quotidianamente si hanno i riflessi
informativi di superficie: passano dalla situazione di Gaza
«ai tempi di Hamas» (oggi,
insomma) alla vicenda del
Sub-Comandante Marcos
(che non è soltanto folklore),
da reportages su regioni interne della Russia (l’Altari,
terra d’origine degli Sciti) alla
vicenda degli scacchi, vietati
dai Talebani e riconquistati
da un ragazzino afghano appena giunto in Italia, dal ricordo di Sabra e Chatila (due
campi palestinesi luoghi di
strage ad opera di milizie cristiano-maronite libanesi, con
copertura dell’allora «falco»
Sharon) alla presenza dei latinos nel nord-America.
Spesso anche i titoli hanno
qualche piacevolezza: La ballata della migra, L’isola dei
non-famosi, In piazza con
Julie… Mentre dal punto di
vista del «genere» si passa dal
servizio giornalistico (verrebbe da dire classico, tanto que-
sta modalità risulta scomparsa) con interviste, commenti e, persino, raccordi
musicali, al microdocumentario, con belle immagini e
voce narrativa fuori-campo,
in cui il giornalista compare poco, al più come figura
d’appoggio all’intervistato,
mai facendo il proprio commento – sguardo in camera
– sullo sfondo dell’ambiente di cui si parla.
Il 17 giugno, un po’ a caso,
ché non si davano ricorrenze d’evento, Agenda del mondo ha delineato il quadro
delle interpretazioni complottistiche, a carico del
Governo e/o dei Servizi segreti statunitensi, dell’attentato dell’11 settembre – il
nine/eleven del lessico corrente neo-fondativo americano – contro il World Trade Center a New York.
I 15 minuti sono risultati,
sul tema, più chiari, per informazione su quel che pensano questi ri/lettori (americani) dell’evento, di una
intera puntata di Matrix
(Canale5, conduzione di
Chicco Mentana) dedicata
al medesimo argomento.
Non ci sono stati commenti
su questi commenti fuori
dal coro: le immagini dell’evento hanno fatto da sfondo, i fuori-campo hanno fatto da accompagnamento
alla documentazione di convegni, manifestazioni, pubblicazioni dei gruppi di contro-informazione, gli interventi di questi protagonisti,
pur brevi, non sono piegati
alla logica del 15’’/30’’/45’’,
ovvero al dar la parola per
un attimo solo al testimone
di un fatto (15’’), aumentando questo tempo (30’’) se il
testimone piange, e aumentandolo ancora di più (45’’)
se piange e sanguina. Chi ha
parlato, brevemente, lo ha
fatto in nome di quel che
aveva da dire.
È giornalismo.
❑
FOTOGRAFIA
Michele De Luca
Almagno
N
ella intelligente disponibilità del Soprintendente, Claudio Strinati, l’opera di un
artista contemporaneo che
cavalca la militanza dell’attualità, Roberto Almagno,
è godibile a Roma a Palazzo Venezia, per la organizzazione di Ines Musumeci
Greco. Il giovane Almagno
viene dagli studi con Pericle Fazzini, all’Accademia
di Roma, e già nel 1994 indicai, in una mostra dedicata agli eremi di S. Marco ad Ascoli Piceno, la discendenza di alcune sue
opere dalla iconografia e
dalla geometria naturalistica del Fazzini del Ragazzo con i gabbiani in riva al
mare.
E non si trattava di una ripresa citazionista, si trattava di un omaggio nella
tradizione ad un maestro
riconosciuto. Così questa
odierna grande opera, dal
titolo: «Sciamare», a palazzo Venezia istituzionalizza
quella consapevolezza nella conferma della tradizione ribadita. Non tradizionalismo, ma tradizione.
Così la grandezza quantificabile dell’opera, non
cede al monumentalismo
ma propone una dilatazione dell’idea in cui si informa l’opera. Così l’opera
non va intesa come istallazione essendo l’istallazione
retaggio della tautologia
concettuale. E la tautologia concettuale è assente
da questa poetica di Almagno.
La sua è la poetica del fare
in quanto pensiero del fare
nella tramatura astratta
della idea della figura. In
questo senso l’artista opera una riduzione alla astrazione dell’idea della di-
mostrata figura che infatti non si detta quale figurazione. Ma non si propone neanche come astrazione. E, di più, non si esprime neanche come astratto-concreto, come risoluzione astratta di quel che
è figurativo. Almagno vuole giungere a visualizzare
la energia della idea che
informa l’immagine. Si
tratta per lo scultore di realizzare, con questa opera, «Sciamare», un incrocio tra la dilatazione di
quelle geometrie offerte
dal Fazzini del Giovane
con Gabbiani, con la Città
che Sale del caro Boccioni, facendo roteare al flusso magnetico ed elettrico
della idea la struttura della immagine.
Questa immagine è data
dalla lavorazione del legno
di ornello. E la genialità
degli appigli che consentono ai legni di sfidare la
gravitazione e di imporre
il movimento alla staticità dei fissaggi, esprime la
capacità culturale e dunque linguistica da parte
dell’artista di decidere la
coscienza dell’immagine
senza nascondersi dietro
le capacità artigianali del
lavoro per il lavoro.
Da cui ne consegue la sapienza linguistica della
manipolazione dei materiali, eliminando qual si
voglia retorica del saper
ben usare il mestiere, attraverso cui di solito si fa
passare per buono il decorativismo della superficialità. Roberto Almagno, invece, esprime la profondità del pensiero e con la
profondità del pensiero
esprime l’aspirazione alla
religiosità dell’icona.
❑
Il Ruwenzori
I
l Ruwenzori fu esplorato, giusto cento anni fa’,
grazie ad una spedizione alpinistica sul grande
massiccio africano, guidata da Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi,
che rivelò, grazie soprattutto al contributo della fotografia, una delle regioni
montane più interessanti
dell’Africa sotto il profilo
paesaggistico, botanico e
antropologico. Posta ai confini tra il Congo e l’Uganda,
quest’area è abitata da diversi gruppi etnici di lingua
bantu, tra cui i Bakonzo, i
Banande e i pigmei Bambuti, i quali, pur in una grande varietà di forme di adattamento all’ambiente montano (sviluppando chi l’agricoltura d’alta quota, chi la
caccia o l’allevamento del
bestiame), hanno tratti comuni specie nelle credenze
e nelle pratiche magico-religiose fondate principalmente sulla possessione spiritica.
Una interessante mostra al
Museo della Montagna di
Torino, curata da Cecilia
Pennacini con il coordinamento di Angelica NattaSoleri, ci mette a contatto
con questa realtà geografica ed umana con una selezione di immagini (alcune
delle quali rarissime) che
privilegia l’impostazione
antropologica dell’approccio con le diverse culture
sviluppatesi e tuttora presenti intorno al Ruwenzori. L’esposizione è articolata in due sezioni, con una
sorta di affascinante raffronto tra un ieri ed un oggi
che, scrutati ad un secolo di
distanza, non ci sembrano
poi così distanti tra loro sotto l’aspetto più strettamente etnografico ed economico. Si comincia con la spedizione del 1906, testimoniata dallo splendido reportage di Vittorio Sella, dal
quale paesaggi e popolazioni indigene appaiono in una
dimensione tutto sommato
idilliaca.
Sono le immagini più «realistiche» dell’antropologo
polacco Jan Czekanowski
(nato vicino a Varsavia nel
1882), che partecipa l’anno
successivo alla prima vera
spedizione scientifica nell’Africa equatoriale, a fornirci, unitamente ai suoi
scritti, un quadro socio-etnologico arricchito da considerazioni storiche ed economiche; il suo obiettivo,
come ha scritto Jean-Pierre Chretien, non è puntato
sui «primitivi», ma sulle tipologie umane, sul lavoro
e sulle istituzioni; la sua «è
una visione socio-culturale
e non razziale». Insiste sui
cambiamenti di condizione
legati alle variazioni economiche e sullo sfruttamento
dei «civilizzatori europei».
La sezione contemporanea
si impernia principalmente negli scatti del fotografo
canadese Craig Richards
(curatore del settore fotografico del Whyte Museum
di Banff) realizzate nell’estate del 2005. Si tratta di
raffinate immagini che
esaltano la bellezza naturale dei luoghi e della lussureggiante vegetazione, riprendono il duro lavoro
degli «sherpa» e dei raccoglitori di banane, le danze
tradizionali, la serenità della convivenza familiare e
sociale. Ma il piatto forte,
dal punto di vista fotografico, è quello di una serie
di splendidi ritratti in nitido bianco e nero, da cui
emerge tutta la carica umana e la dignità dei popoli
che vivono ai piedi della
«grande montagna».
❑
59
ROCCA 15 LUGLIO 2006
TEATRO
SITI INTERNET
MUSICA
Enrico Romani
Giovanni Ruggeri
L
ROCCA 15 LUGLIO 2006
60
cita culturale e politica. Ma
mentre gli Enemy si manifestano soprattutto come
agitatori quasi inquadrati
militarmente, è al collo dei
primi che vediamo i primi
simboli del «riscatto dei
neri», le grosse catene in
oro, oltre a giganteschi anelli con il loro nome, e perfino auto in cui il prezioso
metallo ricopre alcune parti come i paraurti, per esempio. Altri nomi importanti di
quel periodo sono LL Cool
J e le Salt’n’Pepa, primo
gruppo rap femminile. Al
successo del rap contribuì
in maniera fulminante il rifacimento di «Walk This
Way», brano che vedeva i
Run DMC affiancati dagli
Aerosmith, in un rap-metal
che fece da traino per l’affermazione di queste due
musiche. E non a caso furono i bianchi Beastie Boys,
con il loro album Licensed
To Ill, a portare nel 1984 il
rap per la prima volta in
cima alle classifiche americane. Per vedere un artista
nero raggiungere quella posizione bisognerà aspettare
l’album Loc’ed After Dark del
1989 di Tone-Loc, esponente della label californiana indipendente Delicious Vinyl,
che con i suoi testi molto più
frivoli e disimpegnati contrastò efficacemente la supremazia della newyorkese
Def Jam, la prima etichetta
indipendente rap di successo, i cui artisti erano, come
abbiamo visto, molto più
impegnati. D’altronde come
era già successo con il
rock’n’roll delle origini, furono proprio le etichette indipendenti le regine della
prima fase. Ricordiamo qui
un altro gruppo molto influente, attivo dal 1988, ovvero DJ Jazzy Jeff & The
Fresh Prince, dove sotto il
nome The Fresh Prince si
celava Will Smith, divenuto
poi l’attore hollywoodiano
che tutti conosciamo.
(continua)
❑
Forse è @more
S
e qualcuno, prima di
conoscere i fatti, volesse subito arricciare
il naso e liquidare la faccenda come un colossale equivoco si sbaglierebbe di grosso: conoscersi tramite Internet e addirittura innamorarsi, sposarsi e vivere felici
non costituisce un tema di
ispirazione per registi in cerca di nuove fantasie, bensì
– lo dicono apposite ricerche – possibilità reali dei
nostri giorni.
Il tema è delicato e presenta diversi aspetti, ma è un
fatto che di continuo cresce
il numero di quanti si servono di Internet per conoscere nuove persone con cui
avviare una relazione. I cercatori di avventure fanno
parte di questa popolazione
ma sono tutt’altro che la
maggioranza: «Il dating online (questo il nome del servizio svolto da siffatti siti,
ndr) è una delle trasformazioni di Internet nella piazza del paese. In due casi su
tre, vi si rivolge chi cerca
davvero un amore importante», sostiene Enrico Finzi, sociologo e presidente di
Astra, che ha realizzato una
recente ricerca sul fenomeno.
Il meccanismo di funzionamento dei siti di incontro
online è semplice e si prefigge di creare possibilità di
contatto tra profili di personalità affini, compatibili. In
linea generale, chi si iscrive
deve esprimere una serie di
informazioni personali di
vario tipo (età, aspetto fisico, professione, preferenze
culturali, convinzioni religiose, aspettative circa la famiglia, hobbies ecc.), atte a
delineare un sia pur minimo profilo, con possibilità
di inserire eventualmente
anche una o più fotografie.
Lo stesso utente, quindi,
può a sua volta trovare,
mediante apposite funzioni
di ricerca (per età, città, re-
gione, nazione, preferenze
personali ecc.), il profilo di
altre persone e, se interessato, scrivere loro una email
o anche comunicarvi direttamente via chat. Tra i siti
più noti e usati si segnalano
www.meetic.it (con versioni
anche in altre lingue europee),
www.match.com,
w w w. c u p i d . i t ,
www.heartsineurope.com,
ma vi sono anche portali
che includono questa funzione nei loro servizi, come
ad esempio Excite.
I numeri? Tutt’altro che irrilevanti. Secondo una ricerca Intel, il 13% di chi possiede un computer si è iscritto almeno una volta a questi siti, mentre comScore
Media Metrix sostiene che
nel mondo sono più di 140
milioni gli individui che visitano ogni mese un sito
d’incontri. In Italia, in particolare, si parla di circa 4
milioni, per lo più tra i 35 e
45 anni, in leggera prevalenza uomini, equamente ripartiti tra single, separati e
divorziati. Non manca, poi,
il côtè del business: se spesso le donne possono iscriversi gratis, gli uomini devono invece sottoscrivere un
abbonamento, che oscilla
tra i 25 euro al mese e i 120
euro all’anno (il sopracitato Meetic è addirittura quotato alla borsa di Parigi).
Come in ogni realtà, non
manca anche qui la devianza, ma nemmeno mancano
(e sono i più) coloro che usano questa nuova possibilità
di contatto come un’occasione di successiva (e tutta
da approfondire) conoscenza. Proprio come altri incontrano in libreria, al cineclub, in discoteca… colui/colei che, semmai, diventerà
compagno/a della vita. Perché Internet saggiamente
usato – non ci stancheremo
di ripeterlo – non è altra
cosa dalla vita.
❑
Christopher W. Steck
La gloria di Dio appare. Il pensiero etico di
H. U. von Balthasar
Cittadella, Assisi 2006,
pp. 320
Patrologo illustre, saggista
affascinante e profondo,
lettore e fine interprete di
Barth, polemista d’innegabile talento, a volte mordente fino al paradosso, e,
infine, sistematico rigoroso, uno dei pochi che, nel
’900, ha congiunto il desiderio d’una sintesi teologica profonda con la necessità di battere vie nuove:
tutto questo è stato Hans
Urs von Balthasar, che
Henri de Lubac non esitò
a definire «l’uomo forse più
colto del nostro tempo».
La teologia balthasariana,
consegnata soprattutto nel
suo Gloria e nella grande
opera della Teodrammatica,
è paragonabile ad un grande fiume, le cui acque abbondanti conservano la freschezza dell’origine, nei
vari meandri che formano
e per i diversi terreni che
irrigano. Il suo pensiero,
estremamente vario, è stato pur sempre molto unitario, ridotto continuamente a quella sorgente da
cui trae la sua linfa e a cui
intendeva ricondurre coloro che lo ascoltavano, incentrato com’era sulla ricerca delle condizioni dell’agire cristiano alla luce
della rivelazione.
Ora il denso volume di Steck cerca persuasivamente
di costruire la teoria etica
implicita negli scritti di von
Balthasar, partendo dal suo
modo di accostarsi a concetti come azione umana,
antropologia e libertà, e ritrovando il nesso prezioso
che il celebre teologo svizzero stabilì fra la risposta
morale cristiana e la percezione della bellezza divina,
lente primaria per interpretare l’opera di Dio in Cristo.
Nella sua estetica teologica, infatti, Balthasar aveva
parlato di due momenti a
proposito dell’incontro con
la bellezza: il primo è il
cammino che attraverso
l’esperienza di fede conduce alla percezione del mistero; il secondo è il sentiero che il mistero divino intraprende per manifestarsi all’uomo. L’estetica balthasariana, secondo Steck,
partendo dalla manifestazione di Dio che è gloriosa, e dunque si impone, attrae e trasforma colui che
la osserva, porrebbe un
fondamento inedito per
reimpostare i motivi della
teoria del comando divino.
Darebbe loro una forma
che risponde almeno ad alcune delle preoccupazioni
sollevate dai critici della
teoria dell’etica dei comandamenti, tradizionalmente
basata sull’enfasi dell’opposizione fra il divino e
l’umano, sulla visione nominalistica dell’ordine creato e sul concetto di un’obbligazione morale eteronoma e a-razionale.
Leo Lestingi
Arturo Paoli
«Vivo sotto la tenda»
Lettere ad Adele Toscano
a cura di Pier Giorgio
Camaiani e Paola Paterni
San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 542
Il libro raccoglie le lettere
scritte, tra il 1960 e il1988,
da Arturo Paoli alla sua
«consigliera» e «sorella
amatissima» Adele Toscano.
Esse, come si legge nell’introduzione, «consentono di
cogliere le sue riflessioni religiose, i suoi stati d’animo,
le sue sofferenze, le sue gioie, i suoi giudizi sull’America Latina e sulla Chiesa».
Le lettere permettono di
seguire le tappe della vita
latinoamericana di Paoli
ma anche il suo itinerario
sociale e spirituale al cui
centro c’è la relazione con
gli altri e in modo privilegiato con i poveri, che bisogna assumere come parte integrante di sé per arrivare al volto di Cristo.
Dalla lettura di questo
epistolario si comprende
che Paoli glorifica Dio penetrando nella storia delle nazioni che egli attraversa durante la sua vita (dall’Italia
all’America Latina) e costruendo il Regno con i poveri di varie nazionalità e
culture. La fedeltà a Cristo
lo porta ad amare la Chiesa
nonostante le sue contraddizioni e ad amare i poveri
«soggetti di storia e non oggetti di beneficenza».
Tra i tanti temi affrontati
con semplicità in circa
trent’anni di corrispondenza, la fede: «la sola prova di
amore che possiamo dare a
Dio sulla terra», l’amore per
la Chiesa: «ma mi riesce
sempre più difficile l’accettare tante cose della Chiesa
... che sarà sempre una relazione dialettica fra l’istituzione e la profezia», la giustizia sociale: «è inutile
commuoversi sulle miserie
del popolo e poi sostenere il
sistema che è causa di queste miserie», la preghiera: «è
assumere la responsabilità
di fare fraternità nel mondo» ... «il mio centro è sempre l’eucarestia e scopro che
l’abbiamo fraintesa», la famiglia: «abbiamo dato troppa importanza al vincolo
religioso e molte volte abbiamo lasciato nell’ombra il
vincolo umano che è intrinsecamente religioso», il
male: «per me è la discordia
e la divisione», la vita religiosa: «troppo diretta alla
sua autoconservazione. Bisogna che il popolo la invada come un fiume in piena».
Paoli ha identificato il senso della propria vita nell’annunzio del vangelo. I tanti
viaggi per annunciare il Vangelo lo portano a dire «Mi
pare di essere sempre sotto
una tenda»: è il pellegrino
che cerca Dio e lo trova nei
poveri; quando resta nello
stesso posto, contribuisce a
realizzare delle fraternità o
delle comunità come la fattoria «Madre Terra» di Foz
do Iguacù (Brasile) nella
quale Paoli è tuttora impegnato. Questo testimone
scomodo è riuscito a dare
un senso alla propria vita e
a quella delle persone che si
sono formate avendolo conosciuto direttamente o attraverso i tanti suoi scritti
che considera «strumenti a
disposizione del regno».
Bartolomeo Mainardi
Giulio Albanese
Soldatini di piombo
Feltrinelli, Milano 2005,
pp.158
Il libro descrive il fenomeno dei bambini soldato,
centinaia di migliaia di ragazzini costretti dalla barbarie degli adulti a scegliere fra uccidere o essere uccisi, nelle tante guerre del
silenzio. L’Autore, il fondatore dell’agenzia on line
Misna, raccoglie le testimonianze di alcuni di questi
combattenti, trasformati in
spietate macchine per uccidere e capaci di ogni nefandezza, con grande partecipazione. Albanese è stato
fra i pochi giornalisti ad
averli incontrarli in situazioni di guerra, con sprezzo del pericolo e descrive
una situazione inaccettabile. Sottolinea che questi soldatini sono burattini nelle
mani di «Signori della guerra» e di insospettabili uomini di affari, anche occidentali, per accaparrarsi enormi ricchezze naturali, il
vero motivo di tante guerre
definite «tribali», una ragione in più per scuotere le
coscienze e la nostra capacità di indignazione.
ROCCA 15 LUGLIO 2006
Il rap adulto
o stile di parlare serrato a ritmo non nasce naturalmente dal
nulla. Nella tradizione orale africana troviamo infatti
(come d’altronde in quasi
tutte le culture) i «griots»,
sorta di cantastorie itineranti lungo la savana occidentale. Il «jive swinging» dei
cantanti jazz, il frenetico intercalare di molti dee-jay radiofonici e i «toastin» dei
cantanti reggae sono altri
elementi a cui il rap si ispira. Va detto, a proposito del
reggae, che i due generi si
legano quasi spontaneamente, in virtù della medesima condizione sociale su
cui si basano, tanto da dare
vita a un genere rap particolare, il raggamuffin, le cui
basi sonore sono di netta derivazione giamaicana. Le
ultime due fonti di ispirazione, forse le più influenti,
sono rappresentate dai
«toasts» degli ambienti carcerari, e dalle «dirty dozen»
del sud degli States (dispute semiserie in rima), entrambe dal contenuto piuttosto osceno, paragonabili
in qualche modo ai nostri
«stornelli romaneschi». Bo
Diddley li usò nei suoi blues,
ma altri pionieri del parlato
furono James Brown, Sly
Stone e lo stesso Jimi Hendrix. Fra i nomi più importanti del primo periodo ricordiamo Grandmaster
Flash (e i suoi Furious Five),
e Africa Bambaataa, ma i
primi ad affermarsi su tutto il territorio federale furono i Run DMC e i Public
Enemy, diversissimi fra
loro, eppure entrambi «militanti». L’obiettivo di questi
primi gruppi di New York,
nei primi ’80, sono molteplici: soppiantare la disco-music bianca imperante nei
club, affermare orgogliosamente la propria «negritudine», unire la nazione nera
in termini di netta contrapposizione alla maggioranza
bianca, e preparare la rivin-
LIBRI
Luciano Bertozzi
61
Nello Giostra
Dignità e decoro
Panama
ROCCA 15 LUGLIO 2006
S
tato dell’America centrale delimitato a nordovest dal Costa Rica e a
sud-est dalla Colombia, il Panama è bagnato a nord dal
mar dei Carabi, a sud dall’Oceano Pacifico ed è attraversato dal canale di Panamà.
Prima della conquista spagnola iniziata nel 1501 dall’esploratore Rodrigo de Bastidas, a cui seguì l’anno successivo l’arrivo di Cristoforo
Colombo, la regione era abitata da popolazioni amerinde, fortemente influenzate
dalle civiltà dei Maya e degli
Inca. La storia del Paese fu
profondamente segnata dalla sua posizione di grande interesse strategico e commerciale. Nel 1821 Panama ruppe i suoi legami con la Spagna, unendosi alla Repubblica della Grande Colombia,
costituita da Colombia, Venezuela ed Ecuador. Nel 1826
Simón Bolivar scelse come
sede del Congresso panamericano, che avrebbe dovuto
sancire l’unione dell’America
latina in un’unica grande federazione proprio questa regione. Malgrado tale progetto non riuscì ad andare in
porto, ciò provocò nella popolazione un profondo sentimento nazionalista che cominciò a maturare una progressiva volontà di creare uno
stato indipendente. L’anno
della svolta per il Panama fu
rappresentato dal 1903, allorché gli Stati Uniti, dopo aver
siglato il trattato di Hay-Herran con la Colombia, ottennero in appalto la costruzione di un canale intraoceanico. Quando però il Senato colombiano si rifiutò di ratificare l’accordo, il movimento
nazionalista ispirato dagli
Stati Uniti insorse, proclamando l’indipendenza. Subito dopo il nuovo stato firmò
62
un accordo con gli Stati Uniti, in base al quale questi imponevano la propria sovranità sul canale oltre a un serrato controllo sul Paese. Malgrado l’apertura del canale apportasse una vistosa prosperità
economica, i ripetuti interventi delle truppe americane negli affari del Paese, sfociarono in una forte tensione diplomatica con gli Stati Uniti. Nel
secondo dopo guerra, in seguito a violente manifestazioni di
protesta contro l’ostinata ingerenza americana, vennero
interrotte le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Nel 1977
tali dissidi vennero superati
grazie al trattato firmato dal
Presidente statunitense Jimmy Carter, con il quale, pur riconoscendo la sovranità panamense, assicurava agli Usa
l’amministrazione del canale
fino al 1999. Salito al potere
nel 1984, il generale Manuel
Noriega assunse, sin dalle prime battute, le vesti di leader
fortemente spietato. L’assassinio di avversari politici, la sistematica soppressione dei
principi democratici, il traffico di droga e il riciclaggio di
denaro sporco furono tra le
sue principali attività durante
gli anni Ottanta. Gli Stati Uniti
non indugiarono ad infliggere sanzioni al Paese e a congelare le attività produttive.
Quando nel 1989 il candidato
uscito vittorioso dalle elezioni presidenziali venne picchiato in diretta sulla rete televisiva nazionale e la votazione dichiarata nulla, Noriega si dichiarò capo del governo, suscitando un forte clamore a livello internazionale. Gli Stati
Uniti stavano cercando ormai
da mesi un pretesto per attaccare il Paese. In seguito all’uccisione di un militare americano in abiti civili da parte di
soldati panamensi, gli Usa
colsero la palla al balzo per
intraprendere un’azione militare. Scattata l’«Operazione
Giustizia», che mirava a destituire il dittatore e ad instaurare una democrazia, Noriega, (che nel frattempo si era
rifugiato presso l’ambasciata
vaticana), fu condotto negli
Stati Uniti e condannato a
quaranta anni di prigione.
Nel 1994, con il neo eletto presidente Ernesto Pérez Balladares, venne avviato un programma economico, fondato sul rafforzamento delle infrastrutture, sull’assistenza
sanitaria e sull’educazione,
volto a rilanciare lo sviluppo
del Paese. Nel 1999, quando
giunse l’anelato momento di
restituire il canale di Panamà
alle autorità panamensi, ponendo fine a un lungo periodo di tensione tra Stati Uniti
e governo panamense, il Paese era governato dal primo
leader politico donna del Panama, Mireya Moscoso.
Popolazione: nonostante
l’esiguo numero degli abitanti del Paese (si contano poco
più di tre milioni di persone),
la popolazione presenta una
realtà etnica molto varia, composta da meticci (64%), da
neri (14%), da bianchi (10%)
e da amerindi (8%). Un dato
interessante è che il Panama,
un Paese posizionato in una
zona logisticamente strategica, non ha un esercito.
Religione: numerose sono
le sette religiose presenti nel
Paese, essendo prevista dalla Costituzione la libertà di
culto. La maggioranza degli
abitanti tuttavia professa il
cattolicesimo, ma la diversità di razze fa sì che vi sia un
consistente numero di chiese e templi per ogni confessione.
FRATERNITÀ
Economia: la p2rincipale
fonte di reddito del Paese è
costituita dalle attività che
ruotano intorno al canale di
Panamà. Nonostante l’imponente volume di affari,
che ha reso il Panama una
delle principali piazze finanziarie internazionali, grazie
soprattutto alla quasi totale
mancanza di controlli sui
movimenti di valuta straniera e sulla costituzione di imprese commerciali (zona
franca di Colón), oltre alle
consistenti agevolazioni fiscali, il Paese registra una
distribuzione della ricchezza del tutto disomogenea. Il
21% della popolazione infatti vive in condizione di
estrema indigenza. Il settore terziario è quello più imponente, coinvolgendo quasi il 65% della popolazione.
Importante è anche il settore del turismo e dell’industria, segnatamente nel
comparto della pesca e della raffinazione.
Situazione politica e relazioni internazionali: nel
maggio 2004 il Partito rivoluzionario democratico si è
aggiudicato la vittoria nelle
elezioni presidenziali con il
suo candidato Martín Torrijos Espino. Alle prese con
le promesse fatte in campagna elettorale, il Presidente
si trova su una strada per le
riforme tutta in salita. Benché si registri un notevole
ritardo nel settore delle finanze pubbliche e del welfare state, nell’aprile 2006 il
governo ha presentato un
progetto di ampliamento del
canale, sollevando forti critiche tra chi lo reputa un significativo passo verso l’ammodernamento del Paese e
chi ritiene che crei soltanto
un grave indebitamento per
lo stato.
❑
Appartiene alla mia parrocchia una famiglia albanese
che sta vivendo una condizione penosa di povertà,
portata con dignità e decoro. Il capofamiglia non ha
una occupazione stabile, lavora alla giornata. La moglie, dopo la nascita del secondo figlio che ora ha cinque mesi, ha dovuto lasciare il servizio a ore. Questo
bambino è nato con una
grave malformazione all’occhio destro che sta compromettendo anche gli organi
vitali, così come viene menzionata dalla diagnosi medica che accludo: subatrofia iridea nel settore nasale
in occhio destro. Questi genitori sono disperati perché
con urgenza devono portare il piccolo in un centro
specializzato per gli accertamenti e le cure del caso.
Ogni offerta è preziosissima. Don L.G.
Offende la dignità umana
Il 18 aprile scorso ricorreva
il quarantesimo anniversario della mia ordinazione
sacerdotale. Alle dieci del
mattino ebbi un infarto
molto grave, ma grazie al
pronto intervento medico e
alla preghiera dei tanti che
mi ricordano quel giorno in
varie parti del mondo, il mio
viaggio verso la «patria» è
stato interrotto. Nel piano di
Dio devo continuare questo
mio pellegrinaggio in questa valle di lacrime indiana
e dobbiamo insieme realizzare altre cose buone. Ultimamente grazie all’aiuto dei
nostri amici abbiamo costruito due case per gli anziani, i malati incurabili, i
disabili e tre casette per famiglie povere. È stata iniziata la costruzione di un centro per dare da mangiare e
un rifugio notturno per i
mendicanti. Si sta realizzando anche una scuola ele-
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
mentare ed ora la notizia più
bella è che ci sono stati offerti quattro ettari di terra
per costruirne un’altra con
una casa per i bambini abbandonati. L’analfabetismo
sicuramente è la causa principale per il male fisico e
sociale. Aiutateci ad educare un bambino bisognoso;
diamo a lui un’opportunità
di vita. Solo così si può uscire dall’oppressione e dal
peso della povertà. Il vostro
sostegno per le nostre scuole offre a questi bambini un
futuro brillante. Molte popolazioni rurali sono analfabete e non qualificate nei lavori manuali. In molti villaggi
c’è una grande scarsità di acqua potabile; la gente beve
acqua inquinata dai serbatoi pubblici, che sono condivisi da uomini e bestie;
questo è causa dell’80% delle malattie. Cerchiamo di
dotare i villaggi di pozzi trivellati, ma occorrono tanti
soldi... La situazione di questa gente offende la dignità
umana. Ricordatela con la
vostra solidarietà sempre
generosa. Padre J.K.
Giovane vedova
Un sentito ringraziamento
per la disponibilità e l’attenzione dimostrata dai vostri
lettori per i più sofferenti. Vi
presento un appello per Barbara, giovane mamma di 38
anni, divenuta vedova di recente. Si trova in precarie
condizioni economiche; ha
una figlia di undici anni a
carico e le sue condizioni fisiche non la rendono idonea
a svolgere alcuna attività lavorativa (stend del giunto
pielo renale destro, sindrome depressiva e ipoacusia
bilaterale). Allego il certificato medico e il certificato
Isee relativo alla sua situazione economica. Ringrazio
di cuore per l’accoglimento
della richiesta. Restiamo in
sintonia di apostolato e disponibili per qualsiasi collaborazione. Don N.L.
Sembrava risolto, invece...
Dopo la lunga malattia del
marito che lo ha portato
alla morte Aldina si è ammalata di esaurimento nervoso e non si è più ripresa
anche se è passato qualche
anno. Due figlie sono sposate e il maschio, dopo la
separazione, è tornato a vivere con la mamma. La salute di Aldina non è buona; è sofferente di cuore e
deve curarsi continuamente. A causa di una forte artrosi alla colonna vertebrale porta un busto rigidissimo senza il quale non può
sorreggersi. È una persona
dolcissima, discreta che
soffre molto. Con molta
dignità racconta i drammi
che colpiscono la sua famiglia e in particolare una
delle figliole, alla quale due
anni fa è morta la figlia di
27 anni in un incidente
stradale. Poi aveva ritrovato un po’ di serenità con un
nipotino di due anni che
spesso era con lei perché i
genitori lavoravano. Si erano accorti tutti che il piccolino non parlava, ma il
medico diceva di non preoccuparsi. Purtroppo è stata poi diagnosticata la sordità a tutte e due le orecchie e non vi sto a descrivere la disperazione della
famiglia. Un anno fa è stato sottoposto ad intervento chirurgico da una parte
per l’impianto di un apparecchio acustico in una città lontana dal paese dove
vivono. Per qualche mese
il piccolo è stato seguito
dal centro collegato con
l’ospedale per imparare a
parlare. La mamma ha lasciato il lavoro e ha dovuto prendere lì una casa in
affitto... Per il momento il
problema sembrava risolto, ma ora dalla visita di
controllo risulta che il micro apparecchio si è spostato per cui il bambino
deve essere operato nuovamente. La famiglia è partita subito con spese da affrontare ancora per alloggio ecc. Possiamo aiutarla
con qualche offerta per coprire almeno le più urgenti? Sono sicura che gli amici di «Fraternità» non l’abbandoneranno. Grazie.
M.P.
***
Sempre grande è la gratitudine di chi riceve un aiuto:
... vi ringrazio di cuore per
la comprensione avuta nei
riguardi di Basilio. La somma di 350 euro ricevuta ha
sollevato molto, moralmente e materialmente, tutta la
famiglia ed anche da parte
loro vi giunga il più caloroso e cordiale ringraziamento. È venuta parte della famiglia a trovarmi per ritirare gli aiuti alimentari che
io ricevo e che distribuisco
con piacere ed è in questa
occasione che mi hanno assicurato della gratitudine
che essi hanno nei vostri riguardi. È commovente sentire il ringraziamento da
parte di giovani riconoscenti! Il merito, però, è
vostro che sensibili alla domanda sapete rispondere
positivamente... I.S. «Sono
pessime».
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a
«Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi.
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ROCCA 15 LUGLIO 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
Rocca/foto
d’archivio
Mario Giacomelli