Strage di Torino (18-20 dicembre 1922)

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Strage di Torino (18-20 dicembre 1922)
Strage di Torino (18-20 dicembre 1922)
Torino: piazza XVIII Dicembre e la stazione di Porta Susa
Si definisce comunemente Strage di Torino l'eccidio commesso nel capoluogo piemontese dalle
squadre fasciste nelle giornate dal 18 al 20 dicembre 1922: secondo le fonti ufficiali, furono uccisi
11 antifascisti[1], mentre una trentina furono i feriti.
Generalmente si ritiene che la strage costituì la rappresaglia per l'uccisione, avvenuta la sera precedente, di
due fascisti che, insieme con un altro squadrista, avevano tentato di assassinare un militante comunista che
si difese sparando: esiste tuttavia anche l'ipotesi che i fascisti avessero già predisposto un'azione criminosa
volta a « punire » la città di Torino, particolarmente ostile al fascismo, e che l'episodio ne abbia soltanto
fornito un pretesto e anticipata l'esecuzione.
Alle vittime è stata intitolata a Torino la piazza XVIII Dicembre, sulla quale si affaccia la stazione ferroviaria di
Porta Susa.
Indice
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1 La situazione politica: Torino e il fascismo nel 1922
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2 L'agguato
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3 La strage: il 18 dicembre
o
3.1 Carlo Berruti
o
3.2 Leone Mazzola
o
3.3 Giovanni Massaro
o
3.4 Matteo Chiolero
o
3.5 Andrea Chiomo
o
3.6 Pietro Ferrero
o
3.7 Erminio Andreoni
o
3.8 Matteo Tarizzo
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
4 La strage: il 19 dicembre
o
4.1 Angelo Quintagliè
o
4.2 Cesare Pochettino
5 La strage: il 20 dicembre
o

5.1 Evasio Becchio
6 Dopo la strage
o
6.1 I responsabili
o
6.2 L'amnistia
o
6.3 L'inchiesta fascista
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7 La caduta del fascismo
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8 Note
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9 Bibliografia
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10 Voci correlate
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11 Collegamenti esterni
[modifica]L'agguato
Parziale veduta del quartiere di Barriera Nizza con il Lingotto
Francesco Prato[9] era nato nel 1889 a Valmacca, in provincia di Alessandria. Era venuto a Torino
giovanissimo, e aveva trovato lavoro come bigliettaio dei tram. Socialista, nel 1921 aveva aderito al Partito
comunista..
La sera del 17 dicembre 1922, una fredda e nebbiosa domenica, Prato, mentre, concluso il suo turno di
lavoro, stava andando a trovare la fidanzata, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo
a una gamba. Si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due, il ferroviere Giuseppe Dresda e lo
studente Lucio Bazzani, mentre il terzo, l'artigiano Carlo Camerano, rimasto solo leggermente ferito, si dava
alla fuga correndo ad avvisare dell'accaduto i suoi camerati. Prato trovò rifugio in casa di amici dove, tenuto
sempre nascosto, qualche giorno dopo un medico dell’Alleanza Cooperativa l’operò estraendogli il proiettile
e ingessandolo. La vita del Prato non valeva più niente in Italia e il Partito decise di farlo espatriare: il 17
febbraio Paolo Robotti e le sorelle Rita ed Elena Montagnana lo portarono in auto a Milano da dove altri
compagni lo trasferirono in Svizzera, a Zurigo, e di qui in Unione Sovietica, dove passerà il resto della vita.
[modifica]La
strage: il 18 dicembre
Torino: il lungopo di corso Cairoli
Quella sera la legione fascista di Torino con il "console" Piero Brandimarte in testa, aveva festeggiato al
Teatro Alfieri la costituzione della nuova squadra « Francesco Baracca », comandata dall'attore Carlo
Tamberlani: madrina della cerimonia l'attrice Alda Borelli, sorella della più nota Lyda; erano presenti anche
squadre fasciste provenienti da Parma[13]. Dopo i discorsi di rito, gli squadristi, in numero di due o tremila,
attraversarono cantando la città fino alla sede del Fascio, sul Lungo Po di corso Cairoli.
La mattina dopo, 18 dicembre, si potevano vedere nelle strade del centro « gruppi di camicie nere
provenienti da altre città: essi erano armati di pistola, di manganello e avevano a tracolla una coperta
arrotolata [...] altri gruppi di fascisti forestieri appollaiati persino sui predellini e parafanghi di alcune
automobili saettanti, brandivano pugnali, pistole, e gridavano per terrorizzare i passanti. Ci parve di capire la
vera ragione dell'affluenza a Torino di squadristi da altre località [...] i caporioni fascisti, per giustificare il
massacro che si apprestavano a scatenare contro gli antifascisti torinesi, prendevano a pretesto la batosta
che Prato aveva inferto ai loro sgherri »[14].
Quella stessa mattina Mussolini parlava al Grand Hôtel di Roma ai fascisti venuti ad ascoltarlo da Siena:
« Gridatelo. Lo Stato fascista è deciso a difendersi a tutti i costi coll'energia più fredda e inesorabile. Sono il
depositario della volontà della migliore gioventù italiana. Ho doveri terribili da compiere e li compirò ».
Alle 11.30 una cinquantina di fascisti fecero irruzione nella Camera del Lavoro, al numero 12 di corso
Siccardi: vi erano poche persone. Trovarono e bastonarono il deputato socialista Vincenzo Pagella, il
ferroviere Arturo Cozza e il segretario della Federazione dei metalmeccanici, l'anarchico Pietro Ferrero, e poi
li lasciarono andare. Date le circostanze, era un trattamento di favore: i fascisti non erano ancora intenzionati
a uccidere, forse perché non ne avevano ancora l'ordine.
Poco dopo mezzogiorno, l'incontro in Prefettura si concluse. Le autorità decisero di non mobilitare le forze
dell'ordine.
[modifica]Carlo
Berruti
La Camera del Lavoro incendiata dai fascisti
Verso le 13 una decina di fascisti della squadra « Enrico Toti » - che avevano già devastato la casa di Maria
e Carlo Berruti, alla ricerca di quest'ultimo - entrarono nell'ufficio delle Ferrovie di corso Re Umberto 48,
all'angolo con via Valeggio: data l'ora, c'era poca gente.
Prelevarono Carlo Berruti, segretario del Sindacato ferrovieri e consigliere comunale comunista, e il
socialista Carlo Fanti, li caricarono in una macchina scoperta e li portarono davanti al Fascio torinese. Qui
arrivò un giovane ed elegante fascista: salì al posto del Fanti, che venne rilasciato e poté allontanarsi.
La macchina ripartì in direzione di Nichelino e si fermò in aperta campagna, non lontano dalla linea
ferroviaria. A cento metri di distanza, sui pali dell'alta tensione stavano lavorando alcuni operai delle
Ferrovie, che poterono così osservare tutta la scena. Tra di loro era il diciottenne comunista Gustavo
Comollo:[16] « I fascisti erano tre o quattro. Scesero spingendo avanti uno, lo fecero andare per un sentiero e
lui camminò tranquillo senza voltarsi [...] gli spararono tre o quattro colpi nella schiena [...] lui cadde giù.
Ricordo che cadde lentamente. In fretta quelli salirono sull'auto e sparirono a gran velocità [...] Dopo un poco
ci siamo avvicinati poi è venuta della gente e anche i carabinieri [...] Berruti restò un bel po' steso per
terra ».[17]
[modifica]Leone
Mazzola
Nel primo pomeriggio una squadra fascista fece irruzione nell'osteria di via Nizza 300. Chiesero i documenti
agli avventori, li perquisirono. A Ernesto Ventura trovarono la tessera del Partito socialista: lo ferirono con
una revolverata. Il gestore del locale, Leone Mazzola, protestò e venne afferrato e trascinato nel retrobottega
dove c'era la camera da letto. Perquisendo, si trovò nella stanza una scheda elettorale, dove c'era il simbolo
della falce e il martello: il Mazzola venne subito preso a coltellate e freddato da numerosi colpi di pistola.. La
vedova sosterrà che sarebbe stato un debitore del marito a passare ai fascisti la falsa notizia che egli fosse
comunista.
[modifica]Giovanni
Massaro
Durante l'irruzione in quell'osteria alcuni avventori erano fuggiti: uno di questi si rifugiò nella sua casa vicina,
in via Nizza 279, ma fu inseguito, raggiunto nel suo appartamento, e ucciso con quattro colpi di pistola alla
testa. Il cadavere fu caricato sul camion dei fascisti e scaricato in periferia, alla prima campagna che allora si
apriva nel fondo di via San Paolo.
Senza documenti, quell'uomo vestito di una tuta da operaio fu riconosciuto solo qualche giorno dopo. Si
chiamava Giovanni Massaro, aveva 34 anni: aveva lavorato come manovale delle Ferrovie, ma aveva perso
il lavoro perché soffriva di turbe psichiche e ogni tanto doveva essere ricoverato in manicomio. Un povero
diavolo.
[modifica]Matteo
Chiolero
Era già buio quando il fattorino del tram Matteo Chiolero, simpatizzante comunista, finito il suo turno, era
tornato nella sua casa di via Abegg 7 e si era messo a tavola, con la moglie e la figlia di due anni. Ma
bussarono alla porta e lui s'alzò e andò ad aprire: tre revolverate lo colpirono al petto, senza che fosse stata
scambiata una sola parola.
La moglie corse alla porta, rincorse i fascisti sulle scale, gridando: quelli tornarono indietro, andarono alla
porta, toccarono il cadavere del marito e le dissero di non preoccuparsi: «Dorme». Poi sparirono.
[modifica]Andrea
Chiomo
Il comunista Andrea Chiomo aveva 25 anni: l'anno prima era stato assolto nel processo per l'omicidio del
fascista Dario Pini. L'assoluzione aveva chiuso il conto con la giustizia ufficiale, non con quella fascista.
Sapeva che un giorno o l'altro avrebbero cercato di ammazzarlo e per questo motivo voleva espatriare in
Francia, ma occorrevano soldi e quelli lui non li aveva.
La sera del 18 dicembre si trovava in casa di amici, quando vennero sei o sette fascisti a prelevarlo: lo
trascinarono in strada: Chiomo venne tempestato di colpi, gettato a terra e trascinato per i capelli per
centinaia di metri: due guardie regie videro la scena, ma fecero finta di nulla. Anche un maresciallo dei
carabinieri chiese spiegazioni: gli squadristi risposero che lo stavano portando alla casa del Fascio, e quello
proseguì per la sua strada.
Pur in queste condizioni, Chiomo ebbe un ultimo scatto di disperata energia: riuscì a rialzarsi e a fuggire, ma
non poteva andare lontano. Inseguito, fu abbattuto da una fucilata e rantolò a lungo nel buio di via Pinelli,
all'angolo di via San Donato. Quando un'ambulanza lo portò all'ospedale era troppo tardi: era
completamente tumefatto e non aveva più capelli. La madre morì di crepacuore pochi mesi dopo.
[modifica]Pietro
Ferrero
Pietro Ferrero
L'anarchico Pietro Ferrero era il segretario della Federazione degli operai metalmeccanici di Torino. Aveva
trent'anni e abitava con la madre, un fratello e una sorella in un appartamento al numero 4 di via Monte
Rosa, in Barriera di Milano, nella periferia-est della città.
Nella tarda mattinata di quel giorno era già stato bastonato da una squadra fascista penetrata nella Camera
del Lavoro: se l'era cavata, ma quell'esperienza aveva naturalmente lasciato nella sua mente un segno
profondo e probabilmente condizionò fatalmente il suo comportamento nelle ore successive. Non poteva
starsene in casa: il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Milano, ma aveva con sé 19.000 lire - una bella
somma - i contributi operai che bisognava depositare agli uffici della Cassa disoccupazione. Così fece nel
pomeriggio e poi, sempre in bicicletta, vagò chissà dove per quelle strade diventate pericolosissime per lui e
per la gente conosciuta come lui.
Verso le 10 di sera venne incrociato in corso Valdocco da due conoscenti, i comunisti Andrea Viglongo e
Mario Montagnana, redattori de « L'Ordine Nuovo: Ferrero « ci sembrò molto preoccupato - dirà poi Viglongo
- l'impressione fu che andasse in giro a caso, senza una meta. Parlammo dei fatti del giorno, gli dicemmo di
non stare per strada, perché correva pericolo. Sorrise senza dire nulla. Ci disse solo che il giorno dopo
sarebbe andato a Milano, faceva un'ultima puntata a Porta Susa per guardare gli orari del treno e sarebbe
rincasato. Lo vedemmo allontanarsi e sparire »[23].
Andò verso la Camera del Lavoro che era piena di fascisti, l'avevano « conquistata » e ora la tenevano come
un trofeo di vittoria. Dall'altra parte del corso, Ferrero si fermò a guardare la scena e ad ascoltare i canti e le
urla: era quasi notte, forse pensava che in quel buio nebbioso non sarebbe stato notato. L'imprudenza gli fu
fatale.
Torino: monumento a Vittorio Emanuele
Una diecina di loro uscì correndo verso di lui, che non si mosse nemmeno. Quando gli furono vicini, lo
riconobbero, lo riempirono di bastonate, di calci, di pugni, lo trascinarono dentro, lo gettarono in una stanza
che avevano trasformato in prigione. Non era ancora morto, ma non si alzerà più. Verso mezzanotte lo
tirarono di nuovo sulla strada e, sempre tra calci e bastonate, gli legarono una caviglia a un camion che partì
e lo trascinò per 200 metri fino al monumento a Vittorio Emanuele: c’è da augurarsi che fosse già morto,
perché qui gli cavarono gli occhi e gli strapparono i testicoli[24].
Nella stessa testimonianza, tra gli squadristi che si accanirono sul corpo di Ferrero, veniva indicato Carlo
Natoli come il più accanito. Questo Natoli, già presente nella squadra che uccise Andrea Chiomo, era
mutilato di guerra: privo di una gamba, infierì sul cadavere di Ferrero zampettando sulle sue stampelle.
Un'immagine tragica e grottesca insieme, che da sola rende l'immagine del fascismo.
Abbandonato il cadavere - che verrà notato da un passante e trasportato alla camera mortuaria
dell'ospedale San Giovanni - i fascisti tornarono alla Camera del Lavoro e, alle 2 di notte, diedero fuoco
all'edificio, impedendo ai vigili del fuoco d'intervenire finché non fu interamente distrutto.
Un mese dopo, all'inchiesta Gasti-Giunta, il vice-questore Tabusso presentò una relazione nella quale, tra
l'altro, citò un secondo telegramma trasmesso da Cesare Maria De Vecchi il 19 dicembre nel quale il gerarca
« dava la sua completa adesione all'opera delle squadre d'azione, incoraggiandole ». Il Tabusso aggiungeva
che pochi giorni dopo la strage, in un teatro torinese, il De Vecchi « alla presenza di migliaia di persone, si
assumeva tutte le responsabilità morali e politiche di quanto successo »[25].
Il discorso era stato tenuto il 31 dicembre, dopo la rivolta delle Guardie regie del 28 dicembre, che
protestavano contro il decreto di scioglimento del loro corpo. In esso De Vecchi aveva denunciato un
connubio tra guardie regie e « sovversivi », connubio che in realtà esisteva solo nella sua fantasia. Colpisce,
nel discorso di De Vecchi, la presenza dello stesso frasario utilizzato due anni dopo anche da Mussolini, ad
ammissione e giustificazione dell'omicidio di Giacomo Matteotti.
[modifica]Erminio
Andreoni
L'operaio Erminio Andreoni, di 24 anni, abitava in via Alassio 25 con la moglie e il figlio di un anno: i fascisti,
dopo averlo già cercato nel pomeriggio del 18 dicembre, lo trovarono a mezzanotte, lo portarono nella
campagna vicina e lo uccisero a colpi di pistola. Poi tornarono nella casa e la devastarono.
[modifica]Matteo
Tarizzo
Matteo Tarizzo, 34 anni, aveva lavorato come operaio alla FIAT, poi s'era messo in proprio, aprendo una
piccola officina in via Madama Cristina. Di qui tornò la sera tardi nella vicina casa di via Canova 35 e già
dormiva quando i fascisti sfondarono la porta.
Lo fecero rivestire e lo portarono in un prato: gli sfondarono il cranio a bastonate e lasciarono sul cadavere
alcune copie de «L'Ordine Nuovo», il quotidiano che Tarizzo leggeva abitualmente.
Complessivamente, in quel primo giorno ci furono, ufficialmente, otto morti e quindici feriti, senza contare
coloro che, gravi o leggere che fossero state le ferite, preferirono non denunciare le aggressioni cui erano
stati vittime per timori di successive, ulteriori rappresaglie. Gli episodi più gravi riguardarono Giacomo
Strumia, ferito alla gamba da un proiettile, Luigi Barolo, raggiunto da un colpo di pistola al collo, Luigi
Massara, ferito al ventre, e Ferdinando Avanzini e Vincenzo Stratta, colpiti da una pugnalata. Quest'ultimo,
pugnalato al petto, riuscì a sfuggire alla squadra fascista: uno dei suoi aggressori, un certo Buo, si suicidò
nel 1924, dopo il delitto Matteotti, quando credette che il fascismo fosse ormai finito[26].
[modifica]La
strage: il 19 dicembre
In mattinata, il vice-prefetto Palombo, che sembrava limitarsi a tenere la contabilità dei successi dei fascisti,
comunicava a Mussolini che « complessivamente fra i sovversivi risultano ieri, 18 dicembre, uccisi 8
individui ». Il Capo della polizia De Bono, da Roma, ricevuta telefonicamente da un funzionario della
Prefettura la notizia che « la città è tranquilla. Vita cittadina normale. Così pure il servizio tranviario », si
dichiarava favorevole alla « smobilitazione » fascista; anche l'agenzia di Regime Stefani confermava che « la
città è completamente tranquilla ed ha il suo aspetto normale ».
In tanta presunta tranquillità, il quotidiano torinese « La Gazzetta del Popolo » poteva così dedicarsi a
esprimere il cordoglio per i due squadristi uccisi dal Prato.
Non era ancora finita. Nella prima mattinata i fascisti fecero irruzione a « L'Ordine Nuovo »: sequestrati i tre
redattori Montagnana, Viglongo e Pastore, più altri tre collaboratori, li portarono alla Casa del Fascio dove,
legati e bastonati, furono interrogati per sapere dove si trovasse Gramsci. Poi, una breve passeggiata fino al
corso Massimo d'Azeglio: fatti allineare sul marciapiede, gli squadristi si apprestarono a fucilarli, ma «arrivò
uno con un ordine e, di mala voglia, ci dissero di andarcene - "Per questa volta" »[27].
[modifica]Angelo
Quintagliè
Angelo Quintagliè, 43 anni, era un ex-carabiniere - e perciò leale «al Re e alla Patria», come testimoniò poi
la vedova - assunto nelle Ferrovie come usciere: la mattina del 19 dicembre, in quell'ufficio dove il giorno
prima era stato sequestrato e poi ucciso Carlo Berruti, chiese informazioni sull'accaduto a un manovale
fascista che lì lavorava, un certo Gallegari. Saputo della morte di Berruti, Quintagliè espresse apertamente
rammarico e deplorazione. Fu una grave imprudenza.
Un'ora dopo entrarono nell'ufficio sei squadristi che, identificato il Quintagliè, gli si gettarono addosso,
tempestandolo prima di bastonate e infine uccidendolo a revolverate. La moglie denunciò inutilmente il fatto:
rimasti non identificati gli assassini, la spia Gallegari, denunciato nel 1945 dal figlio di Angelo Quintagliè,
scontò due soli anni di carcere[28].
[modifica]Cesare
Pochettino
Cesare Pochettino, 26 anni, era un artigiano che lavorava nella bottega della sorella e del cognato Cesare
Zurletti. Quest'ultimo non aveva mai nascosto di avere simpatia per il fascismo, mentre il Pochettino non
s'interessava di politica.
Verso mezzogiorno del 19 dicembre, entrambi vennero sequestrati da tre squadristi armati che li condussero
nella collina di Valsalice. Protestarono entrambi di non essere « sovversivi », ma non ci fu niente da fare:
condotti sul limite di un burrone, gli squadristi spararono: Pochettino, ucciso, rotolò lungo il pendio, lo Zurletti
cadde a terra, ferito da quattro colpi sulla schiena. Si salverà, perché i fascisti lo credettero morto.
L'inchiesta del successivo gennaio stabilirà che erano stati « denunciati calunniosamente come comunisti
pericolosi » da loro nemici personali.
Pochi, date le circostanze, furono i ferimenti denunciati in quella giornata: una mezza dozzina di operai
bastonati e con qualche ferita da coltello.
[modifica]La
strage: il 20 dicembre
Il 20 dicembre Massimo Rocca, dirigente nazionale del Partito fascista, giunge a Torino per partecipare ai
funerali dei due fascisti: emana - non si capisce con quale autorità e secondo quale legge - un bando contro
tutti i « sovversivi » torinesi: ordina che i loro esponenti più in vista, come Gramsci, Terracini e altri, debbano
lasciare la città, mentre tutti gli altri non possano circolare dopo la mezzanotte, a meno che non siano muniti
di un salvacondotto rilasciato dal Fascio torinese. Il giorno dopo lo stesso Mussolini revocò il « bando ».
[modifica]Evasio
Becchio
I giovani operai Evasio Becchio e Ernesto Arnaud erano in un'osteria di via Nizza, nel tardo pomerriggio del
20 dicembre. Un gruppo di fascisti vi fece irruzione, li prelevò facendoli salire su un camion che li condusse,
lungo corso Bramante, in corso Galileo Ferraris. Fatti scendere sul prato che si distende in quel luogo, i
fascisti, armati di moschetti e pistole, si disposero a ventaglio e fecero fuoco. Becchio morì sul colpo,
Arnaud, ferito, venne ancora colpito da una coltellata che doveva essere il suo colpo di grazia, ma riuscì a
sopravvivere.
Per questa aggressione, fu fatto il nome di uno dei responsabili, lo squadrista Mario Platner, che
naturalmente sarà prosciolto in istruttoria. Lo stesso risultato fu ottenuto per i pochi individui implicati
nell'omicidio di Cesare Pochettino, mandati assolti il 3 maggio 1923.
In questo giorno avvennero altre violenze a Torino, normale amministrazione nell'Italia fascistizzata: il
prefetto Olivieri, tornato finalmente in sede per « prendere in mano la situazione », poteva trasmettere al
ministero degli Interni che erano stati solamente incendiati da un centinaio di fascisti tre circoli comunisti.
Evasio Becchio fu l'undicesima e ultima vittima « ufficiale » della strage, ma sembra che i morti siano stati
molti di più.
[modifica]Dopo
[modifica]I
la strage
responsabili
Il "console" Pietro Brandimarte, intervistato il 19 dicembre - il giorno dopo l'inizio della strage - da « Il
Secolo » di Milano, dichiarò che per reagire al « vigliacco attentato », circa tremila fascisti erano stati
mobilitati: « Abbiamo voluto dare un esempio [...] questa rappresaglia io la ritengo giusta. Noi abbiamo
colpito senza pietà chi ci aveva provocato e abbiamo colpito i sovversivi nel loro covo di Barriera di Nizza. I
comunisti sono avvisati. Abbiamo l'elenco di tutti loro e se si verificheranno altri incidenti gravi come questi,
noi li scoveremo e daremo altri esempi ».
Lo stesso Brandimarte fu ancora più esplicito quasi due anni dopo: il 24 giugno 1924 dichiarò al « Popolo di
Roma » che la rappresaglia era stata « ufficialmente comandata e da me organizzata [...] noi possediamo
l'elenco di oltre tremila nomi sovversivi. Tra questi tremila ne abbiamo scelto 24 e i loro nomi li abbiamo
affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia ».
Dunque, secondo Brandimarte, 24 erano state le persone da uccidere, ma ne furono uccise 22 perché due
erano « scampati alla fucilazione ». All'insistenza del giornalista, che gli faceva notare come questura e
prefettura avessero comunicato un numero inferiore di vittime, Brandimarte ribadiva con ferma arroganza:
« Cosa vuole che sappiano in questura e prefettura? Io sarò ben in grado di saperlo più di loro [...] gli altri
cadaveri saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nelle fosse, nei burroni o nelle
macchie delle colline circostanti ». In effetti, riportava il quotidiano, la maggior parte delle vittime era stata
portata in riva al Po o nella collina che sovrasta la città per essere giudicata da una « corte marziale » di
squadristi e poi « giustiziata » da un « plotone di esecuzione ».
Brandimarte confermava, infine, che il capo « del fascismo torinese è l'on. De Vecchi. Egli ci ha telegrafato,
come è noto, per condividere in pieno la responsabilità della nostra azione »[29].
Dunque, Brandimarte e De Vecchi sono sicuramente i responsabili dell'eccidio. Nessuno ha mai indicato
come superiore mandante il nome di Mussolini. Si sa che egli telefonò al prefetto di Torino, un giorno
immediatamente successivo alla strage: « Come capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati
di più; come capo del governo debbo ordinare che vengano rilasciati i comunisti arrestati ».[30]
Un'interessante testimonianza è quella da Federico Picolotti.[31] Socialista, operaio della FIAT, il 19 o 20
dicembre 1922 fu convocato in direzione, dove si trovò di fronte Giovanni Agnelli, altri due dirigenti, e Pietro
Brandimarte, rivestito della sua brava divisa nera e grigio-verde con stivaloni e frustino. Questi gli chiese a
quale partito appartenesse e alla risposta del Picolotti, dopo aver scorso dei nomi scritti su un suo taccuino,
disse che il suo nome non era compreso « tra quelli da ammazzare ». Si offrì di concedergli un
salvacondotto, dal momento che i suoi fascisti lo stavano cercando, e si congedò. A quel punto Agnelli
rassicurò l'operaio, perché della questione avrebbe parlato con Mussolini. Qualche giorno dopo gli riferì di
stare tranquillo, che « nessuno gli avrebbe fatto del male ».
[modifica]L'amnistia
Se quell'operaio socialista poteva stare tranquillo, ancor di più potevano stare gli assassini: il 22 dicembre il
governo Mussolini emanò un decreto di amnistia - il Regio Decreto 1641 del 22 dicembre 1922 - preparato
dal ministro di « Giustizia » Aldo Oviglio:[32] i responsabili di reati di natura politica venivano amnistiati, a
condizione che i fatti delittuosi fossero stati commessi « per un fine, sia pure indirettamente, nazionale ».
Pertanto, i crimini fascisti, essendo stati commessi per fini « non contrastanti con l'ordinamento politicosociale », non erano punibili, ma non quelli eventualmente commessi da « sovversivi », essendo essi volti ad
« abbattere l'ordine costitutivo, gli organi statali e le norme fondamentali della convivenza sociale ». Questo
mostro giuridico - che tra l'altro comprometteva politicamente anche quella magistratura non ancora
connivente con il Regime, costretta a distinguere tra reati commessi da fascisti o da antifascisti - fu subito
controfirmato da re Vittorio.
[modifica]L'inchiesta
fascista
Messi così al sicuro i responsabili degli omicidi, il fascismo poteva anche permettersi un'inchiesta sui fatti,
non per accertare il loro reale svolgimento, ma per definire e sistemare i rapporti di potere all'interno del
Fascio torinese..
L'inchiesta svolta da Francesco Giunta, della Direzione nazionale del PNF, e dal questore Giovanni Gasti,
iniziata il 2 gennaio 1923, si concludeva il 6 gennaio con la stesura di una relazione che venne esaminata
dal Gran Consiglio del fascismo il successivo 13 gennaio. La relazione definiva gli omicidi di dicembre
« sbrigliamento da ogni freno morale » che aveva portato « a errori inconcepibili, a scambi di persone e al
sacrificio di vittime innocenti, consumato in circostanze di tale efferatezza da insinuare nell'animo un senso
di invincibile angoscia ». La relazione riconosceva un fatto importante: la strage fu « l'effetto, calcolato e
voluto, sia pure come sanzione punitrice e giustiziera, delle deliberazioni di uomini che avevano una
responsabilità di decisione e di comando, di vigilanza e di guida, che dovevano essere pienamente
consapevoli delle conseguenze morali, giuridiche e politiche dei loro ordini [...] La premeditazione o
l'incoscienza del Direttorio del Fascio torinese [leggi: De Vecchi] e del Comando della Legione [leggi:
Brandimarte] incute raccapriccio e sgomento ».
[
Il 20 agosto 1943 un articolo della rifondata « Gazzetta del Popolo » ricordava le responsabilità di
Brandimarte nella strage del dicembre 1922. Dal suo rifugio valdostano rispose il 23 agosto con una lettera
nella quale negava sfacciatamente non solo di averli predisposti, ma persino di averli approvati, e mentiva
spudoratamente sostenendo di aver « preso misure contro i responsabili » della strage. Ammetteva bensì
solo quello che non poteva smentire, ossia di averne « assunta la responsabilità politica al di là di ogni
giudizio del bene o del male, perché ho sostenuto che su chi ha tempra del Capo tali responsabilità deve
sempre gravare ».
Giovanni Roveda, già segretario della Camera del Lavoro di Torino all'epoca della strage, commentava le
affermazioni dell'ex-gerarca con una lettera indirizzata al « Giornale d'Italia » il 30 agosto. Ricordava le bugie
- « il lupo inferocito contro la classe operaia torinese e contro il popolo italiano si mette a belare da agnellino:
l'uomo più di tanti altri responsabile di tanto sangue innocente sparso ora si indigna anche al ricordo dei
famosi "cinque minuti di fuoco" e grida no, non è vero, ne voleva - bontà sua - uno solo » - e annunciava di
aver sporto denuncia contro De Vecchi, Brandimarte e gli altri responsabili.
Con l'inizio dell'inchiesta e, soprattutto, con l'instaurazione della Repubblica di Salò e a seguito della sua
condanna a morte decretata nel processo di Verona, questa « tempra di Capo » e indomito sprezzatore del
pericolo che aveva sempre goduto della benevolenza e della protezione della Chiesa, si nascose in un
convento. Poi, con falsi documenti procuratigli dai salesiani, fuggì in Paraguay, il paradiso, allora, dei
criminali nazisti.
[modifica]Note
1. ↑ Tutte le fonti non ufficiali dell'epoca, anche di parte fascista,
riferirono di almeno 22 vittime.
2. ↑ Alla fine di dicembre verrà istituita la Milizia Nazionale e vennero
soppresse le Guardie regie, un'iniziativa che provocò rivolte tra le
guardie, soffocate dall'intervento dell'Esercito.
3. ↑ Da velites, gli antichi soldati romani armati alla leggera, incaricati
di effettuare brevi e rapidi assalti contro il nemico.
4. ↑ G. Carcano, cit., p. 22. Per altro, l'ala sinistra dei popolari,
rappresentata da Guido Miglioli, era contraria a qualunque accordo
con i fascisti.
5. ↑ In Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I, p. 230.
6. ↑ Amadeo Bordiga, Il processo ai comunisti e gli altri, in «Lo Stato
Operaio», I, 11, 8 novembre 1923.
7. ↑ G. Carcano, cit., p. 12. Fu il padre di Giulio Caradonna, a lungo
deputato del MSI.
8. ↑ Padre di un attivo militante comunista, Giuseppe Longo, cugino
del futuro segretario del PCI Luigi.
9. ↑ Esiste, nell'antifascismo italiano, un omonimo Francesco Prato
(Mondovì, 4 maggio 1894 - Vicoforte di Mondovì, 29 aprile 1945),
ucciso dai Tedeschi. Cfr. la biografia dell'ANPI. Da notare che i
due Prato sarebbero stati entrambi « Guardie rosse » e avrebbero
svolto attività di difesa della sede de « L'Ordine Nuovo »: non
sembra impossibile che vi sia stata una confusione nella loro
biografia di quegli anni.
10. ↑ Mario Segre, « l'Unità », 5 agosto 1924.
11. ↑ Al Bazzani fu anche intitolata, fino alla Liberazione, la popolare
via Saluzzo, nel quartiere torinese di San Salvario.
12. ↑ Per tutta questa vicenda, cfr. Giancarlo Carcano, Strage a
Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971, pp. 43-52.
13. ↑ La cerimonia è descritta nella « Gazzetta del Popolo » del 18
dicembre 1922.
14. ↑ Umberto Massola, in « L'Antifascista », dicembre 1962.
15. ↑ G. Carcano, cit., pp. 64-65.
16. ↑ Detto Pietro: su di lui cfr. la nota biografica dell'ANPI.
17. ↑ In G. Carcano, cit., pp. 59-60.
18. ↑ Notizie sulla composizione delle squadre fasciste sono contenute
in Dante Maria Tuninetti, Squadrismo, squadristi, piemontesi,
Roma, Pinciana 1942.
19. ↑ Lo squadrista e poi repubblichino F. G., importante esponente
del fascismo piemontese che non volle che fosse pubblicato il suo
nome in un’intervista concessa nel 1972, dichiarò che in quei giorni
il Porro, appartenente alla squadra « Enrico Toti » indicò delle
persone, ma « non ammazzò nessuno ». Va tenuto conto che
quando l'intervista fu rilasciata l’ingegner Luigi Porro, dirigente
d’azienda, era ancora vivo. Cfr. G. Carcano, cit., p. 112.
20. ↑ Al tempo, giovane operaia comunista che poi sposò Luigi Longo
e divenne una dirigente di primo piano del PCI.
21. ↑ G. Carcano, cit., p. 115.
22. ↑ Dalla relazione dell'inchiesta Gasti-Giunta.
23. ↑ Andrea Viglongo, intervista del 23 ottobre 1971, in G. Carcano,
cit., pp. 82-83.
24. ↑ Secondo la deposizione del deputato socialista Filippo Amedeo
all'inchiesta Giunta-Gasti, gennaio 1923, in G. Carcano, cit., p. 85.
25. ↑ In G. Carcano, cit., pp. 91-92.
26. ↑ G. Carcano, cit., pp. 66-70.
27. ↑ A. Viglongo, in G. Carcano, cit., p. 91.
28. ↑ G. Carcano, cit., pp. 92-94.
29. ↑ G. Carcano, cit., pp. 98-99.
30. ↑ « Il Risorgimento », 1 maggio 1925.
31. ↑ Rilasciata a l'«Avanti!» il 21 marzo 1947.
32. ↑ Questo decreto sarà revocato il 27 luglio 1944. L'Oviglio (18731942), fascista della prima ora, cercò di separare le sue
responsabilità dal fascismo, dimettendosi dopo il delitto Matteotti:
quando si avvide che il fascismo aveva superato anche quella
prova, ritornò tra le sue fila e fu nominato senatore.
[modifica]Bibliografia

Francesco Antonio Repaci, Terrorismo fascista: la strage di Torino del
1922, Torino, Eclettica 1945

Walter Tobagi, Gli anni del manganello, Milano, Fratelli Fabbri Editore,
1973

Giancarlo Carcano, Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al
1971, Milano, La Pietra 1973

Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, 5 voll., Torino,
Giulio Einaudi 1967-1975 ISBN 8806138774
[modifica]Voci
correlate
[modifica]Collegamenti

Pietro Ferrero

Strage di Barbania
esterni

La Camera del Lavoro di Torino
Categoria: Fascismo
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