La libertà di manifestazione del pensiero nei

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La libertà di manifestazione del pensiero nei
31 maggio 2012
Estratto da “La libertà di manifestazione del pensiero nei rapporti di lavoro”
Tesi di Laurea in Giurisprudenza di Martina Cannella
Università degli Studi di Napoli - Federico II
(…)
1.4 Diritto di critica e whistleblowing
Costituisce ulteriore specificazione del diritto della libera manifestazione del
pensiero, il diritto di critica, che, così come costituzionalmente previsto e garantito,
consiste in un'attività razionale di contrapposizione di idee e convincimenti e, quale
specificazione del più generale diritto di opinione, si estrinseca nella esplicitazione di
giudizi sull'altrui operato o comportamento obiettivo.
La critica può essere concettualmente definita come censura o come qualunque
manifestazione di pensiero che sottopone a verifica l’oggetto da criticare per
coglierne aspetti eventualmente negativi1.
Con la tutela del diritto di critica, l’ordinamento garantisce quell’aspetto della libertà
di pensiero che più di ogni altro è funzionale alla dialettica democratica.
In realtà, quando si parla di diritto di critica, si vuole legittimare qualcosa che va ben
al di là della mera opinione, in quanto le potenzialità dell’art. 21 della Costituzione
sono ben altre.
1
G. VECA, Osservazioni in merito al diritto di critica del dipendente e rapporto di lavoro subordinato, in Resp.
Civ. prev., 2005
Sarebbe estremamente frustrante per l’art. 21, sapersi in grado di tutelare soltanto un
generico, umile ed innocuo “secondo me”: mentre la libertà di opinione permette di
esprimere la propria idea su una questione, giusto per aggiungere una voce alle altre,
il diritto di critica, invece, è qualcosa di totalmente diverso.
Quest’ultimo, infatti, è dura contrapposizione, è mettere a nudo l’inadeguatezza,
l’inaffidabilità, la falsità, gli errori altrui, è voler scuotere e provocare una reazione e
quindi la critica può essere definita, fondamentalmente, come un attacco.
Il lavoratore, oggigiorno, trae la propria forza, in termini di conoscenza e
attendibilità, dal suo inserimento ricettivo nel “flusso continuo di notizie che
attraversa normalmente l’azienda in ogni sua parte”.2
Dal momento in cui è assunto alle dipendenze di un dato imprenditore, infatti, fa
ingresso in quella che è “la sfera professionale privata” di costui, ed in tal modo viene
a disporre di un livello privilegiato di informazione più o meno rilevante a seconda
della posizione rivestita.
Il livello d’informazione dei singoli lavoratori e dei loro rappresentanti risulta poi
ampliato a seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel D. Lgs. n.
626/1994 e successive modificazioni.
Tale decreto ha previsto, infatti, nuovi diritti d’informazione in capo al lavoratore in
merito ai rischi per la sicurezza e la salute connessi all’attività dell’impresa ed ai
2
P. ICHINO, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1979
rischi specifici in relazione all’attività svolta, oltre che con riferimento alle misure di
protezione e prevenzione.
E’ evidente che la manifestazione da parte dei dipendenti dell’impresa di un giudizio
critico o addirittura di una censura, può comportare per la stessa effetti indesiderati,
se non devastanti, in termini di “pubblicità negativa”, in considerazione della
particolare credibilità che la clientela attribuirà a tale valutazione, proprio perché
proveniente da coloro che si dà per scontato abbiano conoscenza diretta e privilegiata
delle ”vicissitudini interne” dell’organizzazione.
In una società quale quella attuale, quindi, in cui l’opinione pubblica e i mezzi di
comunicazione di massa risultano disporre di un potere e di un ruolo sempre più
significativi, la trasmissione di informazioni e opinioni, laddove esercitata dal
lavoratore in merito a vicende concernenti l’impresa, può “colorarsi” di diverse
peculiari funzioni.
Tale divulgazione, infatti, se attuata in un contesto di relazioni di lavoro di tipo
conflittuale, si può convertire in un rilevante strumento di pressione in mano ai
lavoratori.
La libertà di espressione può cioè assumere una funzione “rivendicativa”, soprattutto
ai fini del perseguimento di interessi collettivi: l’effettiva utilizzazione, o addirittura
la sola minaccia di utilizzazione, dei mezzi di comunicazione per trasmettere
informazioni ed esprimere opinioni critiche con riferimento all’impresa, infatti, può a
volte assumere un peso persino più decisivo dello sciopero.
Affiancata o meno alla funzione rivendicativa, la libertà di espressione può svolgere
poi, una funzione di denuncia qualora, ad esempio, uno o più lavoratori diffondano,
all’interno dell’impresa e/o nei confronti dell’opinione pubblica, informazioni in
merito ad irregolarità, anomalie od anche condotte illecite dell’impresa con
l’obiettivo di ottenere l’eliminazione delle stesse.
In quest’ultima ipotesi ci troviamo di fronte al cosiddetto “whistleblowing”,
espressione coniata oltreoceano e traducibile in italiano con il termine di “soffiata” o,
più semplicemente di denuncia.
Il “whistleblower” è il lavoratore che denuncia, all’interno dell’impresa od in
determinati
casi
pubblicamente,
situazioni
produttive
o
disfunzioni
nell’organizzazione aziendale che possano comportare un rischio per la salute o la
sicurezza degli individui o dell’ambiente e che possano, quindi, integrare gli estremi
di un illecito imputabile al datore di lavoro.
Tale espressione, nonostante il successo riscosso nella letteratura comparata europea,
non è stata tuttavia adottata dal legislatore britannico, il quale ha preferito, ad un
termine forse evocativo, quanto meno in passato, di giudizi sociali negativi, la più
neutra intitolazione di Public Interest Disclosure Act 1998 (PIDA).
Il fenomeno whistleblowing è solo una, sebbene tra le più rilevanti, delle possibili
forme di esercizio del cosiddetto diritto di critica del dipendente, un diritto, è
opportuno sottolinearlo, unanimemente considerato espressione della libertà di
manifestazione del pensiero.
Tale diritto, infatti, non costituisce esclusivamente strumento attraverso il quale
denunciare “particolari” dinamiche interne, ma può rivestire anche una funzione che
è possibile definire “collaborativa o cooperativa”.
La libertà di espressione svolge in tal caso il ruolo di dissenso costruttivo, di
strumento per migliorare l’organizzazione dell’attività e la qualità della produzione
dell’impresa.
Una funzione che la magistratura ha richiamato più volte, sottolineando che
“denunciare
con
adeguata
risonanza,
inadempienze,
omissioni
o
anche
comportamenti sospetti o apertamente illegali nella conduzione aziendale, lungi dal
porsi in conflitto con il dovere di fedeltà e collaborazione che incombe sul
dipendente, può anzi giovare all’interesse dell’impresa rettamente inteso e tradursi
in un concetto più generale ed elevato di collaborazione”3.
Un esempio di diritto di espressione sancito in capo al lavoratore in funzione di
cooperazione, si ritrova nell’art. L. 416-1 del code du travail francese, a norma del
quale è, da un lato, garantito ai lavoratori nei luoghi di lavoro un diritto di espressione
diretta e collettiva sul contenuto, le condizioni di esercizio e l’organizzazione del loro
lavoro e, dall’altro, vietato irrogare sanzioni disciplinari, nonché il licenziamento,
motivati dalle opinioni espresse nell’esercizio di quel diritto.
L’originalità di tale istituto risiede nell’essere al contempo un diritto individuale e di
partecipazione4: è individuale in quanto ciascun lavoratore può direttamente
3
Trib. Palermo, 24 maggio 1995, in Orient. Giur. Lav., 1995, I, 316
4
G. LYON-CAEN – J.PELISSIER – A.SUPIOT, Droit du travail, Paris, Dalloz, 1996
esprimere la propria opinione e presentare reclami o suggerimenti, anche se tanto la
discussione quanto l’esternazione avvengono collettivamente, cioè all’interno e per il
tramite di un gruppo (groupe d’expression) e non nell’ambito di colloqui individuali
tra lavoratore e un membro della gerarchia aziendale.
E’anche un diritto di partecipazione, poi, poiché i lavoratori, riuniti in piccoli gruppi,
possono discutere e definire le attività da realizzare per migliorare le condizioni,
l’organizzazione del lavoro e la qualità della produzione nell’unità di appartenenza di
ciascun gruppo e nell’impresa in generale.
Si presenta in parte sovrapposta alla questione della plurifunzionalità del diritto di
critica, quella della molteplicità degli interessi coinvolti nel suo esercizio: il
bilanciamento di tali interessi, di natura individuale o collettiva, costituisce infatti,
uno dei principali criteri di valutazione adottati in concreto dal giudice.
Si tratta, in particolare, di contemperare tra loro il diritto alla reputazione e all’onore
del soggetto “criticato”, la contrapposta libertà d’opinione di colui che critica, nonché
l’eventuale terzo interesse, cioè l’interesse finale cui risulta funzionalmente ed in
ultima istanza rivolto l’esercizio della critica e che può avere natura individuale,
collettivo-sindacale oppure pubblico-generale.
Indipendentemente da quale delle suddette finalità e interessi persegua il lavoratore
contestatario, rimane immutata la questione di fondo e cioè l’individuazione dei limiti
che il lavoratore, se vuole evitare di incorrere in una sanzione disciplinare, non deve
oltrepassare nel diffondere notizie o valutazioni critiche con riferimento all’operato
del datore di lavoro.
E’ evidente che il conflitto tra l’interesse al silenzio e l’interesse alla libertà di
comunicare idee ed informazioni non può essere risolto dall’ordinamento con un
taglio netto, con una delimitazione a priori di zone del silenzio e zone della libertà di
comunicazione5.
Risulta necessario, poi, considerare che il titolare del diritto al segreto, in tal caso, è
una persona giuridica o un imprenditore in quanto tale e che pertanto la tutela è
apprestata non alla personalità umana ma ad interessi economici.
La giurisprudenza, seppur frammentaria e molto eterogenea nella fattispecie in
esame, ha, in questi anni, cercato di fornire alcuni possibili indici di soluzione del
conflitto, visto il considerevole aumento del numero di pronunce in materia,
cercando, pertanto, di individuare alcuni punti fermi in merito.
In considerazione della varietà dei casi decisi, l’obiettivo preliminare è stato quello di
porre in rilievo la presenza o meno di determinati elementi, la cui valutazione è
risultata essenziale per la risoluzione della fattispecie concreta.
I giudici, quindi, si sono soffermati sulla sussistenza e la tipologia dell’interesse
“terzo” perseguito (in particolare la sua natura individuale, collettivo-sindacale o
pubblica), il ruolo di rappresentanza sindacale rivestito dal soggetto contestatore, il
contesto conflittuale, l’ambito di diffusione interno o esterno all’azienda, sulle
espressioni critiche ed infine sul carattere denigratorio o offensivo della critica.
5
P. ICHINO, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1979
Una prima importante “tessera” del mosaico è stata una sentenza della Cassazione del
1986, che ha rappresentato per lungo tempo l’unico punto di riferimento in materia,
riguardante una vicenda catalogabile come tipico esempio di “whistleblowing”.
Dai fatti di causa emergeva, infatti, che due lavoratori, un tecnico di radiologia ed
un’infermiera, ricoprenti la non ben precisa veste di “sindacalisti”, erano stati
licenziati per aver diffuso notizie ritenute atte a screditare l’Istituto loro datore di
lavoro.
Avevano denunciato, infatti, a più riprese, deficienze di organico ed inefficienze della
struttura paraospedaliera di appartenenza, prima con un esposto alla magistratura,
anche affisso nella bacheca di un locale dell’Istituto accessibile al pubblico, poi con
un esposto alle autorità regionali ed infine con dichiarazioni rese alla televisione e a
un quotidiano.
Le modalità e l’ambito prescelti per la diffusione della denuncia, esorbitavano, a dire
della Corte, dalla dimensione aziendale, così come l’oggetto della critica coinvolgeva
non solo le condizioni lavorative in cui versavano i dipendenti, ma anche la generale
situazione dei servizi sanitari rivolti al pubblico, il tutto in un contesto di fatto
caratterizzato da precedenti iniziative di protesta dei lavoratori.
Nella motivazione della sentenza la Suprema Corte osservava, innanzitutto, che il
diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero in forma critica, a tutti
costituzionalmente garantito dall’art. 21 della Costituzione, “deve essere giustificato
dal soddisfacimento di interessi di rilievo, sul piano giuridico, almeno pari a quello
del bene leso”.
Pur evidenziando le peculiarità del contesto lavorativo, ed a tal fine richiamando gli
obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione che incombono sul prestatore di
lavoro, la Corte si orientava però ad abbracciare una visione più generale del
problema, stilando una sorte di pro memoria per il giudice di rinvio, ed attribuendo
valore decisivo a parametri presi ”di peso” dalla giurisprudenza formatasi attorno alla
responsabilità del giornalista, trasponendoli, senza particolari adattamenti, nel diverso
contesto del rapporto di lavoro.
In particolare si affermava l’esigenza, ai fini dell’accertamento della liceità/ illiceità
della condotta del denunciante sul piano del rapporto di lavoro, di valutare in
concreto alcuni elementi-chiave.
Risultava necessario, dunque, verificare se il comportamento addebitato al lavoratore
si fosse tradotto in un’obiettiva lesione alla reputazione del datore di lavoro e/o dei
dirigenti, se le accuse fossero funzionali alla realizzazione di interessi giuridicamente
rilevanti; se le modalità e l’ambito di diffusione delle accuse fossero risultati
ragionevolmente adeguati alle esigenze di tutela di tali interessi; se i fatti denunziati
fossero in tutto o in parte veri; ed infine, e qui la Corte ritorna al “particolare”, se la
condotta, valutata nel suo aspetto oggettivo e soggettivo e con particolare riferimento
al requisito della fiducia, fosse compatibile o meno con la prosecuzione del rapporto
di lavoro.
La Corte, in buona sostanza, evidenziava le assonanze della materia con la diversa
problematica della libertà di stampa, sino a costruire su di esse un giudizio di
equivalenza6.
In relazione al principio della continenza sostanziale, si richiedeva, poi, che i fatti
narrati, suscettibili di arrecare danno alla reputazione e all’immagine dell’azienda,
corrispondessero a verità, cioè a fondamentali criteri di veridicità e obiettività7.
Il metro di valutazione adottato dalla giurisprudenza per verificare la sussistenza di
tali requisiti nell’esercizio del diritto di critica, era fondato sul “riscontro” delle
affermazioni, ossia sulla possibilità del lavoratore di dimostrare quanto affermato.
In proposito è stato notato come l’orientamento della giurisprudenza, ancora oggi, sia
improntato ad assoluto rigore, non ammettendo né la verità putativa di un fatto, né la
verosimiglianza o la seria attendibilità delle notizie divulgate.
Ma la legittimità della critica del lavoratore soggiace altresì al principio di continenza
formale, che impone il ricorso alla formulazione di opinioni ed espressioni che, anche
se apertamente polemiche, siano rapportate ai parametri di correttezza e civiltà
desumibili dalle fondamentali regole del vivere civile8.
La critica “scorretta”, espressa, cioè, non in forma moderata, ma con modalità lesive
dell’immagine e del decoro del datore di lavoro, viene, pertanto, considerata illecita.
6
O. MAZZOTTA, Diritto di critica e contratto di lavoro, in Foro It., 1986, I, 1878
7
Cass. 22 agosto 1997, n. 7884, NGIL, 1997, 646
8
L. FAILLA, Diritto di critica e rapporto di lavoro, 1998
Tuttavia, in relazione al requisito della veridicità dei fatti divulgati è legittimo
chiedersi se esso si traduca in un preventivo obbligo di accertamento della verità da
parte dei dipendenti denuncianti.
Tale obbligo sarebbe sostenibile, è stato affermato, se i lavoratori potessero
interrogare parti, testi, ordinare accertamenti, cioè disporre del potere inquisitorio,
potere spettante, invece, alla magistratura, la quale il cittadino ha la facoltà (ed in
alcuni casi l’obbligo, se in possesso di particolari status) di sollecitare.
Si pensi al caso di un lavoratore che dubiti fondatamente della sicurezza di un
determinato prodotto dell’azienda presso cui lavora: il rigoroso requisito della
veridicità del fatto potrebbe in concreto dissuadere il dipendente dal manifestare ad
altri il suo fondato dubbio.
Certo è che, se s’intende perseguire l’obiettivo d’incoraggiare il lavoratore a
segnalare anche solo un fondato sospetto, in modo che chi ha i mezzi per porre in
essere i necessari accertamenti sulla rispondenza al vero del fatto denunciato possa
farlo, allora è evidente che il requisito della continenza sostanziale è eccessivo,
mentre sarebbe senz’altro più opportuno limitarsi a richiedere la verità putativa, da
intendersi come seria attendibilità, dei fatti denunciati.
In relazione alla questione riguardante gli interessi in gioco, può essere interessante
accennare alla pronuncia della Cassazione, ed in particolare alla parte del
ragionamento del giudice di rinvio incentrata sul cosiddetto giudizio di
“bilanciamento dei diritti”.
Tale contemperamento è stato operato dal Tribunale attraverso una distinzione tra
diritti afferenti a beni individuali, tra i quali si pone un’esigenza di equiparazione (nel
caso di specie il diritto all’onore e alla reputazione dei dirigenti della struttura
ospedaliera denunciata e il diritto di critica dei lavoratori), e diritti finalizzati alla
tutela d’interessi collettivi, ai quali la Costituzione conferisce valore preminente.
E’ dato, infatti, a volte, consentire il sacrificio dei primi per un più completo
soddisfacimento dei secondi e il diritto alla salute degli utenti dell’impresa
considerata, che i denuncianti si prefiggevano di tutelare, rientra senza dubbio nella
seconda delle suddette categorie.
Ad opinione del giudice di rinvio, quindi, la condotta dei lavoratori, quand’anche
fosse stato possibile configurare una lesione del diritto all’onore del datore di lavoro,
sarebbe stata comunque lecita, in quanto finalizzata alla protezione di un diritto
sovraordinato, quale quello della pubblica salute.
La diffusione di notizie pregiudizievoli all’esercizio dell’impresa sarebbe, pertanto,
risultata giustificata dalla presenza di un’adeguata ragione.
Importante è anche soffermarsi sull’ambito di diffusione della critica.
E’ infatti necessario distinguere tra la critica “riservata” che resta nell’ambito
interprivato dei soggetti coinvolti, dalla critica “pubblica” o comunque resa tale.
Si può infatti constatare come le denunce pubbliche di anomalie dell’impresa, che
mirano cioè ad ottenere una rilevante risonanza esterna dei fatti denunciati, più
difficilmente conducono ad una declatoria di illegittimità della sanzione disciplinare
irrogata a differenza della critica più discreta, non esorbitante, cioè, l’ambito
aziendale, che ha incontrato più facilmente il favore della giurisprudenza.
Di poco successivo alla vicenda sin qui esaminata è il famoso arret Clavaud,
pronunciato dai giudici della Suprema Corte francese in merito ad una vicenda che,
sebbene anch’essa catalogabile come esempio di whistleblowing, presenta elementi
alquanto peculiari, che per molti aspetti la differenziano dal caso italiano appena
descritto.
La causa scatenante dell’affaire è stata la pubblicazione sul quotidiano L’Humanitè di
un articolo (Volo notturno. Le fabbriche, bagliori nella notte, restano un mistero. Che
cosa accade dietro quelle mura?),in cui l’operaio Alain Clavaud, intervistato da un
giornalista, racconta una notte di lavoro in fabbrica.
Trattasi di una testimonianza sulla realtà della condizione operaia nella sua banalità
quotidiana basata sull’usura del corpo, rumore, ripetitività dei movimenti, ma anche
di riflessioni disincantate sul valore aggiunto del lavoro prodotto, pagato 10 F a
pezzo, sulla solidarietà difficile..etc.”9.
Dopo aver ottenuto, in primo e secondo grado, la declatoria di nullità del
licenziamento (intimatogli a seguito della pubblicazione dell’intervista), il lavoratore
uscì vittorioso anche dall’ultimo grado di giudizio, avendo esercitato, nell’intervista
incriminata, la più generale libertà d’espressione.
Concludendo, è proprio l’irriducibile diversità delle vicende vagliate dai giudici in
questi anni, a condurre all’ovvia considerazione secondo cui nessun criterio generale
9
M. HENRY, La nullitè du licenciement sanctionnant l’exercice de la libertè d’expression, Paris, 1987
può sostituire completamente la valutazione comparativa degli interessi contrapposti
che dovrebbe essere da loro operata caso per caso10.
Soluzioni interpretative abbastanza agevoli potranno verosimilmente aversi tanto in
caso di abuso del diritto di critica da parte del dipendente, quanto in ipotesi di
evidente perseguimento d’interessi meritevoli di tutela, quali le aspettative della
persona in tema di salute o di promozione della dignità e della libertà, nonché
relativamente ad interessi di rilievo pubblico.
Non altrettanto, però, può dirsi nei casi che ricadono nella c.d. “zona grigia”, ossia
quella compresa tra i due estremi, ove sarà più delicato l’intervento dell’interprete e
pertanto più ampio il suo già ampio potere discrezionale, ad evidente pregiudizio
dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.
Un’altra questione meritevole di trattazione è quella relativa al valore da attribuire
all’art. 2105 c.c., che intitolato “obbligo di fedeltà”, sancisce il divieto per il
lavoratore di “divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione
dell’impresa o farne uso in modo da recare ad essa pregiudizio”.
Nonostante il tenore della rubrica di tale norma, che richiama tracce di memoria
corporativistica ormai superate, è pacifico che l’obbligo di fedeltà (come quello di
diligenza) non costituisce un vero e proprio obbligo del lavoratore, nel senso di
posizione giuridica autonoma, ma configura a carico del lavoratore, un obbligo a
comportamenti omissivi, integrativi della prestazione di lavoro subordinato11.
10
P. ICHINO, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1979
11
L. GALANTINO, Diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1996
Conviene domandarsi, tuttavia, se tale norma postuli la figura di un lavoratore
necessariamente tollerante, se non addirittura connivente, rispetto a quanto di bene o
male faccia il datore di lavoro nell’impresa.
La Suprema Corte, in una significativa sentenza, ha ritenuto, che il diritto di critica
nell’ambito del rapporto di lavoro, si atteggia in modo particolare in ragione degli
obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione al datore di lavoro e che pertanto
può essere esplicato solo qualora sussistono adeguate ragioni12.
Ed è in questo concetto dilatato di fedeltà, nonché tra le sue cosiddette “propaggini
extratestuali”13, che parte della giurisprudenza ha annoverato la fattispecie del divieto
di divulgare notizie e giudizi pregiudizievoli all’impresa, a prescindere dall’oggetto
di tali informazioni.
Non si può però dimenticare, tuttavia, che i divieti di divulgazione e di uso descritti
dall’art. 2105 c.c., non si riferiscono ad ogni notizia riguardante l’impresa o appresa
al suo interno, ma hanno un oggetto determinato, costituito dalle notizie “attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione”, nel cui ambito non può rientrare, se
non con un’evidente forzatura del testo, qualsiasi notizia di carattere amministrativo,
commerciale o finanziario riguardante l’impresa.
Solo una concezione molto ampia del dovere di fedeltà, totalmente sganciata dal testo
dell’art. 2105 c.c., può, quindi, permettere di invocare tale disposizione per limitare
tout court il diritto di critica del lavoratore.
12
13
P. TULLINI, Su di una nozione allargata di fedeltà, in Riv. It. dir. lav., 1988
G. TRIONI, Due fattispecie extratestuali d’infedeltà: la denigrazione e la frode in malattia, in Riv. It. Dir. lav.,
1987
Con riferimento, invece, al diverso profilo delle possibile conseguenze, all’interno del
rapporto di lavoro, di un esercizio della critica che esorbiti dai limiti consentiti,
l’irrogazione di un provvedimento disciplinare costituisce di regola l’unica reazione
del datore di lavoro, per lo più nella versione della sanzione disciplinare estrema del
licenziamento in tronco.
L’esercizio abusivo del diritto di critica potrebbe altresì indurre il datore di lavoro ad
un’azione per il ristoro dei danni subiti, iniziativa, però, che ha nei fatti scarsa
incidenza pratica per la difficoltà del lavoratore di risarcire il danno.