Istituto MEME: Il minore sessualmente abusato

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Istituto MEME: Il minore sessualmente abusato
UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
“SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”
IL MINORE SESSUALMENTE ABUSATO
VICENDE PROCESSUALI E TRATTAMENTO TERAPEUTICO
Chiara Mastrangelo
Matricola 2153
Bruxelles, giugno 2009
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA
UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
CHIARA MASTRANGELO – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2008 – 2009
ASSOCIATO
Indice
INTRODUZIONE
pag. 5
CAPITOLO I
La realtà dell'abuso sessuale
pag. 8
1 - La cultura dell'infanzia: dal bambino battuto al bambino abusato
pag. 8
2 - Lo studio del fenomeno dell'abuso sessuale in Italia
pag. 10
3 - La violenza sui minori
pag. 11
3.1. Come classificarla
pag. 11
3.2. Le radici della violenza
pag. 12
4 - Maltrattamento
pag. 15
4.1. Maltrattamento fisico
pag. 15
4.2. Maltrattamento psicologico
pag. 19
5 - Abuso sessuale
5.1. La definizione del termine "abuso sessuale sui minori"
6 - Gli interventi legislativi contro l'abuso sessuale sui minori
pag. 19
pag. 19
pag. 26
6.1. La realtà dell'abuso: elementi descrittivi
pag. 42
6.2. Gli indicatori dell'abuso sessuale
pag. 51
6.3. Le conseguenze dell'abuso sessuale
pag. 52
7 - L'incesto: tra diritto e sentire sociale
pag. 57
7.1. Cenni storici
pag. 57
7.2. La definizione giuridica di incesto
pag. 58
7.3. L'incesto nella società
pag. 62
7.3.1. I vari tipi di incesto
pag. 62
7.3.2. "Incesto" padre-figlia
pag. 65
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7.3.3. Le conseguenze "dell'incesto"
pag. 68
CAPITOLO II
Dalla rivelazione all'accertamento: testimonianza verbale del minore
pag. 72
2.1. La denuncia di abuso
pag. 72
2.1.1. Gli obblighi di denuncia da parte dei soggetti che rivestono funzioni
o incarichi di natura pubblica
pag. 75
2.1.2. Conflitto fra l'obbligo di referto e l'obbligo al segreto professionale
pag. 77
2.2. Il ruolo del Tribunale ordinario e del Tribunale per i minorenni
pag. 78
2.3. L'intervento terapeutico
pag. 79
2.4. Gli aspetti giuridici della testimonianza del minore sessualmente abusato
pag. 80
2.5. Il problema del ricordo e le tecniche d'intervista
pag. 83
2.5.1. La relazione esistente tra memoria e testimonianza
pag. 85
2.5.2. Le fonti di errore nelle valutazioni di abuso sessuale sui minori
pag. 87
2.5.3. La memoria dei bambini
pag. 91
2.5.4. La corretta modalità d'intervista
pag. 95
CAPITOLO III
Il trattamento terapeutico del minore sessualmente abusato
pag. 100
3.1. Il ruolo del clinico
pag. 100
3.2. La terapia familiare
pag. 101
3.3. L'intervento sui fratelli del minore abusato
pag. 105
3.4. La terapia dell'abusante
pag. 105
3.5. La terapia individuale della vittima di abuso sessuale
pag. 108
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CAPITOLO IV
Una storia vera
pag. 112
4.1. La storia di Claudia
pag. 112
4.2. La perizia medico-ginecologica
pag. 116
4.3. Osservazioni sulle condizioni psicologiche della minore
pag. 119
4.4. Interrogatorio del padre di Claudia
pag. 120
4.5. Commento all'incidente probatorio di Claudia
pag. 132
4.6. Interrogatorio della psicologa
pag. 152
CAPITOLO V
E noi? Cosa possono la famiglia, la società e la scuola
5.1. L’educazione come difesa
pag. 158
pag. 159
CONCLUSIONI
pag. 162
BIBLIOGRAFIA
pag. 167
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Introduzione
I maltrattamenti e le violenze all'infanzia sono sempre esistiti nella storia dell'umanità senza però
averne la consapevolezza che, in tempi recenti, si sta sviluppando. Da alcuni anni, infatti, il tema
relativo all'abuso sessuale sui minori è stato oggetto di sempre maggior attenzione nel nostro paese.
Sono state promosse finalmente iniziative volte alla sensibilizzazione collettiva su questo problema e
sono stati svolti convegni nazionali ed internazionali per professionisti e specialisti riguardanti gli
aspetti sociali, giuridici e psicologici di una questione così delicata e complessa.
Tutto ciò ha portato, come conseguenza, allo sviluppo di una "cultura dell'infanzia" ed ha orientato
l'impegno dei vari professionisti necessariamente verso la protezione dei diritti del minore,
rivolgendo così l'attenzione al "problema sommerso" dei maltrattamenti, delle violenze e negligenze
nei loro confronti (child abuse).
Nei paesi in cui i tradizionali modelli di vita sono mutati si è modificato conseguentemente sia il
ruolo dell'infanzia, sia i modi e gli strumenti per tutelarla. Grazie allo sviluppo delle scienze
psicologiche e pedagogiche ormai viene riconosciuta al bambino la capacità, fin dall'età fetale, di
sperimentare emozioni che hanno un valore strutturante e di formazione per la sua vita futura,
riconoscendogli una maggiore dignità di persona umana con gli stessi diritti dell'adulto. Attualmente,
nel mondo occidentale, si assiste ad una riduzione delle nascite: il bambino sta diventando una sorta
di "razza protetta" e, a livello internazionale, ha assunto enfasi la necessità della tutela e della
promozione dei suoi diritti. Ma, purtroppo, accanto allo sviluppo di questa cultura dell'infanzia si
assiste con sempre maggiore frequenza all'aumento dei casi di violenza, come prodotto dei
cambiamenti sociali e familiari. Secondo gli esperti del settore, infatti, tale aumento delle violenze è
dovuto all'attività di sensibilizzazione compiuta e alla maggior capacità degli operatori di rilevare e
segnalare i casi di abuso.
Da questa trasformazione culturale è derivata anche una diversa valutazione degli abusi che, da atti
criminosi ed antisociali, sono stati interpretati come espressione di un disagio emotivo che riguarda
non solo l'abusato, ma anche l'abusante e tutta la famiglia del minore, con un coinvolgimento,
accanto all'ambito del diritto, di quello delle "emozioni" e della clinica psicologica e psichiatrica. La
"diversa ottica" con cui viene osservato il bambino ed i soprusi che egli può subire, insieme alla
diffusione della nuova cultura e dei nuovi stili di vita, hanno tolto il limite secondo cui il
maltrattamento infantile era circoscritto a quello fisico e sessuale, per sottoporlo così ad
un'interpretazione più ampia in cui vengono presi in considerazione anche la trascuratezza e gli abusi
psicologici. Si è passati dalle prime descrizioni della "sindrome del bambino battuto"
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all'individuazione di forme di violenza più difficilmente riconoscibili ma a volte molto più gravi e
devastanti non solo a livello fisico, ma soprattutto nello sviluppo emozionale e psichico del minore.
Di solito la violenza che viene compiuta su un bambino non è unica ma, contemporaneamente o in
tempi successivi, convergono su di lui varie forme di maltrattamento. È per questo che è più esatto
parlare di "abuso all'infanzia" come derivazione dal termine inglese child abuse, in quanto
onnicomprensivo di tutte le forme di maltrattamenti e violenze. Con questo termine si aderisce anche
alla definizione data dal Consiglio d'Europa, secondo il quale gli abusi sono tutti «gli atti e le
carenze che turbano gravemente il bambino, attentano alla sua integrità corporea, al suo sviluppo
fisico, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico
e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura di lui».
Il progressivo emergere di questo tipo di reati ha posto alle istituzioni, e più in generale alla
collettività, nuovi problemi a molteplici livelli - psicologico, sociale, normativo, giuridico e
giudiziario - che, a loro volta, hanno generato ulteriori problematiche di tipo organizzativo,
formativo e di coordinamento tra operatori di diversa cultura ed etica professionale (dagli operatori
del diritto, magistrati ed avvocati, agli psicologi, assistenti sociali ed educatori).
Con questo studio ho cercato di delineare l'articolato percorso che porta all'accertamento di un caso
di abuso sessuale e le conseguenti fasi del processo penale e "dell'intervento riparativo", dedicando
particolare attenzione alle deposizioni normative che tutelano il minore-vittima.
Ho evidenziato il cambiamento sociale e culturale riguardante l'infanzia, maturato negli ultimi
decenni, e le varie forme di violenza sui minori, che si sono conseguentemente delineate nella
letteratura psicologica.
Maggiore attenzione è stata posta allo studio dell'abuso sessuale (in particolare intrafamiliare), sia
dal punto di vista della difficoltà di elaborare una definizione condivisa da tutti gli operatori del
settore, sia da quello della realtà statistica del fenomeno, sia sotto l'aspetto della disciplina
normativa.
Ho cercato inoltre di individuare l'iter da seguire di fronte ad un presunto abuso sessuale a danno di
un minore e le problematiche esistenti. In particolare è stata valutata la testimonianza del bambino
nell'audizione protetta, sia considerando le caratteristiche del racconto infantile, sia affrontando il
problema dei possibili errori diagnostici che possono commettere gli specialisti nel vagliare
l'attendibilità delle sue parole.
Dallo studio dell'attività pratica svolta contro gli abusi all'infanzia è emerso, come importante
problema, la mancanza di protocolli di intervento per gli operatori, su base nazionale e specifici per i
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vari settori (esistono infatti in Italia solo linee-guida generali per le attività da svolgere in situazioni
di abuso sessuale sui minori), elaborati e validati attraverso le ricerche ed il lavoro dei vari esperti
sul campo, che sarebbero utili al fine di evitare interventi inefficaci o inopportuni. Infatti ciò che è
necessario evitare è l'improvvisazione nell'intervento e i conseguenti errori di diagnosi e riparazione.
Tutto questo crea una forte problematica: la scelta della giusta procedura da utilizzare per raccogliere
e valutare la testimonianza del minore presunta vittima di abuso, in mancanza di analitiche lineeguida.
Infine ho riportato gli atti processuali più rilevanti relativi alla vicenda di una minore di 16 anni
sessualmente abusata dal padre, della quale ho seguito in prima persona parte dell'iter giudiziario
della cui testimonianza ho fatto un commento sulla base delle tecniche di intervista consigliate dagli
esperti e alla luce degli studi psicologici sulle conseguenze derivanti da un tale trauma.
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CAPITOLO 1
La realtà dell'abuso sessuale
1. La cultura dell'infanzia: dal "bambino battuto" al "bambino
abusato"
Storicamente la società non è mai stata particolarmente sensibile al maltrattamento dei minori.
Nell'antichità erano praticati correntemente i sacrifici dei bambini e neonati destinati agli dei;
dall'antica Grecia alla Cina, l'uccisione di bambini deformi o non desiderati era comunemente
accettata e praticata.
Nell'antica Roma l'ordinamento giuridico stabiliva il diritto di vita o di morte del pater familias sui
propri figli. Tale condizione di sottomissione, propria dei minori nella famiglia patriarcale,
rispecchiava due opinioni: anzitutto quella per cui i bambini erano proprietà dei genitori e si riteneva
naturale che questi ultimi avessero pieno diritto di trattare i figli come pensavano fosse giusto, e
conseguentemente quella secondo cui i genitori erano considerati responsabili dei figli, per cui un
trattamento severo veniva giustificato dalla convinzione che potesse essere necessaria una punizione
fisica per mantenere la disciplina, trasmettere le buone maniere e correggere le cattive inclinazioni.
Il concetto di "protezione" del bambino comparì la prima volta nell'anno 529 d.C., quando
Giustiniano promulgò una legge che prevedeva l'istituzione di case per orfani e bambini
abbandonati. Nel Medioevo il concetto di nucleo familiare, inteso come entità adatta ad offrire
protezione ed educazione al fanciullo, era ben diverso da oggi, in quanto nell'ambito socio-culturale
e tradizionale del tempo era normale l'allontanamento del bambino dalla famiglia in età assai precoce
(verso i sette anni); da quella età in poi i compiti educativi erano affidati ad istituzioni al di fuori
della famiglia. Nella scuola, oltre che in famiglia, le pesanti punizioni corporali costituivano lo
strumento pedagogico più utilizzato.
I fanciulli furono probabilmente la categoria che risentì più fortemente delle grandi trasformazioni
della società europea dal XVII al XIX secolo. Il progressivo impoverimento delle classi popolari e il
diffondersi dell'urbanesimo aumentarono enormemente il numero dei minori abbandonati, orfani o
illegittimi, la maggior parte dei quali veniva raccolta da mendicanti e costretta all'accattonaggio e al
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furto. Spesso i bambini venivano storpiati o mutilati per suscitare maggiore compassione e quindi
ottenere elemosine più generose.
Nel XVIII secolo, l'attenzione nei confronti dell'infanzia divenne maggiore sia in Inghilterra - dove
famosi romanzieri inglesi (Scott e Dickens) denunciarono il comportamento della società verso i
minori e, grazie alle loro opere, venne sensibilizzata la coscienza pubblica - sia in Francia - dove, in
seguito alla Rivoluzione francese, la Costituzione del 1793 proclamò che "il bambino non possiede
che diritti". Ma, nonostante questi sviluppi, la protezione dei minori non venne attuata per ancora un
secolo.
Nel XIX secolo sorsero in Europa numerosi istituti per orfani e bambini abbandonati dove essi
vivevano in una condizione di grave disagio psichico e fisico. La gravità dei maltrattamenti subiti da
questi bambini istituzionalizzati può essere ricavata dai dati che emergono dai registri di questi
istituti, che evidenziano un decesso per stenti, incuria e maltrattamento fisico ogni quattro ricoverati.
La denuncia di tale situazione sensibilizzò la pubblica opinione e il maltrattamento dei minori venne
considerato finalmente un problema sociale.
All'inizio del Novecento pedagogia, psicologia e sociologia cominciarono a porsi il problema
dell'infanzia e dei suoi bisogni. Al bambino furono riconosciuti esigenze e bisogni affettivi e
psicologici, fu affermato che i diritti dei minori devono essere tutelati non solo dai genitori, ma da
tutta la società. In quest'ottica, nel 1925 fu approvata a Ginevra la Dichiarazione dei diritti del
fanciullo, in cui è affermato che il minore deve essere posto in condizione di svilupparsi in maniera
normale sia sul piano fisico che spirituale, che i bambini hanno il diritto di essere nutriti, curati,
soccorsi e protetti da ogni forma di sfruttamento.
In seguito, nel 1959, è stata proclamata dall'Assemblea generale dell'ONU la Carta dei diritti del
fanciullo, nella quale è stato ribadito il diritto di nascita (con cure adeguate alla madre e al bambino
nel periodo pre e post-natale), il diritto all'istruzione, al gioco o alle attività ricreative, la protezione
dalle discriminazioni razziali o religiose e il poter vivere in un clima di comprensione e tolleranza.
Tali obiettivi non sono stati ancora completamente raggiunti e nel gennaio 1986 il Parlamento
europeo ha approvato una Risoluzione nella quale si ritrovano le stesse raccomandazioni del
precedente documento, con una particolare attenzione al problema dell'abuso sull'infanzia e sulla
necessità di protezione del minore. Il Consiglio d'Europa, nel gennaio 1990, ha espresso la necessità
di misure preventive a sostegno delle famiglie in difficoltà e misure specifiche di informazione, di
individuazione delle violenze, di aiuto e terapia a tutta la famiglia e di coordinamento tra i vari
servizi.
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Nella metà del XX secolo la professione medica ha iniziato ad essere coinvolta seriamente nel
problema dell'abuso all'infanzia.
Determinante è stato il contributo di Kempe, che nel 1962 ha parlato di "sindrome del bambino
battuto", precisando gli elementi clinici e radiologici utili alla diagnosi. L'autore si è soffermato
sull'importanza dell'interrogatorio ai genitori, che sembrano avere una totale amnesia dell'episodio
che li ha portati ad aggredire il proprio figlio.
Successivamente un altro autore, Fontana, che si è molto occupato del fenomeno, estese il concetto
di maltrattamento alle condizioni di malnutrizione, di mancanza di cure familiari e al maltrattamento
psicologico. Egli vide nel maltrattamento solo la punta emergente del fenomeno "abuso",
ipotizzando che un bambino vittima di violenza può anche non presentare alcun segno di trauma
fisico.
Successivamente, ancora, Kempe suggerì di abbandonare la definizione di battered child e cambiarla
in child abuse and neglect, concetto che esprime meglio gli aspetti del maltrattamento in tutta la loro
estensione.
2. Lo studio del fenomeno dell'abuso sessuale in Italia
In Italia la prima denuncia dell'esistenza, anche nel nostro Paese, del fenomeno "maltrattamento"
comparve nella letteratura clinica, nel 1962, in seguito alle ricerche compiute da Rezza e De Caro.
Queste prime ricerche vennero guardate con sospetto e ironia e si cercò di circoscrivere il problema
dell'abuso e della violenza sui bambini al mondo anglosassone, come se la nostra società ne fosse
stata immune. D'altra parte, sebbene mancassero ricerche epidemiologiche sul tema e la letteratura
italiana fosse quasi inesistente, i dati clinici confermavano l'esistenza di numerosi casi di violenza.
Solo a partire dagli anni Ottanta i grandi mezzi di comunicazione hanno iniziato ad occuparsi
ampiamente dei maltrattamenti all'infanzia e più in generale della violenza intrafamiliare. Secondo
alcuni neuropsichiatri infantili le ragioni di questo ritardo, significativo in Italia ma diffuso in tutti i
paesi mediterranei, sono certamente molteplici e vanno dal carattere tradizionalmente "chiuso",
proprio della struttura familiare, alla diffusa riluttanza e difesa sociale ad ammettere l'esistenza di un
fenomeno riprovevole ed imbarazzante. Ancora più difficile risultava poi accettare che si trovassero
dei bambini maltrattati non solo in seno a famiglie con cattive condizioni socio-economiche, o con
problemi di etilismo o patologie psichiatriche, ma anche in famiglie le cui condizioni sociali,
strutture coniugali e comportamenti esterni apparivano normali, o addirittura benestanti.
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Il problema è stato circoscritto in un primo momento soprattutto agli Istituti per l'Infanzia,
sollecitando inchieste e rilevazioni; in seguito venne studiato in una prospettiva sociologica,
sottolineando il sovraccarico di richieste e compiti che gravano sulla famiglia. Dopo i primi
contributi scientifici ed alcuni fatti di cronaca, in molte parti d'Italia, si formarono varie
Associazioni, volte a prevenire il fenomeno dell'abuso sessuale sui minori, che furono molto attive
nell'organizzazione di convegni e nel cercare di creare i primi contatti tra i vari operatori del settore.
Da tali convegni emerse poi la necessità di chiarire il significato del concetto "abuso sessuale".
3. La violenza sui minori
3.1 Come classificarla
La classificazione della violenza, considerata dagli esperti quella più completa tra le varie esistenti, è
stata proposta da Francesco Montecchi, il quale ritiene che "pur nell'artificiosità degli schemi e delle
classificazioni, queste ci permettono di discriminare e riconoscere il fenomeno per poterlo prevenire
e curare, nonché per poter promuovere e difendere la nuova cultura dell'infanzia, e offrire una più
vasta capacità di attenzione ai problemi e alle esigenze più profonde dell'anima infantile da parte
delle varie categorie di professionisti che si occupano di famiglia e di bambini".
1.
Maltrattamento:
a. fisico: è la forma più manifesta e facilmente riconoscibile;
b. psicologico: è forse l'abuso più difficile ad essere individuato, se non quando ha già
determinato gli effetti devastanti sullo sviluppo della personalità del bambino; in notevole
incremento negli ultimi anni con lo stile di vita della società consumistica e materialistica
e la crisi della famiglia.
2.
Patologia della fornitura di cure. Un tempo identificata nella incuria, in realtà viene individuata
non solo nella carenza di cure, ma anche nella inadeguatezza delle cure fisiche e psicologiche
offerte, considerandole sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Si possono distinguere le
seguenti forme:
a. incuria: cioè la carenza di cure fornite (la cosiddetta violenza per omissione);
b. discuria: quando le cure, seppur fornite, sono distorte ed inadeguate se rapportate al
momento evolutivo del bambino;
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c. ipercura: quando viene offerto, in modo patologico, un eccesso di cure. In questo gruppo
è compresa la sindrome di Münchhausen per procura, il medical shopping e il chemical
abuse.
3. Abuso sessuale. Tale forma di abuso è onnicomprensiva di tutte le pratiche sessuali manifeste o
mascherate a cui vengono sottoposti i minori e comprende:
a. abuso sessuale intrafamiliare. Non riguarda solo quello comunemente considerato tra
padri o conviventi e figlie femmine, ma anche quello tra madri o padri e figli maschi,
nonché forme mascherate in inconsuete pratiche igieniche; è attuato da membri della
famiglia nucleare (genitori, compresi quelli adottivi e affidatari, patrigni, conviventi,
fratelli) o da membri della famiglia allargata (nonni, zii, cugini ecc.; amici stretti della
famiglia);
b. abuso sessuale extrafamiliare. Interessa indifferentemente maschi e femmine e riconosce
spesso una condizione di trascuratezza intrafamiliare che porta il bambino ad aderire alle
attenzioni affettive che trova al di fuori della famiglia; è attuato, di solito, da persone
conosciute dal minore (vicini di casa, conoscenti ecc.).
Non è affatto infrequente che vengano attuate da parte di più soggetti forme plurime di abuso (ad
esempio, abuso intrafamiliare e contemporaneo sfruttamento sessuale a fini di lucro; abuso da parte
di adulti della famiglia e di conoscenti, ecc.).
3.2 Le radici della violenza
I cosiddetti "rischi o fattori di violenza" (soprattutto familiare) sono stati individuati utilizzando il
"modello ecologico di Bronfenbrenner", secondo quattro livelli di analisi:

le caratteristiche individuali;

il contesto sociale immediato;

il contesto ambientale più ampio;

il contesto sociale e culturale.
Riguardo alle caratteristiche individuali, il basso livello di autostima, lo scarso controllo
dell'impulso, l'affettività negativa e l'eccessiva risposta allo stress sicuramente aumentano la
probabilità che un individuo possa divenire perpetratore di violenza familiare. Anche la dipendenza
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da alcool e droghe gioca un ruolo importante sia come fattore di rischio sia come elemento
predisponente alla violenza.
In relazione al contesto sociale immediato, le caratteristiche del sistema familiare hanno importanti
implicazioni per l'eziologia o l'esercizio della violenza intrafamiliare: a questo proposito occorre
citare la struttura e la dimensione della famiglia ed anche eventi "paranormativi", come la perdita di
un lavoro o la morte di un familiare. Alcuni autori hanno rilevato che le famiglie che abusano dei
loro figli sono spesso caratterizzate da un maggior numero di eventi stressanti, anche se ciò non vuol
dire che tutte le famiglie colpite da tali eventi abusino dei loro figli; tuttavia, laddove ciò accade,
pare che gli abusanti siano più aggressivi e ansiosi dei non abusanti.
In riferimento al contesto ambientale più vasto, la violenza intrafamiliare è legata anche alle
caratteristiche della comunità in cui la famiglia è collocata, come la povertà, l'assenza di servizi per
la famiglia, l'isolamento e la mancanza di coesione sociale. Inoltre alti livelli di disoccupazione,
abitazioni inadeguate e violenza nella comunità contribuiscono ad aumentare il rischio.
Considerando che certamente non tutte le famiglie povere abusano dei propri figli, varie ricerche
hanno sottolineato che la principale differenza tra famiglie povere che abusano dei figli e quelle che
non abusano consiste nel grado di coesione sociale e di assistenza reciproca trovata nelle loro
comunità. Altre ricerche successivamente hanno dimostrato che le famiglie abusanti socializzano
meno con i propri vicini di casa rispetto alle famiglie non abusanti.
Infine, la ricerca ha dimostrato che esiste uno specifico contesto sociale e culturale della violenza
intrafamiliare. Si ritiene, infatti, che tale tipo di violenza sia compiuta attraverso precisi valori
culturali: basti pensare all'uso della punizione fisica nella privacy familiare.
Ma se cause facilitanti la violenza dei minori (concause) possono essere le difficili condizioni di vita
della famiglia (povertà, emarginazione, solitudine) e/o cause psicologiche (frustrazioni personali,
immaturità, ecc...), da vari studi emerge che la "vera causa" sia il fatto che il genitore, che maltratta
il figlio, abbia avuto nella propria infanzia tristi esperienze di abuso o di trascuratezza. La cosiddetta
ripetitività dell'abuso o ciclo intergenerazionale della violenza sembra essere, infatti, l'aspetto più
caratteristico delle storie di famiglie che compiono maltrattamenti o abusi, dove l'azione violenta o
di trascuratezza viene trasmessa da una generazione all'altra. Secondo un'altra ipotesi questa
"familiarità" della violenza in famiglia potrebbe ascriversi ad una causa genetica piuttosto che
ambientale, nonostante l'influenza dell'ambiente sia nondimeno rilevante.
A parte queste diverse tesi, si può sicuramente affermare che l'abuso può compromettere le normali
tappe dello sviluppo del bambino come la formazione del legame di attaccamento, la regolazione
affettiva, lo sviluppo dell'autostima e le relazioni con i coetanei. In particolare persistono, anche
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nell'età adulta, disturbi relazionali rappresentati da sentimenti di paura e di ostilità nei confronti delle
figure parentali e reazioni di forte diffidenza nei confronti di altri adulti e dei partners; inoltre si
rilevano varie disfunzioni del comportamento sessuale, tendenza alla prostituzione, alla
tossicodipendenza e all'alcoolismo e tutto questo può costituire una predisposizione per compiere
violenza sui propri figli, ma ciò non è detto che avvenga.
Comunque bisogna anche aggiungere che la violenza sui minori è strettamente legata al più generale
fenomeno della violenza diffusa nella società (affermazione accreditata dal fatto che ci sono anche
tantissime violenze al di fuori della famiglia). E questo non soltanto perché chi subisce quotidiana
violenza tende ineluttabilmente a scaricare le proprie frustrazioni sui soggetti più deboli che gli sono
vicini e che appaiono sotto il suo dominio, quanto principalmente perché sono identiche le cause
culturali di ogni forma di violenza.
Nella società attuale si è cominciato a credere che l'educazione sia equivalente al condizionamento
del comportamento umano e quindi che, con l'eccessivo utilizzo dell'attività educativa, siano venute
meno la spontaneità e la libertà dei processi maturativi del bambino. Ma contro tale affermazione
bisogna sostenere che "il condizionamento sociale è lo strumento che ha reso umano l'uomo" e per
questo importantissimo. Il problema perciò non è di ridurre il condizionamento sociale ma di
individuare quale condizionamento bisogna porre in essere e con quali scopi: bisogna mettere in atto
dei condizionamenti utili al bambino, limitandoli al massimo, ma soprattutto essendo sempre tesi ad
impedire che diventino deterministicamente operanti e dunque tali da soffocare le possibilità ed
aspirazioni del bambino, per trasformarli al contrario in suggerimenti e spinte esistenziali positive.
Inoltre bisogna rendersi conto che, nella società moderna, l'infanzia è stata collocata all'interno della
famiglia ed i bambini sono considerati un'appendice dei genitori. Il fenomeno esistente è quello dell'
"adultocentrismo", dove sono i bambini che devono adeguarsi alle abitudini degli adulti e non
viceversa. Quindi, è un "bambino a rischio" quello che non riesce a trarre dall'ambiente (socioculturale in senso ampio) tutte le risorse necessarie per un suo armonico e pieno sviluppo psicofisico e relazionale.
Secondo alcune ricerche è emerso che ogni agente causale, sia se considerato isolatamente, sia in
associazione con altri, può essere responsabile solo di una parte dell'evento di violenza realizzatosi.
Infatti è stato osservato che molte persone (anche minori) presentano la capacità di mantenere un
discreto adattamento anche in condizioni di vita particolarmente sfavorevoli: questo perché, magari,
i fattori di rischio che esistono nella loro condizione di vita, sono neutralizzati - o comunque
affievoliti - dai cosiddetti "fattori protettivi" (ad esempio la relazione soddisfacente con almeno un
componente della famiglia).
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4. Maltrattamento
Il maltrattamento presenta un quadro clinico fortemente variabile ed è un termine molto ampio sia
perché comprende al proprio interno le conseguenze di due tipi di eventi, "attivi" (come la violenze
fisica, psichica o l'abuso sessuale) e/o "passivi" (come la mancanza di cure adeguate), sia perché tali
situazioni possono, di volta in volta, o presentarsi come isolate, o associarsi in diverso modo tra loro,
determinando manifestazioni polimorfe e variabili nel tempo.
D'altra parte qualsiasi tipo di maltrattamento produce una complessità di conseguenze, che vanno
direttamente a minare la salute fisica e la sicurezza del bambino, ma anche il suo equilibrio emotivo
e il suo sviluppo psico-relazionale, la stima di sé e il presente e futuro ruolo sociale. In questi termini
il maltrattamento va considerato come una "patologia sindromica", nella cui storia naturale sono
comprese evoluzioni gravi a lungo termine, che intaccano la successiva possibilità dell'adulto
maltrattato nell'infanzia di stringere legami affettivi stabili e di svolgere un competente ruolo
genitoriale.
Per tali ragioni la diagnosi di maltrattamento e/o abuso è quasi sempre complessa e difficile, richiede
quasi costantemente la stretta collaborazione di diverse figure professionali e presuppone che i
professionisti abbiano la sensibilità e l'attitudine a prevederla tra le possibili diagnosi e la
preparazione tecnica per accertarla. D'altra parte individuare le situazioni di abuso o maltrattamento
è di importanza essenziale sia per la sopravvivenza fisica del bambino, sia per il suo successivo
sviluppo, poiché la condizione di maltrattamento persiste fino a quando non viene realizzato un
intervento terapeutico esterno: è dunque impossibile che un bambino maltrattato esca da solo da
questo stato.
Nella categoria del maltrattamento è possibile distinguere:
a. maltrattamento fisico;
b. maltrattamento psichico.
4.1 Maltrattamento fisico
Per maltrattamento fisico s'intende l'infliggere intenzionalmente dolore al bambino allo scopo di
penalizzare i comportamenti indesiderati o disapprovati e di impedirne il ripetersi.
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Chi e' il bambino maltrattato
Tutti gli studi e le indagini fatte al fine di individuare dei tratti specifici che caratterizzino il bambino
picchiato, oltre ad avere un interesse puramente conoscitivo, mirano ad offrire il maggior numero
possibile di elementi che permettano una facile individuazione del minore che ha subito delle
violenze.
Per quanto riguarda l'età in cui il bambino è soggetto con maggiore frequenza a sevizie, si è
affermato che gli episodi di violenza si scatenano più facilmente nel caso di bambini molto piccoli
della fascia da 0 a 3 anni. Nel tentativo di spiegare il perché di tale concentrazione cronologica si è
ipotizzato che la nascita e le prime fasi di sviluppo di un bambino rappresentino una crisi che può
disorganizzare difese e sistemi adattativi consolidati e dar luogo a vere e proprie "esplosioni
aggressive" che travolgono il funzionamento familiare. Inoltre quella è un'età in cui il bambino vive
un periodo in cui sono più complessi i problemi di adattamento e per cui esso ha poche capacità
personali di sottrarsi alle percosse o comunque di denunciare il suo abusante.
Nelle distribuzioni statistiche vi è una assoluta parità nel maltrattamento tra i due sessi. Al più si può
affermare che più frequentemente viene maltrattato il bambino del sesso opposto a quello desiderato
dai genitori poiché la sua nascita delude le loro aspettative.
Non vi sono delle caratteristiche specifiche del bambino maltrattato, ma piuttosto vi sono dei fattori
che più di altri possono far sì che il minore divenga vittima dell'episodio violento. Infatti, non tutti i
bambini sono uguali: già al momento della nascita presentano caratteristiche proprie che vengono
definite "personalità di base" o "differenze costituzionali". Naturalmente un bambino irrequieto, che
piange, che ha difficoltà di alimentazione sarà più esposto al rischio di essere maltrattato rispetto ad
un bambino che non crea problemi ai genitori.
Sono stati indicati quali fattori che scatenano l'episodio violento una gravidanza ed un parto difficili,
una nascita prematura, la presenza di malformazioni congenite, danni cerebrali provocati al
momento del parto, handicap.
D'altra parte in conseguenza dello stesso maltrattamento a cui è sottoposto, il bambino può acquisire
schemi comportamentali che a loro volta sollecitano risposte aggressive da parte delle persone a lui
vicine: cioè il maltrattamento può modellare degli schemi di comportamento nel bambino che
aumentano la probabilità che egli sia vittima di ulteriori maltrattamenti.
I genitori che maltrattano
Chi aggredisce il bambino è nella maggioranza dei casi un familiare (raramente entrambi) e più
spesso la responsabile è la madre, forse perché, di solito, è colei che passa più tempo con i figli.
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Si tratta generalmente di coppie giovani, frustrate o comunque in grave disaccordo, inconsapevoli
del loro ruolo di genitori e pertanto incapaci di acquisire un modo accettabile di svolgerlo. È spesso
evidente un'ingiustificata eccessiva severità.
Non di rado sono rilevabili precedenti penali.
La possibilità che i responsabili di violenza sul minore appartengano ad una classe sociale bassa, per
quanto trovi un effettivo riscontro dai dati emergenti, non deve far trascurare l'ipotesi verosimile che
nei ceti sociali più elevati è maggiore la capacità di occultamento.
Infine, come accennato, accade spesso che il maltrattante sia stato a sua volta maltrattato
nell'infanzia (cosiddetto ciclo della violenza) e questo rende più probabile (ma non automatico) il
ricorso nell'età adulta a comportamenti violenti verso i propri figli.
Problemi connessi al riconoscimento delle situazioni di maltrattamento
È frequentemente riscontrato che sia il medico a trovarsi di fronte al bambino maltrattato, in un
servizio di Pronto Soccorso, se le lesioni sono di entità tale da richiedere il ricovero in ospedale,
oppure il medico o il pediatra di famiglia se le lesioni sono di minore entità. È quindi importante per
il medico e comunque, in senso più generale, per tutti coloro che nella routine quotidiana di lavoro
hanno contatti con i bambini e con le loro famiglie, avere un'approfondita conoscenza degli "indici"
del maltrattamento, che dovrebbero indurre il sospetto di un episodio di violenza.
Una volta che il bambino è arrivato all'attenzione del medico del Pronto Soccorso, se necessario,
sarà bene che questi, oltre a prestare le immediate cure, consigli anche il ricovero del piccolo per due
motivi ben precisi: prima di tutto perché si avrà così la possibilità di praticare tutti gli esami atti ad
appurare la presenza di eventuali danni fisici e psichici subiti precedentemente, e secondariamente
perché la separazione del bambino dalla famiglia consentirà ad entrambi di alleviare la grave
situazione di stress emotivo, questo soprattutto per quelle madri che non hanno nessuno a cui
affidare il bambino.
Le lesioni, che sono conseguenza di un maltrattamento fisico, devono essere distinte da quelle
derivanti da un incidente. Di regola, infatti, è proprio un "meccanismo accidentale" quello che viene
riferito, dai genitori o dagli adulti che hanno in carico il bambino nel corso delle visite mediche
come causa delle lesioni.
Ci sono, comunque, degli "elementi generali" che sono sempre presenti nel corso di maltrattamento
fisico: ad esempio, suggestivi sono il ritardo nel cercare l'aiuto del medico, il racconto vago, povero
di dettagli e variabile da persona a persona di quanto sarebbe accaduto, la descrizione della dinamica
dell'incidente all'origine delle lesione non compatibile con la loro tipologia, sede, estensione e
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gravità. Anche l'atteggiamento del genitore, che presenti un comportamento ed un coinvolgimento
emotivo non adeguati alle circostanze ed alle condizioni del bambino, che si dimostri oppositivo ed
ostile, oppure l'atteggiamento del bambino triste, impaurito o viceversa iperattivo, incontenibile,
possono suscitare ragionevoli perplessità. Infine la storia di numerosi incidenti o ricoveri precedenti,
di maltrattamenti già diagnosticati per altri fratelli o di violenza intrafamiliare nota costituisce
elemento di grave rischio. Occorre, però, ricordare che nessuno di questi fattori può condurre con
certezza alla diagnosi di maltrattamento, anche se la loro presenza, specie se associata ad altri
elementi, impone al medico di valutare questa diagnosi differenziale.
È in ogni caso necessario che il medico, che si trova a curare il bambino, compia un'anamnesi
accurata della dinamica dell'incidente e un'osservazione attenta del comportamento spontaneo del
bambino e dell'adulto che lo accompagna, anche se si tratta di una lesione presunta accidentale. Il
successivo esame e i conseguenti accertamenti strumentali devono essere altresì particolarmente
accurati e mirati ad evidenziare alcune specifiche caratteristiche delle lesioni cutanee, scheletriche e
viscerali, delle ustioni o delle eventuali intossicazioni o asfissie.
Dunque è importante non limitare il problema diagnostico al solo bambino: per svelare la dinamica
dell'episodio e dargli un significato all'interno del contesto familiare è necessario raccogliere
informazioni sull'intero nucleo familiare, ricostruendo le varie fasi del ciclo vitale del gruppo
familiare ed i motivi più contingenti che hanno scatenato la crisi.
Le conseguenze del maltrattamento
Gli studi che hanno cercato di individuare le conseguenze neurologiche degli abusi hanno
concordemente rilevato che le sevizie sui bambini portano ad un'alta incidenza di deficit di vario tipo
e questo non solo quando si provochino lesioni alla testa, ma anche quando il bambino piccolo sia
stato violentemente scosso pur senza provocare lividi o fratture craniche.
Assai più preoccupanti sono invece le conseguenze psicologiche di tipo depressivo che insorgono. Il
maggior danno, perché rende assai difficile il recupero, è costituito dalla passività, dalla abulia, dalla
chiusura su se stessi, dalla definitiva chiusura di ogni speranza e di ogni stimolo a crescere e a
strutturarsi. I ragazzi che hanno subito violenza sono bambini prima, ragazzi poi, adolescenti infine,
spenti isolati, regrediti, disinteressati alla vita propria e a quella sociale, ai quali è stata tolta ogni
forza vitale.
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4.2 Maltrattamento psicologico
Un comportamento diventa lesivo sul piano psicologico in quanto trasmette uno specifico messaggio
negativo o in quanto interferisce con aspetti dello sviluppo psichico.
I numerosi tentativi di definire le varie forme di maltrattamento psicologico si sono concentrati sulla
combinazione di tre dimensioni fondamentali: le azioni, le intenzioni e gli esiti. In generale un
comportamento è giudicato dannoso sulla base della probabilità che abbia effetti deleteri su chi lo
subisce.
Dato che i segni del danno psicologico o emozionale sono più difficili da individuare rispetto a quelli
della violenza fisica, spesso manifestandosi solo tardivamente ed essendo legati alla causa presunta
in modo indiretto, la ricerca in questo campo dovrebbe essere orientata ad identificare le probabilità
che il danno risulti effettivamente da una specifica azione e quindi a determinare l'indice di
pericolosità potenziale di questa.
In realtà un'attenta valutazione della natura della sofferenza psichica deve tener conto che le
ripercussioni sull'individuo di qualsiasi evento nascono dalla interazione tra varie dimensioni quali
l'intensità, la frequenza, la durata, il contesto, il significato soggettivo assunto dall'evento stesso.
All'interno di ciascuna dimensione è difficile tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è
tollerabile da parte del soggetto, della comunità, della cultura e ciò che non può essere accettato.
Il termine "maltrattamento psicologico" viene usato, in una accezione più generale, per indicare tutti
gli aspetti affettivi e cognitivi del maltrattamento infantile derivanti da atti o da omissioni.
5 Abuso sessuale
5.1 La definizione del termine "abuso sessuale sui minori"
La rilevazione e l'accertamento di un fatto di abuso sessuale è un'operazione estremamente
complessa, soprattutto perché sussiste tra gli specialisti molta incertezza su cosa debba intendersi per
"abuso sessuale". In realtà non è affatto semplice delimitare i confini tra ciò che è lecito e ciò che
non lo è, in una materia così fortemente condizionata da inclinazioni soggettive, dove la linea di
demarcazione è molto sfumata.
La difficoltà di definire i comportamenti umani è ancor più forte quando la classificazione riguarda i
comportamenti sessuali illeciti, cioè quelli integranti fattispecie di reato.
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Nelle ricerche sull'abuso sessuale (sulla sua estensione e le sue caratteristiche) qualunque operatore
adotta una definizione diversa e utile per la sua attività, per cui esse sono difficilmente comparabili e
i risultati cui pervengono possono variare anche di molto da lavoro a lavoro, benché tutte abbiano
apparentemente lo stesso oggetto di indagine. E questa diversità nelle definizioni è ancora più
evidente nel caso dell'incesto, dove la pluralità di definizioni si coniuga con il carattere intrafamiliare
dell'abuso sessuale.
Un primo effetto pratico immediato di tutta questa confusione è la difficoltà a promuovere le
opportune politiche sociali e a mobilitare le risorse necessarie. Sul piano operativo la clinica e il
diritto risentono in maniera ancor più consistente della mancanza di una definizione condivisa dalle
varie discipline.
Nasce così tra gli operatori in questa materia la "polarizzazione":

tra quanti ritengono giustificabile l'intervento esterno solo nei casi più estremi e sono
favorevoli ad una definizione di abuso sessuale assai circoscritta;

e quanti collocano al primo posto la protezione del minore e sostengono che l'adozione di una
definizione, la più ampia possibile, può concorrere a prevenire un'escalation da forme di
abuso meno gravi ad altre più gravi.
La definizione nella ricerca
Da un attento esame comparativo, compiuto da alcuni autori (Peters, Wyatt e Finkelhor), delle
principali ricerche sull'incidenza dell'abuso sessuale sui minori, è emerso che le definizioni del
termine "abuso sessuale sui minori" divergono nelle diverse attività lavorative in quattro punti
fondamentali:

l'inclusione o meno dell'esibizionismo e delle proposte oscene nella definizione di abuso
sessuale,

il limite di età della vittima,

l'inclusione o meno delle aggressioni commesse da coetanei,

la differenza di età tra vittima e aggressore.

Molti ricercatori usano una definizione assai ampia di abuso sessuale che comprende, oltre
agli abusi sessuali con contatto fisico (contact abuse), anche atti che non contemplano un
contatto fisico tra vittima e aggressore (non contact abuse), come ad esempio l'invito a
partecipare ad attività sessuali: includono, dunque, nella definizione di "abuso sessuale"
anche gli atti di esibizionismo e le proposte oscene.
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Essi sostengono la loro scelta in base a due ragioni:

l'esibizionismo è considerato un atto criminale il cui scopo è spaventare e colpire moralmente
la vittima;

le proposte oscene, quando provengono da un adulto con cui il minore ha una relazione
affettiva significativa e di dipendenza, hanno un considerevole impatto psicologico sul
minore.
Altri autori, invece, esitano ad accomunare l'esibizionismo e le proposte oscene all'abuso sessuale
caratterizzato da contatto fisico, dal momento che quest'ultimo implica un ben più alto grado di
gravità con seri effetti psicologici. Alcune ricerche sostengono infatti che sia improbabile che il solo
abuso sessuale senza contatto fisico possa determinare disturbi psicologici a lungo termine.
a. Anche riguardo al limite di età delle vittime le definizioni variano da ricerca a ricerca,
spaziando dall'età prepuberale ai sedici anni fino al limite dei diciotto anni (che coincide con
la minore età giuridica).
b. Un altro argomento di divergenza riguarda il problema se debbano essere inclusi nella
definizione anche episodi che abbiano quali autori del reato dei coetanei della vittima.
L'orientamento più recente è di includere anche queste esperienze ogni volta che esse
implichino coercizione e non siano ricercate, bensì subite dalla vittima. Anche la legislazione
italiana accoglie tale orientamento, prevedendo "la reclusione per chiunque, con violenza o
minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali",
includendovi dunque anche i coetanei della vittima (art. 609-bis c.p.).
c. L'ultima divergenza è costituita dalla differenza minima di età tra vittima ed aggressore,
necessaria perché si possa ricorrere alla definizione di abuso sessuale indipendentemente
dall'esistenza di un apparente consenso da parte della vittima.
In genere, tutti sono d'accordo nel ritenere sempre abuso sessuale ogni relazione tra un adulto ed un
bambino. Quando però gli episodi sessuali interessano vittime adolescenti, i confini necessari a
definire l'abuso sessuale si fanno più confusi. È infatti impossibile e sempre arbitrario definire in
modo astratto il momento in cui l'adolescente raggiunge la capacità di acconsentire liberamente e
pienamente a una relazione sessuale.
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La definizione clinica di abuso sessuale
Il problema della grande varietà di definizioni di abuso sessuale merita un'attenzione particolare
quando interessa l'ambito clinico.
Vari professionisti (medici, magistrati, avvocati, psicologi, operatori sociali insegnanti) affrontano
l'intervento nei casi di incesto ognuno partendo dalla propria specifica identità professionale. Dalla
propria esperienza ciascuno trae una propria visione su ciò che debba essere ritenuto abuso sessuale
o incesto. Spesso queste visioni possono essere assai discordanti e produrre fraintendimenti e
divergenze sostanziali su aspetti di primaria importanza, come la protezione dei minori o l'apertura
di procedimenti penali a carico degli adulti. Sul terreno dell'intervento operativo si pone quindi
ancora più forte l'esigenza di una definizione che possa essere largamente condivisa da diverse figure
professionali.
D'altra parte, però, una definizione troppo ampia o generale rischia di lasciare un margine eccessivo
alla discrezionalità, favorendo il riemergere di punti di vista parziali. Diversi autori, infatti,
raccomandano di diffidare di definizioni troppo ampie e invitano ad affiancare sempre ad espressioni
generali, quali "abuso sessuale sui minori", descrizioni dettagliate ed esplicitamente connesse al
contesto di riferimento in cui vengono usate (per esempio "bambini molestati dai genitori"), invece
di "bambini vittime di abusi sessuali".
La pedofilia e l'abuso sessuale sono tradizionalmente trattati come aberrazioni sessuali, laddove
l'esperienza clinica ha ampiamente messo in evidenza che chi aggredisce sessualmente i bambini
cerca, attraverso comportamenti sessuali, di soddisfare bisogni che hanno più a che fare con la
ricerca di sensazioni di potere, di controllo e di dominio su soggetti più deboli che con il piacere
sessuale. La possibilità di coinvolgere un minore in una relazione sessuale è determinata, infatti,
dalla posizione di superiorità e dal potere che ha l'adulto nei confronti del bambino, che si trova
invece in una posizione di dipendenza e di soggezione. È attraverso questa sua autorità che
l'aggressore, implicitamente o esplicitamente, costringe il minore a sottomettersi alla relazione
sessuale.
Una definizione operativamente efficace è quella proposta da Goodwin, che utilizza
indifferentemente le espressioni "incesto" e "abuso sessuale intrafamiliare" per indicare "ogni azione
sessuale commessa su un bambino da parte di un adulto avente ruolo di genitore". Sotto un profilo
teorico, criminologico e giuridico, far coincidere l'incesto con l'abuso sessuale intrafamiliare può
apparire arbitrario.
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Ogni distinzione si rivela però secondaria quando ci si muove nella prospettiva dettata da esigenze di
intervento operativo (giuridico, sociale o psicologico) nell'interesse di minorenni. Infatti,
indipendentemente dal grado, dalla durata e dalla stabilità del coinvolgimento del minore nella
relazione incestuosa si attivano le medesime esigenze di protezione, di indagine e trattamento da
parte delle istituzioni. Ai fini della scelta di intervenire la distinzione appare cioè irrilevante. È solo
in un secondo momento che essa torna ad acquisire tutta la sua importanza, quando si tratta di
ricostruire la dinamica dell'incesto per definire i trattamenti idonei o per accertare il grado di
responsabilità (psicologica e penale) del genitore e di altri familiari.
Il concetto clinico di abuso sessuale elaborato dalla letteratura sociologica e psicologica risulta
dunque più esteso rispetto alla condotta che integra la fattispecie di reato sul piano giudiziario.
Anche nella Legge n. 66 del 1996 la definizione del reato implica la costrizione del soggetto-vittima
a "compiere o subire atti sessuali con violenza, minaccia o mediante abuso di autorità", anche se
molti correttivi rendono presunta tale componente violenta in situazioni in cui essa non è esercitata
in modo esplicito (con riguardo all'età della vittima e al tipo d'autore).
Tuttavia rimane escluso da tale definizione, ad esempio, il verificarsi di relazioni sessualizzate tra
soggetti minorenni con differenza di età pari o inferiore a tre anni se tali soggetti hanno più di tredici
anni, indipendentemente dalla relazione che li lega; non possono inoltre essere considerate reato - in
quanto non comportano veri e propri "atti"- altre situazioni in cui il minore è esposto ad un clima
psicologico decisamente negativo e fuorviante per il corretto sviluppo di una sua propria identità
sessuale e della sua personalità, o sia coinvolto come spettatore più o meno complice di giochi
erotici tra persone cui sia fortemente legato. Secondo molti autori tali situazioni non differiscono
invece, almeno sul piano qualitativo, dalle esperienze codificate come violenza sessuale, in quanto le
conseguenze dannose che possono produrre potrebbero essere le medesime.
Si può dunque affermare che c'è un'importante differenza tra la definizione clinica e quella giuridica
di abuso sessuale.
Nella prima, il bene giuridico protetto è l'integrità del minore come persona, il quale può essere
danneggiato da qualunque atto sessuale che subisce, chiunque sia il soggetto agente. La legge n.
66/96, invece, fornisce una tutela dello sviluppo della sessualità del minore e prevede, a seconda
della sua età o della relazione con il soggetto agente, l'intangibilità sessuale oppure la sua capacità di
autodeterminazione in ambito sessuale (purché egli abbia compiuto almeno tredici anni e la
differenza di età con il coetaneo non sia superiore a tre anni). Quindi, mentre nella definizione
clinica l'intervento operativo di protezione e trattamento dovrà essere attivato indipendentemente dal
grado, dalla durata o dalla modalità dell'atto sessuale compiuto o dall'età del minore, perché la sua
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integrità come persona sarà stata comunque compromessa, nella definizione giuridica questi
elementi qualificanti il fatto sono importanti per poter valutare il grado di responsabilità del soggetto
agente.
La definizione giuridica
"Le definizioni normative dei comportamenti di abuso sessuale sui minori - afferma Mantovani devono rispondere ad una duplice esigenza: da un lato quella di conciliare la libertà sessuale di un
individuo con i diritti degli altri individui e con i
valori ammessi dalla collettività; dall'altro quella di inserire i comportamenti in questione nell'uno o
nell'altro titolo di legge, anche in rapporto alla predominanza delle istanze sessuali o di quelle
violente nella realizzazione delle pulsioni sessuali del reo". È quindi importante chiedersi che cosa
può essere correttamente definito come comportamento abusante nei confronti di un minore. Anche
se istintivamente può sembrare che non vi debbano essere dubbi in proposito, non è certo un caso
che gli esperti ancora dibattano sull'estensione di tale definizione, sia in merito agli atti commessi,
che al tipo di relazione intercorrente.
Da un punto di vista puramente psicologico si potrebbe affermare che qualsiasi attivazione di
desiderio sessuale in un adulto nei confronti di un bambino rappresenta una patologia che può dar
luogo ad un abuso. Tuttavia è pure evidente che quando tale desiderio non si concretizza in azioni o
si manifesta in forme tali da non essere direttamente percepibile dalla vittima (pensiamo ad esempio
ad atti di voyeurismo), non sembra appropriato parlare di abuso.
Secondo la definizione proposta dal Consiglio d'Europa nel 1978, per abuso sessuale di un minore
deve intendersi «ogni atto o carenza che turbi gravemente i bambini o le bambine, che attenta alla
loro integrità corporea, al loro sviluppo psico-fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui
manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte
di un familiare o di un terzo, ed ogni atto sessuale imposto al bambino non rispettando il suo libero
consenso». Questa definizione solleva il grande problema dell'accertamento e della valutazione del
grado di maturità e di capacità critica del minore che sia tale da consentirgli di esprimere realmente
il suo libero consenso. Vi è l'esigenza di fissare un'età minima al di sotto dalla quale si può affermare
in modo assoluto l'incapacità da parte del soggetto di esercitare tale consenso.
Il nostro codice penale fornisce una definizione di "violenza sessuale" (art. 609-bis) riferendosi a
"taluno che è costretto a compiere o subire atti sessuali, con violenza o minaccia ovvero mediante
abuso di autorità", facendo alcune distinzioni riguardo all'età della vittima per l'inasprimento della
pena (un numero maggiore di anni di reclusione). La condizione di minore età costituisce, in tali
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ipotesi di reato, sia presupposto di violenza indipendentemente dal consenso espresso dalla vittima,
sia circostanza aggravante rispetto alla punibilità, sia presupposto d'inferiorità psichica e fisica tipica
dei minori, cioè essi si trovano sempre in un rapporto subalterno con l'autore del reato (adulto) e
dunque nell'impossibilità di esprimere un consenso consapevole.
La scelta compiuta dalla legge italiana n. 66/1996 ("Norme contro la violenza sessuale") è stata
quella di introdurre, al posto della precedente normativa (che prevedeva sia l'ipotesi di violenza
carnale, sia l'ipotesi di atti di libidine con differenti criteri di valutazione rispetto alle pene), la
definizione di un'unica fattispecie di reato (atti sessuali), includendo così, in tale espressione, anche
quei casi in cui non vi è stato un contatto fisico tra vittima e aggressore (non contact abuse), come ad
esempio nel reato di corruzione di minorenne.
L'elemento costitutivo del reato è la coercizione compiuta sulla vittima, mediante violenza, minaccia
o abuso d'autorità, da parte del soggetto agente (che può essere anche un coetaneo del minore
aggredito). Il nostro codice penale, infatti, ha stabilito che la differenza di età tra soggetti
adolescenti, affinché si possa escludere una situazione di abuso sessuale, debba essere al massimo di
3 anni (art. 609-quater, 2º comma), purché il minore ne abbia almeno 13. Con questo comma è stato
così riconosciuto il diritto del minore ad esprimere la propria sessualità, senza alcuna penalizzazione.
Nella pratica giudiziaria si cerca però di valutare le varie situazioni di "violenza sessuale sui minori"
in base anche alle definizioni date dagli esperti in tali problematiche, che configurano tali reati anche
quando la violenza o la minaccia non è presente in modo esplicito. Certo è che una definizione
giuridica di un fenomeno, per la sua stessa natura, sarà sempre più ristretta di una sociologica, ma il
loro utilizzo è diverso: la prima serve per incriminare un fatto, la seconda per spiegarlo o trovarne la
causa. È però auspicabile, perché certamente vantaggioso, il loro utilizzo congiunto per risolvere una
questione problematica come quella della violenza all'infanzia.
Una delle definizioni, ad esempio, più utilizzate perché ritenuta più appropriata, forse per la sua
ampiezza e genericità, è quella avanzata da Kempe.
L'autore infatti afferma che si deve considerare "abuso sessuale" sui minori: "il coinvolgimento di
bambini e adolescenti, soggetti quindi immaturi e dipendenti, in attività sessuali che essi non
comprendono ancora completamente, alle quali non sono in grado di acconsentire con totale
consapevolezza o che sono tali da violare tabù vigenti nella società circa i ruoli familiari".
Rientrano in questa definizione gli episodi di pedofilia, di stupro, d'incesto e più in generale di
sfruttamento sessuale. Si tratta, ovviamente, di situazioni che possono dar luogo ad episodi molto
diversi l'uno dall'altro, in presenza o meno di violenza fisica, ma accomunati dalla caratteristica di
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agire in modo molto forte sulla vita psicologica e sulle relazioni sociali dei minori, turbandone i
processi di sviluppo della personalità e di maturazione della sessualità.
Tale definizione evita la specificazione dei singoli atti effettuati e permette così di classificare (e
considerare, almeno ai fini dell'intervento clinico e giuridico-protettivo) come abuso anche le prime
manifestazioni d'interessamento e di seduzione rivolte dall'adulto al bambino.
Essa ridimensiona anche l'importanza del concetto di violenza (utilizzato invece da altri autori o
dalla nostra legislazione come caratteristica essenziale al configurarsi di un'esperienza traumatica),
concetto ambiguo e pericoloso da utilizzare quando debba essere applicato a quelle situazioni in cui i
legami affettivi siano tanto forti da imporre reazioni di adattamento del bambino, capaci di "diluire"
il significato intrusivo e traumatico che la stessa situazione assumerebbe se vissuta al di fuori di
quella relazione, senza che ciò significhi danni meno gravi come conseguenza dell'atto stesso.
La definizione di Kempe include, infine, il concetto importante di violazione dei tabù sociali, utile
quando bisogna stabilire se le interazioni sessualizzate tra minorenni integrano un abuso. Ad
esempio la differenza di età tra abusante e vittima, usato sia nel nostro che in altri paesi come criterio
per discriminare la liceità delle condotte,
può essere insufficiente e portare artificialmente, da un punto di vista legale, ad escludere l'abuso in
casi in cui viceversa, sul piano clinico, esistono tutti i presupposti per configurare quella situazione
come altamente traumatica.
Alla definizione di Kempe si avvicina quella inserita nella Dichiarazione di consenso in tema di
abuso sessuale all'infanzia, approvata a Roma nel 1998, dove l'abuso sessuale è stato definito come
«il coinvolgimento di un minore da parte di un partner preminente in attività sessuale anche non
caratterizzata da violenza esplicita», «fenomeno diffuso, che si configura sempre e comunque come
un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità del minore e al suo percorso evolutivo».
6 Gli interventi legislativi contro l'abuso sessuale sui minori
La normativa prima della legge n. 66/96
La violenza sessuale contro i minori non è un fenomeno nuovo, neanche dal punto di vista
legislativo: si è rivelato, infatti, come l'abuso fosse contemplato come reato già nell'antico codice di
Hammurabi, risalente a 4000 anni fa, il quale prevedeva rigide pene per gli autori.
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Nelle antiche civiltà le grandi punizioni previste per tali reati erano per lo più legate al valore
attribuito alla verginità, intesa però come "proprietà" dell'uomo, e quindi del padre o del marito o del
fratello: la violenza sessuale era così considerata un reato compiuto contro la proprietà.
Nel corso dei secoli la commissione dell'abuso sessuale è stata più o meno rilevata a seconda
soprattutto dei cambiamenti nei valori etici e sociali dei rapporti umani: il rilevare o il denunciare un
abuso sessuale è, ad esempio, incoraggiato ed auspicabile dalla maggior parte delle realtà territoriali
attuali, mentre qualche tempo fa costituiva ancora una vergogna e un tradimento nei confronti della
famiglia ed era quindi tenuto segreto.
Le evoluzioni della società, inoltre, comportarono anche vari cambiamenti legislativi e, nei codici
penali pre-unitari (come in quello toscano del 1853 ed in quello sardo-italiano del 1859) e nel codice
Zanardelli del 1889, il delitto di violenza carnale e quello di corruzione di minorenne furono inseriti
nei delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie. Ma questo non bastava: ad esempio la
libertà sessuale non era neanche menzionata e risulterà espressamente richiamata come tale soltanto
nel codice Rocco del 1930 (nel capo I del libro IX).
Quest'ultimo collocò la violenza sessuale nei reati contro la moralità pubblica e il buon costume.
Con ciò venne espressa l'idea di fondo, presente nella tradizione giuridica al momento della
codificazione penale italiana: gli interessi connessi alla libertà sessuale erano considerati non
interessi intrinsecamente meritevoli di tutela di per sé, in rapporto al valore e alla dignità del
soggetto che ne è portatore, bensì interessi necessariamente funzionali ad un altro sovrastante
interesse dal quale traevano valore e validità: erano considerati il riverbero del superiore interesse
alla pubblica moralità. E quindi l'introduzione dell'autonomo rilievo dato alla libertà sessuale fu una
novità rispetto alla tradizione preesistente, ma affievolita da questa visione pubblicistica
dell'interesse tutelato.
Nei confronti dei minori, il riconoscimento del problema della violenza (seppur inizialmente nei suoi
aspetti più eclatanti come l'abbandono, l'incuria e lo sfruttamento sul lavoro) si è però concretizzato
veramente nella promulgazione di leggi, nel corso del tempo, volte a favorire un'attività di
protezione sempre più articolata e intensa del minore da questi fenomeni. Ogni paese, infatti,
dimostra il proprio grado di riconoscimento della violenza sui minori in base all'esistenza o meno di
un insieme di norme dirette ad incrementare tali fenomeni ed in base alla loro accuratezza
legislativa.
Inizialmente sono stati sanzionati i fenomeni più facilmente percepibili all'estero quali il
maltrattamento e l'incuria, seguiti poi dal riconoscimento di forme più "nascoste" quali la violenza
psicologica e l'abuso sessuale. Con tale protezione l'ordinamento ha affermato che il valore da
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tutelare va ravvisato nell'integrità della persona di minore età, considerandola come soggetto che ha
potenzialità che vanno salvaguardate, ed ha inoltre realizzato una misura preventiva, impedendo
indirettamente la commissione di ulteriori reati attraverso la minaccia della sanzione penale.
Purtroppo ci sono ancora molte situazioni pregiudizievoli per i minori che non sono state
riconosciute, o comunque dove essi non sono stati tutelati in modo tale da ottenere una "protezione
reale". È importante, però, che anche il diritto - seppur con un notevole ritardo - abbia cominciato a
riconoscere sia che gli adulti hanno dei doveri nei confronti dei minori, sia che questi ultimi sono
portatori di diritti che non solo devono essere rispettati, ma devono anche essere concretamente
attuati.
La legge n. 66/96: "Norme contro la violenza sessuale"
Una grande innovazione in materia di reati di violenza sessuale è stata apportata, negli ultimi anni,
dalla legge n. 66/96, con la quale è stata realizzata la riforma del codice Rocco sull'argomento.
Primo punto cardine della riforma è stato lo spostamento di tale normativa dal capo relativo ai delitti
contro la moralità pubblica e il buon costume a quello dei delitti contro la libertà personale, con ciò
mettendo in evidenza come la tutela offerta da tali disposizioni è rivolta prevalentemente al diritto di
autodeterminazione dell'individuo nella sfera dell'attività sessuale. È stato quindi abrogato tutto il
capo I del titolo IX del libro II del codice penale, relativo ai delitti contro la libertà sessuale, nonché
gli artt. 530 (corruzione di minorenne), 539 (età della persona offesa), 541 (pene accessorie agli
effetti penali), 542 (querela dell'offeso), 543 (diritto di querela).
Le norme sulla violenza sessuale sono adesso inserite nella sezione II del capo III del titolo XII del
c.p., che regola i delitti contro la libertà personale. Con tale nuova sistemazione il legislatore ha
voluto affermare che il vero bene leso non è una generica moralità sessuale, il cui titolare è la
collettività, ma la singola persona, la cui sfera di libertà viene gravemente violata dai comportamenti
sanzionati nella legge e la cui personalità risulta essere fortemente compromessa.
La legge n. 66/96 costituisce, da una parte, un riconoscimento della richiesta del movimento delle
donne di giudicare la violenza sessuale come un reato contro la persona, ma sicuramente è anche un
atto significativo di adeguamento della legislazione italiana a quanto stabilito dalla Convenzione
ONU sui diritti del fanciullo, in particolare agli articoli 19 e 39 riguardanti le misure e le azioni per
provvedere alla tutela dei minori da ogni forma di abuso. L'introduzione nel codice penale di un
richiamo esplicito e specifico alla protezione dei bambini fu sollecitato all'Italia anche da parte del
Comitato ONU sui diritti del fanciullo - organismo di controllo e di monitoraggio sullo stato di
attuazione della Convenzione (costituito in base a quanto disciplinato dall'art. 43) - il quale, a seguito
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della valutazione effettuata nel 1994 sul primo rapporto italiano riguardo alle misure adottate per
dare applicazione alla Convenzione stessa, formulò osservazioni e raccomandazioni nei confronti del
governo italiano, ma soprattutto incisivo fu il reclamo per l'assenza nel codice penale di un'adeguata
protezione dei minori dall'abuso fisico, sessuale e dalla violenza all'interno della famiglia, per la
carenza di misure appropriate di ascolto del bambino e per l'insufficiente numero di risorse e servizi
appropriati per il recupero psico-fisico dei minori vittime di abusi.
Infatti l'art. 19 della Convenzione incita gli Stati ad adottare provvedimenti legislativi,
amministrativi, sociali ed educativi per difendere il minore da ogni forma di violenza, oltraggio
fisico o mentale, di abbandono, di negligenza, di maltrattamento o di sfruttamento, compresa la
violenza sessuale, ponendo l'attenzione sul fatto che l'applicazione di tali provvedimenti deve essere
necessariamente correlata alla creazione di programmi sociali finalizzati a fornire l'appoggio
necessario al fanciullo e alla sua famiglia (sia questa quella naturale, adottiva o affidataria) e alla
predisposizione di strategie di prevenzione e di adeguata indagine sulle condizioni socio-familiari
del minore. L'articolo, dunque, sottolinea l'importanza di attivare interventi polisettoriali per tutelare
efficacemente il minore, poiché il maltrattamento, lo sfruttamento e l'abuso sessuale sono fenomeni
complessi che richiedono un approccio multidisciplinare da parte di ogni operatore e settore operante
nelle cinque funzioni fondamentali di tutela: la prevenzione, la rilevazione, la diagnosi, la protezione
e la cura/trattamento degli effetti a breve e lungo termine del trauma.
L'articolo 39, inoltre, sancisce la necessità di assicurare interventi integrati di aiuto finalizzati a
promuovere la cura e il reinserimento sociale dei minori vittime di qualsiasi forma di abuso che
interferisca con il loro normale processo di crescita.
L'abuso sessuale può essere realizzato sia con comportamenti attivi, sia con condotte definite
commissive mediante omissione: dunque sia attraverso il compimento di atti sessuali direttamente
sul corpo del bambino, sia costringendo quest'ultimo ad assistere a rapporti sessuali. Dunque sono di
due tipi le condotte punite dall'ordinamento: quelle poste in essere con costrizione (violenza,
minaccia o abuso d'autorità) e quelle poste in essere con induzione (inganno o abuso delle condizioni
d'inferiorità fisica o psichica, nel senso di soggezione psicologica).
Le disposizioni della legge n. 66/96 tendono a tutelare qualsiasi persona da illecite e conturbanti
invasioni nella propria sfera di libertà, sia essa maschio o femmina, adulto o minore. Una tutela
particolare è riservata a quest'ultimo a ragione della sua immaturità psichica e fisica, della sua
conseguente incapacità di esprimere un consenso automaticamente libero e cosciente, della sua
inesperienza e delle conseguenze altamente dannose per un suo equilibrato ed armonico processo di
crescita.
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Un altro importante aspetto della riforma è stato quello dell'unificazione delle due precedenti figure
di violenza carnale e degli atti di libidine violenta (atti sessuali violenti diversi dalla congiunzione
carnale), valutati diversamente rispetto alle pene, nell'unica figura degli "atti sessuali" (art. 609 bis),
con ciò volendosi eliminare la necessità di indagini, umilianti per la vittima, volte ad identificare nel
caso concreto la specifica condotta compiuta dal colpevole.
Tale unificazione è un chiaro sintomo di cambiamento culturale e di percezione sessuale sia rispetto
alla sessualità, sia rispetto al ruolo di "persona". Infatti, prima della riforma si riteneva che la
congiunzione carnale dovesse stimarsi, sul piano normativo, figura criminosa di maggiore gravità
rispetto agli atti sessuali di natura diversa, non tenendo evidentemente in considerazione né il grado
di compromissione della libertà sessuale derivante da atti in cui non si ha la "congiunzione degli
organi genitali", né le conseguenze dannose che ne derivano.
Alla nuova legge, per l'unificazione delle due figure criminose, sono state fatte subito, dalla dottrina,
numerose critiche che hanno evidenziato come, per cercare di risparmiare alla persona offesa
indagini umilianti e mortificanti (risultato che si voleva perseguire con tale unificazione), occorreva
eliminare dal dettato normativo i requisiti della violenza e della minaccia (modalità costitutive delle
condotte incriminate) e sostituirli con altri, quali ad esempio l'assenza di consenso o il dissenso,
maggiormente rispettosi della persona e più rispondenti alla realtà dei fatti.
È stato infatti rilevato che con tale unificazione non si può esonerare la vittima dal sottoporsi a tutte
le visite medico-legali ed ai colloqui, che seppur frustranti e dolorosi, sono comunque attività
necessarie per l'attività giudiziaria, in quanto volte a valutare l'esistenza, la consistenza e le modalità
esecutive dell'atto. Infatti abolire ogni riscontro sulla vittima del reato porterebbe a riconoscerle il
potere di qualificare direttamente i fatti, da lei denunciati, come verificatisi, ma questo è contrario ad
ogni logica giuridica. L'unica funzione che può essere riconosciuta all'unificazione delle condotte
illecite è quella di far sì che gli inquirenti, di fronte ad un caso sospetto o accertato di abuso sessuale,
non debbano ricercare la specifica norma da applicare al caso concreto, ma possano utilizzare quella
che prevede la generica azione di compiere "atti sessuali".
La critica si è rivolta anche alla scelta di tale terminologia generica, la quale sembra non permettere
l'individuazione esatta dei confini del fatto illecito. Le motivazioni del legislatore di voler, in questo
modo, salvaguardare la riservatezza della persona offesa dalle indagini volte all'accertamento della
verità non riescono a giustificare la conseguente violazione del principio di tassatività (contenuto
implicitamente nell'art. 25 Cost.), che impone al legislatore di delineare in maniera precisa l'azione
delittuosa, per far sì che ognuno sappia distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è. Tutto ciò ha
portato alcuni giuristi a prospettare l'illegittimità costituzionale dell'art. 609 bis.
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La legge n. 66/96 individua quattro figure criminose di violenza sessuale in senso ampio: la violenza
sessuale propriamente detta, gli atti sessuali con minorenne, la corruzione di minorenne e la violenza
sessuale di gruppo.
La violenza sessuale e gli atti sessuali con minorenne
Per i minori la nuova normativa ha predisposto una rete di particolare protezione: infatti ha previsto,
in primo luogo, la minore età fra le aggravanti specifiche della violenza sessuale.
La riforma ha disciplinato sia le condotte di violenza sessuale propria (art. 609 bis), nelle quali la
minore età della persona offesa costituisce una mera circostanza aggravante dell'aggressione, sia gli
atti sessuali consensuali compiuti con un minorenne (la cosiddetta violenza sessuale presunta o
impropria), quegli atti, cioè, che il minorenne compie volontariamente, senza che sia utilizzata
violenza o minaccia.
Fino a quattordici anni, di regola, il minorenne non può validamente consentire al compimento di atti
sessuali (art. 609 quater n. 1 c.p.): infatti il compimento, senza violenza né minaccia, di tali atti nei
confronti di un soggetto che non abbia raggiunto tale limite di età è equiparato a tutti gli effetti alla
violenza sessuale (art. 609 bis c.p.).
Tale limite di età viene elevato a sedici quando l'autore rivesta una particolare qualifica che comporti
un contatto più diretto e frequente con il minore (come ad esempio il genitore), o un'autorità su di
lui, oppure un particolare carisma nei suoi confronti (art. 609 quater n. 2 c.p.).
Le due disposizioni enunciano due presunzioni assolute (che non ammettono prova contraria) di
invalidità del consenso prestato dal minore (anche senza l'utilizzo di violenza o minaccia) al
compimento di atti sessuali. L'assolutezza di tali presunzioni risiede in ciò che il soggetto agente non
è mai ammesso a provare: cioè che il minore, nonostante fosse di età inferiore ai limiti fissati dalla
legge, avesse nel caso concreto a maturità e la consapevolezza sufficienti a consentire validamente al
compimento degli atti sessuali.
La prima presunzione assoluta, enunciata nel n. 1 dell'art. 609 quater c.p. e relativa all'invalidità del
consenso prestato dal minore infraquattordicenne, è completata dal disposto dell'art. 609 sexies c.p.,
per il quale l'autore del reato non è mai ammesso a provare l'errore sull'età della persona offesa.
Quindi, la legge presume che l'autore conosca l'età della vittima e l'ignoranza non rileva neanche se è
stato cagionato dal dolo malizioso del minore (il quale, ad esempio, ha mostrato un documento sul
quale, per errore dell'Amministrazione che lo ha rilasciato, compaia una data di nascita non vera ed
anteriore a quella reale).
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Il significato del limite minimo di quattordici fissato dal legislatore risiede nella presunzione che
prima di tale età il minore non abbia alcuna possibilità di avvertire in maniera limpida e non
traumatica i mutamenti fisiologici, inerenti allo sviluppo, che si sono appena verificati o che si
stanno verificando in lui.
Si è voluto così tutelare l'inviolabilità sessuale del minore, in quanto si tratta di un soggetto
considerato dall'ordinamento incapace di manifestare un valido consenso all'atto sessuale. E
l'esigenza di proteggere assolutamente il minore in tale fase ha portato all'emanazione dell'art. 609
sexies c.p.
La seconda presunzione, enunciata nel n. 2 dell'art. 609 quater c.p., è relativa ai minori di età
compresa tra i quattordici e i sedici anni: essi, in linea di principio, sono ritenuti capaci di esprimere
un valido consenso ai fini del compimento di atti di natura sessuale, ma non nei confronti di persone
cui il minore sia legato da rapporti qualificati.
Tale norma, infatti, opera solo nei confronti di alcuni particolari soggetti agenti: commette reato chi
compie atti sessuali consensuali con una persona che (pur avendo compiuto quattordici anni) non
abbia ancora compiuto i sedici, quando ne è l'ascendente, o il tutore, o abbia con lui un rapporto di
convivenza, o comunque rivesta una particolare funzione di supremazia nei suoi confronti.
Il rapporto di convivenza, in quanto circostanza aggravante, tiene conto di fattori che non solo fanno
riferimento alla relazione tra abusato e abusante, e pertanto alla frattura di qualsiasi fiducia e senso
di sicurezza che possa esistere tra adulto e minore, ma anche alla continuità dell'abuso nel tempo,
che caratterizza quegli abusi compiuti ove esista un rapporto di convivenza che, è dimostrato,
contiene contenuti di invasività e traumaticità maggiori rispetto ad episodi isolati.
Infatti, quando l'abuso diviene una relazione protratta nel tempo contribuisce ad una vera
strutturazione progressiva della personalità del minore, caratterizzata da insicurezza e paura degli
altri, che condiziona la qualità delle relazioni future familiari ed extrafamiliari. L'importanza della
relazione abusato-abusante è pertanto ribadita anche dalla normativa, oltre che dagli esperti in chiave
di valutazione clinica e psicodiagnostica.
In queste ipotesi, il bene giuridico tutelato è l'intangibilità sessuale relativa. Il legislatore ritiene che
il minore non sia in grado di esprimere un consenso libero ed inoltre che il tipo di rapporto con il
soggetto agente non è compatibile con il compimento di atti sessuali, essendovi il rischio di una
strumentalizzazione della fiducia del minore stesso.
Il fondamento logico della presunzione di invalidità del consenso prestato al minore dei sedici anni
risiede nella convinzione che l'agente può avere - e spesso ha - un notevole ascendente sui minori
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affidatigli. La sua posizione, infatti, può spesso determinare nel minore un sentimento che non si
sviluppa e non si manifesta in maniera consapevole e libera da condizionamenti, ma risente il più
delle volte del concorso di fattori inerenti alla situazione concreta, i quali possono indurre il minore
(che a quell'età può sicuramente essere ancora confuso sia sotto il profilo esistenziale, che sotto i
profili fisiologico e psicologico) a delle scelte compiute con poca riflessione (ad esempio il caso
dell'allieva dei primi anni delle scuole superiori che si invaghisce dell'aitante e giovanile insegnante).
L'instabilità emotiva e passionale sono caratteristiche peculiari del periodo adolescenziale e da
questo si comprende l'opportunità della tutela apprestata dall'ordinamento contro possibili
strumentalizzazioni da parte di adulti di tale vulnerabile personalità.
In considerazione di tali situazioni, il legislatore si è quindi preoccupato di proteggere gli
infrasedicenni colpendo con la sanzione penale quei soggetti i quali, pur senza violenza o minaccia,
comunque approfittino di essi.
La norma, però, pare gravemente discriminatoria per tutte quelle vittime di abuso sessuale
intrafamiliare che hanno più di 16 anni e che si trovano nell'imbarazzante situazione di dimostrare di
essere state costrette al rapporto incestuoso con violenze e minacce.
Poiché gli abusi, solitamente, avvengono in assenza di testimoni e la violenza psicologica a cui sono
sottoposte è impossibile da dimostrare in sede processuale, le vittime rischiano di veder cadere tutte
le loro accuse.
Inoltre, l'incesto non si limita quasi mai ad un solo episodio: in generale si tratta di una relazione che
dura per anni e che quasi sempre inizia durante l'infanzia della vittima; non si può dunque pensare
che un minore, che comincia a subire abusi da piccolissimo, sia in uno stato di soggezione verso il
proprio violentatore fino a 16 anni, mentre, da allora in poi, il rapporto di subalternità psicologica
fino a quel momento subìto improvvisamente si rompa.
Il legislatore, invece, dà per scontato che debba subentrare il coraggio di ribellarsi: se non c'è stata
ribellione, si ritiene che la vittima sia consenziente.
Questa seconda presunzione, però, non è completata da alcuna norma analoga all'art. 609-sexies c.p.,
quindi l'autore del fatto può sempre provare l'errore sull'età del soggetto passivo, purché la falsa
rappresentazione della realtà consista in un errore di fatto (ad esempio nel caso di un documento
contenente dati anagrafici inesatti), e non di diritto (quale sarebbe, ad esempio, quello sul computo
dei termini e dell'età secondo il diritto civile vigente). Ciò, in linea teorica, vale anche quando autore
del fatto sia l'ascendente, o il genitore adottivo, o il tutore, o l'abituale convivente: non sembra
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possibile, però, ipotizzare un solo caso concreto nel quale questi soggetti possano ragionevolmente
sostenere l'ignoranza dell'età del minore.
Dunque il contenuto di queste presunzioni può essere sintetizzato nei seguenti enunciati:
1. l'autore delle condotte indicate non è mai ammesso a provare che, nonostante l'età inferiore ai 14
o ai 16 anni (a seconda dei casi), il minore abbia dato il proprio consenso con libertà e
consapevolezza;
2. nel caso di soggetto passivo di età inferiore ai 14 anni, l'autore non è mai ammesso a provare
l'ignoranza sull'età della vittima;
3. nel caso di soggetto passivo fra i 14 e i 16 anni, l'errore sull'età della vittima, consistente in
errore di fatto, ha efficacia scriminante secondo il disposto dell'art. 47 c.p..
Atto sessuale su minore compiuta
Età del minore
con violenza o minaccia
Atto sessuale su minore consenziente
(violenza sessuale presunta o impropria)
(violenza sessuale propria)
Reclusione da 7 a 14 anni.
Procedibilità d'ufficio.
Minore al di sotto di
anni.
Il consenso a compiere atti sessuali è invalido
perché il minorenne è ritenuto per legge immaturo per
prendere decisioni di tal genere.
Reclusione da 7 a 14 anni.
Procedimento d'ufficio.
Reclusione da 6 a 12 anni.
Procedibilità d'ufficio.
Minore tra e 14
anni.
Di regola, il consenso è invalido, salvo
eccezioni.
Reclusione da 5 a anni.
Procedibilità a querela.
(N.B.) Eccezione = Il consenso del minore tra 13 e 14
anni rende non punibile il patner minorenne che ha non
più di 3 anni rispetto al primo (609-quater, 2º comma
c.p.).
- Reclusione da 5 a anni.
- Procedibilità a querela.
Eccezione = procedibilità d'ufficio se
Minore al di sopra di
14 anni.
- Di regola il consenso è valido (l'atto è lecito
penalmente).
Eccezione = se il minore è al di sotto di 16 anni è
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l'autore del reato è il genitore anche
punibile il colpevole che ne sia il nonno, il genitore
adottivo o la persona cui il minore è
anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui per
affidato (609-septies, 4º comma, n. 2).
ragioni di cura educazione, istruzione, vigilanza o
custodia il minore è affidato, o che abbia col minore una
relazione di convivenza (609-quater, 1º comma, n. 2
c.p.). Soltanto in questi casi si procede d'ufficio.
Sul problema rappresentato dagli atti sessuali consensuali compiuti fra minorenni, la previgente
normativa non prevedeva disposizioni in merito e ciò era considerato
come uno dei profili di maggiore inadeguatezza di essa. Una volta confermato che il limite, al di
sotto del quale il consenso prestato dal minore al rapporto sessuale deve ritenersi invalido, era 14
anni (e dunque rifiutata la proposta dei fautori della libertà, anche sessuale, dei minori di abbassare il
limite a 12 anni), è emerso il problema di trovare una giusta soluzione per evitare di compiere una
compressione troppo forte della personalità dei minori.
Dopo un lungo dibattito, la soluzione di compromesso tra la tutela del minore e il riconoscimento,
nell'ambito giuridico, della sua capacità di autodeterminazione è stata raggiunta con la previsione di
una particolare causa di non punibilità dei rapporti sessuali tra minorenni, inserita nella legge n.
66/96 all'art. 609 quater, comma 2, c.p.
Secondo tale articolo, le effusioni compiute fra adolescenti, purché siano consensuali, sono
consentite alla duplice condizione che il più piccolo dei due abbia compiuto almeno i tredici anni e
che non vi sia fra di loro una differenza di età superiore a tre anni.
Riguardo all'elemento necessario del consenso del minore che ha compiuto almeno tredici anni,
sarebbe più corretto parlare di "mancanza di costrizione" all'atto sessuale. In realtà, secondo alcuni
autori, essendo l'intera normativa indirizzata verso una tutela rafforzata nei confronti del minore,
sarebbe stato più opportuno non limitarsi ad un richiamo alla mancanza di costrizione e richiedere,
viceversa, un espresso consenso. In tal modo si sarebbe dovuto anche accertare, caso per caso, se il
minore avesse realmente avuto quella capacità (naturalistica) che permette di vedere quell'atto come
espressione della sua libertà.
Tale norma consente di contemperare il dato sociale esistente e non discutibile degli atti sessuali
compiuti fra teenager con le esigenze di tutela dell'armonia di crescita del minore. Si è cercato, cioè,
di porre una distinzione tra le condotte che costituiscono un'interferenza degli adulti nello sviluppo
del minore e quelle che, viceversa, costituiscono esperienze spontanee tra adolescenti.
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È certo che la previsione di rigidi limiti temporali (tredici anni compiuti, non oltre tre anni di
differenza), come in tanti altri casi nell'ordinamento giuridico, può suscitare qualche perplessità:
tanti giovani si domanderanno sicuramente perché non possono avere una relazione con un partner
che ha tre anni e un giorno meno o più di loro. È però necessario evidenziare che un limite doveva
essere imposto dal legislatore per rispettare la codificazione normativa e l'odierna soluzione sembra
rappresentare la più semplice da applicare e la più efficace per la tutela del minore (anche da un
punto di vista di crescita personale).
Con questa disposizione è stata prevista una causa personale di non punibilità, che consegue ad una
valutazione di mera opportunità politica-criminale. Il bene giuridico tutelato dall'ordinamento nel
caso di atti sessuali con minorenne (cioè la sua intangibilità sessuale) viene meno, in questa ipotesi,
perché il minore si trova in una fascia di età in cui il legislatore ritiene non debba sussistere una
tutela particolare nei suoi confronti, purché però si tratti di rapporti consensuali tra coetanei.
Un grande problema interpretativo, posto dalla nuova normativa, è stato quello della previsione,
all'art. 609-bis, co. 3, c.p., "dei casi di minore gravità", nei quali la pena è diminuita fino a due terzi
così da rendere possibile il patteggiamento.
La difficoltà consiste nel fatto che né la legge n. 66/96, né il sistema normativo nel suo complesso
forniscono alcuna indicazione per poter comprendere il vero significato di tali casi. Ne consegue che
è il giudice a dover valutare concretamente il caso secondo una sua valutazione soggettiva e questo
comporta enunciazioni diverse di fronte a casi simili. Il grave danno sembra doversi registrare a
carico di quei minori che, per la situazione di abuso che hanno vissuto (ad esempio intrafamiliare),
non hanno il coraggio di denunciare e così il loro silenzio, magari accompagnato anche da
atteggiamenti affettivi nei confronti proprio del loro presunto abusante, rendono concreta l'ipotesi del
"caso di minore gravità".
Infine, i fatti di violenza sessuale, siano essi consensuali o meno, sono puniti in maniera
particolarmente grave (reclusione da 7 a 14 anni) ove il soggetto passivo abbia un'età inferiore a
anni. Con tale disposizione il legislatore ha voluto dare una risposta forte ad un fenomeno grave che
ormai sta emergendo anche nei paesi industrializzati: la pedofilia.
Il reato di corruzione di minorenni
La legge n. 66/96 ha totalmente riformulato la definizione del reato di corruzione di minorenne (art.
609 quater), configurandolo nelle ipotesi in cui vengono compiuti atti sessuali in presenza di minore
di anni 14 al fine di farlo assistere a tali atti e prevedendone la procedibilità d'ufficio.
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La condotta è punibile solo se compiuta al preciso fine di fare assistere il minore a tali atti (si tratta
cioè di una fattispecie a dolo specifico), mentre non rileva penalmente se l'azione è compiuta, pur
consapevolmente in presenza del minore, per un fine diverso, quale potrebbe essere quello della
mera soddisfazione del piacere personale (ad esempio nel caso di rapporti fra coniugi costretti a
coabitare nella medesima stanza con figli di età inferiore a quattordici anni). Inoltre, per integrare
tale fattispecie di reato, occorre comunque che il minore abbia un'età tale da poter rimanere
influenzato dall'episodio cui assiste. Questo è, infatti, l'ultimo indirizzo della giurisprudenza che
ritiene sussistente il reato solo nel caso in cui il minore abbia la possibilità di percepire l'atto lascivo
nella sua materiale realtà(il che non si verificherà, ad esempio, nel caso del neonato o del minore di
un anno).
Questo è considerato un aspetto particolarmente preoccupante, considerando il fatto che spesso i
minori sono costretti a vivere, in certi ambienti, in condizioni di promiscuità, per cui non possono
evitare di assistere al compimento di atti sessuali fra adulti, con i danni che ne conseguono per la
loro personalità in sviluppo.
Infine, va notato che il reato di corruzione di minorenne è un reato di pericolo e non di danno. Ciò
implica che, per la consumazione delittuosa, non è necessaria l'effettiva corruzione, ma è sufficiente
l'apprezzabile possibilità di tale evento da valutarsi in relazione alle circostanze di tempo, di luogo,
di modalità in cui si compie l'azione e alle condizioni personali del soggetto passivo. La
giurisprudenza, con la sentenza 25/69, ha ritenuto che il reato non sussistesse quando il minore, pur
trovandosi nel luogo dell'attività, stesse dormendo, perché in tal caso il pericolo di corruzione non
deve essere confuso con il pericolo di risveglio del minore.
La predisposizione di questo reato, contemplando il caso in cui siano compiuti "atti sessuali" in
presenza di minore di 14 anni al fine di farlo assistere ad essi, è rivelatrice del chiaro intento del
legislatore di voler rendere legittima la consumazione di atti sessuali nei confronti o in presenza di
un minore di età tra i 14 e i 16 anni, purché consenziente e non avente legami con il soggetto agente
tra quelli indicati nell'art. 609-quater n. 2. Infatti, il vecchio testo di questa ipotesi di reato (art. 530
c.p.) prevedeva due diverse situazioni criminose (e cioè il fatto di colui che, al di fuori dei casi di
violenza carnale e atti di libidine violenti, commette atti di libidine su o in presenza di un minore di
sedici anni e il fatto di chi induce un minore di sedici anni a commettere atti di libidine su se stesso,
sulla persona del colpevole o su altri), nelle quali veniva tutelato maggiormente il minore tra i
quattordici e i sedici anni - in quanto per l'infraquattordicenne trovavano applicazione le specifiche
norme relative alla violenza carnale e agli atti di libidine violenti (artt. 519, 520, 521) - e il minore di
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quattordici anni che si trovava in tutte quelle ipotesi in cui i fatti non potevano rientrare nelle
precedenti fattispecie.
Importante è stata, inoltre, l'abolizione, da parte del legislatore, della causa di non punibilità, prevista
dalla vecchia disciplina nell'art. 530 c.p., costituita dal fatto che il minore fosse "persona già
moralmente corrotta". Tale disposizione, infatti, presupponeva l'irreversibilità della personalità del
minore che aveva vissuto esperienze corruttive o perverse nei suoi confronti, quando invece, essendo
un soggetto in piena formazione e non ancora strutturato e stabilizzato, deve fortunatamente essere
ritenuto capace di recupero.
La legge n. 269/98: "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di
riduzione in schiavitù"
Con la legge n. 269/98 sono state previste tutte le incriminazioni corrispondenti agli ulteriori
sviluppi dell'attività criminale riguardo allo sfruttamento sessuale dei minori e, in specie, il
fenomeno dilagante della pedofilia. La legge è stata redatta in adesione alla Convenzione sui diritti
del fanciullo (ratificata ai sensi della legge n. 176/91) e alla dichiarazione finale della Conferenza
mondiale di Stoccolma del 1996, la quale si concluse con l'approvazione del Progetto delle
dichiarazioni di intenti e del programma operativo, in cui si poneva come obiettivo la cooperazione
a livello locale, nazionale, regionale ed internazionale dei paesi aderenti per combattere il fenomeno.
Sono dunque perseguibili condotte quali l'induzione e lo sfruttamento della prostituzione del minore
di 18 anni, anche quando il fine è quello di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre
materiale pornografico, la distribuzione o la divulgazione (anche per via telematica) di tale materiale
o di informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento di minori ed inoltre la prostituzione
minorile a scopo di turismo sessuale.
L'aspetto più interessante di questa normativa, non solo dal punto di vista giuridico e criminologico,
ma anche etico e sociale, è costituito dall'aver inserito tali condotte in una definizione più ampia di
"riduzione in schiavitù di minori", coinvolti in attività sessuali e, dunque, la loro collocazione
sistematica tra i "reati contro la personalità individuale", in quanto considerate condotte criminali
che compromettono la libera determinazione della "personalità individuale" del minore in crescita.
La legge così mostra di considerare, come bene giuridico leso dalle nuove fattispecie di reato, lo
sviluppo della personalità del minore sotto il profilo però della sua libera autodeterminazione
piuttosto che della cosciente esplicazione della libertà personale (come invece ha fatto la legge n.
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66/96). Le nuove figure di reato, infatti, non incriminano gli atti sessuali compiuti con violenza o
minaccia (e dunque in assenza del libero consenso della vittima), ma lo sfruttamento della
prostituzione e della pornografia minorile, che oltre ad essere di per sé atti caratterizzati da profondo
disvalore sociale e morale, costituiscono anche una grave lesione alla personalità individuale di
soggetti che, a causa dell'età, non sono completamente in grado di autodeterminare la propria
condotta.
L'elemento discriminante dalla legge n. 66/96 è costituito sia dalla finalità di lucro che il
coinvolgimento del minore in tali attività comporta, sia dalla differenziazione di queste tipologie di
comportamento da altre forme di abuso sessuale su minore di tipo familiare o extrafamiliare ove non
sia presente però la finalità economica. Il legislatore, dunque, ha inteso colpire la cosiddetta
"mercificazione professionalmente organizzata del sesso minorile", con riguardo sia alle prestazioni
sessuali vere e proprie, sia alla creazione o riproduzione di suoni o immagini a contenuto erotico.
In Italia la prostituzione minorile coinvolge sia minori italiani che stranieri, questi ultimi spesso
vittime della tratta, un crimine che si fonda sulla compravendita e lo sfruttamento di esseri umani
sottratti con violenza o inganno dai luoghi di origine, portati nei Paesi occidentali e venduti come
schiavi. Numerose vittime sono state rapite da organizzazioni criminali internazionali, altre sono
state vendute dalle proprie famiglie o attirate con false promesse di lavoro.
Non è facile quantificare il numero di minori che sono costretti a prostituirsi in Italia perché
esistono, specialmente nel caso di minori italiani, numerose situazioni di prostituzione familiare o
amicale che è difficile portare alla luce.
La lotta contro la prostituzione minorile richiede, dunque, uno sforzo di coordinamento sia a livello
locale che nazionale ed internazionale perché l'organizzazione del crimine è complessa e articolata.
Per perseguire tale reato è necessario anche un efficace coordinamento con i paesi destinatari dei
flussi di turisti interessati a questo tipo di mercato: le polizie locali, infatti, sono autorizzate a
segnalare agli organismi internazionali la nazionalità di coloro che sono considerati sospetti autori di
violenze sessuali sui minori nei paesi di destinazione "turistica".
Le attività svolte dopo la legge n. 269/98
Dopo la ratifica della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989, gli appuntamenti
considerati più significativi per valutare il più recente percorso compiuto dall'Italia nella prevenzione
e nel contrasto dell'abuso e dello sfruttamento sessuale di bambini e adolescenti sono stati due: il
Secondo congresso mondiale di Yokohama contro lo sfruttamento sessuale commerciale dei minori
(svoltosi nel dicembre del 2001) - preceduto da importanti conferenze intergovernative che hanno
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consentito di avviare un confronto a livello regionale - e la Sessione speciale delle Nazioni unite
sull'infanzia.
La Sessione speciale di New York ha verificato i risultati, gli obiettivi e gli impegni che erano stati
presi con la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo.
Inoltre, in occasione del primo incontro mondiale sull'infanzia nel 1990 (al quale ha partecipato
anche l'Italia), è stato adottato il documento A World Fit for Children, nel quale la lotta contro ogni
forma di violenza, abuso e sfruttamento sessuale a danno di bambini ed adolescenti è stata
riaffermata tra le priorità assolute dell'attività politica internazionale.
In tale testo i fenomeni di abuso e violenza sui minori vengono additati come fossero "un'epidemia",
contro la quale ogni "attività strategica" di contrasto (legislativa, sociale, culturale, economica,
sanitaria, educativa, ecc.) si presenta complessa e destinata ad incontrare non poche difficoltà.
Vengono segnalate una serie di azioni che i paesi devono attuare in modo prioritario nella lotta
contro ogni forma di violenza ed in particolare contro la tratta e lo sfruttamento sessuale dei minori:
ridurre e contrastare ogni forma di discriminazione sociale e culturale e di emarginazione, da cui
possono generarsi le condizioni che favoriscono l'abbandono e lo sfruttamento dei minori; attivare le
istituzioni, la società civile e le comunità locali affinché ci sia una diffusa assunzione di
responsabilità rispetto al problema "sia nel Nord che nel Sud del mondo"; garantire ogni misura di
protezione che risulti necessaria; provvedere al recupero, al reinserimento sociale e alla cura dei
minori vittime dei vari fenomeni di violenza. Tale documento si configura come uno stimolo per
l'Italia a proseguire lungo i percorsi già avviati, a migliorarli e ad aprirne di nuovi. Infatti deve essere
fatto ancora molto per riuscire ad ottenere migliori condizioni di vita per i minori vittime di tali
fenomeni e per prevenire a livello primario, l'insorgere del trauma della violenza e, a livello
secondario e terziario, l'aggravarsi dei danni e degli effetti conseguenti.
Successivamente, in preparazione del Congresso di Yokahama, si è svolta a Budapest, nel novembre
2001, una Conferenza intergovernativa, conclusasi con l'adozione del Commitment and Plan of
Action for Protection of Children from Sexual Exploitation in Europe and in Central Asia. Questo
documento è molto chiaro nell'indicare che il criterio-guida, che le politiche nazionali e
sovranazionali devono seguire per contestare contro ogni forma di violenza sull'infanzia, deve essere
quello della logica "zero tolerance", la quale si concretizza in una serie di comportamenti che ogni
paese deve realizzare integralmente come propria strategia d'azione, senza prevedere eccezioni:
prevenire e reprimere la violenza sui minori, proteggerli, applicare ed adeguarsi alla normativa,
integrare e programmare gli interventi.
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La legge n. 154/01: "Misure contro la violenza nelle relazioni familiari"
Grande importanza ha avuto l'emanazione della legge n. 154/2002, la quale ha introdotto (all'art.
282-bis c.p.p.) la misura coercitiva dell'allontanamento del familiare violento. La ratio della norma è
stata quella di predisporre un rimedio rapido ed efficace nei casi più gravi di violenza in famiglia, di
pornografia e di sfruttamento della prostituzione minorile, attuati in danno dei prossimi congiunti o
del convivente.
Gli ordini, che possono anche essere emessi dal giudice laddove non si sia in presenza di reati
perseguibili d'ufficio, possono essere di vario tipo: allontanamento dalla casa familiare (anche se
questa è di proprietà esclusiva del soggetto allontanato), divieto di frequentazione di luoghi in cui
abitualmente si trova il minore, obbligo di pagamento di un assegno al familiare che permanga in
uno stato di bisogno.
Anche in precedenza era possibile ottenere misure di allontanamento, ma la novità della legge sta
nella possibilità di farvi ricorso anche laddove non si sia di fronte a situazioni che si configurano
come reato accertato: è il caso degli ordini di protezione emanabili in sede civile, ma in presenza di
una certa situazione di grave e pregiudizievole disagio (condizione che si può verificare in casi di
grave e ripetuta "violenza assistita", trascuratezza e maltrattamento psicologico ai danni di minori).
Con questa normativa, dunque, si è registrato un importante progresso perché è stata eliminata
l'ingiustizia, finora realizzata, per cui il minore diventava vittima due volte: prima perché subiva
l'abuso, poi perché subiva anche l'allontanamento da casa.
È inoltre interessante rilevare che in questa legge è presente un altro aspetto fortemente innovativo:
l'introduzione di una più ampia definizione di violenza, che viene individuata in tutte quelle
situazioni di grave pregiudizio dell'integrità (fisica o morale) o della libertà di un componente
qualsiasi del nucleo familiare causate da un altro componente della famiglia (legittima o naturale).
Dal punto di vista dei minori, la legge riconosce il diritto del bambino a non essere sradicato dal
proprio ambiente familiare quando sia necessario porlo al riparo dal ripetersi della violenza. Sotto
questo aspetto, per poter applicare attentamente la legge, è necessaria la collaborazione tra
magistratura e servizi sociali, perché è ormai dimostrato che un genitore non abusante o maltrattante
non è per questo necessariamente protettivo e, anzi, necessita anch'esso di un forte sostegno.
Purtroppo la difficoltà di tale integrazione comporta una scarsa applicazione della legge. Ma va
anche ricordato che, se da un lato, si può considerare l'introduzione di tali norme come un fatto
positivo, dall'altro, è opportuno (specialmente nei casi di abuso sessuale e di maltrattamento grave)
una valutazione attenta della protettività del genitore che rimane con il minore. Non può, infatti,
essere esclusa l'ipotesi che tale adulto di riferimento abbia comportamenti fortemente ambivalenti
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nei confronti del coniuge maltrattante o abusante allontanato e possa agire sul figlio con minacce e
ritorsioni.
6.1 La realtà dell'abuso: elementi descrittivi
Un'importante ricerca sull'argomento è stata quella compiuta da Sgroi, Blick e Porter, i quali nel
1982 hanno individuato varie fasi dell'abuso sessuale, che si ripetono ancora oggi:
1. fase dell'adescamento: l'abusante mette in atto una serie di comportamenti per attirare su di sé il
minore, separandolo dagli altri componenti della famiglia, in particolare dalla madre e creando delle
situazioni che lo facilitino nei suoi piani;
2. fase dell'interazione sessuale: durante la quale l'abusante passa a forme di violenza via via
sempre più intrusive e devastanti (ad esempio da discorsi pornografici a esibizionismo, voyeurismo,
a contatti fisici fino alla penetrazione, a volte con il coinvolgimento anche di altri minori, o
inducendo il/la bambino/a a compiere a sua volta atti sessuali su fratelli e sorelle più piccoli;
3. fase del segreto (il quale è presente anche nella fase precedente): in cui l'abusante costringe con
vari mezzi il minore al silenzio;
4. fase dello svelamento dell'abuso;
5. fase della rimozione: caratterizzata dal tentativo di negare la realtà dell'abuso o di minimizzarlo,
o di negare o minimizzare il danno derivato al/alla bambino/a dall'abuso stesso.
Riguardo alle varie tipologie di violenza, dal diagramma relativo (realizzato dalla ricerca del
CENSIS) risulta che dopo le situazioni a rischio di violenza (oltre il 26%) e la trascuratezza (quasi il
22%) - situazioni queste in cui dovrebbe maggiormente operare l'attività di prevenzione - la tipologia
di violenza percentualmente più commessa è l'abuso sessuale (circa il 20%).
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Emerge, dunque, l'immagine di un bambino abbandonato a se stesso, non stimolato, non curato,
isolato affettivamente e spettatore della conflittualità in famiglia che spesso arriva a coinvolgerlo.
Tali violenze, secondo questa ricerca, sono commesse, nella quasi totalità dei casi, in ambiente
domestico (91%).
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Anche da un'altra ricerca svolta nel 2002, dalla Scuola Romana Rorschach (Centro studi e intervento
infanzia violata), sui dati raccolti da 35 audizioni protette di minori sessualmente abusati, è stato
confermato quest'ultimo risultato.
L'abuso sessuale è stato distinto in:

abuso sessuale intrafamiliare ed intradomestico: quando l'abuso sessuale è commesso dal
genitore o comunque da un parente convivente con il minore;

abuso sessuale intrafamiliare ed extradomestico: quando l'abuso è perpetuato da un parente
non convivente o da un amico di famiglia;

abuso sessuale extrafamiliare: quando l'abuso è compiuto da un soggetto estraneo al minore
e/o alla famiglia.
Le tipologie dell'abuso sessuale
È emerso che si ha un numero più elevato di casi di abuso sessuale intrafamiliare extradomestico.
Considerando poi, oltre a questa, la percentuale dei casi di abuso sessuale intrafamiliare
intradomestico, il numero dei casi di abuso intrafamiliare risulta fortemente maggiore rispetto a
quello dei casi di abuso extrafamiliare.
Dalla ricerca del CENSIS risulta infatti che chi ha compiuto violenza è in prevalenza il padre (autore
principale o unico), seguito dalla madre (secondo autore).
Tipo violenza
Autore principale Secondo autore Terzo autore
Abuso sessuale
Padre
Estraneo
Sconosciuto
Maltratt. Fisico
Padre
Madre
Sconosciuto
Trascuratezza
Padre
Madre
Altri parenti
Maltratt. Psicologico Padre
Madre
Altri parenti
Situaz. a rischio
Padre
Madre
Altri parenti
Ipercura
Padre/Madre
Madre/Padre
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Relazione tra autore e vittima della violenza
Definire il contesto dell'abuso significa, in primo luogo, comprendere il tipo di relazione esistente tra
l'abusante e la vittima. Infatti, la violenza compiuta dall'estraneo è sicuramente diversa da quella
massa in atto dal padre incestuoso, così come è diversa quella compiuta dal vicino di casa o dal
conoscente.
Una particolare categoria di abusanti è quella delle cosiddette "persone autorizzate", cioè di coloro
che, in virtù dell'attività che svolgono (infermiere, medico, ecc.), hanno l'opportunità di entrare in
relazione con la vittima in maniera naturale.
Le violenze che il bambino subisce nell'ambito familiare sono, comunque, quelle più rilevanti perché
la carenza di un sostegno o dell'affetto della famiglia è quella che più gravemente condiziona la
regolare strutturazione della personalità e l'adeguato sviluppo del processo di socializzazione del
bambino. La famiglia abusante non è soltanto la famiglia autoritaria e dispotica, né solo quella
sfruttatrice in senso economico del bambino (considerato come "merce"). Può danneggiare il minore
anche la famiglia che, per rispettare "troppo" la sua libertà, lo lascia solo ad esplorare la vita; quella
che - per assicurargli un luminoso avvenire - è particolarmente esigente e perfezionista; quella che
per iperprotezionismo gli impedisce di fare esperienze significative e strutturanti perché tutto
costituisce pericolo; quella ripiegata narcisisticamente su se stessa e quindi portata ad inculcare nel
figlio l'idea che tutto il mondo è ostile e negativo e che solo il modello familiare è valido; quella che
attraverso il ricatto della riconoscenza, per l'amore dato e per i sacrifici compiuti, soffoca il bambino
con un amore possessivo e distruggente.
Per svolgere adeguatamente il proprio ruolo genitoriale, e così captare le esigenze del bambino, e per
saper rispettare la sua sensibilità sono necessari nei genitori un'adeguata maturità personale ed un
forte controllo di sé e delle proprie reazioni.
Il che non è facile, specialmente in una società che tende ad infantilizzare anche gli adulti, che isola
ed emargina la famiglia, che moltiplica le situazioni di fragilità familiare, che propone
continuamente modelli diversi e spesso contrastanti di educazione.
Per quanto riguarda la composizione familiare, da un'ulteriore rilevazione sulla violenza all'infanzia,
compiuta nel 2002, è emerso che la maggioranza dei bambini vittime di violenze vive in nuclei
costituiti da entrambi i genitori biologici conviventi (il 56%) e la famiglia "normale" continua ad
essere l'ambito in cui si verificano la maggior parte degli abusi.
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Negli abusi sessuali consumati in famiglia, possono essere riconosciute modalità complesse di
realizzazione, tanto da poterli distinguere in tre sottogruppi:
a.
abusi sessuali manifesti:
lo sono, di solito, gli abusi di tipo incestuoso, consumati nella maggior parte dei casi da figure
maschili con figlie femmine, ma dovrebbero essere considerati tali anche altri rapporti simili: tra
padri e figli maschi; tra madri e figli maschi; tra fratelli e sorelle.
Questi tipi di violenze sono, per i traumi e le conseguenze che lasciano sul minore, i più evidenti e
sono quelli sui quali è possibile intervenire con fermezza; ma la difficoltà nel riconoscerli è proprio
nel fatto che avvengono all'interno del nucleo di vita più vicino al bambino: la sua famiglia.
b.
abusi sessuali mascherati:
lo sono pratiche genitali inconsuete, quali frequenti lavaggi del bambino, ispezioni ripetute e
applicazioni di creme e preparati medicinali.
c.
pseudo-abusi:
a questo gruppo appartengono gli abusi dichiarati quando in realtà non sono stati concretamente
consumati per:
o
convinzione errata, a volte delirante, che il/la figlio/a (più frequentemente la figlia) sia
stato/a abusato/a; dietro a tali convinzioni c'è talvolta la proiezione sul/la figlio/a di esperienze
di abuso subite nella propria infanzia dal genitore;
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o
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consapevole accusa all'ipotetico autore di abuso sessuale finalizzato ad aggredirlo,
screditarlo, perseguirlo giudizialmente. Queste accuse avvengono frequentemente da parte di
madri o nonne contro i padri nel corso delle separazioni;
o
dichiarazione inventata dal/dalla giovane, di solito adolescente, per sovvertire una
situazione familiare insostenibile. Anche se l'abuso non si è realizzato, sono situazioni che
vanno sempre prese in considerazione perché indicano che il minore ha sicuramente un disagio
e, pertanto, deve essere aiutato;
o
l'abuso sessuale "assistito", quando cioè il/la bambino/a assiste all'abuso che un genitore
agisce su un fratello o una sorella, o viene fatto assistere alle attività sessuali dei genitori.
d.
abusi sessuali extrafamiliari:
sono forme di abuso frequentemente sommerse e che riemergono nei racconti dei pazienti, ormai
adulti, poiché, quando l'abuso si era verificato, i sentimenti di vergogna, imbarazzo, pudore dei
genitori avevano prevalso sull'opportunità non solo di denunciare il fatto all'autorità giudiziaria, ma
anche di occuparsi della salute mentale del minore che aveva subito l'abuso.
Il problema delle conseguenze psicologiche di questi soggetti non ha un'evoluzione univoca, ma è in
funzione della situazione psicologica individuale e soprattutto di come l'ambiente familiare e sociale
in cui vivono reagisce.
Nella maggior parte dei casi vi è una situazione di trascuratezza fisica e/o affettiva, in cui vive il
minore, che non gli permette di sviluppare la capacità di discriminare i pericoli e lo rende
predisposto ad accettare qualunque attenzione affettiva gli venga proposta dall'esterno, credendola
compensatoria di una vuoto affettivo intrafamiliare.
Quando la negazione e l'omertà non reggono e il problema diventa palese, il bambino subisce dalla
propria famiglia altre violenze, che consistono nel costringerlo a ripetute e minuziose descrizioni dei
fatti alle diverse autorità (in numero anche superiore al necessario). Tutto questo perchè il pensiero
dominante per il genitore offeso diventa la vendetta, quasi perdendo di vista i bisogni e le angosce
del/la proprio/a figlio o figlia.
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ASSOCIATO
Rilevazioni statistiche sul sesso ed età delle vittime di abuso sessuale compiute dal
CISMAI nel 2006
Si può notare che l'unica differenza emergente riguarda l'età in cui i minori subiscono con più
frequenza abusi sessuali: nel 2001 era tra i 12 e i 14 anni, nel 2004 tra i 6 e i anni, nel 2006 nella
cosiddetta preadolescenza/adolescenza.
Il cambiamento registrato dal 2001 al 2004 potrebbe essere il risultato di un maggior numero di
denunce da parte dei minori-preadolescenti, dovute al fatto probabilmente che in questi ultimi anni
sono state realizzate più iniziative di sensibilizzazione all'interno delle scuole (anche in luoghi dove
prima l'argomento era considerato una specie di "tabù"), c'è stata una maggior diffusione sul
territorio e conoscenza dei consultori ed infine, sicuramente, perché la violenza e l'abuso sessuale
sono diventati un argomento più discusso che in passato.
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Rilevazione statistica compiuta dalla Scuola Romana Rorschach nel 2005
sull'incidenza degli abusi sessuali a seconda del sesso del minore e dell'età
Dalla rilevazione compiuta maschi e femmine non risultano subire una quantità diversa di azioni
abusanti per quanto riguarda la violenza sessuale "tradizionale" (come gli atti di libidine e i rapporti
sessuali penetrativi o nell'avvio alla prostituzione), mentre nelle violenze connesse alle attività
organizzate di pedofilia i maschi sono coinvolti in misura quasi doppia rispetto alle femmine.
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È stato inoltre rilevato che i bambini stranieri subiscono maggiormente le varie forme di violenza
sessuale rispetto ai minori italiani.
Le statistiche evidenziano, infatti, che i bambini extracomunitari sono, più spesso di quelli italiani,
vittime di rapporti sessuali, indotti alla visione di pornografia ed avviati alla prostituzione. La causa,
probabilmente, si può ricondurre alla loro stessa situazione di vita, caratterizzata da un quasi totale
abbandono sia da parte delle istituzioni, sia da parte della famiglia (costretta a lottare per la
sopravvivenza con un elevato numero di figli).
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6.2 Gli indicatori dell'abuso sessuale
Nel caso di violenze sessuali su minori al di fuori del contesto familiare, molto spesso i genitori
preferiscono non denunciare subito all'autorità giudiziaria il crimine, sia perché il danno in ogni caso
non è totalmente risanabile, sia perché esiste il rischio che l'apertura del procedimento esponga il
bambino a morbose curiosità e a facili etichettature (soprattutto se il contesto familiare è un piccolo
paese), sia infine perché la necessaria rievocazione del fatto in sede giudiziaria può aprire nuove
ferite nel minore impedendogli di superare il trauma di cui è stato vittima. Il rischio di violenze di
questo tipo è particolarmente elevato in bambini che non sono seguiti a sufficienza dai genitori per
incuria o disinteresse: la consapevolezza di ciò fa sentire i genitori oscuramente colpevoli e poco
disposti alla denuncia.
Per accertare l'effettivo verificarsi di un abuso sessuale è possibile utilizzare una serie di criteri o
indicatori, i quali però non possono costituire un elenco completo e certo sul quale poter desumere
con esattezza se l'abuso si è realizzato oppure no. Sono molti, infatti, i casi in cui la sintomatologia
clinica non è troppo esaustiva e dove rimangono molti dubbi (ad esempio quando non c'è stata
penetrazione).
Gli indicatori variano in relazione alla fase di sviluppo del minore e si distinguono in:
1.
indicatori cognitivi
2.
indicatori fisici;
3.
indicatori comportamentali/emotivi.
Vero è che occorre tener conto che tali indicatori di abuso non possono essere utilizzati
indiscriminatamente, poiché la presenza di uno o più di essi può essere determinata anche da altre
cause; bisogna fare attenzione al rischio di vedere una correlazione illusoria tra causa supposta
(abuso sessuale) e conseguenze (indicatori), dove questa non c'è. Nel caso degli indicatori fisici, ad
esempio nelle bambine, una diagnosi di neovascolarizzazione è giudicata compatibile con atti
traumatici ripetuti (quali atti di abuso sessuale), ma anche con esiti di infiammazioni vaginali. La
stessa integrità dell'imene si presta a conclusioni equivoche, in quanto apparenti lacerazioni di essa
possono in realtà corrispondere a particolarità morfologiche congenite.
L'equivocità può riguardare anche gli indicatori comportamentali. La presenza di incubi, l'eccesso di
masturbazione e la depressione non costituiscono di per sé sintomi di abuso sessuale e possono
essere ricollegati a varie cause che incidono sulla vita e crescita del bambino. Anche gli indicatori
cognitivi possono trarre in inganno: spesso si è portati a pensare che, se un bambino ha conoscenza
in materia di sesso inadeguate alla sua età, non può che averle acquisite attraverso contatti sessuali
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diretti. In realtà, frequentemente capita che il bambino abbia visto determinate scene nei film oppure
abbia ascoltato gli adulti che ne parlavano.
Gli indicatori da soli non possono, dunque, essere considerati gli indici certi di un avvenuto abuso
sessuale: sono necessarie ulteriori indagini sulla situazione.
6.3 Le conseguenze dell'abuso sessuale
Si può affermare con certezza che un bambino che non comprende il significato delle azioni
dell'adulto, non per questo non riporterà un danno: non è cioè la comprensione intellettuale di ciò
che accade a dare la misura dell'effetto traumatico dell'abuso sessuale.
La violenza all'interno della famiglia può causare una serie di conseguenze nocive per le vittime,
quali gravi danni fisici, disturbi psicologici a breve e a lungo termine e il bisogno di andare via di
casa. Si ritiene che le conseguenze della vittimizzazione siano comunque una funzione di almeno
cinque classi variabili:
1.
la natura dell'atto abusivo (percosse, abuso sessuale) come pure la sua frequenza,
intensità e durata;
2.
le caratteristiche individuali della vittima (ad esempio l'età);
3.
la natura della relazione tra vittima e abusante (coniuge, patrigno, ecc.);
4.
la risposta degli altri all'abuso (sostegno sociale, intervento legale o psicologico e
soprattutto reazione della famiglia);
5.
i fattori legati all'abuso che possono esasperare i suoi effetti o sostenere alcune delle
conseguenze dell'abuso stesso (caos familiare precedente all'atto abusivo).
La violenza è intrinseca agli atti di abuso sessuale e consiste nell'impatto traumatico che la sessualità
adulta (anche quando è mascherata da approccio "gentile") ha sul minore e nella natura di per sé
coercitiva di tali atti sessuali.
Bambine e bambini, data l'immaturità psichica ed emotiva e dato lo svantaggio di strumenti, potere e
autorità rispetto all'adulto, sono nell'impossibilità di dare un consenso libero ed informato. L'abuso
sessuale su un minore, dunque, viene sempre attuato dall'adulto, anche quando non c'è apparente uso
di forza, sfruttando questa disparità di potere, autorità, dipendenza materiale ed affettiva del
bambino, ed è poi ripetuto utilizzando lo stato di confusione, disperazione, paura e vergogna causati
dall'abuso stesso.
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Per parlare di "mancato consenso" non è inoltre necessario che il minore sia completamente
all'oscuro del significato sessuale degli atti compiuti dall'adulto: infatti è la posizione di vantaggio di
questo rispetto al minore e il clima di soggezione, confusione, ambiguità, colpevolizzazione creato
dall'adulto ad impedire alla vittima una reazione efficace. Per i bambini piccoli inoltre il "bene" è
obbedire all'adulto; per loro un'azione che non solo risponde al requisito dell'obbedienza, ma che
viene anche premiata dall'adulto è "buona".
I mezzi usati dagli abusanti sono un insieme di lusinghe e minacce, di promesse e intimidazioni, di
uso di forza fisica e di atteggiamenti gentili, in un'alternanza di facce e ruoli via via assunti da chi
abusa al fine di togliere alla vittima qualsiasi possibilità di difendersi.
In molti casi le ragazze e le donne che sono state da bambine vittime d'abuso non ricordano i
tentativi che hanno inizialmente fatto per difendersi dalla violenza e sono convinte che l'abusante
non abbia mai fatto uso di forza fisica.
In realtà, ricostruendo con loro la storia, si scopre che spesso durante le prime aggressioni è stato
fatto uso di vera e propria coercizione fisica. Successivamente il senso di impotenza, la vergogna, la
disperazione, i ricatti a cui venivano sottoposte dall'abusante («Se non ci stavo lui picchiava la
mamma e i miei fratelli»; «Mi diceva che dovevo essere gentile con lui; se poi non lo ero diventava
cattivo»), l'isolamento in cui venivano costrette, la paura che provavano ed i messaggi ambigui e
distorti che ricevevano toglievano loro totalmente la possibilità di reazione.
La confusione, il fallimento dei tentativi di difesa, la sessualizzazione traumatica, la ripetizione dei
messaggi dell'abusante che addossa alla minore la responsabilità dell'abuso, fanno sì che essa
dimentichi la reale successione dei fatti e non riesca a darne la giusta interpretazione neanche da
adulta. In molti casi l'abusante arriva a pretendere dimostrazioni "d'amore": «Mi diceva le frasi
d'amore che dovevo dirgli e non voleva che lo chiamassi papà; però se cercavo di ribellarmi
cambiava faccia e diceva: "Devi fare come ti dico io, perché sono tuo padre"».
Per quanto riguarda la durata dell'abuso, si può intuitivamente concordare con l'affermazione
secondo cui un episodio isolato risulta meno dannoso di un'esperienza protratta nel tempo. Tuttavia i
dati disponibili sono contraddittori in quanto la durata e la frequenza dei rapporti sono comunque
elementi collegati ad altre variabili quali l'età del bambino all'esordio, il contesto familiare o
extrafamiliare, la natura della relazione con l'abusante ed il tipo di attività sessuale commessa.
A questo proposito, un sintomo particolare è costituito dal disturbo post-traumatico da stress
(PTSD), il cui rischio tende ad aumentare quando l'abuso fisico è più grave e di lunga durata e
quando l'abuso sessuale avviene in una relazione segreta o comporta un senso di pericolo o colpa da
parte del bambino vittima. È stato inoltre dimostrato che lo stupro, in particolare, comporta un più
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elevato rischio di PTDS rispetto ad altri traumi comuni, a causa della forte coercizione fisica
utilizzata.
Si può sicuramente affermare che l'abuso può compromettere le normali tappe dello sviluppo e
formazione del bambino, agendo sulla regolazione affettiva, lo sviluppo dell'autostima e le relazioni
con i coetanei. Anche nell'età adulta persistono disturbi di relazione rappresentati da sentimenti di
paura e diffidenza nell'incontro con gli altri e di ostilità nei confronti delle figure parentali; varie
disfunzioni del comportamento sessuale, tendenza alla prostituzione, alla tossicodipendenza e
all'alcolismo.
Anche la "Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale all'infanzia" afferma che «l'intensità e
la qualità degli esiti dannosi dell'abuso sessuale derivano dal bilancio tra le caratteristiche dell'evento
(precocità, frequenza, durata, gravità degli atti sessuali) e gli interventi protettivi e riparativi esterni,
che si attivano in relazione all'abuso».
Inoltre «il danno è tanto maggiore quanto più:
a.
il fenomeno resta nascosto, o non viene riconosciuto;
b.
non viene attivata alcuna protezione nel contesto primario e in quello sociale;
c.
l'esperienza resta non verbalizzata e non elaborata;
d.
è forte il legame di dipendenza fisica ed affettiva della vittima dall'abusante».
L'abuso sessuale che si verifica in un clima di calore affettivo, di lusinghe, di gratificazione mediante
le concessioni di speciali privilegi e di estrema segretezza, può essere per il bambino traumatico e
sconcertante al pari di un'aggressione violenta.
Molti bambini subiscono per anni un abuso sessuale ma, mentre crescono, aumenta in loro la
consapevolezza che qualcosa è sbagliato e possono rendersi conto improvvisamente di ciò che sta
loro succedendo (per esempio nel corso di un tentativo disperato di proteggere un membro più
giovane della famiglia da un abuso dello stesso tipo, o quando la possessività e la gelosia del padre
diventano intollerabili).
Non c'è da stupirsi che i bambini vittime di abuso sessuale si dimostrino molto ansiosi.
Un'adolescente può apparire orgogliosa del potere che ha sul padre o su altri uomini, ma dietro
questo atteggiamento si cela un grande bisogno di affetto. Essa continuerà ad incontrare difficoltà
nel dare e nel ricevere amore, anche quando magari sarà stata inserita in una famiglia diversa (ad
esempio adottiva).
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Il fatto che tali effetti non si protraggano a lungo termine dipende, probabilmente in larga misura,
dalla possibilità di una diagnosi e di una terapia precoci.
Uno dei caratteri più tipici dell'abuso sessuale, soprattutto intrafamiliare, è l'instaurazione e il
mantenimento del segreto riguardo all'atto compiuto, che crea forti barriere nel minore sia a livello
interiore, che nelle relazioni con gli altri.
L'abusante costringe la vittima al silenzio con l'imbroglio; con i bambini piccoli viene usato il
"discorso del gioco": «Questo è un gioco che si fa sempre tra padri e figlie, però non lo devi dire a
nessuno». Il bambino viene anche ricattato e minacciato: «Se parli mi uccido» oppure «La mamma e
i tuoi fratelli finiscono sul lastrico», «Viene un mostro e ti uccide». Sono tutte frasi riferite dai
bambini quando parlano delle violenze subite durante l'infanzia. E ancora (in casi di abuso
extrafamiliare): «Se lo dici a qualcuno, lo dico ai tuoi genitori», con un'incongruenza di messaggi
spaventosa e colpevolizzante, oltre che altamente confusiva per il/la minore.
La vittima della violenza, inoltre, per poter sopravvivere ad eventi così distruttivi mette in atto
potenti meccanismi di difesa che rendono possibile quello che viene chiamato "adattamento
all'abuso". Attraverso di esso il bambino tenta di ripararsi in qualche modo dal senso di catastrofe e
di distruzione e può permettersi l'illusione che niente sia cambiato, che il suo papà sia comunque un
papà buono che gli vuole bene e che la rovina che gli è caduta addosso possa essere in qualche modo
tenuta sotto controllo.
Tali meccanismi patologici di adattamento partecipano al mantenimento del segreto. Il far finta di
essere altrove durante gli atti abusivi (sentirsi per esempio parte del muro o un piccolo animale che
guarda da un angolo della stanza quanto succede), sforzi auto-ipnotici di induzione anestetica
riguardo al dolore fisico e alla sofferenza psicologica, e sforzi di non sentire rientrano nei primissimi
meccanismi messi in atto dal bambino per difendersi dall'assoluta confusione, angoscia e paura che
prova al termine dell'atto abusivo.
Tali reazioni sono determinate, oltre che dagli atti abusivi in sé, anche dalle circostanze in cui
avviene l'abuso. Ad esempio le aggressioni notturne avvengono nell'assoluto silenzio e al buio
mentre il/la bambino/a dorme, di modo che ciò che avviene è contemporaneamente negato dalle
stesse circostanze, che rendono più facile la negazione della realtà dei fatti da parte dell'abusante
(«Hai fatto un sogno»).
Il bambino e la bambina vengono premiati o perlomeno non puniti quanto più e quanto meglio
riescono a mettere in atto i meccanismi di difesa, cioè quanto più e meglio riescono a tenere il
segreto richiesto dall'autore della violenza, segreto che non è solo verbale ma anche emotivo e
comportamentale.
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Infatti non sempre e non subito il bambino abusato ha comportamenti sintomatici manifesti. Ad
esempio, se il brusco calo di rendimento scolastico è uno degli indicatori di violenza sessuale,
tuttavia ci sono bambini e bambine che riescono a mantenere una buona riuscita scolastica, per poi
riferire più tardi: «L'unica cosa a cui mi aggrappavo era la scuola».
Ciò non significa che il bambino e la bambina non siano danneggiati, ma che essi riescono a
mantenere per un periodo più o meno lungo i meccanismi di adattamento messi in atto ai fini della
sopravvivenza. Il segreto, anche quello emotivo, evita la punizione e tiene sotto controllo la paura di
perdere i familiari o di sentirsi la causa della loro rovina. Invece, il pianto, la paura manifesta e i
tentativi di ribellione portano alla punizione, scatenano la rabbia dell'abusante e ne aumentano i
comportamenti sadici, che possono essere a lungo mascherati da atteggiamenti comprensivi e
solidali. Infatti, spesso, il consolare il bambino triste, che è proprio tale perché vive una situazione di
violenza, è da parte dell'abusante il preludio di nuovi atti abusivi.
Fattore basilare di mantenimento dell'abuso è la negazione da parte di chi abusa della realtà dei fatti,
negazione che spesso persiste tenacemente anche dopo la rilevazione e l'accertamento dell'abuso, e
persino di fronte a referti medici inequivocabili. Il negare degli abusanti comprende il negare di
avere abusato e di avere progettato l'abuso. Infatti è affermazione ormai consolidata che l'abuso non
è un "raptus": prima della messa in atto dei comportamenti abusivi ci sono dei pensieri, delle fantasie
sul bambino ed una progettazione per così mettere in atto l'abuso con la ricerca delle circostanze ad
esso favorevoli. I meccanismi di negazione agiscono molto spesso anche negli altri adulti non
abusanti (ad esempio nella madre connivente, che pur sospettando o essendo a conoscenza dell'abuso
non ha la forza di cambiare la situazione) e persino negli stessi operatori, che si possono far
condizionare nelle loro attività dalla condizione economica della famiglia o dalla buona educazione
impartita al bambino dalla famiglia stessa.
Le reazioni negative dell'ambiente circostante, a seguito dello svelamento dell'abuso, riportano il
minore al silenzio e al segreto, lo spingono alla ritrattazione, aggravano la stigmatizzazione (la
visione negativa che il bambino e la bambina hanno di se stessi come cattivi, colpevoli,
irrimediabilmente sporchi e contaminati dagli atti abusivi), aumentano il profondissimo senso di
vergogna e colpa che egli prova; inoltre aumentano le difficoltà di relazione, determinate dalla
situazione abusiva, e portano il minore all'isolamento totale, confermando in esso la convinzione di
non poter condividere con nessuno la propria sofferenza, né di poter trovare in nessun luogo le
risposte alla propria confusione.
Tutte queste reazioni sono dette "forme di abuso secondario".
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7. L'incesto: tra diritto e sentire sociale
7.1 Cenni storici
Già ai tempi degli antichi Greci esistevano norme riguardanti l'incesto: tale popolo, infatti, passò da
un'iniziale tolleranza fino alla repressione delle unioni incestuose. La repressione più rigorosa
riguardava il matrimonio fra ascendenti e discendenti, mentre era interdetto quello fra fratello e
sorella, ed infine tollerato se costoro avevano madri diverse.
Nel diritto romano le parole «incestum» o «incestus» designavano un significato più ampio del
termine: indicavano i gravi attentati alle leggi religiose e per i quali non era ammessa espiazione. Tra
questi vi erano le contaminazioni dei rapporti di consanguineità. La vera e propria incriminazione
dell'incesto risale alle origini del diritto romano, quando tale comportamento veniva punito con la
pena di morte; in epoca imperiale, poi, la pena capitale venne sostituita dalla deportazione, poiché la
maggior parte dei comportamenti incestuosi venivano compiuti da soggetti appartenenti alle classi
sociali più privilegiate.
Con l'avvento degli imperatori cristiani vi fu un ulteriore inasprimento della pena: venne inflitta la
vivicombustione.
Nel periodo illuminista, invece, venne contestata la necessità di reprimere penalmente l'incesto,
tantochè esso non venne ricompreso tra i delitti previsti nel codice francese del 18 e, così, neanche in
quello delle Due Sicilie del 1819 né in quello di Parma del 1820.
Successivamente, poi, nel codice sardo-italiano del 1859 e nel codice toscano del 1853 fu ripristinata
la previsione di tale reato.
Il codice Zanardelli del 1889 adottò, invece, una soluzione di compromesso, subordinando la
punizione del reato al verificarsi del "pubblico scandalo". Tale soluzione non aveva trovato unanime
accordo, in quanto erano in molti a proporre di sopprimere l'ipotesi delittuosa.
Il codice Rocco (attualmente in vigore) ha, infine, previsto tale reato all'articolo 564 nel fatto di
avere rapporti sessuali, in modo che derivi "pubblico scandalo", con un discendente o un ascendente,
o con un affine in linea retta, o con una sorella o un fratello.
Nei lavori preparatori non fu neanche discusso sull'opportunità o meno di punire l'incesto. L'unica
perplessità riguardò il mantenimento dello "scandalo pubblico", che venne ribadito, riconoscendosi
anzi proprio in esso il requisito fondamentale per la configurazione del reato o almeno per la sua
punibilità.
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La subordinazione della punibilità della condotta al verificarsi di tale elemento fa riflettere sulla
concezione sociale che è trasferita nella norma: in base ad essa si può ritenere che tutto ciò che
avviene all'interno delle mura domestiche, a prescindere dai motivi per i quali ciò non sia conosciuto
all'esterno, non possa e non debba in alcun modo interessare il giudice penale, fino a quando tali
azioni non comportino una reazione di disgusto e di sdegno nella coscienza pubblica.
7.2 La definizione giuridica d'incesto
Che cosa s'intenda per incesto varia da cultura a cultura, da codice a codice, ed è in funzione
soprattutto dei diversi punti di vista (giuridico o psicologico o antropologico) che si assumono.
Il nostro legislatore ha deciso di inserire l'art. 564 nel Capo II (Dei delitti contro la morale familiare)
del Titolo IX (Dei delitti contro la famiglia) del c.p.
Scopo dell'incriminazione non è, come da taluno si ritiene, la necessità di evitare la degenerazione
della razza per il danno che deriverebbe dalla procreazione fra consanguinei. A prescindere dalla
considerazione che tale danno è tutt'altro che scientificamente accertato, va tenuto presente che
l'incesto ricorre anche quando i rapporti sessuali si verificano tra gli affini in linea retta (suocero e
nuora, genero e suocera), fra i quali il vincolo di consanguineità non sussiste.
La vera ratio della punizione dell'incesto sta, dunque, nella sua particolare riprovevolezza morale,
nella sua turpitudine che lo rende assolutamente intollerabile per la comunità sociale. La profonda
ripugnanza che il fatto desta nella coscienza pubblica, induce lo Stato ad intervenire con la più grave
delle sanzioni di cui dispone, e cioè con la pena. Infatti l'incesto, secondo l'Antolisei, più che gli
interessi della famiglia, offende la moralità pubblica e il buon costume. L'offesa agli interessi della
famiglia può presentarsi solo sotto il profilo della violazione della norma di condotta che impone
l'asessualità nei rapporti parentali.
La fattispecie normativa, contenuta nell'art. 564 c.p., è di quelle cosiddette "necessariamente
plurisoggettive": in essa, infatti, la condotta tipica è commissibile da almeno due soggetti, i quali
devono essere legati fra loro da vincolo di parentela in linea retta (ascendente o discendente) o
collaterale entro il secondo grado (fratelli e sorelle), ovvero da vincolo di affinità in linea retta
(suoceri, genero, nuora e loro ascendenti o discendenti). Fratelli e sorelle sono sia i germani (figli
degli stessi genitori), sia i consanguinei (figli dello stesso padre ma non della stessa madre), sia gli
uterini (figli della stessa madre ma non dello stesso padre). Inoltre, non vi è dubbio che, per il
disposto dell'art. 540 c.p., vi sono compresi anche gli ascendenti e i discendenti naturali, mentre ne
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sono esclusi gli adottivi. Sono sorte varie esitazioni per l'esclusione di tali soggetti, soprattutto dopo
l'equiparazione legale tra il rapporto familiare di sangue e quello adottivo.
Quanto agli affini è ritenuto valido il criterio interpretativo che si desume dall'ultimo comma dell'art.
307 c.p. per cui agli effetti penali il vincolo cessa allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole. In
conseguenza, in tal caso non ricorrono gli estremi del reato di incesto. Contro tale tesi, però, gran
parte della dottrina rileva che, di fronte al mancato rinvio da parte dell'art. 564 c.p. all'elencazione di
cui all'art. 307 ultimo comma c.p., consegue che non può trovare applicazione, ai fini dell'incesto, la
disposizione secondo cui «nella denominazione di prossimi congiunti non si comprendono gli affini
affinché sia morto il coniuge e non vi sia prole», ma va invece applicato l'art. 78 c.p. secondo cui
l'affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge dal quale deriva.
Poiché il codice non precisa in che cosa consista l'incesto, fornendone una nozione puramente
tautologica («chiunque commette incesto con...»), sorgono nei confronti di questo reato varie
incertezze. Secondo la giurisprudenza e la maggior parte della dottrina il reato si consuma con il
compimento di un rapporto sessuale; non manca però chi ritiene sufficiente il compimento di atti
sessuali anche diversi dalla congiunzione fisica da parte dei soggetti indicati, in modo che ne derivi
pubblico scandalo. Questa seconda opinione si basa sulla motivazione per cui il disgusto morale, che
giustifica la punizione, si verifica pure nei casi in cui la relazione sessuale si esplica in altre forme, le
quali possono essere anche più ripugnanti.
Nel caso di relazione incestuosa, invece, occorre che la reiterazione dei fatti abbia la caratteristica
dell'abitualità.
Il "pubblico scandalo", che è richiesto per la punibilità dell'incesto, va ravvisato nella morale della
coscienza pubblica, accompagnata da un senso di disgusto e di sdegno contro un fatto tanto grave.
Tale scandalo deve essersi effettivamente verificato e, quindi, non basta che la generalizzata
riprovazione, in cui esso si concretizza, venga ad evidenza in qualsiasi modo (e cioè la semplice
possibilità che ne derivi pubblico scandalo), occorre che essa sia stata cagionata dalla condotta
almeno colposa degli autori.
La legge, infatti, non dice «in modo che ne possa derivare», ma «in modo che ne derivi pubblico
scandalo». Sotto tale profilo, la giurisprudenza ha ritenuto che non è necessario che la relazione sia
conosciuta da tutti: basta che il pubblico scandalo sia derivato da un concreto comportamento
incauto degli autori, o di uno di essi, pur se non manifestato direttamente in pubblico, ma rivelato
dagli effetti materiali o da confessioni.
Un'ampia discussione è sorta riguardo alla natura del pubblico scandalo.
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Due sono le interpretazioni espresse in merito. Secondo una prima, prevalente in giurisprudenza, il
pubblico scandalo rappresenta un'ipotesi di condizione obiettiva di punibilità: conseguentemente,
esso non sarebbe oggetto di una volizione da parte degli agenti. Peraltro, la sua verificazione
dovrebbe comunque essere causalmente riconducibile alla condotta degli agenti stessi. Una seconda
interpretazione, prevalente in dottrina, individua nel pubblico scandalo l'evento del reato. Esso deve
pertanto essere voluto (o quanto meno accettato a titolo di dolo eventuale) dagli agenti quale
risultato (certo o anche solo probabile) della propria condotta.
Per quel che, invece, riguarda la prova del pubblico scandalo, è stato rilevato che in passato si è
sostenuto che l'insorgere di tale scandalo derivasse automaticamente dalla conoscenza del rapporto
sessuale intervenuto tra consanguinei: la sussistenza di tale elemento non necessiterebbe, dunque, di
alcuna specifica prova. Tale opinione pare peraltro condurre ad un'abrogazione implicita di tale
requisito, il quale resterebbe sostanzialmente assorbito nella conoscenza della relazione incestuosa,
senza necessità che da tale conoscenza nasca effettivamente la pubblica riprovazione. Se ciò è già
inammissibile quando si consideri il pubblico scandalo quale condizione obiettiva di punibilità, a
maggior ragione è criticabile quando lo si interpreti quale evento costitutivo del reato. Tale opinione
non è più condivisa: il pubblico scandalo deve essere provato.
L'elemento psicologico del reato è costituito dal "dolo generico": dunque, deve esservi sia la
consapevolezza dell'esistenza del vincolo tra gli autori del fatto (è sufficiente anche un vincolo di
filiazione illegittima purché noto agli autori), sia la coscienza e volontà di avere rapporti sessuali con
una delle persone indicate in modo specifico nell'art. 564 c.p. Per quanti poi ritengono che il
pubblico scandalo costituisca evento del reato, anche quest'ultimo elemento dovrà essere coperto dal
dolo, in quanto esso individua una modalità dell'azione criminosa e, dunque, è inerente alla condotta
volontaria dei soggetti.
La norma non indica limiti di età per gli autori: è però previsto, al terzo comma, un aggravamento di
pena nell'eventualità che uno dei responsabili sia minore degli anni diciotto, a carico del correo
maggiorenne. Dunque, qualora uno dei due autori non sia
imputabile (ad esempio il minore di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni che venga
riconosciuto non imputabile nel caso concreto) o non punibile per qualsiasi motivo, ciò non fa venir
meno il reato: e ne risponde però ovviamente solo il soggetto imputabile e punibile.
Per ciò che riguarda la pena e le sanzioni accessorie, la condanna comporta la reclusione da uno a
cinque anni nel caso di incesto, e da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa; per il genitore,
inoltre, la condanna comporta la perdita della potestà sul figlio minore. Il reato è di competenza del
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Tribunale e la procedibilità è d'ufficio: la denuncia, di conseguenza, andrà inoltrata al Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale.
Escludendo l'ipotesi in cui gli autori sono entrambi maggiorenni, occorre vedere quali sono le ipotesi
normative di applicabilità della norma in esame.
Nel reato di incesto il minore non è qualificabile tecnicamente come vittima e ciò discende dalla
naturale plurisoggettività della fattispecie: se uno dei due subisce, con violenza o minaccia, il fatto
dell'altro, non si ha incesto ma violenza sessuale; ugualmente se uno dei due non è capace di prestare
un consenso valido.
Dunque il reato di incesto viene compiuto nella seguenti situazioni:
a.
quando l'ascendente, oppure la sorella o il fratello convivente, compiono atti sessuale
con il discendente di età superiore ai sedici anni e consenziente;
b.
quando il fratello, la sorella o l'affine in linea retta non conviventi compiono tali atti
con il familiare di età superiore a quattordici anni.
Devono ritenersi applicabili le norme sulla violenza sessuale tutte le volte che una delle due persone
deve essere considerata soggetto passivo del fatto dell'altra, anziché concorrente nel fatto stesso.
La legge italiana stabilisce all'art. 609-quater c.p. dei limiti tassativi entro i quali il consenso del
minore è presunto invalido, a causa dell'età inferiore dei sedici anni. In certe ipotesi, però, può
verificarsi che quel particolare minorenne, nel caso concreto, avesse raggiunto una fase di
maturazione fisica, psichica e morale tale da far sì che il suo consenso potesse essere considerato
umanamente (anche se non giuridicamente) ponderato e consapevole.
Può però accadere anche il contrario, e cioè che allo scadere di tale termine il minore di età
compresa tra i sedici ed i diciotto anni non abbia ancora raggiunto quella maturità indicata. In questo
caso, sarà il giudice che dovrà compiere un apprezzamento con prudenza per valutare se il minore
aveva tale maturità al momento del fatto e, senza fermarsi a ciò, se l'eventuale immaturità di questo
soggetto non renda applicabile la fattispecie di cui all'art. 609-bis, 2 comma, n.1, c.p., laddove si
punisce come violenza sessuale presunta il fatto commesso in danno alla persona che non sia in
grado di resistere all'autore a causa delle proprie condizione di inferiorità fisica o psichica.
Bisogna cioè che il giudice non si limiti ad accertare la sussistenza di una causa di proscioglimento
(immaturità psichica), che nel caso concreto colpirebbe il minore qualificandolo correo, invece che
non imputabile, di un incesto.
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7.3 L'incesto nella società
Mentre da un punto di vista giuridico quando si parla di incesto ci si riferisce a situazioni in cui
viene violata la morale familiare (che è l'oggetto tutelato dall'art. 564 c.p.) attraverso il compimento
di atti sessuali che causano "pubblico scandalo", nella percezione sociale la nozione di incesto viene
riferita a tutti quei casi in cui vengono compiute delle violenze sessuali tra soggetti appartenenti alla
stessa famiglia. Ciò che rileva in questa definizione è l'elemento della violenza con cui viene
commesso l'atto sessuale: dunque, viene considerato un caso particolare e specifico della situazione
di abuso sessuale.
Esemplificativa è la definizione proposta dal Comitato di protezione giovanile del Quebec, che ha
individuato l'incesto in qualsiasi tipo di relazione sessuale che avviene all'interno della famiglia tra
un bambino ed un adulto che svolge nei suoi confronti una funzione parentale. Dunque vi rientrano
atti compiuti in ogni tipo di relazione, etero od omosessuale (non soltanto se si arriva
all'accoppiamento, ma anche quando si verificano pratiche oro-genitali, anali e masturbatorie), e
determinati comportamenti parentali caratterizzati da un'intimità fisica eccessiva e dall'imposizione
al bambino di atti voyeuristici ed esibizionistici.
Dunque, quando la società discute di situazioni di incesto si riferisce ai casi di abuso sessuale
intrafamiliare, che vengono puniti dall'ordinamento con la normativa introdotta dalla Legge n.
66/1996.
Da anni, comunque, anche i giudici che devono valutare casi di incesto tra un soggetto minorenne ed
uno maggiorenne non applicano più l'art. 564 c.p., in quanto tale norma non ha di mira la tutela del
minore - che è invece quello che l'attuale percezione sociale ritiene essere l'obiettivo più importante
dell'ordinamento - e fanno ricorso alle norme sulla violenza sessuale.
Questo cambiamento è risultato anche dal fatto che i vari studi di psicologia sul rapporto sessuale tra
un soggetto minorenne ed uno maggiorenne (soprattutto se legati da un rapporto di parentela) hanno
individuato che in questa situazione vi è sempre una posizione di soggezione del minore nei
confronti dell'altro e un atteggiamento di violenza intrinseca all'atto stesso, anche se non esplicita. È
dunque più opportuna la tutela del minore attraverso le norme sulla violenza sessuale.
7.3.1 I vari tipi di incesto
Attualmente il numero dei casi di "incesto" più frequenti e dunque conosciuti, nell'accezione
considerata dalla società che è, dunque, sinonimo di abuso sessuale intrafamiliare (sia intra che
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extradomestico), riguarda le relazioni sessuali tra genitori (o adulti aventi funzione parentale) e figli
minori di sedici anni: dunque i casi di abuso sessuale intrafamiliare intradomestico.
Alcuni autori ritengono che l'eziologia dell'incesto debba essere oggi più esattamente individuata in
una "cultura della violenza" pervasiva delle relazioni familiari, nelle quali ogni membro della
famiglia contribuisce allo sviluppo e al mantenimento del problema. Dunque non è corretto
interpretare l'incesto come qualcosa riguardante esclusivamente il sesso, ma come un fatto legato ai
rapporti di potere all'interno della famiglia e ad una serie di sottoculture ancora molto diffuse
all'interno della nostra società, come la "cultura del possesso del figlio", che scambia la forza con la
potenza, l'affetto con il possesso.
In base alle ricerche effettuate dalla letteratura psicologica sull'argomento, la famiglia incestuosa può
essere definita come un "blocco monolitico", all'interno del quale le distinzioni generazionali sono
ignorate, non esistono ruoli definiti perché le parti si scambiano e si invertono in modo dinamico. I
posti non sono stati assegnati: le relazioni tra i membri del nucleo incestuoso sono connotate dalla
promiscuità e dall'autarchia. La famiglia è chiusa su di sé, si ritiene autosufficiente e circonda con il
segreto ogni azione che avviene al suo interno. Poiché non sono mai state affrontate le dinamiche di
separazione, la famiglia incestuosa si ritiene autosufficiente. Inoltre, la sua caratteristica
predominante è l'autarchia, il suo apparente aspetto è quello di una fortezza impenetrabile, difesa
strenuamente dall'arma del "segreto".
Gli abusi sessuali nell'ambito della famiglia possono essere ulteriormente distinti in:
a. Incesto/abuso sessuale tra padre e figlia. Si tratta del caso che si realizza più
frequentemente e di cui la letteratura si è maggiormente occupata;
b. Incesto/abuso sessuale tra padre e figlio. Secondo la maggioranza degli studiosi le
dinamiche di questa situazione presenterebbero delle analogie con quelle dell'incesto
padre/figlia, compreso l'atteggiamento collusivo della madre;
c. incesto/abuso sessuale tra madre e figlia. Non si hanno denunce frequenti;
d. incesto/abuso sessuale commesso dal familiare. Nell'ambito della famiglia abusi sessuali
possono essere compiuti da altri parenti, conviventi o comunque presenti con particolare
assiduità, come nonni o zii. Spesso l'aggressione sessuale viene effettuata da figure
sostitutive del padre - assente perché deceduto o separato dalla moglie, come il patrigno o il
convivente della madre o anche un fratello maggiore della vittima. Quando questo viene
compiuto dal convivente o dal coniuge in seconde nozze del genitore è chiamato
"paraincesto".
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e.
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incesto/abuso sessuale tra madre e figlio. Il dibattito sul quesito se le madri
incestuose/abusanti esistono oppure no è aperto. C'è chi sostiene che le madri non abusino mai
dei propri figli, ma c'è chi ritiene invece anche loro autrici di veri e propri abusi sessuali.
I dati esistenti al riguardo sono pochissimi e quindi avvallerebbero la prima ipotesi: in qualunque
ricerca le madri risultano sempre all'ultimo posto tra gli autori di reati sessuali su minori e in
percentuali insignificanti. Una delle cause di questa realtà è sicuramente il fatto che "l'incesto" in
relazione al rapporto madre-figlio è un tabù culturale.
Gli abusi delle madri sui figli sono molto difficili da scoprire soprattutto perché sono mascherati
dalla pratica delle cure e dell'affettività materna. Molti atti di libidine si celano infatti nei bagni e nei
lavaggi intimi, nelle applicazioni superflue di creme sui genitali dei figli di entrambi i sessi, nel
condividere con questi ultimi fino all'età adolescenziale il letto o le carezze erotiche, arrivando anche
al rapporto completo. Tutti questi comportamenti sono naturalmente perversioni materne, spesso
anche molto sottili, che sono difficilmente riconoscibili e che non riescono ad emergere se non in
terapia. Essi sono stati considerati fino a non molti anni fa quasi "naturali", o comunque un
"eccesso" tollerato dal sentire comune, in quanto è considerato un dato scontato che il rapporto tra
madre e figlio sia esclusivo.
Infatti, se una donna esagera nel fare il "bagnetto" al figlio o ad utilizzare le creme siamo tutti
propensi a credere che abbia la fobia dell'igiene e censuriamo immediatamente il pensiero che tale
donna potrebbe avere desideri incestuosi verso i suoi figli.
L'aumento (anche se relativo) della casistica di questo tipo di crimine deriva, dunque, da
un'accresciuta sensibilità al fenomeno, sia da parte degli operatori sanitari e sociali, sia da parte della
società. Un "rapporto incestuoso" tra madre e figlio crea un futuro uomo (o donna) psicotico. È per
questo motivo che questo fenomeno è stato rilevato fino ad oggi dalla sola psichiatria infantile la
quale, però, continuava a confondere un trauma reale con un desiderio o una fantasia incestuosa del
bambino, ostinandosi a negare la realtà.
In genere i padri riescono ad esercitare un immenso potere sui propri figli, facendo uso della
violenza, dell'intimidazione, delle minacce o di strategie seduttive alle quali è impossibile resistere,
soprattutto da parte di un minore; se una madre, invece, ha desideri "incestuosi" non ha bisogno di
ricorrere alla violenza, né alle intimidazioni, né alle minacce. Le basta il potere che le è conferito
come "madre" ed i danni che produce nella psiche del bambino sono devastanti. Dunque l'elemento
della violenza rappresenta una discriminante forte tra "l'incesto" padre-figlia e quello madre-figlio:
nel primo è probabile che ci sia, nel secondo no.
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7.3.2 "Incesto" padre-figlia
L'incesto/abuso sessuale padre-figlia rimane tuttora la combinazione più diffusa e conosciuta (3/4 dei
casi di violenza sessuale intrafamiliare) e non è sempre accompagnato da atti di violenza, come la
maggior parte delle persone presumono.
Tale tipo di violenza si inserisce all'interno di una dinamica particolare e complessa che certamente
lo differenzia da qualsiasi altra forma di abuso compiuta da un adulto ai danni di un minore. Infatti,
mentre in qualsiasi altra forma di violenza sessuale la vittima, di qualsiasi età essa sia, ha la
possibilità di riconoscere nell'abusante la figura del colpevole, "l'incesto" priva chi lo subisce della
libertà di difendersi e di odiare.
Le figure genitoriali, all'interno della "famiglia incestuosa", sono complementari: ad un padrepadrone corrisponde una madre assente, ad un padre endogamico una madre anaffettiva.
Nel primo caso, il cosiddetto "padre-padrone" è indicato dalla letteratura come colui che ha la
convinzione che la disponibilità sessuale sui propri figli sia uno degli aspetti della totale disponibilità
che egli non può non avere su tutta la famiglia; che i rapporti familiari siano di puro dominio e che
quindi sia del tutto ammissibile che si punisca la figlia con l'abuso sessuale; che il compito educativo
del padre che svela il mondo alla figlia comprenda anche il rito di iniziazione connesso con
l'esperienza sessuale. Questa immagine è associata, complementarmente, a quella della "madre
assente", dipendente, sottomessa e spesso anch'essa abusata dal marito.
Esiste, però, un'imponente letteratura che rivela come il modello delle relazioni affettive nella
famiglia incestuosa possa essere esattamente l'opposto, essendo il padre inadeguato, debole, timido,
dipendente: questa è l'immagine del cosiddetto "padre endogamico". Questa figura è solo in
apparente contraddizione con quanto descritto prima, perché in realtà il padre-padrone nasconde,
sotto l'atteggiamento di ostentata autorità, una sostanziale insicurezza e debolezza. Questo tipo di
padre viene spesso associato ad una "madre affettivamente distante", poco attenta ai bisogni degli
altri membri del nucleo familiare e che demanda il suo ruolo coniugale e materno alla figlia, la quale
diventa così la nuova partner del padre. La figlia viene caricata di pesanti responsabilità alle quali
non può sottrarsi, pena la perdita dell'affetto dei genitori da cui il bambino dipende: si tratta del
cosiddetto "terrorismo della sofferenza", cioè della tendenza a riversare sulle spalle dei figli ogni tipo
di disordine interno alla famiglia.
Vi sono, però, anche casi in cui il padre appare alla figlia genericamente insoddisfatto della moglie
ed egli attua "l'incesto" con la figlia come un paradossale tentativo di ristabilire l'equilibrio familiare.
La madre, sentendosi incapace di accontentare il marito, si mostra debole ed arrendevole, cedendo la
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figlia alle cure del marito, il quale adotterà con la figlia atteggiamenti da coetaneo, esplicitando
chiaramente quanto si senta realizzato solo in sua compagnia. Il rapporto si sessualizza nel momento
in cui il padre allude chiaramente alla sua insoddisfazione per le prestazioni sessuali con la moglie
ed inizia così la relazione con la figlia.
A volte può accadere che una moglie, particolarmente dipendente, sia ossessionata dall'idea di non
perdere il proprio uomo e veda la figlia come un tramite di offerta di un legame sessuale con una
ragazza più giovane, che possa così renderlo felice ed appagato. Ciò è vero specie se a questo tratto
si aggiunge la frigidità e il fatto di essere sessualmente rifiutata. In questo tacito "gioco" non ci sono
sensi di colpa, a meno che la "relazione incestuosa" non venga alla luce.
Si può affermare con certezza che dietro l'abuso sessuale c'è sempre una premeditazione, cioè la fase
di vera e propria interazione sessuale è sempre preceduta da fantasie sessuali sulla minore, dalla
progettazione dell'abuso e dalla ricerca attiva di circostanze che ne permettano l'attuazione.
In molti casi l'abusante stabilisce con la bambina un rapporto esclusivo e la isola con vari mezzi dal
resto della famiglia, facendole credere che è la figlia preferita, l'unica della famiglia "alla sua
altezza", con cui si può parlare da pari a pari ecc., oppure cercando di impietosirla mostrandosi
incompreso, bisognoso di cure ed attenzioni, e svalutando la madre agli occhi della bambina. Può
mettere di fronte alla figlia tutta una serie di promesse e progetti in cui lei sarà la protagonista,
inserendola in aspettative di realizzazioni sociali grandiose e facendole credere di averne le chiavi di
accesso; le può promettere di concederle di partecipare ad attività al di fuori della famiglia in un
futuro che non arriverà mai, in quanto nella realtà tutte queste promesse servono da esca a
mantenerla nella sua orbita e per poterle nel contempo proibire le attività di socializzazione normali
per la sua età. In questo modo mantiene viva nella bambina l'aspettativa che le cose potranno
cambiare e la speranza che il suo papà sia in realtà un papà buono che le vuole bene e che la vuole
aiutare.
Inoltre mette in atto una serie di strategie volte a svalutare su tutti i piani la figura materna e
interferisce nella relazione madre-figlia, in modo che la bambina non possa trovare aiuto in questa.
L'azione del padre volta all'isolamento della figlia agisce in molti casi su una difficoltà già presente
nella madre in termini di protettività e di vicinanza affettiva verso la bambina, legata a sue difficoltà
personali o a fattori contingenti quali malattie fisiche, aumentando la distanza tra le due al punto tale
da rendere entrambe del tutto impotenti; l'una ad accorgersi dell'abuso e a difendere la figlia, l'altra a
chiedere aiuto. L'azione del padre è volta spesso anche a "buttare fumo negli occhi" della moglie,
facendo cadere anche lei in una fitta rete di inganni.
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D'altro canto madri che iniziano a sospettare che qualcosa "non funzioni", perché colgono qualche
comportamento "strano" del marito nei confronti della bambina, e che per questo lo affrontano,
vengono subito da lui accusate di essere pazze, visionarie e incapaci come madri, spesso picchiate
per tale visionarietà e minacciate («Se non la pianti ti faccio togliere i figli»).
Inoltre, nei casi di concomitante maltrattamento fisico, l'inizio dell'abuso può coincidere con una
diminuzione degli episodi di percosse sulla figlia, che deve così pagare la sua "incolumità" fisica a
prezzo della violenza sessuale; tale prezzo viene frequentemente pagato dalle figlie anche al fine di
evitare altri episodi di violenza sulla madre e sugli altri bambini e bambine della famiglia. A volte,
invece, le bambine - che verranno poi abusate - vengono "preservate" dalle percosse, che sono
riservate agli altri figli e/o alla mamma: questo "riguardo" nei loro confronti, che fa parte del lavoro
di adescamento, fa sentire le bambine privilegiate e nello stesso tempo colpevoli nei confronti di chi
all'interno della famiglia viene percosso o percosso di più; l'impotenza nel constatare di non poter
difendere in altro modo la madre e i fratelli, la situazione di apparente privilegio, unite spesso ad
aperte minacce del padre circa ulteriori aggressioni fisiche al resto della famiglia, consolidano
sempre più il ruolo segreto di vittima sacrificale della bambina sessualmente abusata.
Le bambine e i bambini piccoli, inoltre, non riescono assolutamente ad individuare la colpa
dell'adulto, se l'adulto è esteriormente gentile ed affettuoso, se quanto avviene è presentato come
fosse un gioco e se vengono date delle ricompense per la partecipazione a certi atti.
La complicità della madre può essere di tipo passivo, tacito, talora inconscio, o estrinsecarsi in un
comportamento attivo. Ai due comportamenti corrispondono personalità distinte.
Nel primo caso, la madre è incapace di stabilire una qualsiasi relazione con la figlia e con il marito:
questo "abbandono emotivo" della famiglia da parte della moglie può indurre il marito ad incentrare
le proprie attenzioni sulla figlia. La complicità attiva della madre, invece, può variare da
incoraggiamenti ambigui sino al vero e proprio aiuto fisico prestato al coniuge che usa violenza alla
figlia. Nella madre, in quest'ultimo caso, al distacco emotivo si accompagnano disturbi più gravi
della personalità e talora tratti psicotici. La donna, fortemente dipendente nei confronti del marito,
teme di venir sostituita nel proprio ruolo dalla figlia, che sta crescendo, e prova nei confronti di
quest'ultima un risentimento sempre più forte, sino a desiderare di vederla punita ed umiliata (anche
attraverso l'abuso).
Ha un'importanza fondamentale anche l'elemento culturale legato ad una concezione arcaica,
esasperatamente patriarcale, del ruolo del capofamiglia, che grande potere assumeva nel passato ma
che ha ancora oggi la sua rilevanza negli strati sociali di basso livello culturale o presso comunità
arretrate. In questi casi il padre considera l'attività dell'incesto come un legittimo esercizio del suo
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potere assoluto; perciò egli ben può abusare della o delle figlie - che secondo il suo pensiero
costituiscono una sua "proprietà" - per soddisfare esigenze sessuali e/o affettive o semplicemente a
scopo punitivo. Come osserva Isabella Merzagora, «l'incesto è probabilmente una delle conseguenze
di una sottocultura che confonde la forza con la violenza, la virilità con l'ipersessualità,
l'autorevolezza con l'autoritarismo (....) Il problema non è sessuale, ma di violenza esercitata dal
padre-padrone su moglie e figlie e trasmessa - come valore culturale da imitare - ai figli». Le
interpretazioni più recenti tendono, infatti, a vedere "nell'incesto" commesso dal padre un tentativo
di riaffermare la propria supremazia nell'ambito familiare, una violenta rivendicazione di potere più
che un'espressione di problematiche sessuali.
La figlia vive la situazione "dell'incesto" con il padre come un conflitto dilaniante: da un lato
vorrebbe porre fine ad una situazione imbarazzante e traumatica per andare incontro ad una vita
normale, dall'altro non è in grado di parlare un po' per vergogna e un po' per paura; inoltre questa
decisione minerebbe la sicurezza e l'apparente stabilità della famiglia, che a questo punto essa ritiene
dipendano esclusivamente da lei.
In generale è possibile affermare che da ambo le parti si tende comunque ad occultare l'incesto con
un silenzio molto rigido. I genitori tendono a razionalizzare
"l'incesto" («...volevo solo mostrarle come si fa.»); a questo si aggiunga che, pur di preservare la
famiglia, i genitori negano persino dopo che la scoperta è avvenuta, fino a condannare la stessa
vittima se è la causa della scoperta.
Spesso, infatti, alle violenze subite dal genitore abusante, si aggiungono quelle - forse ancor più
brucianti - compiute da parte di tutto il nucleo familiare e dalla società, per il fatto di non essere
credute. L'isolamento, che caratterizza la situazione infantile di questi bambini, si protrae anche dopo
la denuncia: si forma il vuoto intorno al loro coraggio e da vittime innocenti si trasformano in
calunniatrici colpevoli.
Una ragazza, dopo anni di violenze compiute dal padre, non essendo stata creduta dalla madre, ha
fatto questo amaro commento: "È stato quello il più grande dolore della mia vita. Lui mi ha
violentata e tormentata per tutta l'infanzia. Ma mia madre mi ha uccisa".
7.3.3 Le conseguenze "dell'incesto"
Raramente "l'incesto" si esaurisce in un singolo episodio; la durata della relazione è mediamente di
due anni, ma può protrarsi anche per più di cinque. Inoltre le attenzioni sessuali del genitore
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(specialmente nel caso dell'incesto padre-figlia) sono frequentemente rivolte a più soggetti e quando
vi sono più figli viene realizzato nei confronti di tutti, anche se magari in periodi diversi.
Tra gli autori vi è una larga concordanza nel ritenere che "l'incesto" provochi conseguenze negative
e che queste siano spesso gravi e durature, soprattutto sul piano psicologico. Oltre alle reazioni
immediate, l'abuso determina nei minori effetti a lungo termine, tanto che questo tipo di violenza è
stato definito "una bomba ad orologeria".
La reazione dei bambini a questo tipo di violenza non è immediatamente di rifiuto e difesa, perché i
bambini non possiedono ancora una personalità forte e consolidata tale da opporre ai desideri
sessuali dei genitori; più spesso sono ammutoliti dall'autorità delle figure parentali e dalla confusione
generata in loro dall'atto compiuto.
Occorre inoltre ricordare che alle conseguenze della stessa violenza sessuale si aggiungono, quando
il fatto viene scoperto, gli ulteriori effetti derivanti dall'aggravarsi della disgregazione familiare, dal
discredito sociale e dall'intervento istituzionale sul minore. Anche a distanza di anni le vittime
presentano stati ansiosi, depressione, insicurezza, talvolta aumento dell'aggressività, difficoltà
scolastiche e, nei rapporti interpersonali, complessi di colpa e problemi sessuali. In certi casi
l'esperienza incestuosa può determinare nelle vittime, dopo un certo periodo, l'insorgere d'anoressia.
Una delle conseguenze più gravi, derivanti dall'abuso sessuale intrafamiliare, è la confusione a lungo
termine dei livelli cognitivi, emozionali e sessuali generati nel bambino.
Egli, infatti, si trova ad essere, durante il periodo dell'abuso, uno "pseudo-partner" e al tempo stesso
è strutturalmente dipendente, in quanto bambino, dal genitore. Tutto questo comporta nel bambino, a
causa anche delle minacce di violenza e segretezza, un'incapacità di orientarsi, in modo significativo,
cognitivamente, emozionalmente e socialmente.
Inoltre, gli effetti a lungo termine sullo stato psicologico delle vittime, nell'adolescenza e nella prima
maturità, si manifestano spesso con l'aumento della delinquenza, con l'abuso di droga e alcool, con la
promiscuità e la prostituzione, con l'isolamento sociale, con l'aumento dei tentativi di suicidio e con
l'incremento significativo degli indici di sintomi depressivi. Le conseguenze psicologiche possono
comunque variare secondo il modo con cui è stato attuato l'incesto. Ad esempio, se la vittima ha
subito un abuso sessuale violento da parte di un genitore, le conseguenze saranno aggravate dal
fortissimo trauma psicologico dovuto alla trasformazione negativa della figura genitoriale, che passa
d'improvviso da un ruolo protettivo a quello di aggressore.
La situazione si presenta diversamente se il genitore ha agito senza violenza apparente, assumendo
un atteggiamento seduttivo, sfruttando l'ingenuità del figlio o della figlia e attuando ricatti affettivi.
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In questo caso la partecipazione all'incesto potrà portare la vittima (specialmente dopo la fine della
relazione e con il sopraggiungere della piena consapevolezza dell'accaduto) a sviluppare un profondo
senso di colpa e di disprezzo verso se stesso, unitamente ad istanze autopunitive e a repulsione verso
il sesso opposto.
Occorre considerare anche i sensi di colpa della vittima, che può avere la sensazione di aver tradito il
genitore abusante, sentire che è responsabile della sua carcerazione e del disfacimento della famiglia.
Inoltre, va ricordato che la perdita improvvisa e inaspettata di tale genitore è per il minore la perdita
di un importante figura genitoriale, anche se è colui che lo ha danneggiato abusando di lui: per
qualche bambino è addirittura l'adulto più importante della sua vita.
È importante rilevare che la crescita del senso di colpa nella vittima d'incesto è stimolata in modo
decisivo dal comportamento della famiglia e della società in genere, le quali attuano un vero e
proprio processo di "colpevolizzazione" nei suoi confronti. Specialmente le bambine subiscono
queste conseguenze poiché l'opinione comune tende ad attribuire loro un ruolo "attivo" nella
dinamica dell'incesto, ossia di provocazione verso il padre.
Non è da escludere che in alcuni casi le bambine abbiano mostrato atteggiamenti seduttivi nei
confronti dell'adulto, o che siano state effettivamente ambivalenti nei comportamenti, ma è
riconosciuto come una tappa obbligata ed indispensabile del processo di formazione dell'identità
infantile quello che la psicoanalisi ha chiamato il complesso d'Edipo: dunque provare amore per il
genitore del sesso apposto e gelosia per quello dello stesso sesso è lecito, inevitabile e normale nei
bambini dai tre ai sei anni.
Oggi l'orientamento scientifico più recente tende ad essere piuttosto severo verso l'impostazione,
accusata di facilitare un'ulteriore vittimizzazione del minore, secondo la quale il bambino può essere
considerato, in alcuni casi, "vittima partecipante" in quanto, conoscendo l'aggressore, avrebbe
consciamente o inconsciamente voluto il trauma sessuale, provocando l'adulto o assumendo un
comportamento compiacente, oppure accettando in cambio dell'atto sessuale regali o denaro.
Sarebbero in realtà gli adulti ad equivocare, interpretando come advance sessuali gli atteggiamenti di
ricerca e di sollecitazione affettuosa da parte dei bambini. La tesi prevalente al riguardo è che la
partecipazione del minore non può in ogni modo incidere sulla responsabilità dell'adulto.
Oggigiorno possono essere causati anche "traumi secondari" nel bambino vittima di un abuso
sessuale, a causa dell'incompetenza degli operatori nei vari ambiti di presa in carico della situazione.
Occorre ricordare che l'abuso sessuale non cessa di avere effetti al momento della neutralizzazione e
dell'allontanamento dell'abusante dalla vittima.
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Di conseguenza, quando viene intrapreso un accertamento peritale è necessario cercare molto di più
dell'attendibilità di una testimonianza: bisogna entrare in contatto emotivo con il bambino per
individuare, al suo interno, la presenza di un'esperienza estranea ed imposta, che continua a produrre
effetti nel tempo. Il bambino, che è stato abusato a lungo, non ha alcuna aspettativa di trovare un
adulto comprensivo ed accogliente, perché l'esperienza subita è tale da fargli vedere la realtà alla
luce degli eventi vissuti: così egli chiederà di lasciarlo solo, perché la solitudine è comunque uno
spazio vuoto in cui forse crede di potersi rifugiare.
Un'attività di prevenzione dovrà, dunque, mirare anche all'opportuna preparazione di tali operatori
per evitare che succeda tutto ciò.
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Capitolo II
Dalla rivelazione all'accertamento: testimonianza verbale del
minore
2.1. La denuncia di abuso sessuale
La denuncia costituisce il primo passo necessario per avviare sia un intervento di tutela della vittima,
sia un procedimento penale nei confronti del presunto colpevole. Quanti sostengono la validità di
questo strumento sono convinti che chiunque rinunci a denunciare, magari adottando procedure più
informali di approccio alla famiglia abusante, corre il rischio di entrare a far parte della "patologia
del segreto".
La denuncia dovrebbe essere fatta dalla persona cui il bambino ha raccontato per la prima volta
dell'abuso subito; spesso, però, l'estrema delicatezza e difficoltà del procedimento penale per fatti di
abuso sessuale crea sempre tra gli operatori sociali e coloro che stanno a contatto con i bambini (ad
esempio le insegnanti) una forte riluttanza ad adire l'autorità penale.
La presentazione della denuncia è una decisione molto difficile, spesso subordinata ad una serie di
condizioni: prima fra tutte, una sorta di delibazione preventiva dell'attendibilità del minore (giudizio
che, invece, può essere fatto solo al termine delle indagini e che è di pertinenza esclusiva del
magistrato penale) o, peggio ancora, una valutazione sull'esistenza di riscontri obiettivi o sulla
dannosità del processo penale, o anche sull'esistenza del consenso alla denuncia da parte del minore.
Tutte queste valutazioni sono fatte dall'operatore che si trova di fronte ad un caso sospetto di abuso.
Si vengono così a creare, fra notitia criminis e denuncia, una serie di filtri con l'unico risultato di
ritardare l'inizio delle indagini.
Una situazione di abuso sessuale può emergere o in forma esplicita (rivelazione), quando il minore
confida la propria situazione traumatica ad una persona a lui vicina, oppure in forma implicita
(rilevazione), attraverso indicatori comportamentali.
Più in particolare si possono distinguere:
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
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casi in cui si manifesta una rivelazione "diretta" dell'abuso da parte del minore, nella quale
cioè lo stesso racconta al proprio interlocutore fatti che, se veri, costituiscono, senza dubbio,
ipotesi di abuso sessuale nei suoi confronti;

e casi in cui si ha una rivelazione "mascherata" con cui il minore non riferisce fatti di abuso,
ma descrive situazioni che ordinariamente ne costituiscono la premessa, quali fatti di grave
maltrattamento, comportamenti ambigui dell'adulto nei suoi confronti, ecc.
Equiparabili a queste ultime situazioni sono quelle in cui il minore, senza raccontare esplicitamente
fatti di abuso, tiene comportamenti che possono far sorgere il sospetto che ne sia vittima: ad esempio
comportamenti erotizzati, incongrui rispetto all'età, ed atti autolesionistici privi di comprensibile
spiegazione. Queste sono le ipotesi di rivelazione.
I casi a presentazione "diretta" solo in apparenza comportano un accertamento più semplice. Infatti,
si pone qui in tutta la sua complessità il problema della credibilità del minore che rivela l'abuso. Del
resto, anche escludendo l'intenzione di mentire, quale può essere l'attendibilità dei racconti di
bambini piccoli, per loro natura imprecisi, senza parametri chiari su ciò che è o non è semplice
manifestazione d'affetto? Se è vero che è tipico del bambino confondere i tempi degli avvenimenti e
mescolare sensazioni soggettive a dati oggettivi, come è possibile per l'interlocutore farsi una chiara
idea sui fatti?
D'altra parte, questo fenomeno di apparente confusione si verifica anche in bambini più grandi o
addirittura in adolescenti, soprattutto se gli episodi ricordati devono essere fatti risalire ad un passato
non troppo recente e/o riguardano comportamenti dai connotati sfumati, come le molestie sessuali.
Occorre ricordare che non sempre ciò che è rilevante e centrale per l'adulto lo è altrettanto per un
bambino e che ogni giudizio sulla credibilità di quest'ultimo deve tener conto di questa differenza di
prospettiva.
Dopo che il minore ha potuto raccontare un episodio ed è stato aiutato a ricordarlo più nitidamente,
non infrequentemente ne rivela altri: ciò non deve indurre sospetto e far pensare ad invenzioni del
bambino. Probabilmente questi ulteriori ricordi riguardano fatti altrettanto reali, che solo a posteriori
possono ritornare nella sua memoria ed essere riconosciuti da lui come episodi di abuso sessuale.
Ciò potrà avvenire proprio grazie sia all'esperienza affettiva di essere creduti e oggetto di attenzione,
sia a quella cognitiva di aver potuto tradurre in parole ed inquadrare con certezza un'esperienza tanto
carica di emotività conflittuale.
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I casi a presentazione "mascherata" sono molto più frequenti di quanto si pensi e pongono, per di
più, una serie di interrogativi: quanto è lecito sospettare? Si possono, e in che termini, proporre
accertamenti medici non richiesti, sapendo che una buona percentuale di essi si rivelerà inutile?
In questi casi acquista particolare rilievo la possibilità di valorizzare i dati che provengono da
un'accurata valutazione sanitaria del soggetto che si presume abbia subito abuso sessuale. Di solito
questo tipo di scoperta avviene perché qualche persona che sta a contatto con il minore nota dei
comportamenti che lo "insospettiscono" e chiede che vengano fatti degli accertamenti medici.
Premessa indispensabile è che gli operatori sanitari "sospettino" che una delle possibili conclusioni
del percorso diagnostico in campo ginecologico e/o pediatrico e/o psicologico possa essere proprio
la diagnosi di abuso sessuale. Solo a partire da questa preoccupazione si aprirà la possibilità di
indagini appropriate, che saranno successivamente compito dello specifico operatore.
L'acquisizione della notizia del reato apre la fase degli accertamenti che potranno portare - se
saranno riscontrati concreti elementi di prova - al procedimento penale.
La notitia criminis può derivare o dalla ricezione, da parte del pubblico ministero o della polizia
giudiziaria, della rivelazione del reato da parte della vittima o di terzi oppure da un'iniziativa diretta
da parte di tali organi, comunque venuti a conoscenza del fatto od operanti per l'individuazione di
fatti costituenti reato.
Per i reati in cui le vittime sono minori sarebbe opportuno che si costituisse un nucleo di polizia
specializzata in grado di effettuare indagini approfondite al fine di identificare situazioni in cui è più
facile lo sfruttamento del soggetto in formazione. È molto difficile che in questi casi vi sia una
denuncia diretta, perché spesso l'ambiente in cui vive il minore è insensibile ai suoi bisogni e, così,
solo una vigilanza continua sul territorio da parte di organi di polizia, particolarmente attenti a questi
aspetti della tutela della personalità del minore, potrà far emergere il fenomeno.
Regola fondamentale, ai fini di un'efficace indagine penale, è la possibilità per il pubblico ministero
di ricevere la notitia criminis con tempestività, e cioè prima che il potenziale indagato sia a
conoscenza delle indagini in corso.
Perché questo possa realizzarsi è necessario istituire con tutti gli operatori del settore (ASL, servizi
sociali dei comuni, scuola, istituti minorili, giudici minorili, ecc.) intese finalizzate a creare rapporti
stabili, basati sulla fiducia reciproca e sulla conoscenza dei rispettivi metodi di lavoro, in modo da
renderli reciprocamente compatibili ed ottimizzare i risultati.
Bisogna, inoltre, che sia incentivata la trasmissione dovuta all'ufficio del pubblico ministero di tutte
le segnalazioni che presentino, oggettivamente, le caratteristiche minimali di una notitia criminis,
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tranquillizzando gli interlocutori (soprattutto dicendo loro che le indagini verranno condotte con la
massima riservatezza, senza alcun clamore esterno, all'insaputa del diretto interessato e con la
metodologia che tenga conto delle esigenze del minore).
Infine, sarebbe utile promuovere una forte esortazione di tutti gli operatori del settore a contatto
diretto con il pubblico ministero (o con la polizia giudiziaria): essi devono essere competenti non
solo quando viene trasmessa una denuncia che richiede interventi d'urgenza (tipico è il caso
dell'allontanamento), ma anche in tutti i casi dubbi nei quali occorra stabilire se sussistano o meno
gli elementi essenziali della notitia criminis.
Infatti, anche quando sussistono meri sospetti di abuso (caso tipico è il comportamento erotizzato di
minori in età infantile), anche se la denuncia può essere ritenuta prematura, è importante un contatto
preliminare con il pubblico ministero al fine di concordare le modalità di un approfondimento che
potrebbe portare alla rivelazione dell'abuso. Infatti tali modalità devono, nei limiti del possibile,
tutelare le esigenze di un'eventuale indagine penale, prima fra tutte la riservatezza del possibile
indagato.
Per consentire un pronto intervento nei casi delicati ed urgenti potrebbe essere opportuno creare
nelle grandi Procure, una sorta di "turno esterno" fra pubblici ministeri che si occupano della
materia, eventualmente dotato di mezzi di pronta reperibilità, quale il telefono cellulare, al fine di far
fronte alle segnalazioni da parte degli operatori del settore. Infatti, è della massima importanza per
tali operatori avere come referenti non un anonimo pubblico ministero ma una persona conosciuta
con la quale già esista un rapporto di fiducia e di collaborazione.
2.1.1 Gli obblighi di denuncia da parte dei soggetti che rivestono
funzioni o incarichi di natura pubblica
A prescindere dall'utilità o meno della denuncia penale, la segnalazione del sospetto abuso da parte
dell'insegnante, del personale sanitario in servizio nei presidi pubblici o degli operatori dei servizi
pubblici rappresenta un atto obbligatorio che espone a precise responsabilità, anche penali, in caso di
omissione.
In primo luogo vi è l'articolo 331 c.p.p. che stabilisce l'obbligo di denuncia per il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico servizio per i reati procedibili d'ufficio. Le pene per chi omette la denuncia
sono previste dagli artt. 361 e 362 c.p.
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Va inoltre tenuto presente che, dopo le modifiche introdotte dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66, sono
procedibili d'ufficio i più significativi tra i reati sessuali posti in essere all'interno della famiglia.
Negli altri casi i reati sessuali sono procedibili a querela ossia su richiesta della persona danneggiata,
querela che deve essere proposta entro sei mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato
(art. 609 septies, comma 2 c.p.) e che una volta proposta è irrevocabile. Se si tratta di un minorenne
che non ha compiuto almeno i quattordici anni deve provvedere chi esercita la potestà, ossia, di
regola, uno dei genitori (art 120 c.p.). Se invece il minorenne ha più di quattordici anni, egli può
presentare personalmente querela oppure, nonostante ogni sua volontà contraria, può presentarla
anche chi esercita su di lui la potestà.
Per i reati sessuali procedibili a querela, se risultano connessi con altri reati procedibili d'ufficio (art.
609-septies, comma 4 n. 4 c.p.) - condizione che si verifica abbastanza spesso, potendo ricorrere
l'ipotesi di minacce gravi (art. 612 c.p.), violenza privata (art. 6 c.p.), lesioni personali (artt. 582, 583
c.p.), sequestro di persona (art 605 c.p.) - è prevista la procedibilità d'ufficio e l'obbligo di denuncia.
La presenza di queste circostanze può non essere facilmente identificabile al momento della
denuncia. Quindi, per realizzare un'effettiva tutela del minore, sarebbe opportuno che i soggetti
obbligati effettuassero sempre la denuncia, lasciando al magistrato la valutazione se nel caso esiste
oppure no una condizione di procedibilità.
In ogni modo, l'obbligo per il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio sorge solo quando
il reato è già delineato nelle sue linee essenziali e quando vi sono elementi fondati tali da indurre a
ritenere che esso sussista.
Una disposizione molto importante è inoltre contenuta negli artt. 121 c.p. e 338 c.p. secondo i quali,
in caso di conflitto d'interessi con l'esercente la potestà o quando non vi è chi abbia la rappresentanza
del minore di quattordici anni, la querela può essere proposta da un curatore speciale, nominato dal
giudice delle indagini preliminari su istanza del pubblico ministero o degli stessi servizi che hanno
per scopo «la cura, l'educazione, la custodia o l'assistenza dei minorenni».
Infine, altro obbligo di segnalazione discende dall'art. 9 della legge 4 maggio 1983 n. 184, che
riguarda la segnalazione al Tribunale per i minorenni dei casi di "abbandono di minori". Infatti,
l'abbandono può essere anche di tipo morale; non sussiste, cioè, solo nel caso di pesanti trascuratezze
materiali, ma anche in presenza di comportamenti che possono pregiudicare un equilibrato sviluppo
psicoaffettivo del minore (e tra questi possono essere indicati gli abusi sessuali).
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2.1.2. Conflitto fra l'obbligo di referto e l'obbligo al segreto
professionale
L'art. 622 c.p. punisce la rivelazione del segreto professionale. Obbligato al tale segreto è chiunque
sia venuto a conoscenza del reato nell'esercizio o a causa delle sue funzioni: ciò significa che occorre
un nesso di consequenzialità immediata tra l'informazione ricevuta e l'espletamento della funzione o
del servizio, cioè occorre che la notizia di reato sia stata appresa nello svolgimento del lavoro o della
funzione.
Il problema si pone in particolare per gli esercenti una professione sanitaria (fra i quali sono
ricompresi psicologi e psicoterapeuti, anche quando operano come professionisti privati) che hanno
l'obbligo di inviare un referto all'autorità giudiziaria ai sensi dell'articolo 365 c.p.
Il discorso riguardo gli esercenti una professione sanitaria è abbastanza controverso. Al medico la
legge impone di inviare un referto all'autorità giudiziaria tutte le volte che abbia prestato la sua
assistenza in casi che possono presupporre un delitto perseguibile d'ufficio, e solo quando il paziente
sia vittima o parte lesa; non «quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale
come imputato».
Allora interviene l'obbligo del segreto professionale e viene a cadere il reato di omissione di referto.
La controversia riguarda chi sia la persona assistita nel caso del minorenne abusato, che ad esempio
venga accompagnato alla visita medica dal genitore abusante. Qualche autore ha sostenuto che,
poiché nel caso del minore, la richiesta di prestazione medica deriva dal genitore, questi diventa
anche titolare del diritto al segreto professionale. Da altri è stato rilevato che assistito è il minore e
che quindi il medico sia liberato dal vincolo del segreto professionale nei confronti del genitore.
Tuttavia, è sostenibile anche che entrambi si affidano al medico per un consiglio e per una terapia.
Comunque, tutte queste incertezze cadrebbero qualora la legge imponesse al medico di segnalare il
caso anziché all'autorità giudiziaria a centri socio sanitari specializzati o a qualche settore
appositamente strutturato dei servizi sociali territoriali.
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2.2 Il ruolo del Tribunale ordinario e del Tribunale per i
minorenni
Quando la notizia del reato è giunta alla polizia giudiziaria o alla Procura, il pubblico ministero (per
cui l'esercizio dell'azione penale è obbligatorio) inizia l'indagine preliminare, diretta ad accertare i
presupposti di fatto richiesti per il concreto esercizio dell'azione.
In questa prima fase può, a sua discrezione (poiché non ne ha l'obbligo), segnalare il caso al
Tribunale per i Minorenni, che è però l'unico a poter disporre misure di protezione nei confronti del
minore abusato.
Se il caso non viene archiviato, ed anzi le indagini preliminari evidenziano sufficienti elementi a
carico dell'inquisito, allora viene promossa l'azione penale. Tuttavia, anche qualora questa sfoci in
un'affermazione di responsabilità, la condanna diventa definitiva soltanto in seguito all'inutile
decorso dei termini per impugnare.
Fino a quel momento, dunque, l'abusante può essere sottoposto a misure restrittive solo nel caso in
cui sia ritenuto socialmente pericoloso o vi sia il pericolo di una sua fuga. In base a questi principi di
garanzia processuale, l'imputato - in assenza di precise disposizioni del tribunale minorile - fino
all'ultimo appello potrebbe restare libero e vivere a casa sua, insieme ai familiari, compreso il minore
che ha rivelato l'abuso.
L'unica soluzione che contempera le esigenze di tutela della parte lesa, da un lato, e di accertamento
della verità, dall'altro, è quella di svolgere un'indagine penale estremamente rigorosa e tempestiva,
condotta attraverso un'approfondita escussione della parte lesa e una ricerca dei possibili riscontri
obiettivi.
Muoversi in questo modo nei processi penali relativi a fatti di natura incestuosa è indispensabile,
perché caratteristica costante di questi reati è di presentare non indifferenti problemi di accertamento
probatorio. Essi sono dovuti sia alla mancanza di testimoni oculari diversi dalla parte lesa, sia alla
riluttanza del nucleo familiare a svelare i propri "segreti", specie quando ciò comporta non solo
gravi conseguenze sanzionatorie per taluno dei suoi componenti, ma soprattutto il disonore di avere
al proprio interno situazioni di tal genere.
Poiché solo il Tribunale per i minorenni può assicurare l'immediata protezione del minore, sarebbe
sempre opportuno fare una segnalazione anche al giudice minorile. Al contrario della magistratura
ordinaria, infatti, quella minorile ha l'obbligo di segnalare i casi di abuso sia ai colleghi che operano
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in ambito penale, sia ai servizi sociali, e svolge un ruolo fondamentale per la tutela dei minori
abusati e per l'aiuto della sua famiglia.
Può infatti disporre provvedimenti che limitino, sospendano o facciano decadere la potestà dei
genitori, può allontanare (anche solo temporaneamente) il minore dalla famiglia e collocarlo in
comunità o in istituto e, qualora vi siano le condizioni, dichiararne l'adottabilità.
In particolare, la magistratura minorile ordina gli accertamenti giudiziari, sociali e psicologici
necessari per riuscire a comprendere la situazione e per poter così formulare un programma
d'interventi che abbia come scopo principale la tutela del minore, parallelamente e successivamente
all'azione penale.
Il Tribunale per i minorenni, dunque, incarica i servizi sociosanitari di due fondamentali attività:
l'accertamento e la valutazione.
2.3. L'intervento terapeutico
Mentre la magistratura ordinaria si occupa dell'accertamento dei fatti e della condanna o
dell'assoluzione dell'imputato e il Tribunale per i minorenni garantisce la protezione del minore da
ulteriori comportamenti di violenza, dall'altra parte i servizi cercano di fornire un sostegno
terapeutico al minore abusato e, dove è possibile, svolgono attività per il recupero del rapporto tra la
vittima e il genitore non abusante.
Quando è necessario intervenire in una difficile situazione familiare, occorre innanzitutto valutare se
nei rapporti relazionali tra i membri della famiglia sono presenti sia fattori di rischio (che possono
favorire la violenza), sia elementi protettivi (che, invece, tendono ad affievolire i primi).
Infatti:

se vi è prevalenza di fattori protettivi, la giusta strategia d'intervento è quella di fornire
aiuto e sostegno al bambino e alla sua famiglia;

se vi è una compresenza di entrambi i fattori, deve essere protetto il minore e devono essere
potenziate le risorse familiari, cercando di monitorare anche le relazioni tra i suoi componenti;

infine, se vi è assenza di fattori protettivi, è necessario fornire una forte protezione e tutela
al minore, accompagnata da prescrizioni rivolte alla famiglia.
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La protezione dei minori non si può limitare alla loro tutela penale, né alle misure per fronteggiare
l'emergenza, ma deve abbracciare un intero processo d'intervento che abbia al centro l'interesse della
vittima e come scopo la sua sana crescita psicofisica. Proteggere il minore, capire le cause familiari
dello sviluppo dell'incesto e riparare, quando possibile, le relazioni tra la vittima e i suoi familiari,
costituiscono i momenti cardine del processo d'intervento.
Soltanto partendo dalle esigenze operative di questi momenti si può realizzare una vera integrazione
con gli interventi penali di repressione del reato; tale cooperazione tra gli operatori è l'unica che
consente di sottrarsi alla falsa alternativa tra l'indifferenza e la passività di fronte all'abuso sessuale e
all'incesto, da una parte, e la sua criminalizzazione senza prospettive per la vittima, dall'altra.
È in questa prospettiva che bisogna parlare di complesso meccanismo di intervento, dove i vari
esperti possano interagire tra loro in modo costruttivo e positivo per il minore e la sua salute
psicofisica.
2.4. Gli aspetti giuridici della testimonianza del minore
sessualmente abusato
Nel sistema processuale la testimonianza occupa un posto centrale e lo è ancor di più nei casi di un
sospetto abuso sessuale poiché il minore, oltre che vittima, è spesso l'unico testimone oculare
disponibile.
La testimonianza possiede una parte di verità oggettiva ed un'altra parte di costruzione soggettiva
che va verificata di caso in caso, in relazione al tipo di persona che testimonia e al suo
coinvolgimento.
Per questo motivo ogni testimonianza deve essere letta in un quadro più ampio, come fonte per la
ricostruzione storica dei fatti, ma non come elemento sul quale basare le indagini o l'esito del
processo. Occorre cioè, attraverso verifiche incrociate, che la testimonianza possa essere confermata
da altre risultanze o che sia essa a confermare altre prove e non costituire di per sé l'elemento
fondante il giudizio.
La testimonianza del minore è un evento ancor più particolare e complesso, che induce a riflettere
circa le determinanti che la influenzano.
Il primo e più significativo rapporto tra minore e struttura giudiziaria è quello dell'interrogatorio e
dell'audizione del minore, in cui il bambino viene ascoltato in qualità di testimone in un
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procedimento penale e, nei casi in cui il giudice ritenga opportuno, in un procedimento civile o
amministrativo.
Le disposizioni giuridiche previste dal nostro paese, che regolano l'audizione del minore in ambito
penale, sono rappresentate dalle norme del Codice di Procedura Penale. Con l'introduzione del
Codice del 1988, il problema dell'audizione del minore è diventato ancora più significativo: infatti,
rispetto al sistema precedente, l'adozione del modello accusatorio prevede la formazione della prova
nella fase dibattimentale, cosicché le indagini precedentemente esperite e le testimonianze ottenute
dagli organi di polizia giudiziaria o dal pubblico ministero devono essere necessariamente riproposte
nel corso del dibattimento. Infatti, quando in dibattimento, nel corso di un esame, un testimone rende
dichiarazioni diverse da quelle rese in momenti precedenti, la parte che lo interroga può contestargli
la difformità.
Questo sistema, se da un lato consente, in linea generale, una duplice verifica delle dichiarazioni
testimoniali, dall'altro, nei processi in cui vittima sia un minore, comporta che quest'ultimo venga
sottoposto a più esperienze traumatiche per diversi motivi, in quanto è chiamato ad esporre e a
rivivere per più volte la propria dolorosa esperienza.
Proprio per evitare che le vittime di abuso sessuale depongano in dibattimento, può essere utilizzata
la procedura dell'incidente probatorio.
L'incidente probatorio non può essere disposto d'ufficio, ma soltanto su richiesta al giudice per le
indagini preliminari da parte del pubblico ministero o della persona sottoposta alle indagini (art. 392,
comma 1-bis c.p.p.).
In particolare, se è il pubblico ministero a chiedere l'incidente probatorio, la legge prevede che egli
deve depositare i risultati delle indagini, mettendole a disposizione delle parti (discovery); così se è
la difesa dell'indagato a farne richiesta, il pubblico ministero deve comunque depositare le
disposizioni rese in precedenza da colui che sarà sentito nell'incidente probatorio (art. 398, comma 3
c.p.p.).
In base all'art. 394 comma 1 c.p.p., anche la persona offesa può chiedere al pubblico ministero di
promuovere un incidente probatorio. In questo caso, se il pubblico ministero non accoglie la
richiesta, deve pronunciare decreto motivato e farlo notificare alla persona offesa.
Se, invece, il giudice accoglie la richiesta, stabilisce con ordinanza sia l'oggetto della prova sia le
persone interessate all'assunzione di essa e fissa la data dell'udienza, facendo notificare - almeno due
giorni prima - l'avviso del giorno, dell'ora e del luogo dell'udienza alla persona sottoposta alle
indagini, alla persona offesa e ai difensori, oltrechè al pubblico ministero.
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Occorre grande attenzione, nel corso dell'audizione protetta, nel fare al minore tutte le domande che
possono essere utili alla magistratura, evitando di lasciare argomenti insoluti nella ricostruzione dei
fatti. Infatti, la presenza di eventuali lacune accresce il rischio che la difesa dell'imputato chieda di
risentire in aula la vittima.
In base alla legge 66/96 riguardante le norme contro la violenza sessuale, è stato ribadito che,
durante le indagini preliminari e nel corso dell'udienza preliminare, il pubblico ministero e i
difensori possono chiedere, con l'incidente probatorio, l'audizione del minore in forma protetta, e
cioè il suo interrogatorio con l'adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare che la vista
dell'imputato possa turbare il minore (art. 398, comma 5-bis c.p.p.). In tal modo si è costruito un
procedimento probatorio speciale in ragione dell'evidente peculiarità del testimone.
Nel corso dei lavori parlamentari del Senato, in prima lettura, della legge 66/96 era stato proposto di
prevedere che all'assunzione della testimonianza di persona minore degli anni sedici, nell'incidente
probatorio ai sensi dell'art. 392 comma 1-bis c.p.p., si procedesse sempre con l'assistenza di uno
psicologo. Era stato messo in evidenza come il metodo d'esame proposto fosse già attuato con
successo dai pool presenti a Milano e a Roma, in quanto il minore riusciva a rispondere alle
domande senza avere la sensazione di un interrogatorio, bensì quella di una conversazione con una
psicologa diventata "un'amica".
Questa proposta non è stata accolta e, dunque, l'esame testimoniale del minorenne si svolge, anche
nella procedura incidentale in forma protetta, secondo i principi dell'art. 498 c.p.p.:
1.
l'esame testimoniale del minorenne è condotto dal Presidente del collegio giudicante su
domande e contestazioni proposte dalle parti (comma 4);
2.
durante l'esame il Presidente può avvalersi dell'ausilio di un familiare del minore o di un
esperto in psicologia infantile (comma 4);
3.
il Presidente può decidere che sia l'esperto a condurre l'audizione del minore;
4.
nel caso di indagini che riguardino ipotesi di reato previste dagli articoli 600-bis, 600-ter,
600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies c.p., il giudice, ove fra le persone
interessate all'assunzione della prova vi siano minori di anni sedici, stabilisce il luogo, il tempo
e le modalità particolari attraverso cui procedere all'incidente probatorio, quando le esigenze
del minore lo rendono necessario (comma 4-bis e art. 398 comma 5-bis c.p.p.);
5.
l'udienza può svolgersi anche in un luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice di
strutture specializzate di assistenza (quali i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia
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e i servizi istituiti dagli enti locali) o, in mancanza, presso l'abitazione del minore stesso
(comma 4-bis e art. 398 comma 5-bis c.p.p.).
L'art. 472 c.p.p. prevede, inoltre, che in tali dibattimenti si proceda sempre a porte chiuse quando la
parte offesa è minorenne e stabilisce una regola relativa all'ammissibilità o meno di domande sulla
vita privata o sulla sessualità della vittima del reato: tali domande non sono ammesse se non sono
necessarie alla ricostruzione del fatto o alla verifica del thema probandum.
L'esigenza è quella di tutelare la riservatezza e la dignità della persona offesa, mirando ad evitare il
riprodursi di una prassi giudiziaria in cui i processi relativi ad abusi sessuali si traducono in processi
contro le vittime e non contro gli autori del reato. Tuttavia, è vero che tali domande andrebbero
finalizzate alla ricostruzione del fatto e non a quella delle caratteristiche od abitudini sessuali; ma in
molti casi la linea di confine è incerta, come nelle situazioni maturate nell'ambiente familiare oppure
quando la vittima del reato è un adolescente.
Dunque, quando in un processo deve essere accolta la deposizione della parte lesa, la corte si
trasferisce in un istituto psicologico attrezzato con un vetro a specchio unidirezionale: il bambino
viene condotto in una stanza, in compagnia dello psicologo o di uno dei giudici che condurrà
l'interrogatorio, mentre tutti gli altri componenti del collegio giudicante, insieme ai carabinieri
all'imputato e agli avvocati, staranno in un'aula, al di là del vetro, non visti dal minore.
I due locali comunicano con un interfono che consente interventi "in tempo reale" a garanzia del
pieno contraddittorio e dei diritti delle parti. In genere le parti concordano prima dell'audizione le
domande, o meglio sarebbe gli argomenti, da sottoporre al minore. Al termine della prima parte
dell'audizione viene effettuata una breve pausa nel corso della quale le parti sottopongono al giudice
nuovi temi e quesiti.
Se è lo psicologo a condurre l'intervista, viene dotato, di solito, di un auricolare in modo da sentire le
eventuali richieste del giudice e formulare così, immediatamente, le apposite domande al minore.
L'audizione, inoltre, viene videoregistrata in modo che possano essere valutati anche gli aspetti di
comunicazione non verbale del minore.
2.5. Il problema del ricordo e le tecniche d'intervista
Riguardo alla testimonianza nei casi di presunto abuso sessuale occorre distinguere tra la
testimonianza dell'eventuale vittima e le testimonianze esterne, cioè quelle di individui che hanno
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personalmente assistito all'intero episodio di abuso o a parte di esso. Queste ultime, se risultano
chiare ed attendibili, portano all'incriminazione dell'accusato.
Purtroppo molto spesso, nei casi di minori sessualmente abusati, le testimonianze esterne non sono
disponibili e, per la natura stessa di tali reati, i fatti accadono in privato, senza la presenza di
testimoni esterni, cosicché l'unico testimone del fatto è il bambino che ha presumibilmente subito
l'abuso. Poiché non c'è prova obiettiva si ragiona in modo indiziario: si considerano quelli che sono i
cosiddetti indicatori probabili di un evento (l'abuso) come segni di esso, si valutano cioè i fattori che
intervengono in un evento confrontandoli con gli altri eventi che conosciamo. Ragionare
indiziariamente è difficile, perché i nostri processi di pensiero ci portano a confondere una
correlazione, in genere temporale, tra due eventi con un nesso di causalità. Pertanto attribuiamo un
effetto a quella condizione, che è presente quando l'effetto è presente ed assente quando l'effetto è
assente. Tale principio di covariazione non è però un indicatore sufficiente per affermare l'esistenza
di una relazione causale: se applicato indiscriminatamente porta ad un errore logico comune, il post
hoc ergo propter hoc. Questa è la ragione per cui è necessario trovare un terzo elemento che colleghi
l'evento alla presunta causa e che ne spieghi il nesso, e questo viene ricercato nella testimonianza del
minore-vittima, la quale però potrà apportare elementi utili solo se svolta adeguatamente al caso e
all'età del bambino.
Il problema dell'attendibilità della testimonianza infantile ha dato luogo a lunghi dibattiti che hanno
portato alla formazione di due contrapposte scuole di pensiero: chi credeva che i bambini non erano
in grado di fornire resoconti accurati di eventi (e si univano ad essi anche coloro che ritenevano che
l'abuso infantile non poteva essere vero per una serie di ragioni, tra le quali quella per cui i genitori
non possono fare cose simili ai figli) e chi invece sosteneva che il ricordo in bambini anche molto
piccoli (4-5 anni) fosse sostanzialmente accurato (ai quali si univano coloro che credevano ad ogni
racconto di abuso fatto da un minore, giustificandosi che i bambini mai inventerebbero episodi di
tale tipo, ragione per cui se un bambino riporta un episodio di abuso deve trattarsi necessariamente
di una situazione vera).
Nei reati di abuso sessuale sui minori, purtroppo, non esistono indicatori definitivi di avvenuto
abuso; anche se oggi è forte la tendenza a presentare prontuari di sintomi che indicano l'avvenuto
abuso, la ricerca su questo aspetto ha definitivamente dimostrato che ciò è scorretto.
Il problema, dunque, è quello di capire come poter valutare il racconto di un minore, nell'esame
testimoniale, sull'abuso sessuale subito.
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2.5.1 La relazione esistente tra memoria e testimonianza
La memoria è spesso, nei casi giudiziari, l'unica fonte di informazione su quanto presumibilmente è
accaduto. Purtroppo, nei casi di abusi sessuali sui minori, il bambino si trova quasi sempre nella
duplice posizione di vittima e di unico testimone del fatto, e dunque sarà la sua memoria a dover
fornire gli elementi necessari per arrivare all'accertamento della verità.
Perché un evento possa essere ricordato da un soggetto è necessario che egli l'abbia precedentemente
acquisito.
La psicologia cognitiva studia i processi che guidano l'acquisizione della conoscenza da parte dei
soggetti. Tali processi possono essere ricondotti ad un'attività di elaborazione delle informazioni che
si articola in tre fasi distinte:
a.
l'acquisizione, durante la quale il soggetto percepisce le informazioni provenienti
dall'esterno;
b.
la ritenzione, durante la quale egli conserva in memoria le informazioni acquisite;
c.
il recupero, durante il quale egli ricorda l'informazione nel senso che la recupera dalla
memoria dove era conservata.
Durante queste attività il soggetto non si limita a registrare passivamente le informazioni che
provengono dal mondo esterno, ma le elabora, con una serie di attività di riduzione, trasformazione
ed integrazione che gli consentono di partecipare attivamente alla costruzione della propria
conoscenza.
Nel suo complesso l'attività di elaborazione delle informazioni è resa possibile dalla presenza di tre
elementi fondamentali:
a.
la memoria (o registro sensoriale), dove gli stimoli fisici in arrivo dal mondo esterno
vengono inizialmente tradotti in informazione nervosa sensoriale (visiva, uditiva, tattile), per
poi essere confrontati con le esperienze precedenti e poter essere riconosciuti
percettivamente;
b.
la memoria a breve termine (MBT), che ci permette di ritenere alcune informazioni in modo
fedele allo stimolo, ma solo per alcuni secondi (da un minimo di 3-4 secondi ad un massimo
di 20): ciò avviene, ad esempio, quando ricordiamo un numero telefonico solo per il tempo
necessario per comporlo;
c.
la memoria a lungo termine (MLT), che è invece caratterizzata da un'estensione
praticamente infinita e per questo detta anche memoria permanente: comporta un
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immagazzinamento di elementi più elaborato rispetto a quello della MBT e una
considerazione dello stimolo nel suo insieme di qualità sensoriali e non.
Mentre i primi modelli della memoria erano considerati tre elementi in modo essenzialmente statico,
come "magazzini" delle informazioni con capacità più o meno limitate, nei modelli successivi è
prevalsa la tendenza a considerarli come corrispondenti a processi diversi di elaborazione delle
informazioni.
Il funzionamento della memoria può essere immaginato secondo due diverse modalità: ritenendola
come una sorta di fotografia o di filmato di quanto accaduto (e cioè il prodotto di un meccanismo di
tipo riproduttivo) o come il prodotto di un meccanismo di tipo ricostruttivo.
Nel primo caso, quindi, la memoria di un evento sarebbe una rappresentazione (o riproduzione)
accurata dell'evento. La conseguenza di ciò è che il recupero della memoria (cioè il ricordare) non
sarebbe altro che un accesso diretto alla riproduzione (quasi fotografica) dell'evento conservato nella
mente. Nel recuperare tale riproduzione dovremmo arrivare a disporre di una copia accurata di
quanto è accaduto.
Oggi, invece, la maggior parte degli studiosi segue la seconda tesi. Con il termine "ricostruzione" si
evidenzia il fatto che il processo di recupero non viene realizzato tramite il ripescaggio di un
contenuto già pronto nella nostra mente, quanto piuttosto tramite la ricostruzione di un possibile
evento a partire da tutta una serie di informazione e di dati che sono rappresentati in memoria e a cui
abbiamo accesso.
Questi dati ed informazioni, tuttavia, non sono necessariamente ben collegati tra loro e non
rappresentano la totalità dell'evento che deve essere ricordato. Si tratta di dati sparsi, che provengono
da più fonti, e che possono appartenere a momenti diversi nel corso dell'esperienza dell'individuo.
Nel ricostruire il ricordo vengono messi insieme tali dati e coordinati in una forma più o meno
coerente, in modo da avere nell'insieme il ricordo di un evento. Il ricordo di un evento è quindi una
(o forse la migliore) delle possibili ricostruzioni che il soggetto fa sulla base dei dati a sua
disposizione.
Se il ricordo è una ricostruzione fatta sulla base dei dati a disposizione, una prima implicazione che
ne deriva è che il ricordo non è mai la riproduzione fedele, completa e completamente accurata di un
evento. E, anche nel caso di massima possibile accuratezza, non è mai la copia esatta dell'evento. Ciò
va ricordato nel momento in cui si esamina un resoconto testimoniale, perché spesso accade di
considerare tale resoconto come la descrizione esatta di quello che è accaduto, ma questo non
corrisponde mai a verità.
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Una seconda implicazione è che nel fare uso delle informazioni disponibili, quando ricostruiamo un
evento nella nostra memoria, possiamo anche usare informazioni molto recenti e che non
appartengono all'evento originario. Dunque, le conoscenze più recenti possono influire e modificare
la ricostruzione che facciamo di un episodio ai fini del ricordo.
Tutto ciò dimostra come il ricordare sia non solo il semplice "ripescaggio" dalla memoria di eventi
rappresentati in essa, ma sia soprattutto il risultato di tutta una serie di processi di ragionamento e di
decisione: il ricordo può quindi essere modificato dalla presenza di informazioni ricevute in tempi
successivi.
Ogni individuo immette nella propria memoria ciò che è stato oggetto della sua attenzione. Molti
studi hanno infatti dimostrato che ciò che non ricade sotto la nostra attenzione non viene elaborato, o
viene elaborato solo in modo molto limitato, cosicché non può venir rappresentato nella nostra
memoria. Dunque, la focalizzazione dell'attenzione è un fattore che influisce sul contenuto e
l'accuratezza del ricordo. Ma anche il grado di attenzione rivolto all'evento è una variabile
importante per determinare che cosa viene codificato in memoria.
Di solito accade che una persona si trova ad essere testimone di un evento senza essere preparata ad
osservare con attenzione i vari elementi della scena: in questi casi viene utilizzata una memoria
cosiddetta di "tipo incidentale", che presuppone un livello di codifica abbastanza superficiale delle
informazioni presenti nella scena. Ciò comporta che il ricordo sarà poi meno preciso di quanto
accadrebbe se l'individuo mettesse in atto una codifica di tipo intenzionale, essendo cioè pronto ad
assistere alla scena per cercare di elaborare al meglio i vari elementi dell'evento a cui assiste.
Inoltre, è stato dimostrato da tempo che la memoria umana è facilmente modificabile. I fattori che
possono alterare la memoria intervengono non solo nella fase di acquisizione delle informazioni, ma
anche nella fase di ritenzione delle informazioni stesse. In quest'ultimo caso si parla di "informazioni
postevento". Esse possono essere di vario tipo: percezioni e giudizi di altre persone che erano
presenti al momento del fatto, notizie che il soggetto può aver avuto da varie fonti in tempi
successivi al fatto stesso oppure elementi che emergono dai primi colloqui con la polizia o gli
avvocati.
2.5.2 Le fonti di errore nelle valutazioni di abuso sessuale sui minori
La valutazione di un sospetto abuso sessuale compiuto su un minore, e dunque la risposta
istituzionale conseguente ad essa, è un'attività molto complessa in quanto:
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
ASSOCIATO
la difficoltà della diagnosi di un abuso sessuale non è solo di ordine psicologico ma anche
processuale: infatti i processi che si sviluppano dalle denunce presentate all'autorità
giudiziaria sono quasi sempre di tipo indiziario;

l'esito delle investigazioni di questo tipo di accuse dipende dalla possibilità di ottenere
informazioni attendibili dalla vittima;

i riscontri di natura fisica che potrebbero convalidare l'accusa sono infrequenti e, quando ci
sono, confermano l'evento ma non il responsabile;

tipicamente, questi reati hanno in genere solo due testimoni: la vittima e il perpetratore; dal
momento che il responsabile solitamente nega l'abuso, la conoscenza di ciò che è veramente
accaduto dipende dalle informazioni che è possibile ottenere dalla vittima durante le
interviste;

la competenza dell'esperto che raccoglie le prime informazioni dal bambino è un requisito
indispensabile; infatti, il ricorso a procedure inadeguate nel corso delle interviste può portare
sia ad un giudizio di falsità di accuse vere che di veridicità di accuse false.
L'importanza di ridurre i casi di falsi positivi e di falsi negativi ha stimolato gli studiosi ed i giuristi a
predisporre strumenti d'intervista idonei. Purtroppo, però, l'unanimità di giudizio che riguarda le
metodologie più opportune per l'esame del minore (peraltro non seguite in ogni realtà territoriale
italiana) non è di per sé sufficiente a garantire un buon risultato, che dipende, in gran parte, dal
livello di professionalità dell'intervistatore.
La mancanza di specifica preparazione nella tecnica dell'intervista del minore, infatti, provoca
gravissimi errori a livello giudiziario che si materializzano non solo in un giudizio di veridicità di
accuse false e di falsità di accuse vere, ma anche nell'assunzione di decisioni inappropriate da parte
di assistenti sociali e di psicoterapeuti. In tutti questi casi, l'adeguatezza o meno delle decisioni è
strettamente collegata all'accuratezza o meno delle informazioni ottenute nella fase dell'intervista del
minore il quale, dal punto di vista testimoniale, è un soggetto "a rischio", per la sua immaturità
psichica e per le specifiche carenze (anche cognitive) legate alla specificità della fase di sviluppo che
attraversa, e per questo va intervistato in modo corretto.
Le fonti di errore più comuni nel lavoro degli specialisti sono di vario tipo.
Euristica della disponibilità
Gli specialisti possono sbagliare per deformazione professionale: quanto più si è specializzati su un
determinato argomento, tanto più si tende a percepire gli eventi che lo riguardano in modo diverso
dai non specializzati; non sempre però tale differenza è a favore della correttezza di analisi
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dell'evento stesso. Questo fenomeno consiste, dunque, nella tendenza della mente umana ad
utilizzare le informazioni e le esperienze che sono più ricordate: vengono valutate le probabilità di
un evento giudicando la facilità con cui ne vengono in mente esempi concreti.
Il significato dell'euristica consiste nel fatto che ciascuno di noi, in base alla propria cultura e
condizione, percepisce ciò che è preparato a vedere: è una forma di percezione selettiva, che
coinvolge ogni individuo e che, dunque, contamina anche le credenze degli psicologi in ambito
professionale.
Tale meccanismo che ci porta ad interpretare i dati in funzione delle informazione che già
possediamo è chiamato anche "codificazione dei dati viziata dalla teoria": gli errori sono indotti dalle
preconcezioni, consapevoli o inconsapevoli, che sono alla base dell'interpretazione degli eventi.
Vengono così trascurati molti dati informativi, poiché le opinioni e le credenze precedenti
selezionano la nuova informazione e l'accettano solo nella misura in cui si adegua ad esse. Questo
accade con estrema facilità quando i dati sono un insieme ambiguo, che può essere legittimamente
interpretato in diversi modi, come nel caso degli indizi di un abuso sessuale sospetto.
Confusione tra compito terapeutico e processuale
Lo psicologo è abituato a prendersi cura della salute del paziente, senza dover valutare la veridicità
dei fatti da lui raccontati. Anzi, egli trasmette al paziente il messaggio di credere alle sue parole.
Infatti sapere se gli eventi raccontati si sono realizzati veramente oppure no è indifferente ai fini
della ricerca del benessere psicologico del paziente.
Diversa è la situazione nell'ambito della diagnosi fattuale necessaria ai giudici. In ambito processuale
è infatti indispensabile trovare dei riscontri fattuali a quanto viene affermato. È dunque necessario
che lo psicologo capisca che l'operazione diagnostica della perizia è utile al giudice per poter
valutare il caso sulla base di elementi fattuali e ciò è diverso dall'attività terapeutica, che potrà
svolgersi successivamente e che avrà come obiettivo il recupero del benessere psicologico del
paziente.
Perseveranza nelle credenze e/o tendenza al verificazionismo
Anche gli specialisti incorrono nell'errore di non abbandonare facilmente la tesi che si sono costruiti
intorno al caso, non considerando come importanti quei dati dell'esperienza con essa discordanti.
Questo, naturalmente, può portare a false credenze e a cercare, ostinatamente, di dimostrare qualcosa
che non esiste, con conseguenze dannose per lo stesso minore.
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Sono, dunque, molti gli errori compiuti quando, partendo da un'ipotesi, anziché cercare di
falsificarla, si tende a verificarla ("metodo verificazionista"), cioè a cercare la prova che confermi
l'ipotesi formulata: dai dati così cercati è ben difficile che emergano delle disconferme.
Sopravvalutazione del significato simbolico
Spesso gli specialisti tendono a dare un'interpretazione di tipo clinico alla realtà fenomenica,
attraverso l'interpretazione simbolica di elementi reali. Così può accadere che si interpreti
simbolicamente un fatto senza che vi siano elementi che giustifichino tale interpretazione e tutto ciò,
in un contesto giudiziario, comporta conseguenze molto gravi.
Per poter diminuire la possibilità di incorrere in tali errori da parte degli specialisti, è necessario
intervenire, da un lato, sulle modalità con cui si esaminano le persone coinvolte e con cui si
utilizzano le informazioni così ottenute; dall'altro, sull'intera procedura giudiziaria con cui vengono
trattate le denunce di abuso.
Per quanto riguarda i criteri con cui condurre interviste e colloqui, deve essere considerato come
requisito essenziale di ogni valutazione l'obiettività. La principale necessità è quella di video o
audioregistrare ogni intervista, in modo che la valutazione finale complessiva possa includere ogni
tipo di esame precedentemente condotto con il bambino. Lo scopo della videoregistrazione è
documentare minuziosamente il contesto, in cui le dichiarazioni vengono fatte, e le descrizioni in
esso contenute.
In ogni investigazione su un abuso è, dunque, importante operare con obiettività, cioè il
professionista deve cercare di condurre il colloquio e raccogliere i dati senza farsi influenzare da
preconcetti personali. A questo scopo è opportuno che i comportamenti del bambino siano
considerati alla luce di linee guida predeterminate. Esse fanno riferimento a:
1.
standard empirici di normalità riguardanti i comportamenti di bambini simili per età, livello
di sviluppo, sesso e gruppo culturale;
2.
comportamento del bambino prima dell'incidente probatorio;
3.
spiegazioni alternative dei comportamenti osservati: prima di giungere ad una conclusione
devono essere esaminate tutte le spiegazioni alternative possibili.
Bisogna comunque ricordare che condurre un colloquio in modo impeccabile non garantisce, di per
sé, di trarne informazioni attendibili.
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2.5.3. La memoria dei bambini
Oggi, sia in Italia che all'estero, i bambini possono essere sentiti come testimoni in un procedimento
giudiziario, ma l'attendibilità del resoconto testimoniale del minore è stato per anni oggetto di lunghi
dibattiti. Mentre in passato si tendeva a negare che un bambino inferiore ad una certa età (4/5 anni)
fosse in grado di fornire testimonianze attendibili, oggi numerosi studiosi hanno rivelato che il
ricordo - anche in bambini di quell'età - può essere accurato, anche se magari è molto breve.
Infatti i bambini anche molto piccoli (4 anni) possono arrivare ad avere un ricordo accurato come
quello di un adulto attraverso la tecnica del ricordo libero, cioè quando il ricordo proviene
dall'individuo senza domande specifiche da parte di un intervistatore, per cui quest'ultimo si limita a
fare una domanda molto generica del tipo: «Che cosa ricordi della situazione?».
Un resoconto, ottenuto attraverso questa tecnica, contiene tutto quello che un individuo riesce a
recuperare dalla memoria senza aiuti esterni. Gli elementi così ricordati dal bambino sono di solito
corretti, cioè sono elementi che erano effettivamente presenti nell'episodio originale. Purtroppo,
però, il ricordo di un bambino molto piccolo è quasi sempre povero di dettagli e nettamente inferiore
al ricordo dell'adulto, per cui egli ricorderà pochissimi elementi presenti nell'episodio.
I bambini hanno particolare difficoltà nel ricordare informazioni "periferiche" rispetto all'evento,
mentre ricordano meglio gli aspetti più salienti. Questo effetto sembra essere collegato
all'importanza del coinvolgimento della persona nel ricordo, una variabile che nel minore sembra
essere ancor più rilevante che per l'adulto. Per "aspetti salienti" bisogna intendere necessariamente
quegli aspetti che sono, da un punto di vista logico, centrali rispetto alla situazione. L'effetto, infatti,
dipende dal modo di inquadrare la situazione da parte del bambino e dai fattori che modulano la
direzione della sua attenzione. Ciò che il bambino codifica dipende strettamente dalla direzione della
sua attenzione al momento della codifica (cioè nel momento in cui si è realizzato l'evento) o da ciò
che ha catturato la sua attenzione. Quindi centralità e salienza di un evento sono concetti che vanno
valutati sul bambino e non sull'adulto: un bambino, di un episodio che ha vissuto, ricorderà gli
elementi per lui più salienti.
Dall'attività di ricerca svolta su questa materia emerge che la memoria di un evento è migliore se
quest'ultimo è vissuto in prima persona dal bambino, piuttosto che ascoltato come racconto, e che il
ricordo è stranamente migliore se il bambino è attivamente coinvolto nell'episodio piuttosto che
semplice spettatore esterno.
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Ci si aspetterebbe, invece, che un bambino che ha subito un evento drammatico fosse più fortemente
coinvolto dal punto di vista personale e avesse, di conseguenza, scarsa capacità di organizzazione,
rappresentazione e verbalizzazione di ciò che ha vissuto. I risultati opposti sono invece indicativi del
fatto che il coinvolgimento personale determina nei bambini una prestazione di ricordo migliore:
infatti ciò che viene ricordato meglio è ciò che era centrale per l'interesse del bambino.
I bambini dunque, quando forniscono il resoconto attraverso il racconto libero, non aggiungono
elementi di fantasia o invenzioni, a meno che non considerino la situazione in cui viene loro
richiesto il resoconto una situazione di gioco fantastico. Ma questo è vero solo nel caso in cui i
bambini siano sottoposti a nuove interviste o colloqui sull'argomento in cui venga loro suggerita una
nuova informazione.
In questo caso il resoconto successivo dello stesso episodio risentirà del contenuto dei colloqui fatti e
conterrà con molta probabilità le nuove informazioni ricevute nel corso di tali conversazioni
successive. La ripetizione sarà quindi una versione corretta dei fatti solo se nell'intervallo di tempo
non sono state fatte domande o non è stata fornita altra informazione con un contenuto suggestivo.
Questo dimostra che l'aggiunta di informazioni rende difficile recuperare l'informazione originale o
distinguere quest'ultima da un'informazione aggiunta.
Anche in un compito di riconoscimento la quantità di elementi che un bambino è in grado di
riconoscere è inferiore rispetto a quelli che riconoscerebbe un adulto e lo stesso riconoscimento di
volti è più problematico e meno accurato. Questa tecnica, comunque, sembra essere utilizzata con
bambini piccoli che non riescono a fornire elementi utili per le indagini con il racconto libero, anche
se bisogna ricordare che il problema del riconoscimento sta nell'elevato numero di falsi positivi
riconosciuti: infatti i bambini tendono a "riconoscere" (cioè a dire «sì, l'ho visto») anche quando
l'elemento o l'uomo non era stato presentato in precedenza. Dalle ricerche però emerge che
l'accuratezza sembra aumentare se nel momento del recupero della memoria (cioè quando si chiede
al bambino di riconoscere qualcosa) viene reinstaurato lo stesso contesto in cui si è svolto l'episodio
iniziale: è questo, dunque, uno degli elementi che viene utilizzato nel corso delle interviste dei
minori per ovviare al problema dei falsi riconoscimenti.
Bisogna inoltre tener presente che i bambini tendono a dire sì a molte domande poste in modo
diretto. Un esempio di domanda diretta "pericolosa" è la seguente: «hai visto un uomo entrare nella
stanza?». In questo caso un bambino, quasi sempre, risponde di sì (anche quando in realtà non ha
visto nessun uomo entrare) solo perché la domanda è stata posta in modo da avere una risposta sì o
no.
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Tale domanda andrebbe sempre evitata, perché non potremmo mai sapere se la risposta data dal
bambino è dovuta alla tendenza spontanea a dire sì oppure è dovuta al fatto che effettivamente ha
visto un uomo entrare nella stanza. La domanda può, invece, essere fatta se il bambino ha già
precedentemente fornito in prima persona, nel racconto libero, i dati su cui la domanda si basa (ad
esempio se nel resoconto libero ha parlato di aver visto un uomo).
I bambini, infatti, hanno maggior tendenza, rispetto agli adulti, a ricordare l'informazione errata
presentata successivamente dall'intervistatore, cioè sono maggiormente suggestionabili. Varie
ricerche hanno dimostrato che essi, se avvicinati in modo suggestivo, possono facilmente cambiare
la descrizione di quello che hanno visto o che è stato loro fatto. Questo avviene con grande facilità se
i bambini sono piccoli, se sono interrogati a distanza di tempo dall'evento, se sono suggestionati da
domande poste in modo scorretto o volutamente viziate o se chi pone le domande viene visto dal
minore come una figura autorevole.
Benché sia vero che un adulto viene percepito come autorevole quanto più si pone distante dal
bambino, anche un adulto che interagisce con il bambino tramite il gioco è pur sempre visto da lui
come un adulto. Per questo motivo alcuni esperti di colloquio con bambini, che si sospetta siano stati
oggetto di abuso, consigliano di comportarsi in modo "onesto" con il bambino, "da adulto a
bambino", dichiarando il motivo dell'incontro e semplicemente ponendo le domande in modo
corretto, per non indurre risposte compiacenti da parte del bambino, o in modo da non suggerire
informazioni aggiuntive probabilmente non vere. Occorre utilizzare in questi casi un linguaggio
comprensibile per il minore, ma non occorre cercare di farsi passare per un non-adulto, anche perché
in queste specifiche occasioni il minore sente il bisogno di avere vicino a sé non una persona con cui
giocare, ma un adulto che, rispettandolo, lo faccia sentire protetto e sostenuto nell'angoscia che gli
causa l'intervista.
È necessario inoltre ricordare che la percezione del tempo nel minore è molto diversa da quella
dell'adulto: per un bambino una settimana o un mese possono essere uno spazio temporale molto
lungo, molto più lungo che per l'adulto.
La suggestionabilità però non si limita all'aggiunta o alla modifica di uno o più elementi di una
scena. Ci sono risultati che sono stati confermati più volte e che mostrano come sia addirittura
possibile indurre i bambini a ricordare eventi che non sono mai accaduti.
Dunque il fattore "suggestione" figura al primo posto tra gli elementi che possono inquinare il
risultato di un'intervista e, se colui che pone le domande al minore non è preparato a porle in modo
corretto e non inducente, può suggerire, talvolta in modo insistente anche se involontario,
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informazioni che non sono vere, ma che rischiano di diventare tali col tempo nella memoria del
bambino.
Un'altra fonte di errore nelle valutazioni dei casi di abuso sessuale sui minori, che viene quasi
sempre ignorata, è rappresentata dalle menzogne dei bambini.
Secondo una corrente di pensiero, ancora condivisa da molti, i bambini, quando riferiscono di abuso
sessuali, non mentirebbero mai ed alcuni esperti interpretano ogni tentativo di ricercare e verificare
la prova delle accuse come una dimostrazione di incredulità o di negazione del fenomeno. Si tratta di
uno stereotipo pericolosamente diffuso e condiviso, nonostante le numerose ricerche che hanno
dimostrato la preoccupante capacità del bambino di mentire anche su fatti di abuso sessuale.
Va innanzitutto chiarito il significato della parola "menzogna".
Se utilizziamo questo termine come viene interpretato dagli adulti, la menzogna è una dichiarazione
deliberatamente falsa intesa a trarre qualcuno in inganno: allora i bambini, in genere, non mentono.
Ma i bambini possono raccontare cose che ritengono vere ma che sono il frutto di suggestioni, di
manipolazioni, di fraintendimenti e possono insistere nel racconto solo per prolungare l'esperienza,
per loro piacevole ed insolita, di una speciale attenzione da parte degli adulti nei loro confronti. Altre
cause possono essere: il desiderio del bambino di uscire da una situazione familiare difficile; la
suggestione esercitata da parte del genitore che è coinvolto in una causa di separazione e sfrutta
l'accusa per ottenere l'affidamento del bambino; il desiderio di evitare una punizione, di sostenere un
gioco, di vendicarsi di presunti torti subiti o di conquistare una libertà che gli viene negata. Questi e
tanti altri fattori possono influenzare il racconto di un bambino e renderlo non veritiero, senza per
questo che si possa dire che il bambino "mente".
Ci sono poi i casi sempre più frequenti in cui l'accusa di abuso sessuale nasce dalla precisa e
premeditata pianificazione dell'inganno da parte del minore stesso che "costruisce" un racconto così
attendibile e verosimile da ingannare persino gli esperti.
Per realizzare un'effettiva protezione del minore testimone e vittima di un presunto abuso sessuale è
necessario evitare l'instaurarsi di un "clima di caccia alle streghe", cioè il vedere un possibile abuso
sessuale in qualunque situazione di contatto fisico o di disagio psicologico del minore. Tale
atteggiamento è sbagliato e realmente pericoloso, non solo per gli adulti coinvolti, ma soprattutto per
i bambini, che diventano le vere vittime di situazioni il cui intento iniziale era invece quello opposto
di rendere loro protezione e giustizia. I bambini attraversano periodi di enorme disagio,
disorientamento, stress, con conseguenze negative per il loro sviluppo. Vedendo possibile abuso
sessuale in qualunque situazione non si aiutano o proteggono i bambini. Occorre, quindi, cautela
nell'accettare qualunque indizio come vero, ed occorre grande cautela nell'intervenire, perché senza
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esserne pienamente consapevoli, si può contribuire alla creazione di un sistema che può avere effetti
devastanti per il minore.
Non ci si improvvisa intervistatori, specialmente quando si tratti di avere colloqui con bambini, e in
particolare quando si sospetta che i bambini con cui si parla abbiano subito abuso sessuale. Bisogna
essere preparati e avere piena padronanza di uno strumento che, nonostante l'apparente facilità, può
creare gravi danni se utilizzato in modo non corretto.
2.5.4. La corretta modalità d'intervista
I bisogni di ogni bambino, di ogni colloquio e dell'intervistatore possono essere diversi da
un'intervista ad un'altra. Non ci sono, dunque, semplici regole o prescrizioni determinate che
possono essere adeguate per tutte le interviste: si potranno soltanto definire delle "linee-guida"
appropriate per la maggior parte di esse.
Le interviste non dovrebbero essere condotte senza un'adeguata pianificazione, che dovrebbe tener
conto di ogni informazione derivante dai colloqui tra centri ed istituzioni (ad esempio tra polizia o
tribunale e servizi sociali), dalla considerazione dei bisogni del bambino, dell'età e del suo probabile
sviluppo. Bisogna però ricordare che lo sviluppo di ogni bambino segue ritmi diversi e, così, l'età
cronologica di un minore può essere solo l'indicazione molto approssimativa del suo livello di
sviluppo. Perciò, prima di intervistare un minore come testimone, dovrebbero essere cercate quante
più informazioni possibili relative al suo sviluppo linguistico, cognitivo e comunicativo e al suo
grado si maturità sociale, fisica e sessuale.
Se l'intervista è stata ben pianificata e ben condotta, ciò dovrebbe ridurre il bisogno di ripeterla.
Per i bambini molto piccoli e per quelli che hanno bisogni speciali è ancora più necessario
predisporre un'adeguata programmazione in modo da avere incontri più brevi in un certo numero di
giorni successivi. Può accadere infatti che essi non siano in grado di raccontare tutto quello che
possono ricordare in una singola sessione d'intervista e che abbiano bisogno di più tempo.
Dalla ricerca sulla corretta metodologia dell'intervista al minore sono emerse varie considerazioni,
utilizzate per l'elaborazione di alcune linee direttive affinché il racconto ottenuto possa essere
utilizzato nel contesto giudiziario. Nella pratica legale, infatti, le modalità con le quali il testimone
viene sentito assumono grande importanza, sia nella fase delle indagini preliminari, sia in quelle
successive. Fino ad oggi, però, i suggerimenti che la ricerca psicogiuridica è riuscita a far accettare
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dal sistema di giustizia sono relativamente modesti, forse perché gli scopi delle due scienze sono
tanto diversi.
La modalità d'esame è determinante soprattutto quando il testimone è un minore. I bambini piccoli
non hanno ancora appreso lo schema convenzionale che sta alla base della rievocazione di eventi
passati e, quindi, il racconto che si ottiene dipende dalle domande con cui gli adulti guidano i loro
ricordi.
In generale, ottenere da un bambino informazioni attendibili è molto difficile. Diventa difficilissimo
quando i dati raccolti devono essere utilizzati nel contesto legale e giudiziario. Per ridurre al minimo
le possibilità di errore, gli esperti raccomandano di adottare una procedura che consenta di
minimizzare le possibilità di inquinamento e di accrescere quelle con un corretto ricordo.
La ricerca psicologica degli ultimi anni ha confermato che i bambini, anche molto piccoli, sono in
genere capaci di offrire un resoconto utile degli eventi a condizione che vengano intervistati in modo
appropriato.
Il problema è posto dal fatto che il bambino piccolo riferisce molto meno rispetto ad un adulto o ad
un bambino più grande e, quindi, è necessario fargli domande e stimolare il suo ricordo. Ma occorre
sapere come interrogarlo senza che le domande poste possano alterare il suo ricordo originale.
La prima fase essenziale di un'intervista con un minore testimone è stabilire un adeguato rapporto tra
il bambino e l'intervistatore. Il minore deve essere aiutato a sentirsi sicuro e rilassato.
La seconda fase consiste in una rievocazione libera da parte del bambino dei fatti e delle
informazioni che è in grado di riferire, con le sue parole, in risposta a domande aperte e mai forzanti
o suggestive. Dunque il ruolo dell'intervistatore è quello di facilitare la narrazione e non di guidarla.
Nella terza fase vengono proposte domande di approfondimento di quanto già narrato. Poiché i
bambini, pur essendo in grado di dare resoconti attendibili,
raramente riferiscono i dettagli e le informazioni che l'adulto o il bambino più grande sono in grado
di dare, spesso occorre fare al minore delle domande, ma la loro forma deve sempre essere aperta e
devono sempre essere formulate in modo da far capire che viene accettata l'eventualità di non
riuscire a ricordare o di non sapere la risposta. Certe domande in cui si chiede il «perchè» possono
essere interpretate dal bambino con un'attribuzione di colpa o di responsabilità e quindi vanno
evitate. Allo stesso modo va evitato di ripetere una domanda subito dopo che il bambino ha dato una
risposta: potrebbe essere interpretata come una critica alla risposta data e indurre, quindi, a dare una
risposta diversa. La ricerca ha infatti dimostrato che, quando si ripete una domanda, il bambino tende
a pensare di aver dato in precedenza una risposta sbagliata che va quindi corretta.
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Inoltre gli adulti ritengono, sbagliando, che anche i bambini siano in grado di sapere quali siano le
informazioni rilevanti. Questi, generalmente, non lo sanno ed è per questo che può essere necessario
rivolgere domande specifiche, purché non suggestive, per dare modo al bambino di riportare la sua
attenzione sul punto focale della vicenda.
Vanno sempre evitate le domande a risposta chiusa (sì/no) perché, la ricerca ha dimostrato, specie
con i bambini, che la tendenza sarà a rispondere sì o comunque a rispondere ciò che ritengono faccia
più piacere all'intervistatore.
La quarta fase prevede la chiusura dell'intervista. L'intervistatore deve controllare con il bambino di
aver capito bene le parti essenziali del racconto e deve evitare di utilizzare un linguaggio adulto al
quale il bambino potrebbe aderire senza capire il significato delle parole.
Se le domande generali non hanno portato alla luce il tema dell'abuso, può essere utile ricorrere al
disegno. Si chiede al bambino di disegnare la figura di un uomo o di una donna, per poi passare ai
dettagli di ogni parte del corpo. Per ognuna di esse, si chiede al minore di indicarne il nome e di
descriverne la funzione. Quando si arriva alla descrizione dei genitali, l'intervistatore può chiedergli
se ha mai visto quella parte del corpo di un'altra persona e/o se qualcuno ha visto o toccato quella
sua parte.
Fra gli strumenti utilizzabili in questo tipo di interviste ci sono anche i cosiddetti "cartelloni del
corpo anatomico", che possono servire per chiedere al bambino i nomi che utilizza per i vari organi
del corpo umano e poter così conoscere il suo linguaggio. Ma parte degli esperti sono contrari al loro
utilizzo perché considerano tale materiale troppo suggestivo.
È necessario che l'intervistatore comunichi al bambino in modo esplicito che:

lui non era presente quando il presunto evento ha avuto luogo e, quindi, fa affidamento sul
racconto del bambino per conoscere i fatti;

se l'intervistatore fa una domanda che il bambino non capisce questo deve sentirsi libero di
dirlo;

se l'intervistatore fa una domanda per la quale il bambino non conosce la risposta, è giusto
che egli dica "non lo so" e non deve rispondere necessariamente qualcosa;

se l'intervistatore fraintende quello che il bambino ha detto o riassume quanto è stato detto
in modo errato, il bambino deve dirlo e metterlo così in evidenza.
Al bambino deve essere concesso di procedere a suo modo e secondo i suoi tempi, accettando pause,
divagazioni ed elaborazioni anche di dettagli irrilevanti per le indagini. L'intervistatore, dunque,
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deve resistere alla tentazione di parlare appena il bambino sembra aver finito (va rispettata la regola
del "tempo d'attesa") e deve riuscire a tollerare le pause (anche quelle prolungate), i silenzi e quelli
che possono apparire i resoconti di informazioni irrilevanti resi dal bambino.
È necessario fare qualunque sforzo per ottenere dal bambino informazioni spontanee e non
contaminate dall'intervista.
Il desiderio dell'intervistatore di dare una valutazione definitiva della situazione non deve
manifestarsi con un approccio troppo impaziente: dovrebbe essere realizzato un "ascolto attivo", in
cui l'intervistatore s'impegna a far sì che il bambino sappia che, ciò che quest'ultimo ha raccontato, è
stato da lui sentito (ad esempio ripetendo le sue stesse parole).
Se le accuse riguardano abusi ripetuti nel tempo, è bene chiedere prima una descrizione dello schema
generale («mi puoi dire che cosa succedeva di solito?») per poi utilizzarlo per aiutare il bambino a
ricordare meglio momenti specifici che, per qualche regione, si allontanano dallo schema generale.
Se sono stati descritti eventi multipli, può essere utile dare ad ognuno di essi "un'etichetta" («hai
detto che è successo in cucina. Allora lo chiamiamo "il fatto della cucina"»). È importante che il
bambino collabori alla scelta dell'etichetta perché in questo modo potrà meglio organizzare il suo
ricordo e l'intervistatore sarà sicuro, nel corso del colloquio, di quale fatto si sta parlando.
Nel decidere se procedere o meno alla fase seguente dell'intervista devono essere prese in
considerazione anche le esigenze del minore. Se quest'ultimo appare fortemente angosciato,
l'intervistatore dovrebbe fare una valutazione se ciò dipende dal fatto che il bambino sta rievocando
momenti dolorosi, o se dipende dall'intervistatore. Se la causa è la prima, è necessario capire se è
bene approfondire in questo momento la questione oppure diminuire la tensione creatasi; se la causa
sembra essere la seconda, portare aventi il colloquio è sicuramente inappropriato.
L'intervistatore, nel porre qualunque domanda, deve tener conto del grado di sviluppo del bambino,
che dovrebbe aver già preso in esame durante la prima fase del colloquio.
Quando il minore ha terminato il resoconto libero (la durata può variare in funzione di un gran
numero di fattori, inclusa la sua età) possono essere poste le domande. A seconda del modo in cui
una domanda viene formulata si hanno risposte più o meno complete ed accurate. Per ottenere i
migliori risultati da un'intervista è importante che vengano utilizzate le domande appropriate e che
vengano evitati i tipi di domanda che danno luogo a risposte scorrette e incomplete, o addirittura
modificato.
L'intervista, dunque, deve procedere con le domande aperte di carattere generale, che permettono di
ottenere dal bambino approfondimenti di cose o eventi già da lui ricordati. Tali domande, infatti,
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devono servire soltanto per l'elaborazione di dettagli già descritti o introdotti dal minore nella fase
iniziale di narrazione libera e devono essergli poste usando la sua stessa terminologia, evitando
qualunque argomentazione suggestiva o forzante.
Nelle domande aperte si chiede al bambino di fornire maggiori informazioni, ma in un modo che non
lo influenzi o gli metta pressione. Tutte le domande usate nell'intervista devono essere espresse in
modo da implicare che l'incapacità di ricordare è accettabile. Infatti, durante questa fase, dovrebbe
essere detto (o espresso in qualche modo) al minore che rispondere «non mi ricordo» o «non lo so»
può essere appropriato e giusto se corrisponde alla sua reale non conoscenza, perché non deve
ricordare per forza.
Se il testimone diventa angosciato perfino quando vengono poste queste domande generiche,
l'intervistatore dovrebbe prendere seriamente in considerazione la possibilità di allontanarsi per un
momento da questo argomento e ritornare ad una fase precedente dell'intervista. Inoltre, potrebbe
essere utile suggerire al bambino di utilizzare un particolare segnale (ad esempio alzare una mano)
per indicare che sa la risposta alla domanda fatta dall'intervistatore, ma non è pronto o non vuole
rispondere. Così l'esperto potrà capire se si tratta di un problema di memoria o di altro tipo di
difficoltà. Il particolare lasciato in sospeso potrà essere riproposto in un momento successivo.
Alcune domande che utilizzano la parola «perché» possono essere interpretate dai bambini come se
ci fosse l'intenzione di attribuire loro colpa e responsabilità. Tali domande dovrebbero essere evitate.
Deve anche essere evitato il ripetere le domande subito dopo che un bambino ha risposto, dal
momento che ciò può essere interpretato dai minori come una critica alle risposte già date. Il ripetere
una domanda troppo presto può far sì che il bambino cambi la sua risposta in una che pensa sia
quella che l'intervistatore vuole sentire e comunque, quando si vuole ripetere una domanda già fatta,
è sicuramente meglio dire con chiarezza al bambino che è una ripetizione, così lui sarà più tranquillo
nel rispondere (ad esempio dicendogli «scusa se ti rifaccio la domanda, ma non ricordo più la
risposta»).
Dopo la testimonianza verbale, può essere utile usare delle tecniche che possono massimizzare
l'apporto d'informazioni fornite dal minore o che permettano ai bambini reticenti di parlare delle loro
esperienze servendosi di uno stile d'intervista meno diretto. Tuttavia il loro impiego e il modo di
interpretarne i risultati sono tuttora oggetto d'indagine e di disputa tra differenti autori.
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Capitolo III
Il trattamento terapeutico del minore sessualmente abusato
3.1. Il ruolo del clinico
Il clinico è una figura molto importante per le istituzioni giudiziarie, le quali si rivolgono ad esso, nei
casi di sospetto abuso sessuale sui minori, per vari motivi:
1. per ottenere le segnalazioni che permettono di attivare il procedimento più adeguato di
protezione del minore;
2. per lo svolgimento della fase della valutazione della situazione di presunta violenza.
Quest'ultima può essere attuata secondo due modalità diverse: in alcuni casi l'accertamento
giudiziario si serve di una valutazione clinica o di una consulenza tecnica sulla sfera
cognitiva e comportamentale del minore, in altri il percorso consiste nello svolgimento di
entrambe. In quest'ultimo caso al bambino verranno fatte le stesse domande e sarà costretto a
ripercorrere il trauma subìto per due volte. Infatti, nella pratica, i due operatori che compiono
queste valutazioni non si passano le informazioni raccolte e ciò porta ad una grande
confusione sull'accaduto e ad una minore efficacia del procedimento: colui su cui grava tutto
il sistema è sicuramente il minore, che risulterà sottoposto ad una nuovo trauma. Sarebbe,
invece, una soluzione più adeguata per il minore quella di essere sottoposto soltanto ad una
valutazione clinica, complessa e globale, che cerchi di capire se l'abuso si è verificato ed
eventualmente quale tipo di conseguenze l'abuso ed il trauma hanno causato sulla sua
personalità (procedimento questo seguito nella realtà milanese). Bisogna ricordare che ogni
caso è a sé e va valutato come tale: non ci sono "equazioni matematiche" che possono essere
applicate ad ogni caso di abuso sessuale su un minore.
3. La figura del clinico può essere utilizzata dalle istituzioni giudiziarie anche per ottenere un
aiuto specifico nello svolgimento dei percorsi giudiziari (è il caso dell'audizione protetta del
minore);
4. e per far compiere il percorso terapeutico al bambino.
Ad un minore, vittima di abuso sessuale, devono essere infatti garantite sia la "cura", sia la
protezione (che richiede il suo ingresso nel procedimento penale). Questo vuol dire che i due
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ambiti diversi del clinico e del giudiziario devono cooperare per poter così compiere, sul
bambino, l'attività clinica di aiuto e di rielaborazione del trauma.
Il clinico deve chiedere, in primo luogo, alle istituzioni giudiziarie di apportare un'adeguata tutela al
minore: egli deve essere protetto dagli eventi traumatici che ha subìto e che potrebbe continuare a
subire. Quindi, dopo la rivelazione degli eventi, la prima importante forma di intervento è quella che
interrompere l'abuso, ponendo fine, spesso attraverso l'allontanamento fisico della vittima
dall'abusante, alla situazione traumatica rivelata.
Il contesto di protezione può così essere considerato come un intervento preclinico ed è un
necessario ed ineludibile passo che permette di creare quelle condizioni per poter impostare
correttamente la fase diagnostica, cioè la fase di valutazione e validazione delle rivelazioni della
vittima, utili per predisporre successivamente un contesto di cura. Senza protezione, infatti, ogni
lavoro clinico è precluso dal "blocco" che nasce nel minore, che sa di poter essere ancora avvicinato
e minacciato da colui che ha perpetrato l'abuso e da coloro che con lui si schierano. La letteratura in
ambito psicologico ed una consolidata prassi sostengono che solo in una situazione protetta è,
quindi, possibile capire, valutare e poi curare il danno prodotto dalla situazione abusiva.
Il mantenimento di una situazione protettiva permette quindi di effettuare una valutazione sulle
conseguenze psicopatologiche dell'abuso e di mettere a fuoco sia gli esiti immediati dello stesso
nella vittima (quali i preminenti sentimenti di disvalore, i sensi di vergogna e di colpa), sia di attivare
poi un intervento curativo che mitighi il costituirsi nel bambino di difese psicologiche rigide ed
invalidanti il suo futuro sviluppo personale.
Questo intervento di "riparazione"deve essere iniziato il più presto possibile, ma prima è necessario
compiere un'esperienza correttiva sulla visione che ha il minore del mondo che lo circonda: cioè è
necessario fargli capire che ciò che ha vissuto come esperienza traumatica non coincide con le
"normali" esperienze che un soggetto della sua età di solito vive. Questa fase è necessaria perché, se
non viene prospettato come reale ed esistente quello che il terapeuta vuole far capire al bambino, la
terapia successiva non produce alcun effetto positivo.
3.2. La terapia familiare
Al termine della fase diagnostica di un caso di abuso sessuale si dovrebbe avere un'idea
sufficientemente chiara della necessità del bambino abusato, della trattabilità della situazione
familiare e di cosa è necessario predisporre a livello sociale per il proseguimento dell'intervento. È
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necessario che tutti i professionisti impegnati nel caso si confrontino sulle possibili soluzioni,
accordandosi anche con gli organi giudiziari. A volte può essere necessario il coinvolgimento di
colleghi di altri servizi del territorio per effettuare interventi sul contesto sociale e per eliminare
alcuni fattori di rischio che possono essere stati concause della violenza stessa (ad esempio può
essere necessario prendere contatto con i servizi sociali per ridurre l'emarginazione sociale, o per la
terapia di disintossicazione di una patologia di loro competenza per i genitori tossicomani). La
situazione, infatti, dovrebbe essere presa in carico da una equipe di terapeuti, che potrebbero
confrontarsi sull'intervento, durante la sua progettazione ed il suo svolgimento, e condividerne la
responsabilità.
Il trattamento dell'abuso all'infanzia si è modificato nel corso di questi ultimi anni. Ancora pochi
anni fa era centrato o sulle vittime, con interventi di area sociale come l'allontanamento del minore, o
sui colpevoli, con interventi di area giudiziaria.
In ogni caso l'entità familiare risultava profondamente sconvolta e con la conseguenza di un grave
danno per il bambino abusato. Col tempo le ricerche psicologiche hanno situato la violenza
all'infanzia in un contesto allargato multiproblematico, dove si intrecciavano un complesso di
relazioni psicologiche, sociali ed economiche: ciò ha focalizzato l'attenzione sull'intero gruppo
familiare, nel tentativo di recuperare tutto il gruppo attraverso una trasformazione dei legami
relazionali e comunicativi. Questa ideologia diversa, che privilegia il recupero e non la
criminalizzazione, costituisce una sfida, rispetto alle inevitabili rotture provocate dall'abuso, nei
confronti del solo intervento sociale o della sola attività giudiziaria che non portavano a nessuna
trasformazione.
Sono stati predisposti diversi modelli di intervento terapeutico, tutti centrati sulla terapia familiare, a
cui può essere data maggiore o minore importanza a seconda delle diverse situazioni.
Prima di poter predisporre un trattamento terapeutico è necessario fare una valutazione-terapia della
situazione abusante.
Principalmente dovrà essere considerata la riorganizzazione delle risorse familiari intorno alla
rottura del segreto sull'abuso, che probabilmente farà emergere problemi pregressi di ogni singolo
componente della famiglia, che verranno violentemente riattivati a contatto con una crisi tanto grave.
È molto alto il grado di sofferenza connessa al raggiungimento di una nuova consapevolezza della
situazione. È necessario del tempo perché questo stato d'angoscia sedimenti almeno al punto da
diventare comunicabile ed elaborabile, tempo che andrà aspettato prima di giungere a conclusioni
sulle risorse familiari.
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Attraverso la fase di valutazione sarà anche necessario raggiungere, il più precocemente possibile,
una previsione di quali siano gli individui su cui è realistico contare per assicurare protezione al
minore, che deve trovare un ambito sufficientemente stabile ed affettivamente valido per continuare
il proprio percorso evolutivo, in attesa che un successivo lavoro psicologico possa renderlo ancora
più adeguato a tutte le sue necessità di riparazione.
Gli adulti considerati "protettivi" dovrebbero avere due attitudini complementari:

la capacità di provvedere ad una tempestiva e duratura tutela del minore, assicurando così
l'interruzione definitiva dell'esperienza traumatica (e ciò implica la loro consapevolezza che
l'abuso si è realmente verificato);

e la capacità di confrontarsi con il trauma avvenuto e con le conseguenze ad ogni livello.
Purtroppo non sempre esiste questa ricchezza di risorse: anzi sono frequenti i casi in cui si
verifica uno "scollamento" tra i due fattori, con la conseguenza di un trascinamento in
direzione negativa anche di quella attitudine che l'adulto possiede e che inizialmente
sembrava sufficientemente valida.
Ne discende che predisporre un intervento valutativo di una conveniente durata potrà garantire
informazioni utili anche sulle risorse effettive a disposizione della vittima, con la quale non è
neppure pensabile un progetto di cura se non dopo aver attivato un assetto di vita contenitivo, stabile
ed affettivo.
La proposta terapeutica viene fatta ai genitori in un incontro, durante il quale vengono comunicati
loro gli elementi di sofferenza, sia del bambino che della famiglia, emersi negli accertamenti
effettuati. È importante raccogliere le loro reazioni a questa comunicazione perché possono offrire
indicazioni utili sulla prognosi dell'intervento stesso.
L'aspetto problematico fondamentale di una terapia familiare riguarda ciò che è avvenuto "prima"
del comportamento disfunzionale: si ritiene, infatti, che nessuna ricostruzione efficace delle relazioni
potrà aver luogo senza che siano messi a fuoco gli errori che hanno accompagnato il sorgere e il
protrarsi delle situazione traumatica. Tale trattamento tenta di realizzare il recupero dell'intero
gruppo familiare attraverso il cambiamento dei meccanismi comunicativi e dei giochi interattivi,
evitando le rotture che si hanno necessariamente se si procede unicamente in modo punitivo.
Il trattamento accettato
Può accadere che nei genitori si evidenzi una preoccupazione reale per il benessere psicofisico del
figlio (una preoccupazione che prescinde dal timore che il minore possa essere allontanato dalla
famiglia) e che emergano angosce e problematiche che provocano una richiesta spontanea di aiuto.
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Sembrerebbe il caso ideale naturalmente, ma sorprendentemente sono proprio i casi di violenza
intrafamiliare quelli in cui si verifica più spesso una risposta di questo tipo. Nei casi di violenza
extrafamiliare c'è maggior tendenza a negare e rimuovere l'episodio di violenza e le sue conseguenze
psichiche, tendendo a far prevalere una logica di vendetta giudiziaria, senza tener conto delle
conseguenze che l'iter giudiziario provoca nel bambino vittima dell'abuso.
In questi casi ad esito favorevole è possibile, senza aspettare che sia il giudice a disporre la terapia
dopo l'accertamento del caso, proporre direttamente una proposta terapeutica articolata, stabilendo
un preciso contatto con la famiglia del minore.
Il trattamento non accettato
La proposta terapeutica può essere, però, anche rifiutata dalla famiglia.
Questo è un evento frequente nelle violenze sessuali extrafamiliari, in cui i genitori, accecati dal loro
bisogno di vendicarsi dell'abusante in sede giudiziaria, minimizzano o trascurano del tutto le
esigenze di riparazione del danno psicologico che ha subito la vittima.
Purtroppo non esistono strumenti per far accettare un intervento in questi casi, ma è possibile
pensare ad una forma di tutela da parte di una rete di servizi per accorgersi in tempo dei segni di un
eventuale scompenso psichico del minore. La segnalazione di rischio ai servizi sociali e al servizio
materno-infantile può contribuire ad attuare un'azione di prevenzione e controllo, ma le difficoltà che
si incontrano nella collaborazione e nell'integrazione di un intervento di rete, rendono estremamente
difficoltoso, attualmente, questo percorso.
Quando il rifiuto della proposta terapeutica avviene nei casi di abuso intrafamiliare, se il rischio per
la vittima di subire altri episodi di abuso è troppo elevato o se le condizioni del contesto ambientale
sono fortemente degradate, si deve ricorrere agli interventi sociali e a quelli giudiziari in un'ottica di
controllo, ma non sempre di riparazione.
Gli interventi possibili possono essere vari: l'allontanamento dell'abusante dalla famiglia,
l'allontanamento del minore abusato, l'affidamento intrafamiliare e l'affidamento preadottivo
extrafamiliare. Tutti questi provvedimenti hanno ripercussioni drammatiche sul bambino che, oltre
alla violenza sessuale, subisce una perdita affettiva.
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3.3. L'intervento sui fratelli del minore sessualmente abusato
Nella consulenza alla famiglia spesso si trascurano i fratelli e le sorelle della vittima. Essi possono
soffrire del cosiddetto "senso di colpa del sopravvissuto" (chiedendosi "Perché non è capitato a me?"
oppure "Quando potrà capitare a me?").
Così il terapeuta deve preparare i genitori a dare una spiegazione dell'evento agli altri figli, adeguata
alla loro età.
È inoltre necessario considerare che i fratelli, al pari della vittima, dovranno ristabilire delle
condizioni di fiducia all'interno della famiglia ma, nel contempo, saranno anche costretti a
comprendere perché il familiare responsabile dell'abuso potrebbe non costituire più una parte
importante nella loro esistenza. Non va trascurato, infatti, che anche questi minori possono avere
interrogativi da porre a proposito dell'abuso sessuale, cui bisogna rispondere: d'altra parte, la natura
traumatica degli eventi legati ad un abuso sessuale intrafamiliare può avere indotto, anche in loro,
sintomi post-traumatici, che vanno trattati.
Infine, è possibile che altri fratelli siano stati vittime di abuso sessuale, per cui può essere indicata in
casi simili una validation estesa a tutto il gruppo dei bambini della famiglia in terapia, se non altro
per evidenziare se l'impatto dell'abuso del fratello o della sorella abbia prodotto su di loro effetti
disturbanti. In tale caso, anch'essi potranno essere sottoposti ad un intervento terapeutico.
3.4. La terapia dell'abusante
Nei confronti dell'abusante a danno di minori l'intervento punitivo sembra essere quello più
utilizzato. Ma si è diffusa una teoria che ritiene che, per poter aiutare le famiglie incestuose, è
necessario un intervento terapeutico anche nei confronti dell'abusante.
Sembra, infatti, che per tutelare l'infanzia dalla reiterazione del crimine non basti utilizzare la pena
detentiva come deterrente, ma sia necessario trovare il modo per far riemergere ed elaborare, negli
autori della violenza, i traumi infantili subìti (visto che la maggior parte degli abusanti sembra essere
stato vittima nell'infanzia di violenze sessuali) o comunque per far recuperare loro una correttezza di
comportamento.
L'obiezione maggiore a questa proposta è stata quella che non si può "curare" chi si rifiuta di
collaborare. Alcune esperienze di psicoterapie di abusanti non volontarie hanno però dimostrato che
è possibile ottenere dei risultati anche senza un'iniziale piena motivazione del paziente. Infatti la
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coazione può svolgere una funzione insostituibile nell'avviamento della terapia; lo sviluppo di
quest'ultima, invece, è affidato alla capacità e alla possibilità dei terapeuti di stimolare, nei soggetti
coinvolti, una motivazione autonoma al cambiamento, affrontando e superando le relative resistenze.
Anche in Italia dagli anni Novanta si è cominciato ad operare in questa direzione e sono stati ottenuti
ottimi risultati anche attraverso l'accettazione di un esplicito collegamento fra contesto giudiziario e
terapeutico. Secondo questa corrente di pensiero, se venisse privilegiata, nei confronti degli abusanti,
la strada della terapia piuttosto che quella della repressione i costi economici sarebbero certamente
molto elevati, essendo necessari terapeuti altamente specializzati, ma sarebbero sempre inferiori ai
costi che la società deve pagare per le spese detentive di questi soggetti ed inoltre sarebbero inferiori
le loro probabili recidive.
Non tutti però sono convinti che sia possibile recuperare i legami familiari tra il minore e l'abusante
quando l'abuso sessuale si è verificato, perché in questi casi il rapporto tra i due soggetti è stato
completamente compromesso.
Fondamentale è la capacità dell'abusante di assumersi la responsabilità di quanto accaduto. Ma
l'ammissione dei fatti non basta. Infatti non sono affatto infrequenti situazioni in cui, magari
parzialmente e con una certa minimizzazione, si arriva a questo risultato. Tuttavia esso non è
sufficiente per dare una decisiva svolta alle distorsioni da cui è stata segnata la relazione con la
vittima e il complesso dei rapporti familiari.
In fasi successive dovranno essere affrontate, oltre alla negazione dei fatti:

la negazione di colpevolezza: cioè l'essere stati animati da precise scelte strategiche nel
preparare e compiere l'abuso, ben sapendo che proprio di questo si trattava;

la negazione di responsabilità: cioè di intenzionalità libera per quanto possibile da
condizionamenti esterni, ai quali non può essere attribuita che un'importanza marginale
rispetto all'assunzione del comportamento abusante;

la negazione dell'impatto: cioè del fatto che quanto avvenuto ha comportato conseguenze
altamente traumatiche per il minore che vi è stato coinvolto.
Dunque, non devono più rimanere all'abusante "scappatoie" come l'attribuzione di pensieri incestuosi
all'alcool, o alle più varie cause di infelicità e rabbia, o alle presunte inadempienze della consorte; né
deve continuare l'illusione che il figlio, essendo piccolo, non abbia capito il significato di quegli
"speciali giochi" e che quindi possa facilmente dimenticarli senza conseguenze. Egli deve prendere
coscienza che i danni inflitti al minore sono attribuibili soltanto ai propri tratti patologici che invece,
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spesso, tende a considerare intrinseci al modo di essere della vittima in quanto conseguenza dei
comportamenti di questa: in tal modo cerca di trovare un'attenuante al proprio comportamento.
Dopo un'approfondita elaborazione di questi temi, nel caso di abuso intrafamilaire, si potranno
valutare - ed eventualmente rinforzare - le possibilità residue del genitore di riassumere il suo ruolo
affettivo. Per raggiungere questo risultato conteranno non soltanto le buone intenzioni, ma anche le
prove date nel passato rispetto a tali funzioni: infatti, soggetti che avevano espresso in precedenza
anche buone attitudini di accudimento e di reale vicinanza affettiva con al vittima e gli altri figli
potrebbero riprendere un ruolo parentale significativo.
Riguardo all'intervento terapeutico dell'abusante è importante il parere espresso da un
endocrinologo, il professore Aldo Isidori direttore della cattedra di andrologia all'Università "La
Sapienza" di Roma, sulle terapie ormonali (in realtà "anti-ormonali" come egli afferma) e sui loro
margini di applicazione in caso di comportamenti sessuali violenti sui minori.
Il problema della “pedofilia” è innanzi tutto più un problema di natura psicologico-sociale che
strettamente medico.
Basti pensare che nell'antichità i rapporti tra adulti e minori erano ammessi, codificati all'interno di
una cornice culturale definita, sicuramente differente rispetto a quella attuale.
È in quest'ambito che sorge la definizione di "pedofilia": deviazione rispetto all'istinto sessuale
riproduttivo su cui si innesta poi la sessualità adulta nelle sue componenti psicologiche, simboliche e
culturali.
Bisogna ricordare che, riguardo alla possibilità di utilizzare il trattamento farmacologico nei
confronti degli abusatori, si pone un problema etico: la dichiarazione di Helsinki del 1964 afferma
chiaramente che non si può somministrare niente a nessuna persona se non si ha il suo consenso.
La Convenzione di Oviedo (nelle Asturie) del 1997, inoltre, sostiene che è necessario il consenso
informato da parte dei soggetti coinvolti in interventi medici, che possono ritirarlo in qualsiasi
momento. L'art. 5, infatti, vincola qualsiasi intervento ad una preliminare libera dichiarazione di
consenso da parte delle persone coinvolte, le quali devono essere informate sullo scopo, la natura, le
conseguenze ed i rischi dell'intervento stesso.
Se in altri paesi (come ad esempio Germania e Stati Uniti) è prevista per legge la possibilità della
castrazione chimica - o comunque della somministrazione di una terapia in modo coercitivo - nei
confronti dei criminali sessuali (come gli stupratori abituali) a prescindere dal loro consenso, in Italia
tale tipo di castrazione è incostituzionale: l'art. 27 della Costituzione italiana, infatti, affermando al
terzo comma che le « pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», vieta
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qualunque trattamento che violi l'integrità fisica (inclusi perciò trattamenti cruenti, come la
lobotomia e la sterilizzazione, e non cruenti, come l'uso di psicofarmaci e l'ipnotismo), in quanto
considerati inammissibili perché ledono la dignità umana e non tendono, invece, come dovrebbe
essere allo scopo rieducativo della pena.
Il modello coercitivo, nell'ordinamento italiano, non è di per sé previsto se non in specifiche ipotesi
tipiche:

quando il soggetto ha crisi acute della patologia di cui è affetto ed è provata la sua incapacità
di intendere e di volere (anche parziale) può essere sottoposto ad un trattamento sanitario
obbligatorio: ma questa non pare essere un'ipotesi concreta in cui si può trovare un abusante;

al fine di individuare, con le forme della perizia, patologie sessualmente trasmissibili (ad
esempio l'HIV) l'abusante è sottoposto ad accertamenti coattivi, qualora le modalità del fatto
commesso possano prospettare un rischio di trasmissione di tali patologie nei confronti del
minore vittima dell'abuso sessuale (art. 16 L. 66/1996);

il giudice può condizionare l'emanazione della sospensione condizionale della pena alla
partecipazione, da parte dell'abusante, a trattamenti psicoterapeutici, ai quali però egli dovrà
comunque partecipare volontariamente: dunque, se vuole ottenere la sospensione
condizionale dovrà accettare il trattamento.
3.5. La terapia individuale della vittima di abuso sessuale
In un modello integrato, accanto alla terapia familiare, comune con altri modelli di intervento, sono
state inserite proposte terapeutiche che riguardano direttamente le vittime dell'abuso, proposte in un
certo senso privilegiate rispetto alla terapia relazionale del gruppo familiare.
Ci sono due ordini di fattori che hanno sollecitato questa scelta: l'alta incidenza di psicopatologia
grave nei bambini abusati e la valutazione retrospettiva, evidenziata ormai da molte ricerche, di
adulti affetti da patologia psichiatrica che hanno rivelato esperienze infantili di violenza sessuale.
Nel lavoro clinico uno stimolo ulteriore a percorrere una strada diversa è stato dato dall'osservazione
costante che i bambini abusati non vogliono parlare della loro esperienza.
I tentativi volti a far descrivere il loro vissuto si infrangono quasi sempre contro un silenzio ostile.
Alla base di questo comportamento non c'è solo la vergogna, la diffidenza verso un estraneo e la
paura di vendette familiari, ma qualcosa di più profondo e radicale. Sembra, infatti, che i minori
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vittime di violenza sessuale tentino disperatamente di rimuovere ciò che hanno vissuto e le angosce
connesse, in modo tanto più rigido quanto più grave è stato il trauma negli affetti. Mettono in azione,
cioè, dei meccanismi di difesa contro l'angoscia del ricordare che sono, per la loro rigidità,
responsabili della strutturazione patologica tardiva della loro personalità. Non è in realtà l'episodio di
violenza subita in se stesso che provoca direttamente danni allo sviluppo psichico, ma l'attivazione di
questi meccanismi di difesa e la necessità di mantenerli costantemente efficienti. La negazione, la
rimozione, l'identificazione con l'aggressore e la scissione della componente affettiva non devono
permettere il riaffiorare di un segreto angoscioso.
I bambini hanno bisogno dell'immagine interna di un genitore sufficientemente "buono". La
componente violenta e abusante del genitore viene negata, i sentimenti di rabbia per il tradimento
subìto vengono repressi e rivolti verso se stessi o spostati su altre persone. Dunque, nella loro mente
preferiscono convincersi che ciò che è accaduto loro è giusto e, senza alcun dubbio, è accaduto per
colpa loro. Questa colpa primaria devastante comporta nei loro ragionamenti un'equazione semplice
e lineare che si può ridurre a: "i bambini buoni vengono amati; io non sono stato amato, io non sono
buono".
Attraverso questi meccanismi il bambino temporaneamente ottiene una serie di vantaggi secondari:

controlla l'angoscia vissuta nell'esperienza traumatica;

controlla il senso di colpa primario;

evita la depressione derivante dalla perdita di amore.
Ma questo pensiero, che può arrivare a far dubitare il bambino del diritto di esistere, si autonomizza
dal resto della personalità e, in mancanza di un intervento, lo espone ad una progressiva sensazione
di vulnerabilità, a fallimenti scolastici prima e professionali poi, a gesti autolesivi inconsapevoli e
anche consapevoli che possono arrivare al suicidio. Come forme reattive al grave vissuto depressivo,
quando prevale il meccanismo di identificazione con l'aggressore, nel minore possono emergere
comportamenti maniacali sempre più aggressivi, atti compulsivi di criminalità minorile ed infine, da
adulti, essi tenderanno a ripetere il modello violento subìto da bambini, diventando genitori abusanti.
La terapia familiare si occupa solo marginalmente del mondo interno del minore sessualmente
abusato, lasciando del tutto inalterato un complesso di sentimenti che hanno un alto potenziale
patogeno. Il miglioramento della comunicazione nell'ambiente abusante e del suo sistema di
relazioni non sono sufficienti per capovolgere le dinamiche di progressivo danneggiamento della
personalità interna della vittima, perché non potrà mai manifestare i suoi sentimenti repressi.
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Uno degli scopi principali di una terapia di un minore sessualmente abusato è quello di sviluppare in
quest'ultimo la consapevolezza di essere vittima e non invece responsabile dell'accaduto. La
confusione di ruolo che si produce fra l'adulto e il bambino in questi casi è così grande da creare nel
minore una grossa difficoltà a superare il senso di colpa che lo lega al sospetto di essere stato egli
stesso, con il proprio comportamento, a provocare o a non rifiutare il rapporto sessuale.
È necessario, quindi, prendersi cura di questo grave disagio e cercare di aiutare il minore a
ricostruire il suo mondo interno, attraverso l'esperienza di relazione con un adulto che può
accogliere, contenere, comprendere la sua sofferenza e che permetta l'espressione della rabbia e della
disperazione.
È necessario favorire "movimenti di lutto" rispetto a ciò che è perduto per sempre (la propria
infanzia, la possibilità di poggiare fiduciosamente su una concezione ottimistica del mondo e della
vita), anche se il minore troverà la forza d'animo per andare avanti. Ovviamente tale compito sarà
particolarmente doloroso quando il bambino dovrà rassegnarsi ad ammettere che tutte le persone di
primaria importanza affettiva per lui, da cui per definizione di ruolo si aspettava cura e protezione,
l'hanno abbandonato.
Il bambino deve imparare, aiutato dal terapeuta, a sviluppare la capacità di non cedere alla lusinga di
concepire false idealizzazioni nei confronti di alcuno, sia che faccia parte del suo passato che del suo
presente o futuro. Spesso, infatti, i minori vittime di tali situazioni cercano di compensare il loro
sentimento di svuotamento personale, causato dal riconoscimento del fallimento relazionale,
idealizzando tutti i soggetti con cui hanno successivi rapporti. In questo modo si espongono a
successive delusioni, che vanno assolutamente evitate in quanto rischiano di far franare
definitivamente un terreno emotivo già molto compromesso. Occorrerà invece aiutare il minore a
rendersi conto, in modo realistico, delle risorse accessibili e fruibili, imparando ad apprezzarle e
valorizzarle anche se non rispondono all'immagine che essi hanno del rapporto di cura, interiorizzata
durante le fasi più primitive del processo di attaccamento alle figure parentali.
Le psicoterapie che utilizzano tecniche di gioco sono più adatte di quelle che utilizzano tecniche
verbali, perché l'ostilità e la diffidenza iniziali possono rendere impraticabile lo scambio verbale.
Attraverso il gioco, invece, il bambino non racconta, ma rappresenta la sua angoscia e, aiutato
emotivamente dal terapeuta, impara ad accettarla, a confrontarsi ed a gestirla. Man mano che si
rafforza l'alleanza terapeutica, il minore recupera lentamente il suo mondo emotivo, la fiducia
nell'altro, la possibilità di abbandonare i rigidi meccanismi di difesa, facendo emergere i suoi
sentimenti più profondi. Solo in questo momento, dopo molti mesi o a volte anni di terapia, accetterà
di parlare di ciò che è accaduto.
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È importante evidenziare la necessità che il terapeuta del bambino sia diverso dal quello familiare
per mantenere uno spazio protetto del quale il minore ha estremamente bisogno per potersi fidare ed
in cui possa esporre le sue problematiche psichiche senza rischi di mantenimento del segreto.
Una tipologia ben precisa di intervento riparativo nei confronti del minore sessualmente abusato non
può essere ipotizzata a priori, dato il carattere estremamente vario delle motivazioni e degli effetti
del comportamento violento: ogni situazione, dunque, va vista nella sua concretezza. Tutto ciò è
però possibile soltanto con la predisposizione di una collaborazione multidisciplinare effettiva tra
tutti gli operatori sociali, con un concreto potenziamento delle strutture esistenti (per esempio i
consultori familiari) e con la costituzione di centri e di equipe specializzate in grado di fornire, fin
dal primo momento, una risposta adeguata ai problemi e ai bisogni del bambino.
Il trattamento terapeutico del minore sessualmente abusato è, infatti, un itinerario complesso che
pone anche seri problemi di continuità della terapia che non sempre è garantita dai genitori. In queste
situazioni possono essere importanti il sostegno del Tribunale per i minorenni e la funzione di
sorveglianza dei servizi sociali affinché il trattamento venga continuato per tutto il tempo necessario.
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Capitolo IV
Una storia vera
4.1. La storia di Claudia
Ho avuto la possibilità di seguire in prima persona la storia di una minore di 17 anni, Claudia
(chiamata in questo ambito con tale nome per poter così proteggere la sua identità) - che aveva
denunciato il padre per abusi sessuali - e la vicenda giudiziaria conseguente, che non si è -ad oggiancora conclusa.
Il fatto è emerso in conseguenza al fatto che il padre della minore il 14//2007 ha tentato di togliersi la
vita, ingerendo della creolina, e per questo è stato ricoverato all'ospedale. I carabinieri del paese
(della campagna Veneta) in cui vive Claudia, informati dell'accaduto, hanno effettuato tutte le
verifiche del caso ed hanno sentito, nell'immediatezza dei fatti, i familiari dell'uomo al fine di
accertare le motivazioni di tale gesto.
È in quel momento che una delle figlie dell'imputato, Claudia, in caserma, alla presenza del fratello
Pietro, confida al maresciallo dei carabinieri la terribile verità che si nasconde dietro quel tentato
suicidio: da anni il padre abusa sessualmente di lei.
Tutto è cominciato circa cinque anni prima (era il 2002), quando l'uomo, solo in campagna con la
figlia Claudia, ha avuto un rapporto sessuale con lei.
Dopo questo episodio, molti altri se ne sono verificati con una cadenza quasi periodica, fino
all'ultimo, avvenuto solo alcuni giorni prima, nella notte tra il cinque ed il sei di quel mese (ottobre),
all'esito del quale la ragazza, esasperata, si è confidata con il fratello maggiore, Pietro, che in quei
giorni era ritornato a casa dal luogo ove abitualmente dimora per ragioni di lavoro. È proprio costui
che in quella circostanza riferisce al maresciallo di aver affrontato il padre, al quale aveva rinfacciato
quanto appreso dalla sorella; l'uomo piangendo aveva implorato allora perdono minacciando, in
mancanza, di suicidarsi.
Tali fatti sono riferiti dai due giovani senza difficoltà e ritrosie al maresciallo che cerca di superare
l'imbarazzo e la reticenza di tutti i familiari, i quali tra "sguardi bassi" e "mezze parole" si sono
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nascosti dietro problemi quali il numero non indifferente dei figli o una malattia della pelle da cui
l'imputato è affetto al fine di fornire una spiegazione dell'accaduto.
Nel corso dell'udienza ex art. 392 c.p.p. la minore ha rievocato gli abusi di cui è stata vittima,
fornendo una ricostruzione dei fatti in contestazione lineare e priva di contraddizioni.
L'imputato - in base a come lo ricorda Claudia - era il padre-padrone, arbitro assoluto della vita della
figlia, che doveva essere sempre lì pronta ad esaudire i suoi desideri e a prestargli assistenza
continua, sulla quale l'uomo sfogava i propri istinti sessuali, non senza cercare nella ragazza una
risposta alle sue insicurezze sul piano affettivo.
Claudia ha ricordato che il padre aveva avuto con lei il primo rapporto sessuale nell'estate del 2002,
quando i due erano soli in campagna. Fin dall'età di sei anni, infatti, era solita aiutare il padre nel
pascolare e nel mungere gli animali. In quell'occasione suo padre, approfittando del fatto che la figlia
dormiva in un letto accanto al suo, si introdusse di notte nel letto della minore e, dopo averle sfilato
il pigiama e le mutandine, compì l'atto sessuale.
Claudia ha ricordato la sensazione di dolore fisico, il suo smarrimento, la sua iniziale incapacità di
percepire con immediatezza il significato dell'accaduto (facilmente comprensibile in ragione della
sua tenera età - all'epoca aveva soltanto undici anni) e il suo sconvolgimento che le impedì di alzarsi
dal letto la mattina successiva. La sua ritrosia e l'imbarazzo nel rievocare certi particolari sono stati
considerati dal collegio giudicante indici rivelatori della genuinità della sua deposizione.
La minore ha aggiunto che gli abusi si ripeterono in media circa due volte al mese, spesso nei
momenti in cui la ragazza accudiva il padre che soffriva di asma. Ha inoltre rievocato il legame
morboso con il genitore, il quale la chiamava in continuazione anche durane la notte per ricevere da
lei assistenza, salvo poi approfittare della situazione mentre la moglie ed il fratellino più piccolo (che
all'epoca aveva quattro anni) dormivano nel letto matrimoniale. Claudia, in quelle occasioni, si
tratteneva a dormire nel letto con i genitori ed il fratellino: durante la notte il padre abusava di lei
sessualmente.
La madre, portatrice di handicap ed invalida al 75%, era una figura assente nella vita della minore e
neppure comprendeva quanto accadeva intorno a lei. Era facile allora per il marito eseguire
meccanicamente quegli atti frettolosi in modo che la donna non si accorgesse di nulla, approfittando
del suo sonno e delle sue precarie condizioni mentali.
Claudia, se all'inizio di tutta la vicenda era incapace di comprendere del tutto il significato di quanto
accadeva, ha acquisito col tempo la consapevolezza della gravità dei comportamenti del padre ed ha
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cominciato a provare un naturale sentimento di ribellione e di protesta che è sfociato, in mancanza di
una soluzione al suo dramma, in un comportamento autodistruttivo.
Gli abusi sessuali sono comunque continuati fino ad arrivare all'ultimo episodio di violenza
verificatosi nella notte tra il 5 ed il 6 ottobre 2007, quando l'uomo è entrato nella stanza dove
dormiva la figlia, si è infilato nel suo letto, l'ha immobilizzata, le ha messo la mano sulla bocca per
impedirle di gridare ed ha abusato sessualmente di lei usando la forza. È probabilmente in questo
momento che in Claudia è nata la determinazione di confidare il proprio dramma ad una persona
fidata quale il fratello Pietro.
Infine il 9 ottobre il padre, dopo averla seguita per strada, ha aspettato che la ragazza rientrasse
nell'abitazione per malmenarla accusandola, accecato da una folle gelosia, di andare in giro alla
ricerca di altri uomini. Probabilmente anche questo episodio ha dato a Claudia la forza di parlare:
essa, esasperata, si è difesa minacciando il padre di raccontare tutto al fratello maggiore ed allora
inutili sono state le parole dell'uomo che ha cercato di farla desistere da quel proposito. La ragazza
era determinata, il padre lo ha compreso e per questo si è allontanato per due giorni da casa.
Claudia finalmente si è confidata con Pietro, anche se all'inizio è prevalso in lei il pudore e la
vergogna, che le hanno impedito di dire subito tutto al fratello ritornato a casa: si è limitata dunque
ad accennare all'ultimo episodio di violenza cui è stata vittima. Egli ha avuto una reazione immediata
e ha affrontato il padre da solo, mentre la ragazza si trovava al di là della porta e sentiva ogni parola:
gli ha rinfacciato di aver abusato di una bambina, ha chiesto (forse più a se stesso) come ciò sia stato
possibile ed è rimasto sconvolto alle parole dell'uomo, il quale dinanzi al figlio maggiore, deluso ed
incredulo, non ha fatto altro che dire: "Mi dispiace".
La ricostruzione dell'episodio resa dalla minore trova riscontro nelle dichiarazioni del fratello
(sentito all'udienza). Quest'ultimo però, se nell'immediatezza dei fatti, ha ricordato che il padre
chiedeva perdono di fronte alle accuse mossegli dalla figlia, in dibattimento ha negato questo
particolare, affermando che l'uomo, di fronte a tali accuse, aveva taciuto ed era andato via. Tale
comportamento è stato considerato dal collegio giudicante come un «maldestro tentativo di difendere
il padre, cercando di screditare la veridicità delle affermazioni della sorella, colpevole, secondo lui,
di aver avuto rapporti sessuali con un ragazzo a lui inviso perché albanese, e per ciò solo non
meritevole di fiducia e di considerazione, allorquando riferisce degli abusi subiti dal padre».
Claudia è stata accusata anche dalla sorella (sentita nella medesima udienza) di quanto stava
accadendo, perché essa riteneva che gli effetti negativi della vicenda si sarebbero riverberati sui
fratelli piccoli, che ora invece dovevano essere accuditi.
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La sorella ha così proposto di risolvere il problema facendo risultare che Claudia si era inventata
tutto e che la stessa aveva avuto in effetti rapporti sessuali solo con il proprio ragazzo. Ma questo è
stato un atteggiamento secondario, in quanto nell'imminenza dei fatti anche lei (come il fratello
Pietro) ha sostenuto Claudia, anche se dopo ha negato il tutto.
Questo è stato anche l'atteggiamento dei suoi familiari, i quali durante le indagini preliminari hanno
cercato di convincere la ragazza dell'opportunità di ritrattare le accuse ed in dibattimento hanno
cercato di fornire l'immagine di una famiglia serena colpita, purtroppo, dalla "sciagura di una figlia
impazzita".
Tra i vari motivi che stanno alla base di tale comportamento ci sono sicuramente lo sconvolgimento
che le rivelazioni di Claudia hanno determinato all'interno del suo nucleo familiare, la vergogna, la
paura, lo scandalo e l'emarginazione che sicuramente avranno assalito i suoi familiari.
La volontà di salvare l'onore della propria famiglia si è dunque tradotta inevitabilmente nel rifiuto di
sostenere Claudia in questo momento per lei difficile e nell'abbandonarla sola nella sua disperazione.
È stata così proposta una figura della ragazza come una "fredda calcolatrice" che, pur di soddisfare il
proprio egoistico desiderio di stare con il proprio ragazzo, si è vendicata del padre rivolgendogli
accuse infamanti.
Una forte difesa in questo senso dell'imputato è emersa anche dalle parole della sorella che dichiara
di non aver creduto alle parole di Claudia con l'unica giustificazione che il padre non avrebbe mai
fatto una cosa del genere. Il collegio giudicante ha però notato la sua sofferenza nel ricordare certi
fatti, la sua volontà di cancellare certi ricordi, di autoconvincersi che quella realtà, così atroce ed
inaccettabile, non poteva essere vera.
Va notato come di fronte alle dichiarazioni tra loro contrastanti dei familiari dell'imputato, vi sono
quelle specifiche, dettagliate e coerenti della persona offesa, più volte ribadite nel corso
dell'incidente probatorio.
Il racconto di Claudia non è apparso al collegio giudicante «l'ordito di una trama freddamente
calunniosa, ma è tratteggiato da sofferenza per lei e per i suoi familiari; inoltre non è dato cogliere in
esse alcuna espressione di rancore, di odio nei confronti del genitore». Tali parole hanno anche
ottenuto riscontri sia dalle ulteriori risultanze probatorie, sia dalle perizie mediche e psicologiche
svolte sulla minore.
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4.2. La perizia medico-ginecologica
Il CTU ha dovuto effettuare una visita ginecologica sulla minore (accompagnata dalla sorella) allo
scopo di:

verificare eventuali segni di deflorazione e se la stessa è usa al coito;

verificare la presenza di violenze psico-fisiche subite;

procedere ad eventuali altri accertamenti diagnostici necessari.
Obiettivi specifici della perizia

Accertare un'eventuale deflorazione dell'imene e possibilmente datare l'attività sessuale;

identificare lesioni che possono essere trattate e curate;

raccogliere campioni orali e vaginali, che possono avere rilevanza legale;

compiere uno screening riguardo a malattie sessualmente trasmesse e ad una eventuale
gravidanza;

rassicurare la vittima rispetto al suo stato di salute e spiegarle che non è stata lesa
fisicamente in modo grave;

valutare lo stato mentale ed emotivo della vittima.
Nell'esecuzione degli accertamenti clinici e strumentali atti a valutare i quesiti posti, è stata tenuta in
conto la storia della vittima e sono stati seguiti i suggerimenti tratti dalle "Linee guida del Committe
on child Abuse and Neglect" del 1991. Tale Committe delinea il grado di certezza dell'abuso sessuale
dei minori attraverso una prova conclusiva di abuso sessuale (presenza di sperma) ed una prova
suggestiva di abuso sessuale (abrasioni e contusioni dell'interno delle cosce, dei genitali, cicatrici,
lacerazioni o rottura dell'imene, cicatrici o lacerazioni delle piccole labbra, ecc.).
Nel visitare la paziente saranno ricercati gli indicatori di abuso sessuale secondo gli indicatori di tali
linee guida.

Sono indicatori non specifici di abuso sessuale quelle condizioni, spesso rilevate minori, che
non indicano abuso sessuale ma che possono essere suggestive di abuso se confermate da
altri fattori. Ad esempio: la presenza di condilomi, edema dell'imene, infiammazione della
vagina (specie se il quadro è accompagnato da dolorabilità), adesione delle grandi labbra,
restringimento dell'imene.
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
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Sono invece indicatori specifici di abuso sessuale quelle condizioni che permettono di avere
certezza di abuso sessuale. Ad esempio: lacerazione dell'imene della vagina, attenuazione
dell'imene, restringimento o appiattimento, grave arrotondamento del margine dell'imene,
vascolarizzazione.

Infine sono indicatori conclusivi di abuso sessuale quelle condizioni che indicano che
l'abuso sessuale è avvenuto con certezza nei minori al di sotto dei dodici anni, in quanto in
soggetti più grandi di età potrebbero essere condizioni che indicano un'attività sessuale. Ad
esempio: neisseria ghonorrea, gravidanza, presenza di sperma, HIV.
La visita della minore
Nella fase preliminare il ginecologo ha parlato con la minore dapprima di argomenti neutri e per lei
comunque interessanti: la scuola, lo sport, i suoi hobbies. Creatosi un rapporto di fiducia, Claudia ha
cominciato a raccontare gli aspetti più confidenziali, in particolare ha parlato dell'amore che prova
per un suo coetaneo: bello, sportivo, tenero e gentile. "Al suo lui vuole un gran bene" e ha detto che
non lo lascerà nonostante le minacce del padre che le proibisce di vederlo. Ha parlato di suo padre
come se fosse un "padrone". A questo padre però vuole bene, nonostante spesso si ubriaca e
maltratta tutti. Comanda soltanto lui e sia lei che le sorelle devono ubbidire. La madre è come se non
esistesse: non è capace di fare molto, è distaccata dai figli e ubbidisce religiosamente al marito.
Claudia deve sostituirla in tutto e di questo ruolo appare alquanto contenta. Alla domanda "Sai cos'è
un rapporto sessuale?" ha risposto senza esitazione "Sì". Alla domanda più specifica "In cosa
consiste?" ha risposto con rossore e alzando le spalle dicendo: "Fare l'amore".
Dopo aver accertato che tra la minore e il ginecologo si era instaurato un clima di fiducia, è stato
illustrato a Claudia tutto l'iter diagnostico, spiegando l'uso di determinati strumenti (come lo
speculum, l'ecografe), rassicurandola che durante la visita non avrebbe mai avvertito alcun dolore.
Ottenuto il consenso a poterla sottoporre ad accertamenti diagnostici, si è passati alla fase esecutiva.
Fase esecutiva
Anamnesi familiare:

padre vivente di buona apparente salute, beve spesso e molto;

madre affetta da esaurimento nervoso ("Prende molte medicine per il nervoso di cui
soffre");
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
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anamnesi personale remota: non ricorda di aver avuto i comuni esantemi dell'infanzia, fatta
eccezione per alcuni episodi influenzali, afferma di essere stata sempre bene; normale l'iter
scolastico, non beve e fuma qualche sigaretta di tanto in tanto.
Anamnesi personale prossima: dichiara di avvertire spesso dei dolori al basso ventre, specialmente
durante i rapporti sessuali, ("Qualche volta un senso di bruciore giù"); mentre racconta sulle
modalità dei rapporti sessuali, si ha la sensazione che essi siano vissuti dalla minore come degli atti
dovuti, dovendo sostituire la madre.
Terminata la raccolta anamnestica, si è proceduto all'esame obiettivo generale e successivamente a
quello ginecologico.
Considerazioni
Dall'anamnesi comportamentale della minore il ginecologo ha potuto trarre le seguenti conclusioni.
Il contesto familiare in cui è nata e cresciuta e quello tipico della famiglia monogenitoriale:

il padre è il "patriarca egocentrico", fa uso eccessivo di alcol, è insicuro ed insensibile al
rifiuto della figlia al quale reagisce con un comportamento rabbioso e dominante, considera il
coniuge e i figli come oggetti di sua proprietà, usa la violenza e l'intimidazione per gratificare
le proprie esigenze emotive e si rivolge verso la figlia ed abusa mediante atti impulsivi e per
intimidazione.

La madre, assente e distaccata, appare impotente e dipendente; è a conoscenza dei fatti, ma
non riesce a proteggere la figlia, anzi sembra che spinga i figli ad essere sottomessi al padrepatriarca per evitare guai e per ottenerne il silenzio.

La vittima è cresciuta in un ambiente in cui non vi è stata comunicazione affettiva e ciò l'ha
portata ad una carente regolazione del proprio livello di attrazione emozionale, al
negativismo, all'incoerenza, all'imprevedibilità, all'impudenza e, in particolare, mostra elevati
livelli di affetti negativi e scarse emozioni positive.
Quando parla del proprio genitore prima lo disprezza, poi lo esalta, quasi lo difende e considera la
cosa quasi normale: si ha l'impressione che l'abusatore incestuoso abbia tentato di convincere la
vittima che è lei a "gradire" il rapporto, spingendola a negare il proprio imbarazzo e il forte disagio
nei confronti di quanto accade. I suoi sentimenti più profondi sono stati negati e reinterpretati in
funzione dei bisogni del suo abusatore, ma si risvegliano quando parla del suo nuovo amore: un suo
quasi coetaneo che ha incontrato andando a scuola. Stimolando questo suo fisiologico sentimento
giovanile, compare un'emozione positiva.
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Descrive il padre che, per puro egoismo, proibisce questa relazione, come un uomo piuttosto
inefficiente, aggressivo, soggetto a bere molto, lavorare raramente e ad essere ossessionato dal sesso.
Racconta, anche se con velato imbarazzo, della relazione con il padre e in che modo il papà la
toccava, ed alla domanda "Ti rendevi conto che faceva cose che non doveva fare?" risponde "Sì" ma
con un atteggiamento dubbioso.
Conclusioni
Dall'analisi e dall'esame obiettivo dei genitali, il CTU ha dedotto che la minore ha avuto rapporti
sessuali sicuramente vaginali e con molte probabilità anche anali.
L'inizio di tale attività, che è stata sicuramente frequente per le caratteristiche dell'imene e della zona
anale e perianale, è stata da lui datata con un buon margine di approssimazione a circa tre anni prima
del momento dell'accertamento.
La perizia medico-ginecologica inoltre conclude che lo sviluppo psichico della giovane corrisponde
all'età evolutiva dei 15 anni, essendo ella dotata di un grado di intelligenza che, se anche soffocato
dalle condizioni ambientali e socio-culturali in cui cresce, è da considerare nella norma.
La sua psiche ha indubbiamente subìto un trauma, che l'ha condannata a fare i conti in futuro con la
propria memoria (dal momento che quest'ultima sarà la mediatrice principale degli effetti della
vicenda sulla sua vita personale e sui successivi eventuali esiti).
4.3. Osservazioni sulle condizioni psicologiche della minore
La psicologa, su richiesta dell'autorità giudiziaria, ha fatto un'osservazione relativa alla condizione
psichica della minore.
Presso gli uffici della Procura è stata fatta un'audizione in cui Claudia è stata invitata a confermare le
proprie dichiarazioni fatte il 15/2007 (quando denunciò il padre per gli abusi sessuali subìti). Tale
fase è risultata particolarmente complessa per le condizioni psicologiche della ragazza, che è apparsa
agitata, confusa e spaventata. Par alcune ore la minore ha assunto un comportamento verbale
ambiguo, affermando di aver dichiarato il falso rispetto agli abusi, per vendicarsi del padre geloso e
possessivo. Nel corso dell'audizione ha poi manifestato una notevole sofferenza, con un tono
dell'umore instabile e tendenzialmente depresso, associato a sentimenti di paura a rilevanza clinica.
Ha così raccontato di aver paura della sorella e del fratello Pietro, dai quali sarebbe stata ricattata e
costretta a ritrattare quanto denunciato, per consentire al padre di rientrare in famiglia, evitando lo
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scandalo nel paese. Claudia sarebbe stata addirittura redarguita dalla sorella, che le avrebbe attribuito
un comportamento consapevole e consenziente nei fatti denunciati.
La ragazza, in uno stato di evidente prostrazione, ha chiesto di essere allontanata dalle figure
parentali, dalle quali si è sentita rifiutata e colpevolizzata di aver rovinato l'equilibrio del nucleo
famigliare. La dinamica relazionale dell'intera famiglia ha confermato la struttura paradossale della
stessa, caratterizzata da messaggi e comportamenti omissivi ed omertosi, tendenti a negare la realtà
per salvaguardare l'immagine di normalità.
Secondo la psicologa la permanenza in famiglia della minore dopo l'arresto del padre ha
determinato, nella sua struttura già fragile e compromessa per le violenze subìte, una rischiosa
condizione emotiva, che potrebbe avere gravi ripercussioni sull'equilibrio affettivo e sull'identità
della stessa.
La dottoressa ha affermato che lo stato psicologico di Claudia, che ha poi confermato la violenza del
padre, è caratterizzato dalla presenza di elementi nevrotici di origine traumatica con nuclei di ansia
ed angoscia generalizzati, che sfociano in persistenti disturbi del sonno (insonnia iniziale e tardiva)
con frequenti incubi notturni. La minore, collocata provvisoriamente presso un istituto, ha dunque
bisogno di uno specifico trattamento terapeutico e di un contesto relazionale rassicurante e
protettivo.
4.4. Interrogatorio del padre di Claudia
PM = Lei sa che è qui in qualità di imputato perché le viene contestato di avere abusato sessualmente
di sua figlia Claudia per un periodo che è durato più o meno 5 anni?
Imputato = Ma questo non è vero niente.
PM = Un attimo: adesso io le dico le cose e poi ne parliamo. Nell'invito che le è stato recapitato sono
anche state indicate le fonti di prova a suo carico, cioè le dichiarazioni accusatorie che sono state
rese da sua figlia in data 14//2007 davanti ai Carabinieri ed anche le dichiarazioni che sono state rese
dal fratello Pietro (anch'esso suo figlio). Inoltre sono state rese nuove dichiarazioni da Claudia
davanti all'autorità giudiziaria, cioè al pubblico ministero nella mia persona. Poi c'è stata una
relazione medico-ginecologica che a livello fisico ha riscontrato nella persona di sua figlia
l'abitudine alla consumazione di atti sessuali con penetrazione. Adesso lei è qui presente per rendere
interrogatorio. Ha facoltà di non rispondere alle domande che io le farò: vuole avvalersi di questa
facoltà o intende rispondere?
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Difesa = Tu dici le cose come stanno, poi...
I = Io intendo rispondere.
PM = Intende rispondere, va bene. Mi racconti, allora, i fatti come stanno.
Difesa = Quello che hai detto. Ripeti le stesse cose.
I = Il fatto è che io non ho commesso niente, questo è. Io non ho commesso niente. Io sto in galera e
non so niente.
PM = Ma...mi scusi...come è nata questa storia? Lei ha tentato di suicidarsi?
I = Sì.
PM = Bevendosi la creolina, è vero?
I = Sì.
PM = Sono venuti i Carabinieri a chiedere perché lei aveva tentato di suicidarsi; hanno fatto delle
indagini e da esse è emerso che lei abusava sessualmente di sua figlia Claudia.
I = Lei può dichiarare tutto, però la cosa non è vera.
PM = Lei si è inventata tutta questa storia, dunque?
I = Si è inventata perché io... stava con un albanese ed io con questo qua non volevo per nessun
motivo.
PM = Ho capito. E voi perché avete cercato di suicidarvi bevendo la creolina?
I = Che lei mi disse "Tu ti puoi anche ammazzare, tu puoi fare quello che vuoi tu a me!", che
mettiamo che stava insieme con questo.
PM = Cioè... voi avete bevuto la creolina perché...non ho capito.
I = Per suicidarmi, per non sentirla e non vederla più davanti.
PM = Vostra figlia?
I = E certo, dice una cosa del genere!
Difesa = Lui parla in dialetto. Voleva dire che quando lui ha ostacolato questo fidanzamento, questa
tresca...in sostanza la figlia ha detto: "Tu ti puoi anche suicidare, ma io non lascio quell'albanese". È
vero? (Si rivolge verso il suo assistito).
I = Sì.
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PM = Allora... qui è però necessario capirci perché vede...vostra figlia dice una cosa e voi ne dite
un'altra. Vostra figlia ha reso di fronte a me delle dichiarazioni molto precise e puntuali. E prima
ancora è stata anche sentita dai Carabinieri che hanno fatto l'informativa a me. Inoltre ho sentito
nuovamente vostra figlia in presenza di una psicologa e di un altro pubblico ministero e la ragazza
ha confermato le sue dichiarazioni e quanto detto, cioè ha confermato di aver subito degli abusi
sessuali da parte vostra già dall'età di anni, per cui io vi invito, se volete che la vostra posizione sia
chiara, a dire la verità perché facendo così non mi state aiutando.
I = Io sto dicendo la verità.
PM = E qual è questa verità, fatemela capire.
I = È questa.
PM = E qual è? Ditela.
I = Che non è successo niente. Io non ci avevo a mia moglie, non ci avevo mica la figlia. La figlia
l'avevo fatta mettiamo...che la dovevo violentare?!
PM = Ma l'ha detto vostra figlia tutto questo, non l'ho detto io.
I = Sono quattro femmine, non una.
Difesa = Lui vuol dire che ha sei figli, quattro femmine e due maschi.
PM = Allora spiegatemi tutto. Voglio sapere in maniera precisa: perché avete cercato di suicidarvi;
quando avete appreso dell'esistenza di questo fidanzamento tra vostra figlia e il ragazzo albanese; e
perché vi opponevate a questo fidanzamento.
I = Perché ce ne sono tanti italiani, si deve prendere uno così che non sa da dove viene e che razza
viene, ce ne è tanta gente italiana e per uno del genere si è subito legata
PM = Va bene, ...voi eravate contrario al fidanzamento?
I = L'andava aspettando in tutti i posti.
PM = E quando avete appreso che vostra figlia era fidanzata con questo ragazzo, che avete fatto?
I = Poi ho fatto che... mio figlio non c'era, lavorava via e allora io una sera dovevo andare da mia
sorella che abitava in campagna e lei dice "Papà, vengo pure io!" ed io"Che devi venire a fare...
chissà quanto mi trattengo", "No - dice - vengo pure io". Per la strada mi dice che mi deve raccontare
un fatto. Forse non avevamo camminato neanche 500 metri ed eravamo alla fine del paese. Allora
insisto la prima volta, insisto la seconda volta e quella però non me lo voleva più dire. Siamo arrivati
da mia sorella, forse sono 3 Km o 3 km e mezzo, e non me l'ha detto e al ritorno le ho detto: "Adesso
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me lo devi dire questo fatto". "No, adesso mi sfugge" ha detto lei. Quando appena abbiamo passato
l'istituto agrario vediamo una moto dietro.
PM = ... Sì va be'... ma lei vi ha detto che era fidanzata con questo ragazzo?
I = ...Allora vediamo una moto dietro e lei dice: "Papà, ti fai raggiungere dalla moto dietro. Vedila
che moto!" faceva lei... e allora dico: "Io mica devo fare la corsa, che devo fare la corsa con la
moto?! Se vuole passare, passa". E continuava a dire che mi doveva dire, mi doveva dire. Allora io
non l'ho visto questo in faccia chi era, che non lo conoscevo neanche. Dal ritorno da mia sorella lei
ha cominciato a dirmi questo fatto e me l'ha detto...ma me l'ha detto che la cosa che doveva vedere il
fratello sennò io non lo scoprivo, perché la mattina mi alzavo presto e la sera tornavo tardi, mica
potevo andare a vedere lei dove andava e dove non andava.
PM = Sì, ho capito. Allora avete saputo che vostra figlia frequentava questo Ruly ma voi non
potevate controllarla perché andavate in campagna. Ma io so che in campagna - in base a quanto dice
vostra figlia - vi accompagnava a volte anche lei, quando voi andavate a guardare gli animali.
I = ... E che doveva venire a fare!
PM = Sì, ma vostra figlia vi ha accompagnato in campagna a guardare gli animali?
I = Sì.
PM = Allora voglio sapere una cosa: vostra figlia...voi dite che nel 2005 si è fidanzata con Ruly, cioè
ha cominciato a frequentare questo ragazzo?
I = Nel 2005 io l'ho saputo.
PM = Ok nel 2005 voi l'avete saputo. Che cosa è accaduto dopo?
I = È avvenuto che il fratello le diede due schiaffi.
PM = ... Sì ma voi perché avete tentato di suicidarvi? Vi siete bevuto la creolina, che è veleno,
perché?
I = E... perché... lei ha detto "Tu ti puoi uccidere, ... ti puoi... perché la felicità...".
PM = Eh be' ... vostra figlia dice "Tu ti puoi anche uccidere, tanto io non lo lascerò mai Ruly": ho
capito bene?
I = Sì.
PM = E voi veramente vi siete bevuto la creolina?
I = E a questo punto... tu fai una figlia grande e poi in casa sparla, sparlava... capito?!
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Difesa = Di' quando l'hai trovata sul fatto e quando non li hai trovati sia all'istituto agrario, che dietro
le case rosse, ... così come hai detto l'altra volta. Di' la verità perché questa mattina sono decisive le
tue parole.
I = Mica solo io li ho visti! Li ha visti anche la zia, ...mica solo io! Io quando li ho visti, lui aveva la
cerniera aperta ed era così come siete...
PM = Sì ma quando è successo che avete visto vostra figlia insieme con questo ragazzo?
I = Un paio di mesi fa li ho visti sotto una scala.
PM = E dopo che li avete visti avete cercato di suicidarvi?
I = Eh sì.
PM = Quindi sarà successo verso luglio-agosto.
I = Sì.
PM = Ma la cosa da capire è questa: voi non volevate che vostra figlia frequentasse Ruly perché era
albanese, era disoccupato e per una serie di altri motivi - e questo si è capito - e quindi vi siete
opposto a questo fidanzamento. Voi però dopo avete tentato di suicidarvi e poi, nell'imminenza
dell'accaduto, vostro figlio Pietro ha riferito ai Carabinieri che la sorella Claudia gli aveva raccontato
di aver subìto abusi sessuali da parte vostra, di cui uno una settimana prima rispetto a quando
cercaste di suicidarvi. Lui ha raccontato di essere venuto da voi, prima del tentato suicidio, e di
avervi rimproverato; ha detto poi che voi siete scoppiato in lacrime e che gli avete confessato tutto,
dicendo che era vero e chiedendogli perdono. È vero tutto questo?
I = No che non è vero! Lo dice solo lui e la sorella!
PM = E perché i vostri figli dovevano dire delle sciocchezze?
I = Io non lo so perché l'ha inventate lei.
PM = Sì, allora voglio farle sapere con chiarezza che Claudia ha raccontato che il primo abuso
sessuale voi l'avete compiuto su di lei quando aveva anni ed è successo in campagna, quando
eravate solo voi e lei. Poi dopo che gli altri rapporti...
I = Ma quella...ci stava sempre mio figlio e c'era sempre mia moglie in campagna...come potevo
abusare?
PM = Ma sia suo figlio, che un'altra delle sue figlie femmine hanno riferito di questi abusi. E Pietro
ha riferito ai Carabinieri che voi quella sera vi siete messo a piangere e avete confessato, che avete
chiesto perdono più volte e che lui non vi ha parlato per diversi giorni. Questo è tutto inventato?
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I = Sì.
PM = Allora vuole dirmi lei le cose come stanno?
I = Io non ho commesso niente, signor giudice!
PM = Va be'... allora perché vostra figlia si è inventata tutte queste cose?
I = Se le è inventate per stare con quello! ... Non solo con quello, c'è pure altra gente, io lo so
questo... Signor giudice, io non...
PM = Volete sentire che cosa ha detto vostra figlia?
I = Sì: ... ma, signor giudice, lei mi vuole vedere in galera per la gioia di quello, lo volete capire o
no? Io apposta mi volevo uccidere per non sentire proprio questo dispiacere qua! ...Dovevo andare a
finire in galera! Se adesso sto in galera, mi deve finire di uccidere!! Una figlia che ti fa in questo
modo... Soffro già di malattia, soffro fisicamente di asma, psoriasi, bronchite, polmonite, crisi
depressive.
PM = Vostra figlia ha raccontato che nell'agosto del 2002 voi due eravate da soli in campagna.
I = E... Pietro non c'era?!
PM = L'ha detto lei che il fratello Pietro non c'era.
I = Ma come... non c'era Pietro?!
PM = Io le sto dicendo quello che ha riferito Claudia. Voi poi eventualmente date la vostra versione
dei fatti. Lei ha raccontato che in quell'occasione, una notte, voi vi siete introdotto nel suo letto e
avete abusato di lei, levandole il pigiama; lei era piccola (aveva -11 anni) e dice di non essersi
neanche resa conto di quello che era successo. Poi ha detto che successivamente l'avete fatto
sistematicamente, almeno due volte al mese a casa.
I = ...Ma se una figlia ti dice "Ti puoi uccidere o ti faccio uccidere", che ti aspetti più? Io perciò devo
capire...perché o mi uccidevo io o mi faceva uccidere.
PM = Ma voi non dovete né uccidervi, né dovete uccidere. Dovete stare tranquillo e dire la verità dei
fatti. ... Voi dormite con vostra moglie?
I = Sì certo, sempre. E con chi devo dormire?!
Difesa = Nei nostri paesi, di solito, marito e moglie e i maschi dormono in una stanza, mentre le
femmine in un'altra, se non ci sono le camere da letto per tutti.
PM = Va be' ... quindi i vostri figli maschi e femmine dove dormono?
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I = In due diverse camere da letto.
PM = E Claudia con chi dorme?
I = Nella camera con le sue sorelle.
PM = Vostra figlia ha raccontato che almeno due volte al mese, dopo l'episodio avvenuto in
campagna, voi abusavate di lei a casa. Ha detto che lei vi portava l'acqua a letto e che si
addormentava vicino a voi. Ha inoltre riferito che è avvenuto un altro rapporto sessuale completo
nella camera da letto dove dormiva Claudia con le sue sorelle: lei ha detto che voi vi siete infilato nel
suo letto, le avete levato il pigiama e avete avuto con lei un rapporto sessuale con la forza.
I = Non è possibile!!! Ci stavano pure gli altri e c'era anche mia madre che aspettava il nipote che
doveva salutare.
PM = Ma perché sua figlia si dovrebbe essere inventata tutto questo?
I = Per questo: ... per quello!
PM = Cioè... per continuare a vedere Ruly?
I = Sì, certo.
Difesa = Sì ... ma tu devi dire la verità! Racconta di quando li hai trovati e dove.
I = Dalle sorelle sentivo di questo albanese ma credetti perché Claudia aveva giurato di fronte a me,
a mia moglie e alle sorelle che non l'avrebbe più rivisto. Per questo io stavo tranquillo. Poi mi diceva
che si era fidanzata con un altro. Sennonché erano tutte bugie, frequentava sempre quello e diceva
che non c'era qua.
PM = Sì... abbiamo capito che vostra figlia è innamorata di questo ragazzo.
I = Ma che se ne deve fare... che se ne deve fare!
PM = Ma... questo non è un giudizio che possiamo discutere qui. Il punto è che tra i due ragazzi c'è
una relazione e si vogliono bene. Claudia dice così. Ruly è stato sentito davanti al Tribunale per i
minori ed ha dichiarato di essere innamorato di vostra figlia e di aver consumato con lei anche dei
rapporti sessuali. Ha detto che la prima volta è successo nel giugno del 2007 e che prima non era mai
successo. Quindi se questa versione fosse vera, sareste stato voi il primo ad avere rapporti sessuali
con Claudia.
I = Signor giudice... se ha avuto abusi sessuali l'ha avuti con quello! E questo io non lo sapevo, lo
sento adesso da voi. ... Mia figlia non mi vuole bene perché mi fa stare dentro il carcere. Questa è la
sua soddisfazione, che mi fa stare in carcere per avere rapporti con quello! E mia figlia forse a anni
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già l'ha fatto la prima volta: l'ha fatto con gli altri! Signor giudice, queste sono tutte bugie, perché io
qua mi hanno...
PM = Ascoltatemi: tutto questo non l'ha detto soltanto vostra figlia Claudia, ma anche vostro figlio
Pietro e l'altra vostra figlia. È vero che adesso i suoi figli stanno prendendo le vostre difese, ma
hanno raccontato che Claudia ha riferito loro di aver subito abusi sessuali da parte vostra. Claudia ha
detto poi che Pietro è venuto da voi e vi ha detto: "Papà, ma che fate? Abusate di Claudia?". Voi
confermate questa circostanza?
I = Sì, lui me l'ha detto ed io gli ho risposto: "Ma tu sei pazzo, io con tua sorella?! Ma lo vuoi capire
che quella mette la colpa a me per andarsene con quello!"
PM = Mi racconti meglio questo episodio. Quando suo figlio vi ha parlato?
I = Pietro mi ha detto che io avevo abusato di Claudia, così... come state dicendo. Allora io con la
rabbia me ne sono andato in campagna.
PM = Con Pietro non avete parlato prima?
I = No perché, la sera che lui è arrivato, io non c'ero perché ero andato in campagna. La sera dopo mi
ha raccontato questo fatto qua. Io ero fuori e quando sono arrivato a casa lui mi dice "Così...e così mi
ha detto Claudia" . Ed io gli ho detto: "Ma sei pazzo te e Claudia a dire questa cosa!".
PM = Nel verbale invece suo figlio ha detto che voi vi siete messo a piangere.
I = No, ma no... non è vero!
PM = Ma vostro figlio ha detto così. Ma scusi ma come è possibile che tutti nella vostra famiglia
stiano inventando? Inventa Claudia, inventa Pietro, inventa l’altra figlia? ... Scusate!
I = No... non è vero. Quelli l'hanno inventato. Che mettiamo che uno dice che quello è andato a
rubare, loro dicono "Sì è andato a rubare". E invece dove è?
PM = Cioè voi a vostro figlio, quando vi ha parlato, non avete detto niente?
I = No. Ho detto soltanto che sia lui che lei erano pazzi.
PM = Va bene... Con Ruly avete mai parlato?
I = No mai.
PM = Non gli avete mai fatto niente, pur sapendo che vostra figlia Claudia lo vedeva, ... cioè non
l'avete mai affrontato?
I = Signor giudice, ma io quante volte l'ho vista, quante volta l'ho vista?
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PM = Voglio dire invece di suicidarvi potevate affrontarlo e dirgli "Lasciate stare mia figlia!",
perché...
I = Che dovevo fare, che dovevo affrontare... ve l'ho detto lei mi ha detto "Se tocchi quello, ti uccido
o ti faccio uccidere!".
PM = Ma non dico che dovevate minacciarlo, ma magari parlargli.
I = Questo non l'ha detto signor giudice, non ve l'ha detto?
PM = No. Lei ha detto che voi vi opponevate in maniera ferma a questo fidanzamento.
I = E c'è la lettera qua... la lettera è chiara, è qua, qua...
PM = Devo dirvi una cosa importante però: vostra figlia non pensava mai che voi poteste essere
arrestato in conseguenza delle sue dichiarazioni.
I = Ah sì, non pensava mai...
PM = No, davvero. Inizialmente lei ha dichiarato queste cose, però quando poi ha capito...
I = Io ve lo dico adesso signor giudice, questa mia figlia non esiste più davanti a me!
PM = No non dovete dire così.
I = No, fare una cosa del genere! Io non la voglio più vedere!! O si vuole sposare, o se ne vuole
andare con quello, o se ne vuole andare con quell'altro, a me non mi interessa più, non me ne
interessa più, non la voglio più vedere, né sentire! E glielo potete anche dire. Quando è successo,
mettiamo che stava per questo, è andata dal dottore, in un paese vicino, perché diceva che le faceva
male la pancia, invece quella è andata ad abortire.
PM = È andata ad abortire? Ma di chi sta parlando?
I = Di mia figlia Claudia.
PM = E come fate voi a sapere questo?
I = Eh... lo so per sentito dire.
PM = Ma come per sentito dire? Chi gliel'ha detto?
I = Eh... è stata una settimana all'ospedale e a me però non lo ha mai confermato.
PM = E quando è successo?
I = Non ricordo.
PM = Ma era inverno o estate?
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I = Non ricordo... sennò direi una bugia.
PM = Ma mi scusi... ma chi gliel'ha detto?
I = È stato un mio pensamento, ... un mio pensiero... Si è saputo, comunque, che è andata ad abortire.
PM = ... Ma allora... voi avete detto che avete sentito dire che vostra figlia è andata ad abortire, in
quanto lei (a quanto volete sostenere voi) consumava rapporti sessuali con questo Ruly da diverso
tempo. Sostenete che Claudia è andata all'ospedale di un paese vicino al vostro per abortire (e che lei
diceva che aveva il mal di pancia) ma non vi ricordate quando con esattezza.
I = Sì esatto. Io con una delle altre mie figlie, siamo andati a trovarla una volta durante quella
settimana.
PM = Allora una delle due potrebbe confermare questa circostanza.
I = Sì.
PM = E in che reparto era?
I = Non ricordo...
PM = E i dottori che cosa vi hanno detto?
I = Eh...ma quando siamo andati era l'orario delle visite e non c'erano dottori.
PM = ...Ora con tutti questi "Non ricordo". ... Noi abbiamo bisogno di fatti certi.
Difesa = ... Comunque il suo medico dice che il mio assistito soffre di problemi di amnesia... forse è
uno di questi.
I = Anche al dottore Claudia diceva che le faceva male la pancia.
Difesa = Poi Claudia si è operata: prima ha subito un intervento di appendicite e poi anche un altro
per una cisti ovarica o uterina.
PM = ... Ma sentite ora... appendicite o cisti ovarica è una cosa, aborto è un'altra. Cerchiamo di dire
cose credibili e dimostrabili in qualche modo e non derivanti da pensamenti. ... Mi può chiarire, per
favore, come mai voi, in base a delle lamentele di vostra figlia (che all'epoca aveva 13/14 anni) per
un mal di pancia, avete pensato che era stata ricoverata per abortire, quando vi erano tante e varie
ipotesi?
I = Perché lei non mi ha spiegato niente.
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PM = Voi avete detto che prima non sapevate che tipo di rapporti vostra figlia aveva con Ruly,
sapevate solo che lo frequentava, e avete scoperto solo di recente che aveva con lui anche rapporti
sessuali. E allora perché all'epoca, avete subito pensato ad un aborto?
I = Perché aveva rapporti con quello.
PM = Sì ma voi lo avete saputo soltanto successivamente che li aveva.
I = Sì l'ho saputo dopo, ma lei non ha spiegato il motivo per cui era andata all'ospedale. Io non ho
saputo niente, solo che le faceva male la pancia.
PM = Va bene andiamo avanti. Adesso vorrei sapere perché voi vi opponevate in maniera così tanto
determinata a questo Ruly, cioè questo ragazzo, a parte il fatto che già ci ha detto ... che era
albanese, ... che cosa vi ha fatto? Quali erano gli aspetti...
I = ... 'sta razza d'uomo, ma che ne fai, signor giudice! Ma non ho capito... che ci sono tanti morti di
fame in Italia, che si deve prendere un morto di fame peggio di me!
PM = Sì, ... ma perché vi opponevate in questo modo visto che vostra figlia comunque gli voleva
bene e lo ha frequentato per diversi anni?
I = Sì ma io non lo sapevo che lo frequentava perché, da quando l'ho scoperta, ha detto che non lo
vedeva più, invece era bugiarda! La vedevano gli altri. ... E poi una figlia minorenne che se ne
usciva con quello, signor giudice, questo è giusto? E mi ha fatto questo bel piatto a me!
PM = Inoltre vostra figlia Claudia ha dichiarato che voi spesso avete tentato di suicidarvi proprio per
i sensi di colpa che provavate nei suoi confronti.
I = Di colpa? Di colpa?
PM = Cioè voi vi sentivate in colpa di consumare questi atti sessuali con vostra figlia e quindi per
diverse volte avete cercato di suicidarvi. È così?
I = Per quel fatto di mia figlia?! ... Era colpa mia mettiamo se io, sempre soldi, soldi, soldi... non ci
potevo arrivare...
PM = Sì... ma perché avete tentato di suicidarvi?
I = Eh, ve l'ho detto... perché io non volevo per nessun motivo che stesse con quel ragazzo.
PM = Avvocato, se voi volete fare qualche domanda prego.
Difesa = Per quanto riguarda la domanda precedente volevo precisare meglio quanto ha cercato di
dire il mio assistito: lui sostiene di aver tentato il suicidio perché, essendosi opposto a questa
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relazione che la figlia Claudia aveva con questo ragazzo albanese, la figlia le ha risposto "Tu ti puoi
anche suicidare o ti faccio uccidere, ma io questo ragazzo non lo lascio".
PM = Allora nel momento in cui vostra figlia ha detto queste parole, voi vi siete suicidato. Ma scusi
che senso aveva il vostro gesto, ... sarebbe rimasto inutile?
I = Signor giudice, io ho fatto tanti sacrifici per fare grandi i miei figli, poi si deve prendere... uno
che chissà è peggio di me, ma prenditi uno meglio! Perché ti devi infelicitare tutta la vita tua?
Mettiamo che lui è dedito anche all'alcol e beve...
PM = Voi dunque volete dire che vostra figlia si è inventata tutto questo perché voleva essere libera
di vedere il suo ragazzo. È così?
I = Sì, libera che deve fare quello che gli piace a lei.
PM = Ma mi scusi i rapporti con vostra figlia Claudia come sono stati fino ad ora? Perché lei ha
sempre detto di essere molto legata a voi, e che fin da piccola è sempre stata quella più vicina a voi,
che vi ha sempre assistito quando avevate gli attacchi d'asma la sera, è vero tutto questo?
I = Lo dice adesso, lo dice adesso che sono chiuso.
PM = Ma è vera questa cosa?
I = Lo dice adesso che sono chiuso. Veniva con una scusa di soldi, quando doveva telefonare a
quello che era sempre senza soldi e allora veniva.
PM = Cerchi di dirmi come erano i vostri rapporti con Claudia prima che lei parlasse di tutto questo:
vostra figlia vi voleva bene come padre e voi le volevate bene come figlia?
I = È figlia come lo sono le altre.
PM = Sì. Ed è vero che vi assisteva quando la sera avevate gli attacchi d'asma?
I = Qualche volta, qualche volta. Ma dal momento in cui ha messo in scena questo ragazzo, il padre
non esisteva più, come fosse morto.
PM = Quindi l'unico motivo di attrito è nato da quando c'è stato questo ragazzo?
I = Sì, lei veniva solamente quando voleva soldi.
PM = Ma perché secondo voi anche i vostri figli, oltre a Claudia, confermano quello che lei ha
detto? Infatti l'unica che dovrebbe avercela con voi per eventuali attriti dovrebbe essere soltanto
Claudia.
I = Eh, ... non lo so... Ma è stata lei, lei a convincerli.
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Difesa = Signor giudice il mio assistito vuol così dire che questa vuol essere una congiura in
famiglia, oltretutto questo ha aggravato anche i suoi problemi psichici. La figlia è una psicolabile.
PM = Ma questa congiura della famiglia non è molto chiara e ovvia. Inoltre anche riguardo alla sua
opposizione al fidanzamento tra Claudia e Ruly non è poi così chiaro in che modo questo possa aver
creato tanti problemi tra voi e vostra figlia, in quanto voi a casa non stavate molto ma trascorrevate
molto più tempo in campagna, quindi non potrà essere stata un'opposizione troppo forte a questo
fidanzamento.
I = Eh sì.
PM = Perché ad un certo punto vostra figlia dovrebbe aver inventato tutto questo quando con Ruly
usciva ugualmente e lo frequentava comunque, in quanto voi non vi siete opposto al fidanzamento se
non a parole e con qualche litigio. Non capisco... quale poteva essere lo scopo di tutta questa
invenzione? Ma perché vostra figlia dovrebbe provare per voi un odio così forte da compiere questo
gesto?
I = ... Ma...
PM = Anzi, vi posso dire che vostra figlia, nonostante quello che ha raccontato, vi vuole molto bene
e mi ha chiesto personalmente se voi potevate tornare a casa.
I = Signor giudice, se mi voleva a casa non mi doveva fare quello che mi ha fatto. Perché quella
voleva la sua soddisfazione! E questa mi vuole bene?!
PM = ... Va be'... abbiamo finito.
4.5. Commento all'incidente probatorio di Claudia
Questo è stato uno dei primi incidenti probatori di un minore per presunti abusi sessuali svolti in tale
Tribunale. Non è stata dunque fatta l'audizione protetta (vista anche l'età non infantile della ragazza),
ma è stato comunque rispettato il principio che prevede il sostegno psicologico al minore durante
l'interrogatorio (art. 498 comma 4 c.p.p.).
Claudia ha così risposto in aula alle domande postegli dal giudice, dal pubblico ministero e dagli
avvocati della difesa (non filtrate così dallo psicologo).
L'indagato è stato fatto accomodare nella Camera del Consiglio: non è stato quindi presente nella
stessa aula per evitare che la sua presenza potesse turbare la minore, avendo essa già manifestato
comprensibile ansia ed angoscia riguardo all'incidente probatorio che doveva essere eseguito. Nella
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Camera del Consiglio è stato collocato un altoparlante cosicché l'indagato è stato in grado di sentire
quanto è stato detto nel corso dell'udienza.
Solo l'età della ragazza (17 anni) al momento dell'incidente probatorio può eventualmente
giustificare una tale procedura, in quanto di fronte a situazioni così difficili da gestire già da parte di
coloro che sono esperti di tali problematiche non si può pensare di svolgere un interrogatorio con le
comuni regole usate per gli adulti-testimoni.
Il sostegno psicologico offerto a Claudia si è inoltre ridotto soltanto alla preparazione della minore al
colloquio e all'intervento della psicologa al termine dell'interrogatorio, entrambe le fasi svolte fuori
dall'aula giudiziaria.
La prima domanda posta a Claudia è estranea alla vicenda e questa tecnica serve per creare una certa
atmosfera più rilassante e familiare per la minore.
(...)
GIP = Ma che cos'è quella fotografia che hai in mano?
C = Mia sorella e mio fratello.
GIP = Sono i tuoi fratellini?
C = Sì.
Il GIP pone l'interrogatorio che verrà eseguito come una scelta di Claudia che ha deciso di
rispondere alle domande. Con questo le ha fatto capire di essere libera di parlare e che nessuno la
costringe.
GIP = Senti...allora vuoi rispondere alle domande del collega PM? Devo dire pubblico ministero
(PM) e usare questa frase formale.
C = Sì.
PM = Claudia, il 14 ottobre del 2007, ci fu una circostanza spiacevole in cui tuo padre ha cercato di
suicidarsi: ricordi questa circostanza?
C = Sì.
PM = Tu sei stata sentita dai Carabinieri del tuo paese (...) ed hai riferito determinate circostanze che
secondo te giustificavano il gesto di tuo padre: vuoi riferire al giudice che cosa hai riferito in
quell'occasione ai Carabinieri?
Subito Claudia evidenzia il contrasto che c'è tra se e le sue sorelle, per poter così cercare di
descrivere la situazione di solitudine ed omertà che è stata costretta ad affrontare.
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C = Ho riferito che per tutti mio padre aveva tentato il suicidio perché io stavo con un albanese,
mentre io sapevo che non era quello il motivo, cioè lo sapevano anche le mie sorelle, però loro
negavano. Lui mi aveva chiesto perdono qualche giorno prima e mi aveva detto: "Se tu mi vuoi bene
devi lasciare stare l'albanese".
La chiarezza, la precisione e la lentezza del racconto sono caratteristiche che vanno sempre
ricordate ai minori, i quali hanno un metodo d'esposizione dei fatti diverso rispetto a quello degli
adulti. E spesso chiedere ad un minore di essere più preciso nel raccontare il modo in cui ha subìto
un abuso sessuale o la sensazione che ha provato non è facile, ma va fatto ugualmente utilizzando le
parole giuste.
GIP = Claudia racconta piano, altrimenti non riusciamo a seguirti.
C = Mi aveva chiesto perdono per quello che mi aveva fatto e mi disse: "Io non mi sono reso conto
se tu te ne eri accorta prima di quello che ti stavo facendo; perché non me lo hai detto prima!"; allora
io ho detto: "Io ho sempre cercato di farti capire che stavo male". Infatti lui mi vedeva sempre che
piangevo quasi ogni sera.
PM = Claudia cerca di essere un pochino più chiara: tuo padre si opponeva a questo fidanzamento?
C = Sì era geloso.
PM = E perché era geloso?
Il pubblico ministero in questo momento sta ponendo domande corrette che permettono alla minore
di dare risposte autentiche e genuine, senza suggestione.
C = Perché io credo che aveva paura che non stavo più con lui; infatti nell'ultimo periodo io avevo
capito quello che stava succedendo e quindi mi allontanavo sempre di più.
PM = E che cosa stava succedendo?
C = Che lui abusava sempre di più di me, si impossessava sempre di più senza farmi capire quello
che succedeva.
PM = E vuoi riferire in che modo tuo padre si impossessava di te?
C = Abusando sessualmente.
PM = Claudia, purtroppo tu lo sai benissimo che devi essere un pochino più specifica.
GIP = Quando è iniziato?
C = Nel 2002 stavamo in campagna: in agosto è successo.
PM = In campagna dove? Dove avete una casetta?
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C = D'estate stavamo da una parte e l'inverno da un'altra.
GIP = Per cui avevate due campagne, in due posti diversi?
C = Sì ma non erano nostre, erano in affitto.
GIP = Ci avevate gli animali lì?
C = Sì, gli animali: avevamo circa duecento animali.
Claudia sembra avere quasi la necessità di raccontare tutto il più velocemente possibile, forse per
concludere così una situazione (l'interrogatorio) che le crea ansia.
GIP = Tu hai detto nel 2002: in che periodo era, estate?
C = Sì, estate, quando lui una notte si avvicinò a me...
GIP = Aspetta: perché tu ti trovavi con lui in campagna?
C = Eravamo solo noi: io già da piccola avevo iniziato ad andare in campagna, dall'età di sei anni, ...
ed aiutavo mio padre la domenica a pascolare gli animali e poi quando doveva mungere (ad esempio
la sera), e la mattina io ero costretta ad alzarmi. La mamma, talvolta, veniva la domenica.
GIP = Quindi stavate in campagna d'estate?
C = Sì. Nel 2002, in agosto, la notte lui si introdusse nel letto ed oltretutto mi disse cose spiacevoli
che io non ho mai detto nemmeno a nessuno. Lui prima si avvicinò e mi spiegò che era tutto
normale, che dovevo fare undici anni: avevo dieci anni e mezzo.
GIP = Quindi voi eravate andati a letto?
C = Sì.
GIP = Stavate dormendo?
C = Io stavo dormendo.
Spesso Claudia evidenzia il fatto il fatto che mai lei avrebbe potuto pensare che suo padre potesse
arrivare a compiere un gesto del genere.
GIP = Nella stessa stanza avevate due letti?
C = Sì, i letti erano più o meno attaccati quindi era facile avvicinarsi a me, ma io non pensavo mai
una cosa simile e così la notte me lo sentii vicino e mi disse cose...
GIP = Quindi tu stavi già dormendo e ad un certo punto ti senti tuo padre vicino?
C = Sì.
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GIP = Ma entrò nel letto e che disse?
C = Mi aveva spiegato certe cose riguardo al sesso, queste cose qua, come si faceva; mi disse che lui
quando aveva avuto il rapporto con la moglie il letto era pieno di sangue, tutte queste cose qua, che
schifo, io non capivo niente, ero una bambina che non capivo quello che lui mi diceva, e poi mi
riaddormentai perché comunque ero stanca, lavoravo...
Inoltre ripete che, a causa della sua tenera età, non capiva che cosa il padre le diceva e soprattutto
quello che lui faceva. Sembra quasi voglia scusare se stessa per non essere riuscita a capire e a
fermarlo in tempo. L'unica cosa che pone in risalto è la sensazione di schifezza che lei prova.
GIP = E lui ti stava sempre attaccato?
C = Sì, e poi quella notte lui ha abusato di me, cioè io non mi rendevo conto di quello che succedeva.
GIP = E che cosa ha fatto, te lo ricordi? Purtroppo devi descriverlo, Claudia, dai: tu eri con il
pigiama?
C = Mi abbassò il pigiama e le mutandine e penetrò con il suo pene nella mia vagina.
GIP = Penetrò completamente?
C = Sì.
GIP = Ti fece male?
C = Sì. Io poi vidi delle macchie e dissi a mio padre che cosa era e lui mi disse che era l'inizio del
ciclo.
GIP = Le macchie le vedesti subito dopo che ti aveva penetrato?
C = Le vidi la mattina.
GIP = La mattina sul letto?
C = Sì, mi dissi "ma che cos'è?", io mi sono spaventata perché comunque avevo capito quello che era
successo la notte e quindi poi lui mi disse che era il ciclo, ma non era il ciclo perché il ciclo mi è
venuto un paio di anni dopo.
GIP = Ma ti ha fatto molto male quando ti ha penetrato?
C = Sì, ma io non capivo.
GIP = Ed è rimasto per molto tempo penetrato dentro di te?
C = Non mi ricordo.
GIP = E ti ricordi se poi c'è stata l'eiaculazione, cioè se è uscito lo sperma anche?
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C = Sì.
GIP = Claudia non devi avere ritrosia di raccontare questi fatti perché sono fatti normali, come
quando uno subisce una violenza o un pugno in faccia e racconta che gli è uscito il sangue, così, se
tu avevi subito un fatto diverso, dovevi raccontare quello che era il fatto diverso, non c'è niente di
strano. Quindi raggiunse...?
C = (Fa cenno di sì con la testa).
GIP = In quella circostanza quindi ci fu una penetrazione completa, ma hai visto tuo padre
raggiungere l'orgasmo, provare il coito, il piacere, oppure...? Purtroppo sono domande che ti devo
fare Claudia, lo sai.
C = Sì, perché comunque poi mi sono sentita tutto il liquido addosso, una cosa schifosa.
GIP = Quindi hai visto anche produrre liquido spermatico da parte di tuo padre?
C = (Fa cenno di sì con la testa) ... Ma io non capivo che cosa era, se avessi capito allora...
GIP = E la mattina dopo non disse niente?
C = Niente, era come se non fosse successo niente, io rimasi la mattina a letto tutta sconvolta.
GIP = Ma non uscisti nel campo?
C = No, quella mattina mi rinchiusi in casa; quando lui tornò era proprio indifferente, non lo so come
se fosse normale e così è andato avanti fino...
GIP = Quando successe la seconda volta, te lo ricordi a distanza di quanto tempo?
C = Capitava comunque circa due volte al mese; può darsi pure che capitava in una settimana tutti i
giorni, poi da quando siamo andati in paese lì...
GIP = Ma in campagna è più ricapitato?
C = No, in campagna no.
GIP = E in paese come avvenivano queste..., tuo padre che cosa faceva in sostanza?
C = Lui essendo malato, soffre di asma e psoriasi, voleva molto le mie attenzioni, poiché era abituato
che da quando sono nata stavo sempre con lui, cioè da quando siamo arrivati in paese io gli stavo
sempre dietro perché comunque... Le mie sorelle sapevano pure loro che io ero legata a lui, è come
se mi avesse cresciuto mio padre e non mia madre, in realtà è così. E quindi quando mio padre
soffriva di asma loro mi dicevano "No, vacci tu, vacci tu, vagli a dare l'acqua tu" e loro facevano
quello che volevano, cioè io guardavo lui come se fossi la moglie, cioè io non mi rendevo conto, a
volte pensavo "ma se sono sua figlia, credo che è normale che io mi devo preoccupare per mio
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padre, se sta male vado dal dottore": e spesso capitava che io passavo le nottate in piedi a guardare
lui che si addormentava, mentre le mie sorelle dormivano.
Da queste parole di Claudia si capisce come essa avesse assunto, in famiglia o comunque nel
rapporto con il padre, il ruolo di sua madre, sostituendosi ad essa sia nell'assistenza all'uomo, sia
poi nei rapporti sessuali. Gli altri membri della famiglia sembravano sapere tutto questo e favorire
che ciò avvenisse.
Da parte sua Claudia non incolpa la madre, che riconosce essere malata, e talvolta neanche il
padre, al quale dice di essere molto legata.
GIP = Quante sorelle hai?
C = Tre sorelle e due fratelli
GIP = E tutte e quattro dormivate nella stessa stanza?
Questa è una domanda suggestiva, visto che la minore non ha ancora parlato dei problemi della
madre.
C = Sì da un paio di anni. Ma quando io mi dovevo occupare di mio padre dovevo dormire nella
stanza di mia madre, così mio padre si addormentava vicino a me e le mie sorelle dicevano "Tu lo
sai che papà è attaccato a te, quindi tu l'hai abituato che sei stata lì in campagna e tu ci stai".
GIP = Ma tua madre non poteva accudire tuo padre o aveva dei problemi lei?
C = È malata al 75%.
GIP = È invalida?
C = Sì con la testa: quando sono nata era già così. Ho sempre pensato, però, che la colpa non era sua
ma che era di mio padre perché lei mi diceva sempre che mio padre, pure quando si sono sposati,
all'inizio la faceva spaventare e tentava il suicidio; questa cose qua anche a casa le faceva: si metteva
la cintura dei pantaloni alla gola per attirare la mia attenzione.
GIP = Ritorniamo al fatto che le tue sorelle volevano che accudissi tuo padre.
C = Sì, era proprio lui a volte che mi chiamava; quando vedeva che non ci andavo, prendeva le
scarpe e le buttava alla porta per attirare l'attenzione, cioè si imbestialiva. Così le mie sorelle mi
aggredivano e mi dicevano: "Adesso vai, è inutile che stai qui". Io con loro ci stavo poco perché
dovevo stare sempre con mio padre; e quindi la notte poi io, stando in piedi, mi sedevo sul letto e poi
mi ritrovavo nel letto con lui, mia madre e il mio fratellino, che stava nel letto matrimoniale perché
aveva paura di dormire da solo. Io dormivo ai piedi del letto, ma poi mi ritrovavo su. Stavamo: mio
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padre, io, mio fratello e mia madre. Io dormo lì praticamente da quando sono nata: sono stata sempre
abituata così. E così mio fratello.
GIP = E quando tu ti mettevi nel letto, cioè quando andavi lì e portavi l'acqua a tuo padre e lo
accudivi, poi ti addormentavi sul letto e lui ha abusato di te anche in quelle occasioni?
C = La notte aspettava che mi addormentavo io e tutte e tre le mie sorelle e mi svegliavo che lui
stava già penetrando dentro di me, allora quando io mi accorgevo che lui stava per arrivare
all'orgasmo scappavo e mi andavo a lavare nel bagno; è successo così fino a questa estate quando è
venuto nella mia stanza quando le mie sorelle più grandi non c'erano. È venuto ed ha bagnato il letto
ed io, poi, per paura che mi avrebbero picchiato, che avrebbero capito quello che succedeva, ho
cambiato le lenzuola e mi sono tenuta io il lenzuolo bagnato di tutta quella schifezza e loro non si
sono accorte di niente. Io gli dicevo: "Vattene, vattene".
Claudia descrive il padre come un padrone al quale doveva obbedire e che doveva curare.
Una tipica paura dei minori nelle situazioni di abuso intrafamiliare è che gli altri membri della
famiglia possano scoprire i fatti. Anche in questo caso, infatti, Claudia cambia le lenzuola del letto
per non far scoprire niente alle sorelle.
PM = Claudia devi andare un po' più piano ed essere più precisa: non abbiamo fretta. Voglio capire
bene come si verificavano questi abusi di tuo padre, devi essere un po' più precisa. Tu hai detto che
facevi assistenza a tuo padre perché soffriva di asma: cosa facevi la sera, cosa accadeva?
Claudia giustifica il fatto che il padre chiedeva sempre di lei per le cure di cui aveva bisogno in
base al legame più forte d'affetto che li univa. Di questo - seppur può apparire paradossale - sembra
quasi essere contenta perché privilegiata rispetto alle sorelle. Bisogna infatti ricordare che, nelle
situazioni di abuso intrafamiliare, anche se il padre è stato un violento abusante, per la/il figlia/o
rimarrà, comunque, suo padre e un sentimento di "quasi-affetto" nei suoi confronti lo proverà
sempre.
C = Io ero solita preparargli anche la scodella per andare al lavoro. Quando poi la sera tornava
preferiva trovarmi a casa, ci dovevo essere e basta; poi la sera gli venivano sempre gli attacchi di
asma e mi chiamava
PM = E non poteva chiamare pure le altre: perché chiamava sempre te?
C = Perché comunque alle altre mie sorelle non era legato: loro non l'hanno mai potuto vedere.
Anche con una di loro ci aveva provato, ma non c'era riuscito (me lo ha detto lei) e lei glielo
rinfacciava parecchie volte. E quando vedeva che mio padre mi dava attenzione lei diceva: "Lasciala
stare Claudia, gli stai sempre attaccato, sembrate due fidanzatini": cioè quindi loro avevano capito.
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GIP = Che cosa accadeva allora quando tuo padre la sera poi ti chiamava?
C = Io andavo lì e gli dicevo "Che c'è?" e lui si faceva vedere che aveva l'asma, faceva quei sospiri,
ed io dicevo "Ma che cosa devo fare?", cioè se la faceva venire talmente tanto l'asma che mi faceva
preoccupare. Allora io gli portavo l'acqua e stavo lì; mentre stava male mi chiedeva "Ma tu mi vuoi
bene, ma tu vuoi che devo morire?" ed io dicevo "Ma sì, ma che c'entra... adesso devi morire, ma che
ti succede?" e lui mi rispondeva "No, ma tu mi vuoi bene? Sei sicura?" ed io gli dicevo "Ma tu non
mi devi fare queste domande perché è normale che una figlia voglia bene al padre, ma ti rendi conto
che tu invece non mi vuoi bene come un padre, tu ti stai impossessando di me", cioè io comunque
cercavo di farglielo capire in un modo o in un altro, e poi lui mi vedeva piangere e alla fine avevo
pure iniziato a bere la birra.
GIP = Tu hai iniziato a bere?
C = Sì, da un bel po' perché lui sapeva che ormai avevo capito che era molto male quello che mi
faceva, che non era un gioco e quindi io mi andavo a comprare la birra, bevevo davanti a lui, a mia
madre e tutti mi dicevano che non dovevo bere, però sapevano il motivo. E quando ero sola con mio
padre e mia madre era in cucina, gli dicevo "È tutta colpa tua se io bevo, non ti rendi conto!"; ma io
bevevo perché volevo essere totalmente ubriaca che dovevo dire tutto a mia mamma e invece poi lui
mi portava nella mia stanza.
PM = Ritorniamo, allora, a quando tu portavi l'acqua a tuo padre: che cosa accadeva?
C = Nella stanza da letto eravamo soli io e lui; io avevo paura e così chiamavo pure mia mamma,
però lei diceva che a lui non importava di lei: "Vuole te, Claudia, che devo fare io se quello vuole te,
mica devo stare qui anch'io!" - diceva.
PM = E poi che cosa succedeva?
C = Mia mamma se ne andava e rimanevo sola io nella stanza. Poi lui mi faceva sedere vicino al
letto, aspettavo che gli passasse l'asma, ma niente; come si accorgeva che io me ne andavo, lui si
svegliava e si faceva venire l'asma, ed io me ne stavo lì a guardarlo; poi, se capitava che gli passava
ed io me ne andavo a dormire nel mio letto, per tutta la notte mia mamma o mio padre mi
chiamavano. Spesso mia mamma mi diceva: "Claudia, ti vuole tuo padre, alzati!" oppure veniva a
chiamarmi proprio nel letto. Poi ultimamente mi rifiutavo di fare questa cosa, cioè che lui insisteva
che gli dovevo stare per forza vicino, e quindi ero arrivata al punto che mi mettevo i tappi nelle
orecchie per non sentire. Ma poi ero costretta ad andare, anche perché le mie sorelle mi dicevano.
"Tu ci devi andare per forza perché lui ti vuole bene, è così attaccato a te!".
PM = E quindi tutta la notte alla fine restavi vicino a tuo padre?
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C = Quando mi accorgevo che lui stava per arrivare, che lui penetrava dentro di me, che stava
arrivando all'orgasmo, io mi chiudevo nel bagno e stavo un po' lì. Capitava pure che mia madre a
volte si svegliava e mi diceva "Claudia ma che cosa fai nel bagno?" ed io, tutta sconvolta, me ne
andavo nel mio letto nella mattinata, perché erano quasi sempre verso le quattro.
La minore descrive i momenti in cui avviene l'abuso sempre in modo molto dettagliato: non solo
parla di cosa faceva il padre, ma anche dei pochi momenti di interessamento della madre nei suoi
confronti e dei suoi tentativi di reazione.
Spesso riporta intere frasi che lei o qualche altro membro della famiglia ha pronunciato e questo fa
apparire la sua testimonianza ancora più credibile.
PM = E cosa accadeva, invece, quando dormivi lì nel suo letto?
C = La notte lui mi abbassava le mutandine e il pigiama e penetrava dentro di me, a volte mi tirava
proprio su, dalla parte di sopra, e capitava che mia mamma si svegliava e così lui diceva "Dove sono
i piedi di Claudia?"; ed io poi sentivo dolore ogni volta che penetrava dentro di me.
PM = E tu che facevi in quelle circostanze?
C = Io con le mani lo spingevo perché non volevo che doveva penetrare dentro di me.
PM = E poi?
C = E poi quando mi accorgevo che lui mi teneva forte le gambe, cioè io mi accorgevo che arrivava
all'orgasmo, mi alzavo con la forza e me andavo.
GIP = Scusa, ma non facevate movimento e rumore? Tua madre non si è mai svegliata?
C = Mia madre si svegliava quando sentiva movimenti e parecchie volte lui diceva: "Ma dove sono
le gambe di Claudia?". Lui come vedeva che mia mamma si svegliava, subito si toglieva: è stato
furbo.
PM = Ma tua madre è incapace di intendere e di volere, nonostante l'invalidità del 75%?
C = Non lo so, lei a me non ha mai chiesto se stava succedendo qualcosa, se ha capito quello che è
successo.
PM = E tuo fratello non ha mai visto niente?
C = No, ma lui aveva solo quattro anni.
PM = Ma durante questi rapporti ti sei mai trovata bagnata dal liquido spermatico?
C = Sì, sempre bagnata.
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PM = Ma io per bagnata intendo con dello sperma dentro la vagina?
C = Sì, perciò io mi andavo a lavare, perché avevo tutto quel liquido addosso a me, vicino alle
gambe e andavo a lavarmi.
PM = Quindi hai trovato anche dello sperma vicino alle gambe, è così?
C = Sì.
PM = Con che periodicità accadevano questi rapporti?
C = Circa due volte al mese; poi se lui stava male io andavo tutte le sere ma, se lui una sera era
soddisfatto, mi lasciava stare per qualche giorno anche se io andavo da lui ad accudirlo.
Questa domanda era già stata fatta in precedenza, ma anche se doveva servire per dare maggiore
conferma alle parole dette dalla minore non doveva essere posta in modo così suggestivo.
PM = Senti ma l'orgasmo, voglio chiarirti questo; c'è una differenza tra coito ed orgasmo: il coito è il
piacere, cioè tu vedevi tuo padre ansimare, avere piacere oppure tu lo vedevi proprio raggiungere,
diciamo come risultato finale, produrre il liquido spermatico, per cui raggiungeva il piacere
massimo?
C = Raggiungeva il piacere massimo e nello stesso tempo... cioè quando lui se ne usciva il liquido
mi rimaneva a me sulle gambe.
PM = Quindi diciamo raggiungeva l'orgasmo non dentro di te ma fuori?
C = Sì, non dentro di me.
PM = Senti, andiamo all'ultimo episodio, quello che poi, diciamo, avrebbe indotto tuo padre a tentare
il suicidio.
C = La notte tra il 5 e il 6 ottobre 2007 eravamo sole nella stanza io e la mia sorella più piccola. Ma
lui era già venuto anche la notte prima, ma riuscii a buttarlo giù dal letto e gridai talmente forte che
mia mamma si è alzata e l'ha visto in piedi nella mia stanza che mi fissava, ed era solo con le
mutande lui; poi lui ritornò nella sua camera e non so che cosa ha detto a mia mamma, ... se le disse
forse che mi aveva sentito parlare da sola. La sera successiva (notte tra il 5 e il 6), mentre dormivo
(era sul tardi), mi trovai mio padre a fianco e quando ho iniziato a gridare (ho detto soltanto "Ma'")
lui mi ha messo la mano sulla bocca e poi si è messo su di me e ha...
PM = Quindi tu hai gridato quando tuo padre stava vicino al letto (ancora non su di te)?
C = Lui era a fianco a me ed io gli ho detto "Vattene!": però lui non ha voluto sentire e me lo sono
trovato nel letto.
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PM = Lui era nudo o vestito?
C = Lui era solo con le mutande ed io con il pigiama. Io poi mi sono trovata già con le mutandine e il
pigiama su di me, mi ha messo la mano sulla bocca, perché io avevo gridato "Ma'", però mia madre
non mi ha sentito e così lui ha continuato.
GIP = E tu non hai cercato di reagire, di muoverti, di allontanarti?
C = Sì io ho cercato di reagire, però era talmente pesante su di me che non sono riuscita a liberarmi.
GIP = Quindi ti ha allargato le gambe, cioè ti ha costretta a fare questo atto oppure tu sei stata
consenziente?
C = No, mi ha costretto.
GIP = In che modo?
C = Perché mi teneva lì con la forza: io ho cercato di reagire ma lui era pesante su di me che non
potevo. Lui mi diceva. "Zitta, zitta!".
GIP = Ma perché non hai chiuso le gambe? Cioè voglio dire: se una donna non vuole avere un
rapporto, chiude le gambe, le stringe: lui che ha fatto te le ha allargate con la forza oppure le ha
allargate poi dopo?
C = Me le ha allargate lui con la forza e si è messo su di me e quindi io dovevo stare per forza con le
gambe aperte. Lui mi tirava e mi diceva che dovevo rimanere lì.
GIP = E che ha fatto?
C = Ha penetrato con il suo pene nella vagina e ha raggiunto l'orgasmo dentro di me.
GIP = Dentro di te?
C = E poi un po' me lo sono trovato pure sulla pancia e talmente della schifezza quella notte è stata
l'unica notte che non mi sono andata a lavare, mi sono soltanto spogliata perché mi facevo schifo,
cioè era così schifosa quella cosa che...
GIP = E dopo che ha raggiunto l'orgasmo tuo padre è andato nella sua stanza?
C = Se ne è andato normale e mi ha lasciato lì come se io fossi un cane.
GIP = E tu che cosa hai fatto?
C = Io, sentendomi tutta questa cosa addosso, mi sono spogliata e ho buttato tutto in terra e sono
rimasta nel letto a pensare a quello che era successo.
GIP = E tua sorella, che era nella vostra stanzetta, non si è accorta di niente?
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C = Non lo so, credo di no.
GIP = E allora, senti, questo tentato suicidio di tuo padre (del 14 ottobre) tu come lo spieghi? Cioè
come l'hai giustificato dentro di te? Perché tuo padre poi all'improvviso cerca di suicidarsi bevendo
la creolina?
C = Perché si sentiva in colpa, perché lui l'aveva capito che mi aveva fatto la notte tra il 5 e il 6, che
era la cosa più sbagliata che poteva fare.
GIP = Scusa, Claudia, forse ad un certo punto tu hai riferito di tutti questi episodi a qualcuno?
C = Sì a mio fratello Pietro - che lavora fuori - il giorno 9: prima di allora non ne avevo mai parlato
con nessuno.
GIP = E perché hai sentito allora l'esigenza di parlarne con tuo fratello?
C = Perché stavo veramente male e perché mi ero resa conto che quello che stava succedendo era
sbagliato e che in un modo o in un altro dovevo reagire. E quando lui è tornato gliel'ho detto. Avevo
deciso di dirglielo appena arrivato, poi non lo so ho avuto paura di dirglielo perché non mi sembrava
giusto, era appena arrivato, ed allora
ho pensato "rimando". Poi è successo che mio padre ha capito che io l'avrei detto a mio fratello e
così mi ha detto "Non dire niente perché sennò sai che succede!", ma poi ha capito che io avrei
comunque parlato e così se ne è andato per due giorni in campagna.
GIP = A tuo fratello hai raccontato tutti questi episodi che hai detto a noi?
C = No, solo quello della notte tra il 5 e il 6 perché io stavo male e non avevo nemmeno la forza di...
GIP = E tuo fratello che ha detto?
C = Mi ha detto che se avesse avuto mio padre in quel momento lo avrebbe ammazzato. Poi quando
mio padre è tornato dalla campagna mi ha detto mio fratello che l'ha affrontato. A me ha detto "Tu
vai nella tua stanza", ma io ho sentito da dietro la porta che lui diceva a mio padre: "Ma come hai
potuto fare una cosa del genere, è una bambina!". E lui ha risposto "No, ma quella era lei che lo
voleva!", così quando ha detto così sono uscita fuori e ho detto: "Ah! Ero io che venivo da te? Ma sai
che ti sbagli proprio!". E mio fratello ha detto: "Ma se pure era così, tu dovevi capire perché tu hai
50 anni e lei 16, e lei ne aveva 11 e tu 46! Non pensavo di avere anche un padre malato, oltre ad una
mamma!". Poi mio padre si è messo a piangere e a dire a me: "Mi dispiace, mi dispiace!".
PM = Quindi questo tentato suicidio di tuo padre è ricollegabile al fatto che tuo fratello aveva
scoperto...?
C= Sì.
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PM = Ma dopo che tuo fratello ha saputo, tu hai reso noto il fatto anche a tua madre e alle tue
sorelle?
C = No a mia madre no. Io guardavo mio padre con odio e lui me dispiaciuto; le mie sorelle
dicevano guardandoci: "Ci fate schifo, schifo tutti e due, non vi vergognate, noi ammazzeremmo non
solo lui ma anche te che potevi parlare pure prima!". Ed io stavo lì zitta e lui non si sentiva più
accettato in casa e così quella sera ha tentato il suicidio. Mi ha detto: "Perdonami, io non mi rendevo
conto se tu avevi capito prima il male che ti facevo, me lo dovevi dire, ma tu lo devi riconoscere, è
pure colpa tua!"... Mesi prima del primo episodio mio padre spesso mi diceva "Ti è cresciuto il seno,
fammi vedere, fatti toccare" e cercava di toccarmi; ma io mi opponevo e gli dicevo "Ma chi sei tu
per farmi questo, ma ti rendi conto di quello che stai facendo?". Ma lui lo vedeva come un fatto
normale, come se un padre può fare questo su di una figlia. Io poi gli dissi: "Preferisco farlo mille
volte di più con il mio ragazzo che con te!". E lui mi ha risposto: "Ah, preferisci fare l'amore con il
tuo ragazzo e non con tuo padre?".
PM = E tuo padre non si è mai interessato del tuo ciclo mestruale, non ti ha mai chiesto se ti erano
venute o meno le mestruazioni a fine mese?
C = Sì. Un mese, poi, non mi arrivarono ed io mi preoccupai molto e dissi a mio padre la sera,
quando non c'era nessuno in casa, "Guarda che io vado dal dottore"; ma lui mi disse "No, tu non ci
devi andare!" ed io poi non ci andai e dissi "Vabbè, aspetto, se proprio vuoi che non ci devo andare".
E poi mi domandava "Ma ti è arrivato?". Io stavo sempre con l'ansia che non mi arrivavano, ogni
volta che lui abusava di me avevo sempre quella paura.
PM = Ma che tu sappia queste cose che tuo padre faceva con te, le faceva solo con te o anche con le
tue sorelle?
C = Mia sorella grande mi ha detto che con lei ci ha provato.
PM = E ci ha provato come?
C = Mi ha detto che ci ha provato in campagna con lei ma...non lo so, e poi domandammo a casa, a
tavola, a mio padre "Perché hai fatto una cosa del genere? L'hai fatto pure a lei?". A lui sembrava
tutto normale. Cioè quando noi gli abbiamo chiesto, ... io gli ho detto "Tu non l'hai fatto solo con me,
l'hai fatto pure con mia sorella", lui ha detto "No, tua sorella è stata più seria di te: quando io c'ho
provato con lei, lei mi ha dimostrato che è una ragazza seria". Allora io gli ho detto "Ma come, ci
provi con le tue figlie per vedere se le tue figlie sono serie o no?! Ma che te ne importa a te! Ma
dove si vede la serietà che tu dimostri ai tuoi figli?" .
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PM = Senti... con te ha provato qualche altro membro della famiglia ad avere rapporti sessuali?
C = Sì, il patrigno di mio padre che veniva spesso a casa nostra.
PM = Che cosa faceva questo patrigno, che ha fatto? Cioè come hai fatto a capire che ci aveva
provato con te?
C = Ci voleva provare, ... cioè mi diceva di toccarlo o di abbassarmi i pantaloni. Le mie sorelle mi
avevano detto che anche con loro usava questa tattica. Infatti dicevano sempre alla più piccola che
quando c'era il nonno non doveva mai rimanere con lui da sola. Glielo dicevano sempre. Mio padre
una volta lo cacciò mio nonno, ma lì per lì io non sapevo che mio padre sapeva quello che mi voleva
fare.
PM = Senti... tu sei fidanzata adesso? Attualmente hai un amichetto, un ragazzo con cui ti frequenti?
C = Ruly, lo conosco da più di due anni.
PM = E con Ruly hai mai consumato rapporti sessuali?
C = Sì.
PM = E prima di Ruly hai avuti altri ragazzi?
C = No.
PM = Hai fatto l'amore con altri ragazzi?
C = No.
PM = E Ruly era a conoscenza degli abusi che tuo padre consumava su di te?
C = No, anzi...quando ci siamo messi insieme, i primi giorni, io era molto fredda e lui mi chiese:
"Ma ti è successo qualcosa che sei così?". Ed io dissi: "No, non ti preoccupare".
PM = E lui non si è accorto... voglio dire... che in precedenza tu avevi avuto esperienze sessuali con
altre persone?
C = No, non si è accorto. Anche perché lui lì per lì mi ha chiesto perché non avevo avuto perdite di
sangue ed io cercai in un modo o nell'altro... gli dissi "No è normale, non ti devi preoccupare".
Anche perché io già sapevo in quel periodo, quando avevo avuto il primo rapporto con Ruly, che
mio padre non mi aveva proprio toccato e quindi pensavo - come diceva mio padre - che si
richiudeva e quindi ho detto questo.
GIP = Si richiudeva l'organo genitale?
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C = Sì.
GIP = Senti... con Ruly sei sicura di aver avuto rapporti sessuali una sola volta o ce ne sono stati
altri?
C = No solo a giugno è capitato un paio di volte.
GIP = Un paio di volte? Quindi non una volta soltanto?
C = Sì.
GIP = E ti ricordi dove è successo? Dove vi siete incontrati?
Il GIP giustifica a Claudia la domanda che le ha fatto. È giusto dar conto al minore esaminato in
audizione protetta di ciò che le viene chiesto: è un atteggiamento di chiarezza nei suoi confronti.
C = Eravamo vicino a casa mia, in una casa in costruzione, abbandonata.
GIP = In una casa in costruzione. Questa domanda te l'ho fatta per capire la tua sincerità: anche Ruly
ha detto questo esattamente.
C = Sì. È successo in questa casa in costruzione, lì, ma poiché io avevo sempre paura di mio padre
perché ero costretta a nascondermi, perché lui mi seguiva quelle poche volte che uscivo.
PM = Senti... tuo padre ha mai saputo di questo tuo fidanzamento con Ruly?
C = Gliel'ho detto io dopo nemmeno venti giorni. Appena lui l'ha saputo, sia lui che mio fratello mi
hanno ridotta in un modo...
PM = E perché ti hanno picchiata?
GIP = Quindi tuo fratello Pietro ti ha picchiata?
C = Sì.
GIP = Pietro e tuo padre?
C = No, in questi mesi no; mi ha picchiata successivamente quando mio padre mi ha detto a me... e
allora io gli dissi: "Papà guarda che io sto con un ragazzo albanese ed io gli voglio bene e lui mi
vuole bene". E lui mi ha detto: "Va bene". Quella sera sembrava tutto tranquillo perché lui pensava
che io lo lasciavo. Invece io non lo lasciai. Lui è ritornato a casa e come è entrato, davanti alla porta,
mi ha tirato uno schiaffo e poi lui si è messo alla ricerca di sapere chi era.
GIP = Chiedeva informazioni?
C = Sì, se ne è uscito. E poi alla fine io l'ho lasciato lui dopo due mesi.
GIP = E perché?
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C = Perché mio padre mi ha detto che lo dovevo lasciare, altrimenti lo picchiava. Adesso,
ultimamente, diceva pure che si voleva comprare una pistola.
PM = Tuo padre sostiene che lui ha cercato di suicidarsi perché era rammaricato, dispiaciuto per
questo tuo fidanzamento con Ruly. È vera questa circostanza, secondo te?
C = Cioè che lui...
PM = Tuo padre dice "Io ho cercato di suicidarmi perché non volevo che mia figlia frequentasse
Ruly".
C = Sì credo che era pure quello il motivo, ma perché scopo suo.
GIP = Ti ha mai detto "Guarda che se continui a stare con Ruly io mi suicido?".
C = Sì me l'ha detto, pure dopo che è stato in ospedale. Ha chiamato mio fratello in ospedale due
giorni dopo e gli ho detto "Pensavo che rispondesse mio fratello al telefono. Mi passi Pietro?". E
quello: "No sono papà; parla con me". Ed io ho risposto: "No non voglio parlare con te, voglio
parlare con Pietro". E quello mi ha
detto: "Ma dimmi una cosa, ancora stai con l'albanese?". Poi è arrivato mio fratello e gli ha detto:
"Ma ancora non l'hai capito che la devi lasciar perdere?".
GIP = Ma Pietro non sapeva niente di tutto quello che era successo tra te e tuo padre, degli abusi?
C = Lo sapeva già questo: è successo dopo il fatto della chiamata in ospedale, dopo il tentato
suicidio.
GIP = Ma Pietro ti ha picchiato per la storia con l'albanese?
C = Sì mi ha picchiato. Lui e mio padre, perché io gli volevo bene a Ruly e non volevo lasciarlo e
continuavamo a sentirci e vederci e lui mi ha detto: "Non hai capito che lo devi lasciar stare? Papà ha
detto così e così deve essere. Quando hai diciotto anni fai quello che vuoi". Allora quando ha
scoperto che io ci stavo ancora - perché mio fratello non sopporta le bugie - mi hanno picchiato lui e
mio padre, che c'era pure mia nonna quel giorno a casa.
PM = Senti...ma non c'è stato nessuno della famiglia che si è accorto di questo tuo rapporto
particolare con tuo padre, di questo legame un po' particolare che legava te a tuo padre e tuo padre a
te?
C = Mia zia Lucia. Da molto tempo se ne era resa conto. Infatti dopo il funerale di mio nonno,
poiché Ruly aveva aiutato a portare la bara, mio padre mi aveva aggredito dicendo che ero stata io a
portarlo e tutte questa storie qua. Allora quando mio padre se ne andò dentro, mia zia mi disse: "Io
non credo che sia quello il motivo. Ma perché tuo padre è così attaccato a te? Cosa è successo?". Ed
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io le ho detto: "Se tu sei una zia devi capire che cosa è successo". Infatti poi non ne abbiamo più
parlato. Però poi quando lui ha tentato il suicidio io ho detto a mia zia: "Che se ancora non hai
capito... questo e questo è successo".
PM = Ah, le hai parlato?
C = Sì quando mio padre era in ospedale perché lei è venuta a casa e voleva sapere le sue condizioni;
allora gli ho detto: "Questo e questo è successo". E lei si è messa a piangere.
PM = Quindi hai raccontato a tua zia tutti gli abusi che tuo padre ha fatto su di te?
C = Sì. Lei si è messa a piangere perché comunque mi credeva e poi quando mio hanno chiamato a
fare la visita dal ginecologo io ho chiamato pure lei perché mia sorella prima ha detto di sì, che
veniva, e poi si è rifiutata e non è venuta. Poi ho chiamato mio fratello e lui mi disse: "No, tu ci devi
andare dal dottore perché se hai qualche malattia o qualche cosa lo devi sapere ora...perché tu sai che
papà è malato o che se ti mischia qualche cosa è meglio che lo sai". E poi mi disse ancora: "Ma dillo
a mamma se viene". Io ho parlato con mia mamma, ma lei mi ha detto "No, no io non ci vengo",
perché lei è scossa dai Carabinieri perché anche lei ha fatto una causa qui in tribunale.
PM = Una cosa voglio capire: tua zia aveva compreso quello che faceva tuo padre o tu gliel'hai detto
specificamente?
C = La sera dopo il funerale lei aveva capito qualcosa.
GIP = Il pubblico ministero vuole sapere quando tu hai riferito di questi episodi a tua zia?
S = Dopo il tentato suicidio di mio padre.
GIP = Quindi le hai detto chiaramente quello che era successo.
C = Sì e lei l'ha riferito a mia nonna.
GIP = Però lei aveva intuito qualcosa il giorno del funerale? Tu hai detto questo?
È giusto, durante l'audizione protetta, fare ogni tanto un riassunto di quanto detto dal minore. Ciò
permette sia di verificare se quanto appreso è quello che il testimone voleva esprimere, sia di far
capire al bambino che l'interlocutore lo sta ascoltando.
C = Sì.
GIP = Adesso...per riassumere brevemente: quando tu sei stata in campagna da sola con tuo padre è
iniziato il primo abuso nell'agosto del 2002: tu così hai detto...poi lui ci ha riprovato altre volte, cioè
lui ha approfittato di te altre volte mentre stavate in campagna?
C = Tentava ma non c'è riuscito.
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GIP = Poi dopo, tutte le altre volte si sono verificate a casa?
c = Sì.
GIP = A casa quando lui ti chiamava ed era a letto con tua madre e il tuo fratellino, là gli portavi
l'acqua e lui approfittava di te?
C = Sì.
GIP = Mi hai detto poi in un passaggio che tua madre qualche volta sentiva qualche rumore e si
svegliava e così tuo padre si toglieva da sopra. È così, ho capito bene?
C = Sì. Si svegliava di più quando andavo in bagno.
GIP = Cioè alla fine insomma?
C = Sì.
GIP = Cioè quando tuo padre ti stava sopra e ti penetrava, lei non si è mai svegliata o si è girata?
C= Lei sentiva rumori e chiedeva i piedi miei dove erano e li metteva vicino a quelli di mio fratello.
GIP = Quando tua madre si svegliava e chiedeva qualche cosa, tuo padre si fermava?
C = Sì.
PM = Ricordiamo, comunque, che parliamo di una donna che ha il 75% d'invalidità.
Difesa = Sì ma che c'entra, c'è comunque una presenza.
PM = Quindi voi eravate abituati a dormire in quattro in un letto in sostanza?
C = Sì.
PM = Questo letto matrimoniale quanto è grande?
C = Come un letto matrimoniale.
PM = Gli abusi che tuo padre ti faceva avvenivano di solito a notte inoltrata o nelle prime ore?
C = La notte tardi, mentre gli altri dormivano.
I vari studi di psicologia svolti sulle audizioni dei minori hanno evidenziato che l'aggiunta di
particolari nel racconto, anche se insignificanti per la verifica della commissione del fatto, sono
indice di un racconto veritiero.
PM = Ed infine si è verificato quell'episodio tra il 5 ed il 6 ottobre?
C = Sì.
PM = Queste ultime due volte sono successe nella camera da letto tua e delle tue sorelle?
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C = Sì.
PM = Senti... tu hai detto che sei stata fidanzata con Ruly per due anni circa. Ma quando uscivi con
lui tornavi a casa tardi oppure avevi un orario?
C = No, cercavo sempre di tornare a casa prima che mio padre veniva sennò lui sarebbe venuto a
cercarmi e mi avrebbe picchiato. Comunque circa verso le sei ero a casa e uscivo verso le quattro e
mezzo, le cinque.
PM = Ma è mai successo che una sera era tardi e non eri ancora tornata a casa e tuo padre ti è venuto
a cercare per tutto il paese? Cioè è mai successo che sei tornata verso le nove, le dieci?
C = No mai.
PM = Quindi tu e Ruly vi incontravate dalle quattro alle sei di pomeriggio?
C = Sì.
PM = E così dalle sei in poi tu stavi a casa e non uscivi più?
C = Sì. Poteva talvolta capitare che lui tardava e così anch'io tornavo un po' dopo. Ed altre volte
capitava che tornavo e lo trovavo che era già tornato ed era in giro per il paese ad ispezionare. Poi
oltretutto mi aveva messo le spie perché spesso incontravo mio cugino che mi diceva: "Tu quello lo
devi lasciare stare. Tuo padre mi ha detto che ti devo sorvegliare". Tutti le stesse cose mi dicevano.
PM = Ma le tue sorelle tornavano più tardi di te la sera a casa?
C = Sì. Loro facevano quello che volevano perché tanto c'ero io a casa. Perché se io non ero a casa
mio padre andava a giro per il paese a cercarci, mentre se io ero a casa era tranquillo e non andava e
così pure loro erano tranquille.
PM = Tu mi hai già riferito nel mio ufficio queste cose che hai raccontato oggi, ti ricordi?
C = Sì.
PM = Ma quella volta non hai riferito la circostanza che quando si verificavano questi abusi di notte
nel letto c'era anche il tuo fratellino. Perché non me lo hai detto allora?
C = Perché non mi sembrava importante.
PM = Quindi oggi confermi che ogni volta che si verificavano questi abusi c'era sempre il tuo
fratellino?
C = Sì.
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PM = E lui dormiva in quei momenti e quindi non si accorgeva di niente oppure si accorgeva pure
lui di qualche cosa?
C = Credo di no. Lui ha un sonno pesante.
PM = Prima di venire qui a raccontarci tutto quello che hai detto, hai subito delle pressioni da
chicchessia per non rivelare tutto questo, cioè da parte dei tuoi familiari o di altre persone?
C = Sì erano tutti d'accordo che io dovevo ritrattare, anche l'avvocato qui presente. Cioè si era deciso
che io dovevo cercare di far capire al giudice che ero nel dubbio, che io ero "caduta" con più uomini.
E dovevo usare questo termine per far capire che ero di poco valore.
GIP = Queste cose sono successe dopo l'arresto di tuo padre?
C = Sì.
GIP = E chi è che ti ha detto che dovevi cercare di confondere la situazione?
C = L'avvocato di mio padre, mio fratello Pietro e mia sorella.
GIP = I tuoi parenti, tuo fratello e tua sorella cosa ti dicevano?
C = Dicevano che dovevo ritrattare perché sennò mio padre rimaneva in galera. Dicevano che non
dovevano far capire le cose reali e dire che ero stata con più ragazzi, usando il termine "caduta" in
modo da giustificare la visita ginecologica. Tutto questo era stato pensato dall'avvocato di mio padre
perché, essendo il suo avvocato, doveva farlo uscire. Mio fratello ha cercato di farmi venire i sensi di
colpa, dicendomi che papà ha la psoriasi e che stava male. E poi mi ha detto: "Ti ricordi cosa devi
fare quando ci sarà l'incidente probatorio?". Ed io gli ho detto: "Io dirò la verità, perché la verità è la
migliore cosa".
4.6. Interrogatorio della psicologa
PM = Dottoressa lei ha ricevuto da me l'incarico di assistere dal punto di vista psicologico la minore
e di redigere una relazione in ordine alle condizioni psicofisiche della stessa. Vuole riferire quali
sono stati gli esiti della sua relazione e quali poi sono state le sue conclusioni?
Psicologa = Sì, io ho assistito all'audizione della minore la prima volta... mi pare nel novembre del
2007. È stata fatta un'audizione congiunta, c'erano anche il pubblico ministero ed il giudice per il
Tribunale per i minori. Ricordo sia il contenuto delle dichiarazioni della minore, sia la sua
sofferenza, perché in quella situazione Claudia era già stata sentita in precedenza. Invece
nell'audizione del novembre del 2007 era in una situazione psicologica di grande disagio per il fatto
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che alcune figure parentali l'avevano condizionata e quindi lei aveva detto che tutte le dichiarazioni
fatte
precedentemente non corrispondevano al vero. Aveva detto che aveva mentito prima: quindi era
stata un'audizione particolarmente angosciosa per la ragazza perché è stato necessario darle tutto il
tempo per calmarsi, riflettere e poi raccontare quello che in realtà aveva già raccontato con altri
elementi, con altri dettagli.
PM = Ha spiegato lei oppure l'ha spiegato la ragazza stessa questo suo iniziale atteggiamento?
P = Claudia l'ha spiegato semplicemente, purtroppo questa è una situazione che si verifica molto
spesso: una situazione di violenza intrafamiliare. Sostanzialmente lei nelle sue dichiarazioni iniziali,
che se ricordo bene ha fatto anche alla presenza di alcuni fratelli o del fratello o di una delle sorelle non ricordo - aveva raccontato di aver subito questi gravi fatti di violenza da parte del padre da
quando aveva /11 anni. Successivamente, proprio al livello di dinamica familiare, si era creata una
situazione particolare, per cui sembrava che le dichiarazioni di Claudia dovessero poi sconvolgere
completamente l'equilibrio di questa famiglia, cioè la "normalità" di questa famiglia. E questo ha
determinato dei messaggi paradossali nei confronti della ragazza, che si è trovata a vivere una
situazione di responsabilità e di colpa, nonostante fosse lei la vittima. Cioè io ricordo proprio le
parole di Claudia: "Io mi sento in colpa perché mi hanno detto che così io rovino la mia famiglia".
Questo era, un po' in sintesi, il suo vissuto. Inoltre Claudia viveva con sofferenza e con un senso di
responsabilità eccessivo per la sua età tutta la sua situazione familiare, ma soprattutto si preoccupava
e, a tutt'oggi purtroppo è ancora così, anche di quella che era poi la realtà dei fratellini più piccoli,
quindi avvertiva proprio su di sé questo peso, cioè nella sua percezione così confusa e di grande
sofferenza lei diceva "Forse questo mio dire le cose può creare problemi ai miei fratellini", anche
perché era questo il messaggio che lei aveva ricevuto dalle figure familiari e parentali.
PM = In particolare ha riferito anche di pressioni da parte di fratelli o di sorelle?
P = Sì. Anche per quanto riguarda quell'audizione del novembre del 2007 Claudia fu accompagnata
dai fratelli, ...non ricordo se da tutti e tre, ...mi sembra da una sorella e dal fratello Pietro.
Naturalmente era stata da loro invitata - non voglio dire
minacciata o ricattata - ma sollecitata a ritrattare le dichiarazioni fatte. Per cui quando poi, nel corso
dell'audizione, è riuscita a fermarsi dal punto di vista proprio del racconto ed ha fatto capire che non
riusciva a mentire, non riusciva a portare avanti questa tesi che si era inventata tutto per fare un
dispetto al padre per la relazione che aveva iniziato con questo giovane albanese, quando poi è
scoppiata dal punto di vista emotivo, la prima cosa che io ricordo di aver sentito è che la ragazza ha
detto "Adesso ho paura dei miei fratelli". Tant'è che in quello stesso giorno Claudia è stata
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allontanata dai fratelli, che non poteva o doveva vedere o sentire in quella situazione psicologica.
Infatti la ragazza avvertiva che contro di lei si era stabilita una dinamica familiare perversa, perché
non aveva rispettato gli accordi o i messaggi che loro le avevano dato. Un'altra cosa che ha riferito
Claudia e che ha colpito la mia sensibilità è stata una frase che lei ha detto a proposito delle sorelle:
nel momento in cui Claudia chiedeva conforto e sostegno per questa esperienza tragica, la sorella le
disse: "In fondo se questa cosa è durata tanto tempo probabilmente faceva piacere anche a te!". E
quindi si può dire che il "dopo" è stata un'ulteriore situazione di sofferenza e violenza psicologica
per questa ragazza, che tuttora presenta una serie di disturbi di tipo nevrotico, del sonno (ancora ha
degli incubi)...derivanti anche dal fatto che vive una situazione di caos proprio dal punto di vista
affettivo ed emotivo, anche se insomma sta molto meglio rispetto a prima.
PM = Quindi... diciamo... che la situazione psicologica della minore, per quello che lei ha avuto
modo di verificare, è compatibile con il racconto della minore stessa, cioè quello di una ragazza
abusata per anni, fin dalla sua più tenera età?
P = Ritengo di sì, proprio perché il quadro di personalità che presenta Claudia coincide con quelli
che sono i presupposti teorici di una struttura di personalità segnata da esperienze sessuali precoci e
di tipo incestuoso, cioè lei presenta i tratti tipici della ragazza sessuale abusata a livello
intrafamiliare, che è la violenza più terribile e più devastante dal punto di vista della personalità.
Infatti, anche quando la ragazza ha riferito i vari episodi, li ha raccontati nella sua percezione di
figlia ed ha continuato a dire (e sembra paradossale per chi ascolta ma è comprensibile dal suo punto
di vista): "Io mi fidavo di mio padre, io non capivo inizialmente che cosa mi stava succedendo" e poi
comunque c'era un atteggiamento, anche se ambiguo, di venerazione verso questo padre alla cui
figlia sembrava garantire poi, anche se solo sotto l'aspetto dell'immagine, una normalità familiare
che in realtà non esisteva.
PM = Io non ho altre domande Presidente, chiedo solo l'acquisizione della relazione.
La difesa
Avv 1 = Senta Dottoressa...nei lunghi colloqui che ha avuto con Claudia, la ragazza le ha mai riferito
del rapporto che aveva con Ruly, il suo fidanzato?
P = Sì, ci sono stati anche dei colloqui tra il giudice minorile e questo giovane. Io quindi l'ho anche
conosciuto in Tribunale questo ragazzo. La relazione di Claudia con Ruly era in questa cornice così
complessa, dal punto di vista proprio delle relazioni, che essa era un "pezzetto di normalità" della
sua adolescenza. Claudia ha raccontato con molti particolari le relazioni del genitore nei confronti di
questo giovane e dal suo racconto si capiva che quanto più prendeva consistenza questa relazione di
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tipo affettivo, tanto più aumentavano le reazioni di aggressività e di violenza da parte del padre. Gli
stessi fratellini più piccoli di Claudia hanno riferito al giudice minorile e a me...
Avv 1 = Dottoressa lei deve rispondere alla mia domanda, non tergiversi.
P = Sì, rispetto alla relazione che Claudia aveva con Ruly...se lei mi dice che cosa vuol sapere...
Avv 1 = Le riferiva quali rapporti avevano i due ragazzi?
P = I rapporti che ci sono normalmente tra un ragazzo e una ragazza.
Avv 1 = Sessuali?
P = Sì, Claudia mi ha detto di aver avuto dei rapporti sessuali con questo ragazzo.
Avv 1 = Gliel'ha mai descritti? Ha avuto un rapporto, due, tre, quanti?
P = O uno o due, non di più.
Avv 1 = Completi?
P = Non credo di poter rispondere a questa domanda perché la ragazza non ha fornito elementi
specifici su questo punto, né le sono stati chiesti.
Avv 1 = Quindi le ha parlato solamente dei rapporti con Ruly?
P = Sì.
Avv 1 = Di questi rapporti sessuali?
P = Sì.
Avv 2 = Dottoressa io so che voi professionalmente siete una delle più preparate in materia di
psicologia; quindi voi non avete mai pensato, sempre basandovi sulla vostra esperienza professionale
e tecnica, che questa giovane abbia voluto traslare la figura del fidanzato con quella del padre e
viceversa, o per nascondere l'uno o per nascondere l'altro, una trasposizione di immagini e dunque
un mutamento di versioni dovuto ad un fatto introspettivo e retrospettivo di ciò che è stato un
rapporto sessuale o più rapporti avuti con altri, magari dietro la figura paterna?
P = No avvocato, io personalmente non ho mai avuto dubbi per una serie di motivi. Innanzitutto
perché, nella mia esperienza professionale, ho ascoltato moltissimi bambini e ragazzi abusati, e poi
perché anche dal punto di vista teorico e dal punto di vista di quelli che sono gli studi di psicologia o
di psicopatologia dell'età evolutiva ci sono degli indicatori che tolgono la maggior parte dei dubbi,
per quanto riguarda questi fenomeni, che sono più di tipo surreale (come quelli che descrive
Claudia). In quanto non è pensabile, non è possibile che un bambino, un ragazzo o una ragazza arrivi
a fare queste trasposizioni, a meno che non ci sia nella personalità di questa giovane persona un
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problema di sdoppiamento della personalità. Questo può avvenire anche in un ragazzo che ha
disturbi di tipo psicotico, cioè schizofrenico, schizoparanoico, ed è possibile avere dei riscontri di
sdoppiamento della personalità. Ma Claudia presenta, dal punto di vista della personalità,
semplicemente un quadro clinico che è di tipo nevrotico, e non psicotico, ed è scaturito dalla
situazione familiare incestuosa che la ragazza ha vissuto. Se i rapporti sessuali li avesse avuti
soltanto con Ruly, lei mi deve spiegare avvocato come mai questa ragazza, a distanza di due anni, ha
incubi notturni, soffre di disturbi del sonno e racconta ancora delle cose relative agli abusi sessuali
subiti da parte del padre.
Avv 2 = Qual è il limite tra stato psicotico e stato paranoico?
P = I disturbi nevrotici e psicotici presentano una differenza, seppur sottile, che può essere
comunque marcata dal punto di vista dei sintomi. I sintomi nevrotici sono quasi sempre presenti
nella persona minore o adulta che subisce violenze o abusi fisici o psicologici e si tratta
sostanzialmente di reazioni fobiche, reazioni d'ansia e vissuti depressivi che possono essere transitori
o comunque di rilevanza clinica ma reversibili. Invece la persona, sempre minore o adulto, che soffre
di disturbi psicotici presenta un quadro clinico che è irreversibile e che può essere soltanto contenuto
da un punto di vista terapeutico o farmacologico, ma sostanzialmente rimane invariato nel tempo,
mentre il quadro nevrotico può essere remissibile dal punto di vista dei sintomi, perché con una
psicoterapia, con un intervento specifico di tipo psicologico ci può essere una remissione del
sintomo.
Avv 2 = È possibile che la ragazza abbia voluto o potuto reagire al divieto dei genitori o del padre di
poter uscire con il ragazzo albanese?
P = Allora questo può succedere quando ci sono effetti provocati, cioè reazioni particolari dovute
all'assunzione di sostanze in genere. Nel caso della ragazza di cui stiamo parlando questo problema
credo che non esista, in quanto non mi risulta che Claudia abbia mai assunto sostanze psicotrope o
droghe leggere o altro.
Avv 2 = Quindi voi pensate che la minore sia linearmente sana e non abbia potuto creare un fatto del
genere?
P = Avvocato questi fatti non si creano, si vivono. Ci può essere un comportamento di tipo fantastico
e così confabulatorio da parte di una persona, quasi mai di un bambino, situazione mentale di grave
disfunsione, di gravi deficit sia dal punto di vista psicologico sia cognitivo. Ma questa non è la
situazione di Claudia.
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Avv 2 = E come livello di deficit o come livello intellettivo da 1 a , lei che livello assegnerebbe a
Claudia?
P = Nessun punto. Le posso soltanto dire che Claudia non presenta deficit di tipo cognitivo. Presenta
una personalità segnata e "ferita" esclusivamente dalla situazione familiare che ha vissuto.
Avv 2 = Io non sono convinto. Non ho altre domande.
Presidente = Senta...lei è riuscita a comprendere e a farsi un'idea, dagli incontri che ha avuto con la
minore, che cosa l'ha spinta a svelare gli abusi che aveva subito a distanza di anni? Cioè questi abusi,
che aveva subito a distanza di anni, ...che cos'è che l'ha spinta a rivelare tutto ciò?
P = Credo...mi rifaccio anche alle parole riferite dalla stessa ragazza...lei ha detto "Io pensavo di non
raccontare mai perché ritenevo giusto non parlare per non compromettere l'equilibrio della mia
famiglia; poi invece mi sono resa conto che stavo scoppiando per tutta una serie di circostanze".
Probabilmente un evento (questa è una mia interpretazione personale), un evento che ha in qualche
modo scatenato questa forza e questo coraggio della ragazza nel dichiarare quanto aveva subìto.
Deve essere stato il tentato suicidio del padre - non so...è stato clinicamente definito questo l'evento ed esso ha scatenato in lei probabilmente delle reazioni particolari. Claudia aveva anche detto, prima
e dopo il racconto della sua esperienza, che comunque negli ultimi tempi c'era una situazione di
grande attrito e gelosia dal punto di vista del comportamento del padre nei suoi confronti per il fatto
che lei chiedeva forse di uscire con il ragazzo. L'altro aspetto che aveva assunto evidentemente un
significato inquietante proprio nella vita di Claudia è che lei ha raccontato che aveva iniziato così di
tanto in tanto a bere in modo esagerato: e questo era un altro aspetto che sicuramente le rendeva la
vita ancora più complessa e più difficile. Anche questo è un sintomo, un segno di nevrosi e di
reazione, una risposta nevrotica ad una situazione di sofferenza, di disagio. Comunque l'alcol poi
provoca un ottundimento, un offuscamento delle capacità mentali. Quindi c'erano queste cose che,
probabilmente, tutte insieme hanno determinato il suo racconto.
Presidente = Va bene, grazie, abbiamo finito.
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Capitolo V
E noi? Cosa possono la famiglia, la società e la scuola
Molti studiosi sostengono che per poter agire contro la persona abusante, bisogna innanzitutto
ammettere che l’abuso non è stato ancora adeguatamente studiato, anche perché la società, e la
comunità scientifica al suo interno, ha sempre cercato di esorcizzare questo problema o negando che
esista, oppure cercando di relegarlo nell'ambito delle mostruosità, ovvero di quei casi talmente rari e
aberranti da non meritare neppure uno studio sistematico.
Occorre attivare ricerche serie e pianificate sulle ipotesi di trattamento dell’abusante, sulla possibilità
di prevenzione. Il fatto è che l’abuso si può evitare: attraverso un'educazione serie e intelligente, una
crescita armonica e un'attenzione profonda al comportamento. E attraverso la creazione di una
società in cui l'amore non abbia bisogno di rivolgersi a oggetti impossibili, come sono appunto i
minori.
E noi, cosa possiamo fare, come dobbiamo agire? Noi, "gente comune", tanto per cominciare
dovremo assumere un atteggiamento meno passivo, meno limitato alla critica e più orientato
all'attività, alla denuncia, alla sensibilizzazione. Occorre non lasciarsi andare all'approccio egoista,
superficiale e sbagliato del sentirsi estranei a questi problemi, perché ogni problema che piomba
sulla società è legato alle azioni di tutti, alle decisioni, alle sterili e ipocrite lamentele, al coraggio di
cambiare le cose. Forse è proprio da qui che possiamo fare qualcosa: cominciare un opera di
sensibilizzazione sociale sul problema. La sensibilizzazione è un passo fondamentale,
indispensabile, per creare una "coscienza" collettiva sul fenomeno, per mantenere attiva l'attenzione
e la vigilanza, per non far sentire soli ed "eroi" quelli che quotidianamente dedicano il loro tempo a
questa battaglia... la sensibilizzazione è il gradino indispensabile per ogni genere di risorgimento, di
rivoluzione, di costruzione responsabile.
Ma come sensibilizzare? Innanzitutto, semplicemente, non distraendosi troppo, ricordando a tutti la
pericolosità della distrazione (che provoca spesso negligenza e complicità), parlando del problema,
facendo conoscere chi lotta contro questa piaga, parlando delle possibili azioni da compiere per
collaborare.
Probabilmente è vero che l'opinione pubblica è già consapevole del fenomeno e fortemente motivata
e contrariata ad esso, ma forse, solo in parte: basta pensare, a tutte quelle delicate situazioni in cui la
violenza sui minori avviene in ambito familiare (il 90% circa). Secondo molti, c'è anche una volontà,
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inespressa ma chiara, di "normalizzare" il fenomeno, di renderlo via via meno "scandaloso", fino a
trovare una sorta di compromesso nella società (uno di quelli, troppi, che la società cosiddetta civile
fa con la morale, con la giustizia, con la vita, con la coscienza, con sé stessa).
D'altra parte però il rischio di un eccessivo e deleterio allarmismo è alle porte.
Ed ecco ancora l'articolo 21 della Costituzione, a difesa delle parole perché, finché di solo pensiero
si tratta, non possiamo e non dobbiamo, assolutamente e mai, negare un diritto che è alla base del
concetto di libertà.
5.1. L'educazione come difesa
Il pericolo dell’abuso sui minori è un pericolo reale per lo stesso e non possiamo pretendere che il
piccolo si difenda da solo. Il minore, non è in grado di difendersi perché è tipico del periodo della
crescita mantenere un atteggiamento di fiducia nei confronti del mondo esterno. E quando questa
fiducia viene colpita o sconfessata, la relazione che il minore stabilisce con il mondo rimane
amputata, e finisce per costituire un limite grave al suo sviluppo psicologico.
Secondo alcuni psicologi, insegnare a difendersi non significa insegnare a sospettare di tutto, perché
il clima di sospetto blocca il minore, che non esplora più il mondo, non fa più le esperienze che lo
fanno crescere. La libertà, la spensieratezza, la fiducia sono beni troppo preziosi per essere immolati
sull'altare della paura. Ad un piccolo non si può insegnare la diffidenza, anzi è importante educarlo a
voler bene, a stabilire relazioni positive, a rispettare se stesso e gli altri perché è qui il punto: è nel
rispetto di se stessi la chiave della protezione e dell'autoprotezione.
Dire che il minore non può autodifendersi, non significa però, che non può essere difeso. Il minore
va difeso, è la società a doverlo difendere, non solo la mamma, o il papà, ma la scuola, il quartiere,
tutta la società deve prendere le difese del minore.
La famiglia è certamente la struttura primaria esistente in quasi tutte le società, con in compito
fondamentale di definire le relazioni, le regole, fra i componenti il nucleo familiare, e di essere la
matrice della personalità in formazione dei minori che le appartengono; infatti, attraverso processi
psicologici come l'identificazione e l'introiezione delle figure genitoriale, il minore va a strutturare i
cardini della sua personalità, le basi del suo essere nel mondo. I genitori innanzitutto dovrebbero
evitare di limitare le percezioni del piccolo, non dovrebbero certamente ingabbiarli tra le sbarre dei
loro condizionamenti e dovrebbero fare in modo che le regole non derivino dalle loro paure, rigidità
o pregiudizi. Per essere buoni genitori, ad esempio, occorre che i figli siano più lodati che criticati;
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occorre usare con loro dolcezza, pazienza, da loro la sicurezza di esserci quando ne hanno bisogno;
prestare ascolto non solo alle loro parole, ma soprattutto ai sentimenti; evitare di etichettarli
(fannulloni, svogliati, incapaci) perché ciò intacca la stima del Sé, facendoli diventare insicuri e
fragili; essere attenti ai loro periodi di crisi, comprendere che i loro comportamenti "non accettabili"
mascherano il loro disagio, che forse non riescono a comunicare differentemente eccetera.
Certamente sono i genitori, in sostanza, i primi a dover crescere i propri piccoli, educarli alla
legalità, insegnare loro a distinguere il bene dal male ecc. Ma rimane il fatto che la società non deve
limitarsi a intervenire soltanto in extremis, quando ormai la questione può essere affrontata e risolta
soltanto dal Tribunale dei minori. Anzi, tutti noi dovremo renderci conto che ogni problema di un
minore, ogni sua necessità, è un estremo. Il punto nevralgico della difesa, è quindi radicato
nell'educazione, e poiché i minori sono anche una proprietà sociale, deve essere anche la società ad
educarli. A questo proposito però, occorre sottolineare come ancora oggi, il concetto di educazione
sembra essere separato dal concetto di istruzione. L'istruzione viene limitata all'ambito della scuola e
questa istituzione risente di un'impostazione elitaria, in cui la mira principale sembra essere quella di
creare Manager e professionisti, gente in grado di distribuire profitto e non persone in grado di
vivere felici. Per questo, se da un lato la famiglia tende ad attribuirsi l'esclusiva dell'educazione dal
punto di vista morale e del comportamento, la scuola sembra ancora rinchiusa in un bozzolo di
nozionismo in cui si cerca di sviluppare soltanto il pensiero e l'intelligenza dei minori.
L'importante quindi è fornire un'educazione sociale che comprenda un coordinamento di tutte quelle
"agenzie" cui è affidato il compito di aiutare i bambini a crescere (genitori, scuola, attività sportive,
ricreative, culturali, religiose), che si accordino in una serie di metodologie e di messaggi coerenti da
comunicare al bambino per renderlo una persona adattata e felice. Educare deve significare
sostanzialmente trasmettere al bambino la percezione dell'appartenenza a un gruppo sociale. Il
bambino dovrebbe comprendere di trovarsi all'interno di una comunità, come membro dotato di
senso e di autonomia propri, ma allo stesso tempo integrato e difeso da tutti gli altri. L'educazione
sessuale in particolare, non deve essere ridotta ad un'esclusiva trasmissione di informazioni che
riguardano il corpo umano.
Non deve essere soltanto un insegnare nozioni di anatomia e fisiologia dell'apparato riproduttivo; ciò
che quasi sempre manca, che viene tralasciato, quasi come se fosse un di più nella vita sessuale di un
individuo, è l'aspetto del sesso legato ai sentimenti, alle emozioni, a tutte quelle qualità che lo fanno
definire "amore". L'adulto educatore, dovrebbe essere preparato ad ascoltare i bambini e i ragazzi, a
ricercare insieme le risposte ai loro interrogativi; l'educatore, insegnante o genitore che sia, deve
essere in grado di sintonizzarsi con gli aspetti interiori dei minori, far emergere le paure, le
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ambivalenze, il disagio che il parlare di sesso può generare. Sono proprio la vergogna di parlare, la
distorsione delle informazioni che i bambini ricevono, che possono aprire la strada ai loro abusanti;
la confusione delle emozioni, il turbamento delle sensazioni che un minore può avere in un incontro
con la sessualità dell'adulto derivano da una sua mancata e sana educazione emotivo-sessuale, dal
ritenere giuste modalità che lo trasformano in un oggetto alla mercé dell'abusante, poiché mai gli
adulti hanno avuto cura di costruire con lui quelle adeguate.
L'educazione sessuale, se non insegnata adeguatamente, è inutile, se non addirittura dannosa.
Rispondendo esclusivamente alle motivazioni degli adulti, ricade sui minori confondendoli
ulteriormente e creando tutte quelle false verità delle quali il mondo degli adulti è notevolmente
pieno. Un tipo di educazione sessuale che non tenga presente degli aspetti emozionali-affettivi
relativi alla sessualità, finisce per mantenere saldi, falsi valori legati solo alla dimensione corporea,
confermando la sub-cultura attuale con tutti i problemi connessi. L'obiettivo che deve avere
l'educatore, è quello di far acquisire ai minori la coscienza che la sana sessualità dell'uomo consiste
nella capacità di comunicare i propri sentimenti attraverso il corpo in una perenne osmosi tra psiche
e soma, fra interiorità e corporeità.
La scuola infine, assume nella società un ruolo imparagonabile nella crescita dei minori. Proprio le
scuole elementari, ad esempio, in cui è maggiore la curiosità dei bambini nei confronti del proprio
corpo e del corpo altrui, sono il momento migliore per introdurre quegli elementi di educazione alla
sessualità che dovranno essere integrati nell'educazione sociale e di gruppo. Il corpo del bambino e
della bambina possono essere oggetto di studio e di gioco a scuola e diventare uno dei tanti banchi di
prova, dei laboratori dell'attività e dell'interazione di gruppo. E la scuola può trasformarsi anche in
un centro diagnostico, perché sono proprio gli insegnanti i migliori osservatori in grado di accorgersi
di tutta una serie di disturbi dell'apprendimento, della parola e della socialità, in modo da garantire al
minore che questi tipi di problemi vengano risolti senza creare in lui quelle paure e quel senso di
inferiorità che aggravano i sintomi e a volte li cronicizzato.
Perché questo avvenga è necessario che gli insegnanti interpretino la loro professione in maniera
ampia, senza arroccarsi dietro le descrizioni rigide delle proprie mansioni, ma comprendendo che la
loro funzione è unica, e il loro ruolo di operatori sociali è insostituibile.
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Conclusioni
A conclusione del mio studio sull'accertamento e l'intervento delle istituzioni italiane di fronte ai casi
di minori presunte vittime di abusi sessuali emerge chiaramente come, nonostante vi sia stata una
maggiore attenzione al "problema sommerso" dei maltrattamenti, delle violenze e negligenze nei
confronti dell'infanzia, ancora vi siano varie problematiche da risolvere.
Il documento Proposte di intervento per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del
maltrattamento, elaborato nel 1998 dalla Commissione nazionale per il coordinamento degli
interventi in materia di maltrattamenti, abusi e sfruttamento sessuale di minori, segnala in particolare
alcuni problemi che anch'io ho riscontrato, attraverso la mia ricerca, nella realtà italiana.
1) Manca, nelle varie realtà territoriali italiane, un coordinamento tra i vari professionisti che
operano di fronte ad un caso emerso, al fine di evitare inutili sovrapposizioni di attività e per
prevenire disarticolazioni dell'intero processo d'intervento: è importante, dunque, progettare un
modello operativo comune, su base nazionale (oggi presente solo in alcune realtà territoriali come
protocollo regionale), che unifichi il lavoro degli operatori e far sì che tale progetto venga poi
utilizzato effettivamente nella prassi; è necessario anche favorire una specializzazione comune tra i
vari operatori affinché essi possano avere una conoscenza condivisa dell'oggetto di cui si devono
occupare. Devono essere inoltre realizzati "canali di comunicazione" che facilitino la segnalazione
dei casi di sospettata violenza su un minore e, nello stesso tempo, la richiesta di aiuto non solo da
parte della vittima ma anche delle persone a lui vicine. Dobbiamo prendere atto, infatti, che ci sono
molte remore a rivolgersi ai servizi pubblici ed i motivi sono molteplici: perché il servizio non è
facilmente individuabile; perché il servizio pubblico, una volta contattato, è obbligato a fare rapporto
all'autorità giudiziaria e si ritiene dai più che un intervento penale non sia sempre vantaggioso per il
minore; perché si teme una burocratizzazione dell'intervento; perché i servizi pubblici sono ritenuti
più strumenti di controllo che di aiuto.
Tutto questo deve portarci a concludere che sono necessarie strutture specializzate, ben collocate sul
territorio, che sappiano fornire l'aiuto adeguato al caso proposto e che riescano a collegarsi con gli
altri operatori in modo da formare una vera "integrazione tra servizi".
2) Manca, inoltre, una procedura univoca per raccogliere e valutare la testimonianza del minore
presunta vittima di abuso: non soltanto la figura dello psicologo non è stata ancora accolta in tutte le
realtà territoriali come soggetto che pone le domande al minore nell'interrogatorio, essendovi un
dibattito sulla legittimità di tale procedura che pone tale operatore come "filtro" rispetto alla
valutazione del giudice, ma non sono utilizzati ovunque neanche i criteri per valutare la veridicità del
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resoconto testimoniale del minore. Questo però comporta che un fatto simile è valutato diversamente
a seconda del luogo in cui vengono compiuti l'accertamento e l'intervento conseguente.
È auspicabile, dunque, la predisposizione di protocolli d'intervento per la raccolta e la valutazione
della testimonianza del minore, su base nazionale e specifici per i vari settori, che siano validati dalle
ricerche e dal lavoro dei vari esperti sul campo e che riescano a tutelare gli interessi del minore
coordinandoli con quelli dell'imputato. Oggi infatti esistono in Italia solo linee-guida generali
sull'argomento, come quelle elaborate in Gran Bretagna, che nella prassi vengono seguite in varie
realtà territoriali ma non perché ciò sia imposto da una regola di procedura a base nazionale.
È necessario superare l'emotività.
Oggigiorno la collettività sta prendendo coscienza dei molti abusi fisici e psicologici che vengono
compiuti a danno dell'infanzia, ma tutto ciò, insieme anche all'attività di stampa e televisione, crea
un "clima emotivo" che rischia di rendere del tutto sterile questa presa di coscienza del problema. Vi
è il forte rischio che l'emozione e l'indignazione restino "epidermiche" se si fermano ad osservare il
fenomeno dal punto di vista esteriore. Questo potrebbe portare, alla fine, a considerare la violenza
sui minori come una delle tante notizie che appaiono sui nostri giornali e, quando anche la nostra
indignazione morale sarà satura, allora nessuno più si scandalizzerà di sentire che un minore è stato
abusato da un genitore.
È dunque necessario un'approfondimento culturale ed un impegno di indagine riguardo a tale
problema: dovrebbero essere attivati, nelle varie parti d'Italia, degli osservatori sull'infanzia in
collegamento tra loro, i quali dovrebbero cercare di realizzare un'attività di prevenzione (soprattutto
nei confronti dei bambini a rischio), creando anche adeguate strutture territoriali che si occupino del
problema dal punto di vista pratico.
4) Bisogna riuscire ad abbattere la "cortina del silenzio" che ancora esiste sui casi di abuso sessuale
ai minori, facendo emergere dal sommerso i tanti casi di abuso non denunciati esplicitamente.
Questo significa innanzitutto mostrare una sensibilità più profonda nei confronti di questo problema.
È infatti facile esprimere indignazione di fronte ad un episodio eclatante di violenza presentato dai
mezzi di comunicazione, ma poi quando il fenomeno si presenta in forme più nascoste oppure
quando è proprio vicino alle nostre case allora il cosiddetto "rispetto della privacy" si traduce in
sostanziale omertà.
Far crescere la sensibilità delle persone su questi problemi - perché siano più capaci di rendersi conto
delle violenze di cui sono vittime molti minori - significa, in primo luogo, diffondere una corretta
informazione sui temi della identificazione e della prevenzione delle violenze all'infanzia. Tale
informazione deve essere rivolta, da una parte, a tutti (e perciò i mezzi di comunicazione sono
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chiamati a svolgere un ruolo educativo essenziale, abbandonando sensazionalismi controproducenti)
ma, dall'altra, specificamente a coloro che hanno quotidiani contatti con i bambini (pediatri,
insegnanti, operatori sociali) e che possono accorgersi per primi di un loro cambiamento d'umore o
di segni fisici sospetti.
Far crescere la sensibilità implica anche un'adeguata diffusione della conoscenza reale del bambino e
dei suoi bisogni e questo dovrebbe essere l'obiettivo dell'attività svolta dai media, dalla scuola e dalle
varie strutture di assistenza sociale (in particolare dei consultori familiari).
Non va enfatizzato l'intervento penale.
Di fronte alle ricorrenti notizie di violenza all'infanzia l'immediata conseguenza è la richiesta, da
parte dell'opinione pubblica, di un inasprimento della sanzione penale, ritenuta la più idonea a
contrastare tale fenomeno.
La previsione di una sanzione penale per certi comportamenti evidenzia - da una parte - come, per la
collettività, alcuni beni della vita abbiano una tale rilevanza da esigere una pesante sanzione come
quella connessa alla responsabilità penale e - dall'altra - pone dei precisi limiti, che devono ritenersi
invalicabili alla libertà dell'individuo. Si realizza così una rilevante funzione pedagogica nei
confronti del costume collettivo.
Ma non possiamo per questo enfatizzare ed incrementare l'intervento penale. In primo luogo perché,
nella società attuale, si riconosce sempre più che il diritto non ha, come si riteneva in passato,
soltanto la funzione di proteggere gli atti leciti tramite la repressione degli atti illeciti, ma tende
sempre più a stimolare ed incentivare l'esercizio degli atti conformi, cioè di quegli atti che possono
dare risposte appaganti ai problemi della persona.
In secondo luogo perché, in un ambito così complesso e delicato come quello dello sviluppo delle
persone e della funzione educativa, sanzionare un comportamento illecito non significa affatto che il
comportamento auspicato sia realizzato. E questo sia perché ci sono dei comportamenti illeciti che
non possono rientrare in specifiche norme incriminatrici (ad esempio molte attività educative di
genitori, caratterizzate da forti condizionamenti e deprivazioni del minore), sia perché la mera
possibilità di una sanzione penale non scoraggia la commissione di reati posti in essere nei confronti
di persone che non sono in grado di esprimere adeguatamente la propria sofferenza. Questi
comportamenti, inoltre, vengono compiuti in un ambiente come quello familiare che resta
impermeabile al controllo sociale e quindi alla possibilità di portare alla luce l'illecito.
Infine perché l'irrogazione di una pena non solo non ripara l'ordine violato, ma è a sua volta motivo
di drammatiche conseguenze proprio per la vittima del reato.
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Con tutto ciò non si vuole però bandire ogni intervento penale a tutela del minore: si vuole invece
incentivare una tutela del minore "reale e costruttiva" da parte dell'ordinamento, principalmente
attraverso interventi di sostegno, recupero e prevenzione.
Bisogna uscire da un'ottica puramente assistenziale.
La violenza all'infanzia non è un problema autonomo rispetto a quello più generale della violenza
presente nella nostra società. Dunque, per poter combattere il primo fenomeno non si può
prescindere dall'individuazione delle cause sociali, psicologiche e culturali dalle quali deriva
l'aggressività umana.
La violenza sui minori costituisce, sicuramente, il segnale di una profonda alterazione della normale
dinamica della vita familiare e sociale. È necessario, quindi, realizzare una ristrutturazione delle
relazioni che la famiglia di oggi possiede e realizza nel suo ambiente. Questo implica un intervento
coordinato tra momento politico e momento assistenziale, ma anche un coinvolgimento in questa
azione comune di tutti i servizi di socializzazione e di sostegno del minore e della sua famiglia e di
tutte le risorse comunitarie che spontaneamente operano sul territorio. Non dobbiamo infatti pensare
che la violenza all'infanzia possa essere contrastata solo operando una migliore distribuzione dei
servizi o una loro maggiore specializzazione e privatizzazione. Questo perché un'eccessiva
specializzazione dei servizi nei confronti dei bambini maltrattati se da un lato forma operatori con
un'adeguata competenza, dall'altro rischia di frammentare l'unitarietà di un intervento complesso che
deve, invece, prendersi in carico tutti i problemi connessi alla vita di relazione del nucleo familiare
in cui il minore vive.
Dunque, se si vuole prevenire la violenza all'infanzia è indispensabile uscire da "un'ottica
meramente assistenzialistica" che rischia di esaurirsi in un intervento sulle situazioni patologiche
individuate, senza risolvere veramente i problemi. Non è perciò sufficiente moltiplicare i servizi,
istituzioni educative e risorse comunitarie: certo è auspicabile una migliore organizzazione dei
servizi esistenti, ma nessuna "ingegneria sociale" potrà da sola realizzare risposte veramente
esaustive.
Quello che dovrebbe essere fatto consiste nella creazione di una significativa "rete di solidarietà" tra
i membri della comunità, che potrà fornire al minore tutto ciò di cui ha bisogno: dunque, deve essere
predisposto un "progetto" sostenuto e condiviso da tutta la comunità.
È necessario costruire e diffondere una "nuova cultura dell'infanzia", in cui il bambino venga
considerato come "valore" da proteggere. Nella società di oggi, infatti, vi sono numerose sub-culture
riduttive della sua personalità e delle sue esigenze: ad esempio è ancora forte la sub-cultura "della
Grande madre", in cui il bambino è simbolo di massima espressività femminile e per questo ad essa
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ricollegabile, oppure anche quella di tipo patriarcale-autoritario, la quale impone rilevanti limitazioni
alle possibilità di espressione del bambino. È dunque necessario il superamento di tutte le varie subculture esistenti nella nostra società in quanto sono radicate su aspetti limitati della realtà globale del
bambino; dovremmo riscoprire, invece, i bisogni della sua personalità nel suo complesso e quindi
non solo riconoscere le sue reali esigenze, ma anche riconoscerlo come protagonista della sua
esistenza.
Costruire una simile nuova cultura dell'infanzia non può, però, essere un compito esclusivo degli
specialisti delle varie discipline che si occupano del minore e delle sue esigenze; è necessaria anche
la partecipazione della collettività nel suo complesso. E questo non solo per rompere quella
progressiva deresponsabilizzazione che impedisce agli "adulti senza qualità e senza ruolo" di sentire
come proprio il problema; ma principalmente per essere aiutati a scoprire la realtà del bambino da
chi, vivendo quotidianamente il suo normale percorso di crescita, può più facilmente intuirne le
esigenze e valorizzarne le potenzialità.
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