2 - Commissione Adozioni Internazionali

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2 - Commissione Adozioni Internazionali
LE COPPIE ADOTTIVE E I TEMPI DELL’ATTESA
Le coppie adottive e i tempi dell’attesa
nel monitoraggio dei principali forum web.
Un’ipotesi di lettura
Antonio D’Andrea
Psicologo e psicoterapeuta
Essere adottata significa essere adattata, essere amputata e poi ricucita. Che ti ripigli o no, la cicatrice resterà sempre.
A.M. Homes
1. Premessa
Nella realtà sociale in cui viviamo coesistono ormai diversi modelli familiari: insieme a quello tradizionale sono presenti famiglie monoparentali, famiglie ricostituite, famiglie multiculturali, famiglie affidatarie e famiglie adottive.
Queste ultime rappresentano una realtà ormai consolidata nella nostra cultura da diversi decenni e preesistente alle altre forme di essere famiglia. La complessità di questi modelli familiari ci deve indurre da una parte a non assumere un atteggiamento semplicistico di assimilazione e dall’altra a riflettere sulle
conseguenze affettive e relazionali che queste trasformazioni comportano.
Assumendo come parametro di osservazione la prospettiva dei processi evolutivi familiari è necessario ridefinire il ciclo vitale di ciascun modello per tentare di individuarne gli eventi critici prevedibili e imprevedibili. Conoscere questa “operatività familiare”, gli stili di funzionamento, i tempi e le modalità con
cui si affrontano fasi di disorganizzazione e come si ricostruisce un equilibrio,
come si utilizzano risorse e limiti, interni ed esterni permetterà ai vari componenti delle famiglie di conoscere le sfide evolutive che dovranno essere affrontate per stimolare quella consapevolezza e responsabilità necessaria per
effettuare scelte mature (Hajal, Rosenberg, 1991; Walsh, 1995). Parlando di
famiglie dobbiamo sempre tenere presente che le scelte degli adulti debbono
essere orientate alla tutela e alla cura dei bambini, in modo che queste trasformazioni sociali non siano associate al disgregamento o alla perdita dei
valori affettivi fondamentali.
2. I tempi dell’attesa
nella famiglia
adottiva
Il tempo dell’attesa rappresenta sicuramente uno degli eventi critici imprevedibili più stressanti per la famiglia adottiva per almeno tre motivi:
• per l’incertezza dell’esito del tempo dell’attesa;
• per l’imprevedibilità della durata di questo tempo;
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• per la difficoltà di valutare le risorse della coppia che ha manifestato la
disponibilità ad adottare un bambino dopo aver vissuto l’attesa di un
figlio per almeno tre volte.
Partendo da questa ultima considerazione bisogna sottolineare che la coppia che matura la decisione di adottare un figlio ha già vissuto l’esperienza
dell’attesa per altre due volte con emozioni contrastanti collegate con l’entusiasmo che comporta il desiderio di diventare genitori e la conseguente delusione di vedere minacciato o vanificato questo progetto.
Nella fase della formazione della coppia spesso il desiderio di avere dei figli
fa parte di un non detto fra i partner. La scelta procreativa è quasi data per
scontata, casomai è la scelta di non volerne a essere esplicitata. Ne consegue
che quando la coppia progetta di avere un figlio mette se stessa e l’intero
sistema familiare allargato in attesa. Questa prima attesa si carica così di
diverse valenze emotive significative sul piano individuale, coniugale, intergenerazionale e sociale a seconda del significato che quel figlio rappresenta e
«che cosa delle famiglie d’origine verrà continuato» (Cigoli, Galbusera
Colombo, 1980). Ma non sempre un figlio è il frutto di un desiderio: può, invece, succedere che sia l’espressione di un bisogno: un figlio, per esempio, può
essere progettato con l’intenzione di soddisfare le esigenze di una coppia o
realizzare sogni, aspettative degli adulti. Sono bambini che nascono con una
missione da compiere e rischiano di non essere visibili rispetto ai loro bisogni
di accudimento e cura (Andolfi, 2003).
Il tempo di questa prima attesa, comunque, si trasforma per tutte le persone coinvolte in un tempo pieno di paure e angosce se succede qualcosa che
possa compromettere o minacciare la realizzazione del progetto di avere il
figlio. Queste emozioni negative si cominciano a materializzare alle prime difficoltà incontrate dalla coppia e a seconda della cultura di riferimento dei partner possono essere condivise, per trovare un sostegno affettivo e un incoraggiamento, oppure, adducendo motivi di riserbo, la coppia si isola e tende a
essere evasiva sull’argomento.
Quando queste difficoltà sono indicative di limiti oggettivi di un partner o
della coppia allora quest’ultima cerca una soluzione rivolgendosi a un centro
di fecondazione assistita. Per superare il limite biologico la coppia si affida al
mondo medico e scientifico. Qui comincia la seconda attesa per la coppia, che
deve ritrovare quelle risorse necessarie per affrontare quest’altra sfida dall’esito non scontato. I diversi tentativi, non sempre indolori, fanno vivere la coppia in un clima di incertezza e instabilità che possono comprometterne la
“tenuta emotiva”. Purtroppo c’è da dire che non tutti questi centri offrono quel
sostegno psicologico necessario a coloro che vi si rivolgono sia durante il
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tempo necessario per “curare” e risolvere il problema che di fronte a un eventuale esito negativo del trattamento.
Quando una coppia riceve una diagnosi definitiva di sterilità biologica vede
vanificati tutti i tentativi fatti per avere un figlio. La conseguente angoscia
investe tutte le persone coinvolte nei diversi piani familiari e spesso ci si interroga sul da farsi. Queste due prime attese che hanno frustrato i desideri della
coppia provocano non solo delusione ma anche una profonda stanchezza
(D’Andrea, 1999). L’evento imprevedibile della sterilità biologica modifica gli
equilibri individuali, ridefinisce l’assetto del patto coniugale, obbliga una
famiglia a ricostruire i propri confini emotivi e pone l’intero sistema familiare
di fronte ai tabù e pregiudizi che un tema di questa portata sollecita.
Non si sottolineerà mai abbastanza la necessità di affrontare questi temi
così delicati a livello sociale. Purtroppo, per esempio, se si parla di sterilità
ancora si parla poco di quella maschile; oppure se si affronta questo tema
spesso si analizzano solo le soluzioni per superare questo limite e quasi mai
su come questo può essere accettato. È come se vivessimo in un clima culturale in cui “tutto è possibile”, tutti i limiti sono superabili e il mondo medico e
scientifico a volte contribuisce ad alimentare questa illusione. Questo modo di
pensare ci convince che di fronte a dei limiti insuperabili l’unico strumento che
abbiamo a disposizione sia l’agire, il fare, trascurando la possibilità di poter
elaborare le nostre esperienze dolorose.
L’elaborazione comporta sia la possibilità di comprendere le nostre vicende umane sia la capacità di riconoscere e contenere gli stati emotivi associati
agli eventi che viviamo. Dall’equilibrio tra questa parte cognitiva e quella emotiva derivano le nostre strategie di adattamento; diversamente rischiamo di
spostare tutto sul piano dell’azione e perdiamo quelle competenze razionali
ed emotive che caratterizzano la nostra condizione umana.
La sterilità biologica è stata associata da molti studiosi a un evento luttuoso e come un lutto deve poter essere elaborato per permettere che le scelte
successive siano l’esplicitazione delle ritrovate risorse che la coppia ha voglia
di investire (Matthews, Matthews, 1986; Terkelsen, 1980). La scelta adottiva
non può rappresentare in alcun modo una ricerca di compenso al “vuoto” che
la coppia vive perché potrebbe alimentare aspettative improprie nei confronti
di un figlio da adottare né tanto meno l’espressione della negazione della coppia a gestire la propria sofferenza rischiando poi di mostrarsi poco accogliente o incompetente di fronte alla sofferenza di cui è portatore il bambino. La
mancata elaborazione del lutto della sterilità è come un boomerang che, nei
momenti critici che la famiglia adottiva dovrà affrontare, ritorna con una
dirompenza impressionante.
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La coppia che decide di manifestare la propria disponibilità ad adottare un
figlio si apre al rischio: nel senso che in questa fase deve essere aiutata a riconoscere e valutare quali sono le risorse e i limiti di cui è portatrice, come ha
superato le delusioni provocate dalle due precedenti attese, come si è modificato il loro rapporto con il tempo e quali conoscenze possiede in riferimento alla
decisione presa. La disponibilità a confrontarsi con gli operatori sociosanitari
potrà far maturare una scelta responsabile e consapevole sia di adesione al progetto adottivo sia di un’ulteriore attesa che di un ripensamento. Questa scelta,
comunque, fa entrare la coppia e il sistema familiare allargato in un’altra attesa,
anche questa non priva di insidie e incertezze, che ha l’obiettivo primario di far
ri-nascere le giuste motivazioni per adottare un figlio (D’Andrea, 2000).
Molti di questi argomenti sono presenti negli interventi presenti nei forum
web dedicati all’adozione. In particolare una prima considerazione riguarda il
modo in cui le persone parlano del tempo dell’attesa. Spesso il tempo di cui
parlano le persone è quello futuro, quello della soluzione, quello in cui il bambino è arrivato. Sembra che il tempo presente, quello dell’attesa, non assuma
un significato rilevante se non in funzione del raggiungimento dell’obiettivo
preposto. Il rischio sottostante è che questo tempo sia considerato inutile, un
tempo perso, dove tutto quello che si fa è quasi senza importanza perché
quello che ridarà senso alla vita sarà l’evento che dovrà realizzarsi. Tutto poi
potrà essere rivisitato, riacquisterà un significato da quella nuova prospettiva.
Nel nostro vivere quotidiano c’è un modo di dire che recita: “ingannare l’attesa” che la dice lunga sul difficile rapporto che abbiamo con l’attendere e che,
culturalmente, associa l’attesa a un tempo perso non vitale. Inoltre nei forum
viene scarsamente considerata la possibilità che l’attesa non sia coronata da
un esito positivo. Quando, invece, si prospetta questa eventualità allora se ne
attribuisce la colpa alla burocrazia e all’insensibilità degli altri.
Indubbiamente le attese infinite o indefinite logorano e stressano ma credo
anche che l’insofferenza e, a volte, anche l’irritazione delle persone che scrivono siano l’espressione di un disagio vissuto in una profonda solitudine che
bisognerebbe sostenere e accompagnare. Proprio perché non c’è una “cultura
dell’attesa” il primo obiettivo che abbiamo come operatori è quello di aiutare
le persone a “entrare” in questo tempo: un tempo da riappropriarsi come
tempo significativo e vitale per evitare che si viva in una dimensione sospesa
del tempo, in un limbo, in un “non tempo”.
Non possiamo dimenticare che, parallelamente alle emozioni evidenti
riconducibili a valenze reattivo-aggressive (che coinvolgono anche più facilmente la solidarietà e la reattività degli altri), esistono emozioni in qualche
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modo indicibili in un ambiente anonimo come quello del web e queste, spesso, sono associabili ai sensi di colpa e alla vergogna provati. Quella che gli
operatori sono chiamati ad attivare nei confronti delle coppie adottanti è prevalentemente una relazione d’aiuto, altrimenti c’è il rischio di essere percepiti soltanto come professionisti che debbono valutare le potenzialità genitoriali della coppia e selezionare quelle ritenute idonee.
3. Compiti evolutivi
della coppia in attesa
Ma, per non rimanere nel vago, quali sono i compiti evolutivi che una coppia
in attesa deve affrontare in questa fase? Credo che per ridare senso e vivere il
tempo dell’attesa come un tempo vitale si debbano ricostruire quattro aree.
3.1 L’area individuale
Come è già stato detto la sterilità biologica rappresenta una grave ferita
dell’identità psicologica, sociale e corporea, che, come ricorda Soulé, «implica una rinuncia definitiva alla realizzazione dell’ideale dell’Io […] e che può
sfociare nella depressione, nell’impoverimento narcisistico e nell’annientamento» (Soulé, 1968). Per questa ragione ogni persona deve essere aiutata a
riconoscere e circoscrivere l’area del danno. L’esperienza della sterilità non
deve essere negata ma non può diventare l’evento traumatico su cui si organizza la nostra vita, la prospettiva dalla quale si legge la nostra esistenza:
deve poter essere elaborata ma non deve ostacolare la ri-nascita e il re-investimento delle parti vitali della persona.
3.2 L’area coniugale
Ricostruire lo spazio coniugale comporta “risposarsi”, stipulare un nuovo
patto. Il tempo dell’attesa deve poter essere utilizzato da parte della coppia
per mettere le fondamenta per quella che sarà una relazione accogliente.
Molto dipenderà da quanto i coniugi saranno stati capaci di ri-accogliersi in
seguito agli eventi frustranti vissuti.
Anzitutto occorre rivitalizzare l’area della sessualità ferita dall’insuccesso
procreativo ma anche dalle interferenze tecniche patite nei centri di fecondazione assistita. Culturalmente nella nostra società la sessualità è da sempre associata alla procreazione e fa fatica a essere riconosciuta come un valore indipendente. Riscoprire una sessualità non finalizzata ad avere dei figli permetterà ai
coniugi di ridare un senso al piacere, alla reciproca attrazione e alla passione: ingredienti necessari per rinsaldare il legame matrimoniale. Inoltre la coppia deve
superare eventuali sensi di colpa e riconciliarsi con scelte del passato finalizzate
a non avere figli in quella fase della loro vita (es. scelte contraccettive, aborti).
Un coppia che sa prendersi cura di sé e dei propri bisogni, inoltre, non vivrà
il futuro impegno genitoriale in competizione con quello coniugale ma entram116
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bi saranno immaginati come complementari. Un figlio, infatti, vivrebbe colpevolmente il suo ingresso in famiglia se questo a qualche livello venisse associato o avesse contribuito a deprimere o uccidere lo spazio coniugale.
La coppia è chiamata a ri-costruire una nuova progettualità dove lo spazio
ritrovato della condivisione, della reciprocità e del contenimento delle emozioni dolorose diventa una risorsa rinnovata per scelte future. Queste energie
saranno necessarie per affrontare il progetto adottivo con un atteggiamento
realistico.
3.3 L’area
intergenerazionale
La scelta adottiva non è una questione privata che riguarda soltanto una
coppia ma coinvolge l’intero sistema familiare dei coniugi. Anche se il legislatore ha introdotto la norma dell’assenso dei futuri nonni all’adozione di un
minore al fine di rendere paritario, da un punto di vista giuridico, il figlio adottato e quello naturale, in realtà dobbiamo estendere questo concetto.
Dobbiamo trovare il più ampio consenso possibile intorno alla scelta della
coppia in modo che il bambino adottato si possa sentire “dentro” gli affetti
dell’intera famiglia allargata.
Ho trovato interessante e degna di nota l’iniziativa trovata nei forum dell’ente Amici Trentini che ha pensato di proporre uno spazio specifico Incontro attesa nonni per stimolare e sensibilizzare i diversi membri della famiglia estesa e,
in particolare, i nonni sulla scelta adottiva in modo che il bambino adottato si
possa sentire da subito accolto e amato e non sentirsi discriminato rispetto ai
“nipoti biologici”. Credo che questi incontri da una parte servano anche a trovare nuove motivazioni ed energie utili per affiancare e sostenere la coppia adottante e dall’altra, dopo tante frustrazioni, a non trasformare il tempo dell’attesa
in una sorta di “resa dei conti” su conflitti familiari irrisolti, specialmente da
parte di chi si è sentito “danneggiato” (Binda, Greco, Colombo, 1989).
3.4 L’area sociale
Molte persone nei forum si lamentano della scarsa sensibilità manifestata
da conoscenti, vicini di casa sia rispetto alla lunghezza del tempo dell’attesa
sia rispetto a tutta la problematica adottiva. Credo che molto dipenda dal fatto
che all’interno della società civile in Italia ci sia ancora un’insufficiente cultura adottiva. Circolano molte informazioni sul “come si fa”: quanto tempo ci
vuole, quanto denaro è necessario, quali documenti sono necessari, ecc. e si
parla poco del “cosa si fa”: come è già stato detto viene poco affrontato il problema della sterilità, quello dell’abbandono, della condizione dei bambini in
Italia e nei Paesi da dove provengono i bambini. Non si parla quasi mai della
ricerca delle origini come tassello necessario alla costruzione dell’identità dell’adottato oppure dell’interculturalità e dell’integrazione scolastica, ecc.
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Se non si affrontano questi temi centrali dell’adozione contribuiamo a mantenere inalterati i tabù e pregiudizi che abbiamo e permettiamo il manifestarsi di
due atteggiamenti altrettanto dannosi: da un lato un inutile pietismo verso la
coppia incapace di procreare e verso il bambino abbandonato e dall’altro una
sorta di ammirazione verso chi adotta che con questo “bel gesto” salva un bambino da una sorte incerta. Sono luoghi comuni purtroppo ancora molto radicati
nella nostra cultura che potrebbero essere modificati se promuovessimo iniziative sociali di conoscenza e confronto con il grande tema della “diversità” e se
riuscissimo a parlare di adozione non solo tra gli “addetti ai lavori”.
4. Il rapporto
con gli operatori
Anche l’incontro con gli operatori può essere inserito tra gli eventi critici
imprevedibili del ciclo vitale della famiglia adottiva e per certi aspetti presenta
degli elementi non immediatamente comprensibili e paradossali. Infatti sono
incontri necessari e non richiesti dalla coppia. Inoltre (maggiormente nel passato rispetto a oggi) sono colloqui vissuti come tendenti a valutare, giudicare
la coppia, che si pone, specialmente nelle fasi iniziali, in una condizione difensiva. Spesso i coniugi immaginano che debbono fare bella figura, che devono
mettere in evidenza le parti migliori di sé. Oppure altri affermano che i genitori
naturali del bambino, quelli che poi l’hanno abbandonato, non hanno dovuto
fare nessun colloquio di selezione per diventare genitori. O ancora alcune coppie dichiarano che il solo fatto di essere venuti ai colloqui dovrebbe convincere gli operatori della bontà delle loro motivazioni. Infine alcune coppie dai colloqui si convincono che per diventare genitori adottivi bisogna avere delle doti
eccezionali: essere genitori perfetti. È sicuramente una materia complessa e la
banalità delle suddette osservazioni non deve indurci a liquidarle tout court,
anche perché dal modo in cui verranno affrontati questi eventi critici imprevedibili capiremo se stiamo stimolando la nascita di atteggiamenti costruttivi per
la riuscita del progetto adottivo (D’Andrea, Gleijeses, 2000).
Questo è uno dei temi “caldi” incontrato nei forum, dove le persone lamentano una scarsa presenza da parte degli operatori e l’eccesso delle lungaggini burocratiche provocano un profondo sconforto, una sfiducia generalizzata e
l’angoscia che l’attesa possa essere inutile e improduttiva.
Il rapporto con gli operatori rappresenta uno dei punti di protezione o di
rischio dell’intero processo adottivo e dobbiamo poterla vedere come una
relazione d’aiuto. Questa, per promuovere atteggiamenti positivi e collaborativi, dovrebbe essere accogliente, critica e motivante. Una relazione improntata all’accoglienza permette a una coppia di diventare collaborativa e abbandonare quegli atteggiamenti tesi a dimostrare di essere perfetti ed estrema118
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UN’IPOTESI DI LETTURA
mente disponibili perché qualità ritenute necessarie per ottenere un “certificato di idoneità”. Un confronto costruttivo consente inoltre di entrare nelle
aree critiche della storia della coppia per poterle analizzare alla luce della scelta fatta. Il rapporto con gli operatori deve, infine, condurre la coppia ad acquisire quelle conoscenze necessarie per far nascere una reale motivazione
rispetto alle sfide evolutive che dovranno essere affrontate. Naturalmente una
relazione di aiuto non può essere circoscritta a un tempo specifico, come può
essere quello degli incontri prefissati, ma è orientata a una disponibilità e a un
sostegno necessario nelle diverse fasi del processo adottivo.
Un tema altrettanto importante a proposito del rapporto con gli operatori è
rappresentato dalla necessità di sentirsi parte di una squadra dove si sappiano armonizzare le diverse competenze senza rimanere prigionieri del proprio
sapere, affrontare in maniera costruttiva il tema delle risonanze emotive e
costruire un linguaggio e una cultura condivisa accessibile e comprensibile
per i nostri interlocutori. Questo obiettivo si può raggiungere attraverso un
lavoro sistematico di confronto, formazione e supervisione non sottovalutando i rischi derivanti dal lavoro solitario. Non bisogna dimenticare, infatti, che
ogni operatore è figlio/a e, a sua volta, può essere padre/madre, marito o
moglie: è una persona. I modelli di riferimento, le convinzioni e anche i pregiudizi, che ognuno di noi ha, influenzano il setting di incontro con la coppia
adottante. È necessario che questi modelli e convinzioni, oggetto di elaborazione nei diversi contesti di formazione, non impediscano all’operatore di
incontrare e accogliere la coppia reale che hanno di fronte. Questo atteggiamento permette all’operatore di costruire una relazione di aiuto e avere una
posizione empatica con la coppia (D’Andrea, 2003).
5. Dal danno al dono
Ci sono comunque delle criticità, presenti anche negli interventi presenti
nei forum che non possono essere sottovalutate.
Un tema ricorrente nel processo adottivo è rappresentato dal “vissuto del
danno”: quando le persone si sentono danneggiate dagli eventi che debbono
affrontare. Questa idea, che può trasformarsi in convinzione, ovviamente non
nasce né quando la coppia incontra gli operatori, né in quest’ultima attesa, ma
si può riattivare in tutte e due le circostanze. La coppia adottante, infatti,
potrebbe aver dovuto fare i conti con questo vissuto sia quando ha affrontato
il problema dell’assenza di un figlio naturale che quando è stata costretta a
rinunciare a questo progetto dopo l’esito negativo delle cure effettuate presso i centri di fecondazione assistita. Questi eventi potrebbero aver ingenerato
l’idea di un danneggiamento prima biologico e poi tecnico e in quella fase l’a119
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dozione potrebbe essere stata fantasticata come una sorta di risarcimento ai
danni subiti.
L’incontro con gli operatori deve mettere la coppia adottante in una prospettiva opposta: il figlio non può in alcun modo servire a riempire i vuoti della
coppia ma questa deve essere aiutata a trovare risorse proprie per proseguire
nella scelta adottiva (Farri Monaco, Peila Castellani, 1994). Purtroppo il tempo
dell’attesa può mettere invece la coppia in una condizione di passività e di
delega nei confronti degli operatori spesso percepiti come figure che possono
realizzare i desideri di un figlio da parte della coppia. Quando, invece, si percepiscono intralci o rallentamenti rispetto all’obiettivo allora può subentrare
di nuovo l’idea del danneggiamento. Le persone che intervengono nei forum
allora parlano di silenzio eccessivo, mutismo o risposte sibilline da parte degli
enti; di giudici «che hanno cose ben più importanti da fare» rispetto alla
richiesta di informazioni più precise sui tempi o, ancora, si parla «dell’incapacità italiana a gestire l’adozione… rispetto ad altri Paesi come la Spagna»; o,
infine, della costernazione «per aver affidato la nostra vita, in un momento
così delicato, agli enti». Affermazioni che evocano l’idea del sentirsi danneggiati e che aprono la strada a un senso di profonda sfiducia nei confronti degli
enti e degli operatori. A questo proposito è interessante sottolineare che
quando prevale questa ultima sensazione gli operatori sono quasi “anonimi”
mentre quando il progetto si realizza magicamente gli operatori sono riconosciuti con un nome e con delle qualità positive.
Sembra superfluo sottolineare che quando le persone sono prese dall’angoscia di un’attesa interminabile può subentrare una visione romantica, mitica,
salvifica dell’adozione. Frasi come «i nostri figli ci aspettano al di là del mare»
mettono in evidenza che non esiste soltanto una condizione di danno per la coppia che attende ma che l’attesa prolungata provoca ulteriori danni anche nel
bambino che aspetta di essere adottato. Questa considerazione può essere condivisa ma sarebbe riduttivo immaginare che una relazione adottiva, partendo
dai danni subiti, abbia una funzione prevalentemente riparativa o, peggio, salvifica. Non si sottolineerà mai abbastanza la pericolosità dell’assunzione di un
atteggiamento salvifico da parte dei genitori adottivi nei confronti del figlio
adottato. Questo pone il bambino in una condizione di debito di riconoscenza,
in una sorta di “indebitamento affettivo” difficilmente saldabile e indurlo a credere che si verrà amati, accolti (e quindi non abbandonati di nuovo) nella misura in cui si corrisponderà alle aspettative dei genitori. Una dinamica quest’ultima che è molto presente nelle consultazioni cliniche con famiglie adottive.
Un’altra conseguenza negativa dell’idea che si adotta un figlio “da riparare” è quella di immaginare che il danno reale di cui è portatore il bambino sia
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UN’IPOTESI DI LETTURA
un danno cronico e, quindi, non riparabile. Quando queste fantasie si strutturano in convinzioni possono condizionare la futura relazione adottiva e indurre i futuri genitori a vedere solo le “aree danneggiate” del bambino e non le
sue potenzialità.
Il vissuto del danno e il bisogno di essere risarciti può compromettere la ricostruzione di spazi di fiducia verso gli altri, inibire la ri-nascita di parti vitali
del sé e “cronicizzare” le persone nell’area danneggiata inducendole a vedere
la realtà da quell’unica prospettiva. Quando, invece, le persone vengono aiutate a osservare la realtà da più prospettive allora all’idea del danno si affianca quella del dono. L’esperienza adottiva interpretata come dono reciproco si
arricchisce così della valenza della gratuità affettiva e la libera da vincoli di
sdebitamento (Scabini, Cigoli, 2000).
6. Il rapporto
con la famiglia
di nascita
del bambino
Un ultimo tema rilevante presente nei forum è rappresentato dal confronto
con le famiglie che hanno figli naturali. Alcune persone vivono colpevolmente
l’invidia provata e altre, che hanno già adottato un figlio, provano a rassicurarle dicendo che è abbastanza normale provare questi sentimenti. Colgo comunque l’occasione per sottolineare che la coppia adottante vive due confronti: il
primo con le coppie che hanno figli naturali, che mettono la coppia di fronte alla
propria incapacità a procreare e il secondo, sicuramente più complesso e carico di emozioni, che è quello con la famiglia di nascita del bambino.
È questo un tema delicato ed è un altro evento imprevedibile che si presenta in almeno tre fasi del ciclo vitale della famiglia adottiva: durante il
tempo dell’attesa, quando il figlio viene adottato e durante la fase dell’adolescenza. Sono momenti diversi e sollecitano emozioni e sentimenti diversi.
Come già osservato in precedenza la coppia, durante il tempo dell’attesa,
deve ri-costruire lo spazio dell’immaginazione e della fantasia: è il momento
in cui ri-nascono sogni, aspettative. E queste spesso riguardano il bambino, la
sua storia e le sue esperienze precedenti l’adozione oltre che le proprie capacità genitoriali. È comunque già durante questo tempo che si costruiscono i
presupposti fantastici per adottare e accogliere non solo il figlio ma anche la
sua storia, le sue origini e la sua cultura.
Anche se in questi ultimi anni si adottano bambini più grandicelli spesso è
ricorrente durante l’attesa il desiderio di adottare un figlio neonato con la
motivazione che si attaccherà più facilmente non avendo subito particolari
traumi e anche perché così l’esperienza adottiva assomiglierà maggiormente
a quella naturale. In realtà il desiderio del bambino “destorificato”, senza passato, spesso nasconde la paura della coppia a confrontarsi con la famiglia di
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LE COPPIE ADOTTIVE E I TEMPI DELL’ATTESA
nascita del bambino e con le esperienze precedenti l’adozione ritenute dannose per la futura relazione (D’Andrea, 1999).
La storia del figlio adottato rappresenta un tassello significativo della sua
identità e, quindi, non deve essere “cancellata”, negata ma riconosciuta come
un elemento fondante della sua vita: quella storia, nell’esperienza adottiva,
entrerà a far parte della storia della famiglia che lo adotterà. Non sarà solo la
famiglia adottiva che farà sentire il proprio figlio come appartenente ai legami
affettivi della propria storia intergenerazionale ma anche il figlio adottato, per
quanto dolorosa o breve possa essere stata, arricchirà con la sua storia e la
sua cultura di origine la famiglia che lo accoglierà. In questo modo si costruirà un confronto tra le due storie di tipo integrativo dove la famiglia adottiva
idealmente continuerà il progetto che la famiglia di nascita del bambino non
ha potuto portare a compimento. La relazione adottiva avrà quindi un carattere evolutivo se saprà basarsi non solo sul riconoscimento delle somiglianze,
ma soprattutto sulla valorizzazione delle differenze.
7. Conclusioni
L’adozione costituisce un’esperienza particolare per diventare famiglia e
richiede l’impegno a costruire un contesto di reciproca appartenenza in assenza di un legame biologico. Non c’è un percorso unico e sicuro che garantirà il
successo di tale incastro relazionale e affettivo e permetterà a una coppia e a
un bambino di diventare da sconosciuti una famiglia. Il compito che occorre
assolvere è quello di conoscere e analizzare il modello familiare adottivo per
individuare le specificità del suo ciclo vitale in modo che i futuri genitori abbiano quella consapevolezza necessaria per affrontare con senso di responsabilità questa scelta impegnativa. Oggi si parla molto nell’organizzazione del
lavoro di rete dei fattori di rischio e di protezione è quindi necessario cercare
di armonizzare i diversi sistemi coinvolti in questo processo e far sì che le competenze e le risorse in campo contribuiscano alla buona riuscita del progetto
adottivo nelle sue diverse fasi.
Capisco ora che sono un prodotto della storia di ogni mia famiglia, di alcune più
che di altre, alla fine comunque sono soltanto quattro fili attorcigliati che si sfregano l’uno contro l’altro, e che in questo gioco di unione e frizione mi rendono quello
che sono. E a dire il vero non soltanto il prodotto di queste quattro storie: sono influenzata anche da un’altra storia, la storia di che cosa significa essere quella adottata, quella scelta, l’estranea accolta in famiglia.
A.M. Homes
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UN’IPOTESI DI LETTURA
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