Dal matrimonio omosessuale alle coppie di fatto: la

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Dal matrimonio omosessuale alle coppie di fatto: la
Dal matrimonio omosessuale alle coppie di fatto: la persistente incompiutezza della tutela per
gli infortuni sul lavoro
La dignità sociale delle unioni omosessuali trova un importante riconoscimento nella sentenza della
Corte di Cassazione n. 4184 dello scorso 15 marzo. Tale pronuncia si può ricollegare, per la
chiarezza della motivazione, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 138/20101 e la
Risoluzione del Parlamento Europeo del 13 marzo 2012 (in cui viene confermata, però, la non
trascrivibilità dei matrimoni omosessuali contratti all’estero). All’interno della sentenza n. 4184
emerge, del resto, un percorso ricostruttivo simile a quello della sentenza n. 2/2012 della stessa
Corte, in cui è stato affermato il diritto del cittadino extracomunitario a ricongiungersi al coniuge
omosessuale italiano, non come riconoscimento delle coppie gay (intervento riservato al Legislatore
nazionale), ma in ossequio alla specifica Direttiva comunitaria, recepita dal Decreto Legislativo n.
30/2007, che equipara la convivenza al matrimonio. Va detto, senza entrare nel merito, che il
meccanismo utilizzato dalla Corte – che nega il riconoscimento ma sollecita il Parlamento ad
intervenire - sembra avviarsi sulla stessa “china” delle malattie professionali non tabellate per la
quali, a lungo, la Corte Costituzionale ha sollecitato il Legislatore a riconoscerne l’indennizzabilità,
salvo prendere atto poi dell’inerzia dello Stato con una dichiarazione di incostituzionalità della
norma di riferimento “nella parte in cui limita la tutela assicurativa alle sole malattie indicate in
tabella”. Questi aspetti sono ampiamente trattati dai mass media e a livello scientifico e, al tempo
stesso, consentono di riproporre la situazione generale nel nostro Paese relativamente a tutte le
coppie di fatto – comprese quindi quelle eterosessuali - rispetto alle quali ci si è finora preoccupati
essenzialmente dei figli, equiparati in tutto e per tutto alla condizione di quelli nati nel matrimonio.
A questa chiara indicazione, si sono aggiunte specifiche previsioni inerenti a situazioni nel
complesso marginali nelle quali viene valorizzata la condizione del convivente, per quanto riguarda
ad esempio, gli incontri con i detenuti, il diritto alla procreazione assistita, quello a conoscere le
condizioni di salute del compagno. Queste previsioni per la scarsa incisività possono essere
certamente mitigate da negozi privatistici che si muovano sempre nel rispetto dei limiti di legge, ad
esempio in materia ereditaria, ma che non risolvono certamente il problema che qui interessa e cioè
quello del trattamento previdenziale e dell’assicurazione infortuni, in modo particolare.
In relazione alle pensioni e alle rendite, infatti, il lontano precedente costituito dal Decreto Legge n.
1726 del 1918 (richiamato da Wikipedia nella voce Unioni civili) non ha trovato eco, per quanto
attiene al riconoscimento della pensione di guerra al coniuge ed al convivente, nelle normative che
disciplinano l’Assicurazione IVS (Invalidità Vecchiaia e Superstiti) e quella infortuni, ferme, per
questi aspetti, alle originarie disposizioni di legge, sono state costruite e pensate in un momento in
cui la convivenza fuori del matrimonio “non esisteva” (un po’ come i figli nati fuori dal
matrimonio).
La Corte Costituzionale, adita per dubbi sulla legittimità della mancata considerazione della
convivenza ai fini del diritto alla rendita per i superstiti, ha effettuato un’accurata disamina della
questione confermando la legittimità della conclusione negativa (Sentenza n. 86/2009) con
riferimento ai due specifici quesiti proposti, riguardanti l’uno l’equiparazione, appunto, del
convivente al coniuge, l’altro la discriminazione del figlio di coppia convivente in base ad una
interpretazione letterale della norma di riferimento. Per il primo punto - che riguarda anche il
1
La Sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sottolinea che "L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità
e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione
sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo
della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da
annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il
diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri".
sistema pensionistico – la sentenza conferma la legittimità dell’esclusione richiamando suoi
precedenti che non affrontano il tema sul piano etico ma fondano il proprio ragionamento sul
carattere di “stabilità certezza, reciprocità, corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto
dal matrimonio e giustificano il particolare trattamento riservato ad esso dall’articolo 29 della
Costituzione”.
Così la Sentenza n. 121 del 2004 che ottiene riscontro, in materia previdenziale, nel fatto che
“l’esclusione del convivente trova una non irragionevole giustificazione nella circostanza che il
suddetto trattamento si collega geneticamente ad un precedente rapporto giuridico che nella
convivenza manca” (Ord. 444/2006). Siamo fuori, insomma, dalla battaglia sui principi etici, poiché
la Corte preferisce muoversi su un terreno meno infido, la stabilità del rapporto, che mostra la
“corda”, però, nel tentativo di motivare una scelta di un secolo fa’, frutto di valutazioni etiche, con
motivazioni “pratiche” agevolmente smontabili alla luce dell’evoluzione intervenuta nella
legislazione e nella stessa coscienza sociale. L’irrompere del divorzio nel nostro sistema giuridico,
infatti, ha tolto gran parte della sua solidità al matrimonio con due parallele evoluzioni che
confermano tale cambiamento: l’istituto della separazione che, a rigor di termini, dovrebbe
comportare in caso di decesso del coniuge separato una presunzione pur semplice di instabilità del
rapporto e l’imminente riduzione ad un anno (due in caso della presenza di figli) del tempo di attesa
per divorziare (vicenda che richiama un po’ quella dell’articolo 18). Non può sfuggire come la
complessa disciplina dei rapporti fra coniugi divorziati - con il diritto a pensione o rendita che resta
vivo, pur se pro quota dopo il divorzio - costituisca ulteriore conferma della prevalenza del valore
sostanziale della convivenza e della possibilità pratica di affrontare il problema di come definire
“consolidata” la convivenza una volta equiparata. Sarà necessario, dunque, che ulteriori interventi
giurisprudenziale e legislativi riescano a risolvere in termini equi il problema che potrebbe vedere le
coppie di fatto omosessuali e quelle eterosessuali su posizioni diverse, poiché alle prime potrebbe
bastare – si fa’ per dire – la possibilità di sposarsi regolarmente, lasciando fuori, in questo caso,
tutte le ipotesi di convivenza volontaria. E non resta che aspettare, quindi, senza badare alla
situazione di tante donne che perdono il loro convivente per un infortunio sul lavoro e che, dopo
aver scontato la situazione di non essere a carico in vita del lavoratore, non possono beneficiare
della rendita a superstiti per motivazioni tecniche che non potranno mai comprendere e le
ricondurranno tutte al non essere socialmente a posto.
Non solo, ma questo “peccato d’origine” lo sconterà il figlio della coppia che, fino a poco tempo fa,
come un orfano di un solo genitore aveva diritto al 20% di rendita, così come previsto dalla
normativa in vigore. A fronte di questa ineccepibile conclusione la stessa sentenza, prima
richiamata, ha corretto il tiro, con una interpretazione costituzionalmente orientata, affermando che,
nel caso di specie, l’interessato ha diritto al 40% previsto per gli orfani di entrambi i genitori.
Tutti soddisfatti, almeno per questo aspetto? Nient’affatto poiché, almeno, Aldo De Matteis nel suo
“Infortuni sul lavoro e malattie professionali” nutre dubbi circa la persistente disparità fra le
situazioni sostanziali: esiste una “convivenza” consolidata da un figlio che, se tradotta in
matrimonio, in caso di morte per infortunio del padre, garantirebbe, al nucleo familiare superstite,
un’entrata complessiva pari al 70% della retribuzione presa a base del calcolo della rendita a
superstiti (50% per la madre, 20% per il figlio) a fronte del 40% spettante al figlio, quale unico
”superstite” riconosciuto dalla legge, secondo quanto deciso dalla Corte.
Uno scarto non indifferente e che è tra i motivi dell’iniziativa popolare dell’ANMIL per un nuovo
Testo Unico dell’assicurazione infortuni, il prevede, fra gli altri, un criterio di delega dedicato a
questo aspetto e che è comunque da perfezionare sull’onda, ci si augura, dello sviluppo mediatico
ed anche scientifico della materia. Resta, peraltro, lo sconcerto per un sistema di promozione
sociale capace di grandi slanci emozionali che, ricorrenti, si disperdono in mille rivoli, senza
consentire una valutazione delle tante disarmonie del sistema, anche quando appaiono chiaramente
in contrasto con la sensibilità sociale del Paese.
Pasquale Acconcia