PROBABILITà E AZZARDO, AZZARDO E DIPENDENZA

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PROBABILITà E AZZARDO, AZZARDO E DIPENDENZA
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Probabilità e azzardo, azzardo e dipendenza1
Stefano Campi
Università di Siena
Mario Antonio Reda
Università di Siena
La nascita del calcolo delle probabilità come disciplina scientifico-matematica può essere fatta risalire al XVI secolo, con i contributi di Tartaglia e soprattutto di Cardano,
autore del Liber de ludo aleae. Il titolo di questo testo, il primo in ordine di tempo dedicato alla probabilità, mette subito in luce quale sia l’istanza da cui nasce e si sviluppa
il calcolo delle probabilità: trattare in modo rigoroso le leggi del caso che governano il
gioco d’azzardo, un’attività a cui l’uomo si è dedicato in varie forme fin dall’antichità.
La scommessa, sia con sè stessi che con gli altri, fa parte della storia dell’uomo. Gli antichi Romani consideravano la Fortuna una divinità che presiedeva gli eventi della vita
e dispensava alla cieca il bene e il male: era infatti rappresentata bendata e con i piedi
alati, poggiata su una ruota, chiaro simbolo della sua instabilità. Il termine “azzardo”,
del resto, deriva dall’arabo antico in cui az-zhar significa dado.
Proprio un giocatore accanito favorì la formazione, nel Seicento, delle basi teoriche
del calcolo delle probabilità: il Cavalier de Méré, siccome i risultati da lui ottenuti al
gioco non corrispondevano alle previsioni che aveva fatto, sottopose il problema “della
ripartizione della posta” a Pascal, che cominciò così ad occuparsi di questioni probabilistiche. Ne nacque una corrispondenza tra Pascal e Fermat, in cui vennero di fatto
poste le basi della probabilità. Il primo trattato di calcolo delle probabilità può essere
considerato il De ratiocinis in ludo aleae (1657), di Christiaan Huygens.
Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento la teoria si consolida attraverso i
contributi di eminenti matematici, quali Jakob Bernoulli, cui si deve la Legge dei grandi
numeri e Abraham de Moivre, autore di una prima versione del Teorema centrale del
limite. Con la Théorie analytique des probabilités (1812), di Pierre Simon Laplace, il calcolo delle probabilità assurge definitivamente al rango di disciplina matematica ormai
consolidata, con pari dignità di altre.
Vale la pena sottolineare che in questa sua evoluzione teorica la probabilità resta comunque inevitabilmente permeata dall’idea da cui ha avuto origine, quella di
“scommessa”. E’ interessante notare, ad esempio, che nella sua famosa Histoire naturelle
Georges-Louis Leclerc, Compte de Buffon (1707-1788), pone le basi di un moderno
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Lezione tenuta il 6 dicembre 2012 presso l’ISIS “Sismondi-Pacinotti”, Pescia (PT).
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metodo del calcolo delle probabilità, il metodo Monte Carlo, studiando un gioco molto praticato a corte, le jeu du franc-carreau. Una versione semplificata del gioco conduce
al cosiddetto esperimento dell’ago di Buffon: si getta un ago di una certa lunghezza su
un piano su cui sono disegnate rette parallele equidistanti e si misura la frequenza con
cui l’ago interseca una delle rette. Dopo un elevato numero di esperimenti la frequenza
si attesta su un valore che, sulla base di considerazioni teoriche geometrico-probabilistiche, consente di ricavare una apprezzabile approssimazione di π .
Venendo ai giorni nostri, oggi il calcolo delle probabilità viene utilizzato, esplicitamente o implicitamente, in moltissimi ambiti, oltre, ovviamente, a quello matematico.
Interviene, ad esempio, nelle scienze sperimentali, tutte le volte che si fa riferimento
a misure; oppure, nella costruzione e lo sviluppo di modelli o di teorie, come quelli
quantistici. Lo si usa in modo massiccio in ambito economico, finanziario e assicurativo; ma è presente anche in sede di diagnostica medica, di valutazione giudiziaria, di
previsioni geo-meteorologiche, e via dicendo.
Ma come si definisce la probabilità che si verifichi qualcosa, la probabilità di un
evento?
Certo, si resta spiazzati nel leggere quanto diceva Bruno De Finetti, uno dei più
grandi probabilisti del secolo scorso:” La probabilità: chi è costei? Prima di rispondere
a tale domanda è certamente opportuno chiedersi: ma davvero “esiste” la probabilità? E
che cosa mai sarebbe? Io risponderei di no, che non esiste. ... Potrei dire, viceversa e senza
contraddizione, che la probabilità regna ovunque, che è, o almeno dovrebbe essere, la nostra
“guida nel pensare e nell’agire” e che perciò mi interessa.” (Bruno De Finetti, alla voce
“Probabilità”, Enciclopedia Einaudi, 1970).
In realtà, queste affermazioni apparentemente provocatorie di De Finetti nascondono una difficoltà intrinseca alla base del calcolo delle probabilità: quale definizione
di probabilità adottare?
Si può ricorrere alla ricetta classica che definisce la probabilità di un evento come il
rapporto tra il numero dei casi favorevoli alla realizzazione dell’evento e il numero dei
casi possibili (purchè questi siano tutti equiprobabili). Trascurando possibili contraddizioni insite nella definizione, questa ricetta funziona quando lo scenario in cui ci si
muove (lo spazio degli eventi) ha un numero finito di elementi.
Altrettanto efficace è la definizione frequentista, secondo la quale la probabilità di
un evento è il limite della frequenza con cui si verifica l’evento per il numero delle prove
che tende all’infinito.
La definizione frequentista poggia sul postulato empirico del caso: ripetendo un certo
numero di volte la stessa prova, la frequenza di un evento si avvicina sempre più alla
probabilità dell’evento stesso, al crescere del numero delle prove. Questa legge, un po’
vaga, traduce in modo pratico un risultato teorico della probabilità che prende il nome
di legge dei grandi numeri, di Jakob Bernoulli.
La definizione frequentista e gli aspetti ad essa collegati, primo fra tutti l’uso del
concetto di limite, vengono spesso equivocati ed interpretati in modo completamente
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erroneo. Purtroppo questi errori, talvolta alimentati da soggetti interessati e in mala
fede, provocano danni enormi. Pensiamo all’uso distorto che si fa di questi concetti per
affermare che, nel gioco del Lotto, un numero ritardatario ha più probabilità di uscita
di un numero uscito la volta prima. “Prima o poi il numero in ritardo uscirà”: già, prima o poi? I mezzi di informazione danno sempre molta enfasi al volume delle vincite
conseguenti all’uscita di un numero in ritardo, ma, colpevolmente, non dicono mai
quanti soldi sono stati bruciati nelle settimane prima e quante persone si sono rovinate
con la storia del “prima o poi”.
Una definizione di probabilità apparentemente in contrasto con i requisiti che la
matematica impone è quella soggettiva: la probabilità di un evento è il grado di fiducia
che una persona ha nel verificarsi dell’evento. Più precisamente, la probabilità di un
evento è il prezzo che una persona ritiene equo pagare per ricevere 1 se l’evento si verifica (e 0 se non si verifica). Questa definizione, da attribuire a Bruno De Finetti, ha una
forte valenza operativa e si basa proprio sul concetto che è all’origine del calcolo delle
probabilità, ossia quello di “scommessa”.
Esiste poi una definizione assiomatica, secondo cui la probabilità è una funzione che
soddisfa un certo numero di proprietà (assiomi), corrispondenti ai contenuti espressi
dalle altre definizioni, secondo certi requisiti formali. Su questi assiomi si fonda e si
sviluppa la teoria della probabilità.
Qualunque sia la definizione che si decide di adottare, a questa ed al complesso di
elementi che ne derivano occorre sempre far riferimento. E’ un’osservazione scontata,
ma serve a sottolineare che, di fronte a problemi in cui la probabilità offre una soluzione, occorre prudenza; a volte l’intuizione porta completamente fuori strada.
Due esempi valgono per tutti.
Il primo è il cosiddetto problema dei compleanni, proposto (e risolto) da Richard
von Mises nel 1939. Preso un gruppo di n persone, si tratta di determinare la probabilità che almeno due di queste compiano gli anni nello stesso giorno. Il risultato è abbastanza sorprendente e sicuramente contrasta con quanto ci si può aspettare: bastano 23
persone affinchè la probabilità sia maggiore del 50% e con 50 persone siamo già al 97%
! Oltre alla presenza di possibili errori concettuali, la spiegazione di questo apparente
paradosso si può forse ricondurre al fatto che il problema percepito - e mentalmente
risolto - è diverso da quello realmente posto.
Il secondo esempio è fornito dal cosiddetto problema di Monthy Hall, così chiamato
dallo pseudonimo del conduttore di uno spettacolo televisivo americano trasmesso a
partire dal 1963.
Si trattava di un gioco a premi in cui la prova finale era quella “delle tre porte”. Il
concorrente viene posto di fronte a tre porte identiche, chiuse. Dietro a ciascuna porta
c’è una capra oppure un’automobile; in tutto, due capre e un’automobile. Il concorrente sceglie una delle tre porte, che però non viene aperta; a questo punto il conduttore,
che conosce la disposizione segreta, apre una delle due restanti porte, mostrando una
capra. Tocca di nuovo al concorrente, che, di fronte alle due porte rimaste chiuse, può
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decidere se mantenere la sua scelta iniziale oppure cambiare porta. Qual è la migliore
strategia per il concorrente? Nel 1990 la domanda fu posta a Marylin Vos Savant, redattrice della rubrica “Ask Marylin” sulla popolare rivista americana Parade. Marylin
rispose che conveniva cambiare e … ricevette migliaia di lettere di protesta (anche da
parte di sedicenti addetti ai lavori), che la accusavano di avere clamorosamente sbagliato. “Le due strategie hanno uguale probabilità di successo”, sostenevano i detrattori di
Marylin. Invece non è così. Semplificando un po’ i termini della questione, si può dire
che, se si mantiene la scelta, la probabilità di vincere è 1/3 (vinco tutte le volte che ho
scelto inizialmente l’auto), mentre, se si cambia, la probabilità è 2/3 (vinco tutte le volte
che ho scelto inizialmente una capra).
Se ora, forti di una buona attrezzatura probabilistica, andiamo a considerare i giochi di azzardo legali, ci accorgiamo, anche soltanto sulla base delle definizioni, che
le regole in atto sono a sfavore dello scommettitore e favoriscono invece il banco: lo
scommettitore abituale, che tenta la fortuna costantemente nel tempo e per un numero
elevato di volte, è destinato a soccombere.
A titolo di esempio, prendiamo il più antico dei giochi gestiti dallo Stato, il gioco
del Lotto. Il solito de Finetti lo ha definito la tassa sugli imbecilli, ma già nel lontano
1838, nella Apologia del Lotto, la caustica penna di Giuseppe Giusti lo prendeva di
mira. Limitiamoci alla scommessa dell’estratto semplice su una fissata ruota: se il numero
scelto esce su quella ruota, indipendentemente dall’ordine di estrazione, si riceve circa
10 volte la posta, mentre è facile calcolare che, se la scommessa fosse “equa”, la quota
corrispondente alla probabilità è 18 e non 10. Anche per l’ambo, il terno, e così via,
il calcolo fa risaltare un forte squilibrio tra la probabilità di vincere e la quota che si
incassa in caso di successo; squilibrio che, ovviamente, è tutto a vantaggio del banco.
Se a questa condizione di svantaggio per lo scommettitore si aggiungono poi fattori devianti, come credere che i numeri in ritardo siano favoriti rispetto agli altri (che “i numeri non hanno memoria” andrebbe insegnato fin dalla scuola materna!), ecco che un
fenomeno dall’aspetto pittoresco come il Lotto cambia aspetto. E andando a consultare
il sito ufficiale dei Monopoli di Stato, alle pagine in cui sono riportati i dati sul volume
di gioco degli Italiani (gioco legale), si scoprono cifre che hanno dell’incredibile: nel
2011 sono stati giocati circa 80 miliardi (sic!) di Euro, di cui meno del 10% proviene
dal Lotto, mentre quasi il 50% è ascrivibile agli “apparecchi”, ossia alle macchinette.
Di fronte alle dimensioni di questo fenomeno, che purtroppo vede coinvolti un
numero sempre più alto di giovani, non si può non restare allarmati. La matematica
può servire a mettere in guardia sui rischi di perdita insiti in questo tipo di giochi d’azzardo, ma siamo di fronte ad una vera e propria emergenza sociale, da affrontare con
interventi che richiedono competenze specifiche.
Negli ultimi anni la frequentazione dei giochi d’azzardo è notevolmente aumentata
in seguito alla legalizzazione di nuovi giochi, all’apertura di nuovi esercizi, alla diffusione delle slot-machine nei bar e alla diffusione di vari giochi in rete.
Il fenomeno è in continua ascesa e tale da creare un crescente allarme, perché se è
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vero che vi è un qualche profitto per le casse dello Stato, è altrettanto vero che i comportamenti illeciti e socialmente nocivi derivanti dai debiti di gioco sono sempre più
frequenti. Oggi esistono, grazie ad internet, casinò elettronici che consentono giochi
d’azzardo di ogni tipo e che hanno creato un contesto molto diverso da quello “romantico” dei vecchi casinò, popolato da altri esseri umani che osservano, assistono e
interagiscono. Davanti al casinò virtuale c’è solo il giocatore con la sua passione, resa
ancora più irrefrenabile proprio da questa assenza di interazioni sociali.
Se da un punto di vista giuridico (art.721 cod. pen.) “sono giochi d’azzardo quelli
nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria”, da quello psicologico il gioco d’azzardo è “una modalità di interagire con
la fortuna, con il caso, nell’illusione di controllare la realtà, di prenderne il sopravvento
se pur nel breve tempo di una scommessa”. In proposito, tutti gli autori che si sono occupati di questo fenomeno rilevano che il gioco d’azzardo può essere classificato come:
(i) adeguato, quando si gioca fra conoscenti, per un periodo di tempo prestabilito, con
perdite accettabili e predeterminate e specialmente con un coinvolgimento emotivo limitato al periodo del gioco; (ii) inadeguato, quando si registra un comportamento persistente e ricorrente tipico del giocatore professionista ma, in quanto tale, disciplinato
ed inserito in un mondo di relazioni ed emozioni in parte separate da quelle connesse al
gioco, comportamento che può creare problemi economico-sociali, con coinvolgimento relativo di familiari; (iii) patologico o GAP, gioco d’azzardo patologico, che è caratterizzato da comportamenti persistenti, ricorrenti e tali da compromettere seriamente
le attività personali, familiari e lavorative. Quest’ultimo caso rientra nelle patologie da
dipendenza intesa come “incapacità di fare a meno di qualcosa; in particolare, bisogno
irresistibile di assumere sostanze o di rinunciare ad attività o comportamenti anche se
ad alto rischio”. Il GAP si accompagna ad emozioni forti che si provano solo col gioco
d’azzardo, che diventa così uno sfogo alle sensazioni negative, alle insoddisfazioni e
alle ansie della vita, alimentando speranze (come abbiamo visto statisticamente vane)
di soluzione di problemi economici, sociali e personali. Ma l’aspetto più significativo è
che questo tipo di giocatore afferma di ricercare l’avventura, uno stato di eccitazione ed
euforia ancora più dei soldi. Divengono così necessarie scommesse e puntate progressivamente più ingenti e rischi maggiori per continuare a produrre il livello emotivosensoriale desiderato. Per questi motivi, il GAP venne incluso nel 1980 nel Manuale
Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (D.S.M.) e classificato tra i “disturbi del
controllo degli impulsi non altrove classificati” assieme alla cleptomania, alla piromania, alla tricotillomania e al disturbo esplosivo persistente. Ciò permette di considerare
il GAP una malattia e non un vizio e rende il malato un soggetto non perseguibile per i
reati che può commettere come conseguenza della sua patologia, ma da inserire invece
in un programma di recupero in apposite Comunità Terapeutiche.
Da un punto di vista psicologico-clinico il senso di onnipotenza caratterizza la personalità di questo giocatore ed è, in ogni caso, da correlarsi al senso di inadeguatezza e
di precarietà che si ritrova alla base del suo carattere. Il fenomeno diviene più a rischio
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nel periodo adolescenziale ove lo sviluppo della personalità predispone ad emozioni
forti e nuove che il gioco d’azzardo può dare, sostituendosi alla naturale ricerca di reciprocità e di scambi emotivi con altri esseri umani. Corre così maggiori rischi in adolescenza chi ha più difficoltà a gestire le emozioni e presenta di conseguenza problemi
nelle interazioni sociali e complessi di inferiorità.
Del resto, secondo un recente studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR),
ben un milione di giocatori risultano minorenni, nonostante che la cosiddetta “legge
di stabilità 2011” vieti loro di giocare per denaro. Il divieto è eluso ogni giorno sia
nei punti scommesse che in vari esercizi commerciali: si pensi ai video poker e alle
slot machines nelle sale giochi e nei bar, al lotto e superenalotto nelle tabaccherie, ai
gratta e vinci reperibili ovunque e alle sale bingo. Si aggiunga la possibilità di giocare
on line dove è facile aprire un conto a nome di un maggiorenne. Molti gocatori di
Texas hold’em rinomati nell’ambiente delle poker rooms virtuali sono diciottenni con già
un’esperienza alle spalle.
Questa facilità di accesso a strutture o a strumenti attraverso cui esercitare il gioco
d’azzardo sta creando vere e proprie patologie adolescenziali inseribili nelle “Nuove
Dipendenze”. La gravità è costituita da un progressivo isolamento sociale e alla continua spinta a giocare nonostante i ripetuti sforzi per controllare, ridurre o interrompere
il comportamento, con una ricerca spasmodica di emozioni che via via si ritrovano
solo nel gioco. Compaiono inoltre irrequietezza e irritabilità quando si tenta di ridurre
o di interrompere l’attività del gioco d’azzardo. Il soggetto viene man mano assorbito
totalmente dal gioco, nell’illusione di dimenticare i problemi ed alleviare le sensazioni
negative. Se scoperti, si comincia a mentire ai familiari e agli amici per nascondere il
proprio coinvolgimento nel gioco e si finisce col rischiare di ricorrere a comportamenti
antisociali per ottenere il denaro da reinvestire.
Per questo motivo è necessaria una prevenzione che, all’informazione sui pericoli
insiti nel gioco d’azzardo, unisca la possibilità di intervenire sugli adolescenti a rischio
attraverso una psicoterapia ad hoc: un’attività mirata a sviluppare un senso di individualizzazione e differenziazione attraverso l’apprendimento, a riconoscere e gestire le
proprie emozioni, a facilitare la socializzazione, l’interazione e l’apertura al dialogo con
i familiari, gli amici e gli altri componenti il contesto sociale.