Thomas Hobbes ovvero la materia, la forma e il potere

Transcript

Thomas Hobbes ovvero la materia, la forma e il potere
Thomas Hobbes
5
LEVIATANO
ovvero la materia, la forma e il potere di uno Stato, ecclesiastico e civile 1
Introduzione
10
15
20
25
30
La natura, l'arte con cui Dio ha fatto il mondo e la governa, è imitata dall'arte dell'uomo, come in
molte altre cose, anche in questo: che si può fare un animale artificiale. Se infatti la vita non è altro che un
moto delle membra, il cui inizio è in qualche parte principiale interna, perché non potremmo dire che tutti gli
automata (macchine che si muovono da sé per mezzo di molle e ruote, come un orologio) hanno una vita
artificiale? Cos'è infatti il cuore, se non una molla; e i nervi, se non altrettante corde; e le articolazioni, se
non altrettante ruote, che danno moto all'intero corpo secondo l'intento del carnefice? Anzi, l'arte procede
oltre, imitando l'opera razionale ed eccelsa della natura, l'uomo, infatti con l'arte è creato il grande Leviatano,
detto Stato (in latino civitas), che non è altro che un uomo artificiale, sebbene di statura e di forza maggiori
di quelle dell'uomo naturale, per la cui protezione e difesa fu inteso. Ed in esso, la sovranità è un'anima
artificiale, che dà vita e moto all'intero corpo; i magistrati e gli altri ufficiali giudiziari ed esecutivi, sono
delle articolazioni artificiali; le ricompense e le punizioni (che, fissate al seggio della sovranità, muovono
ogni articolazione ed ogni membro all'adempimento del dovere), sono i nervi, che fanno lo stesso nel corpo
naturale, la ricchezza di tutti i singoli membri, è la forza; salus populi (la sicurezza del popolo), è la sua
occupazione; i consiglieri, che gli suggeriscono tutte le cose che ha bisogno di sapere, sono la memoria,
l'equità e le leggi, una ragione ed una volontà artificiali; la concordia, la salute; la sedizione, la malattia; e la
guerra civile, è la morte. Infine i patti, per mezzo dei quali le parti di questo corpo politico furono per la
prima volta fatte, poste assieme ed unite, assomigliano al fiat, al facciamo l'uomo, che Dio pronunciò nella
creazione.
Per descrivere la natura di quest'uomo artificiale, considererò:
primo, la sua materia ed il suo artefice, cioè l'uomo, che è l'una e l'altro
secondo, come, e per mezzo di quali patti, esso è fatto; quali sono i diritti e il giusto potere o autorità
di un sovrano; cosa lo conserva, e cosa lo dissolve.
Infine, che cos'è il regno delle tenebre. [...]
Parte prima. Lo stato di natura e le leggi naturali.
35
40
45
50
55
13. La condizione naturale degli uomini, in ciò che riguarda la loro felicità e miseria
La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e della mente, che, sebbene a volte si
trovi un uomo chiaramente più pronto di mente di un altro, pure, in complesso, la differenza fra uomo e
uomo non è così considerevole, da permettere a un uomo di rivendicare un vantaggio, cui un altro non possa
in pari titolo pretendere. Infatti, per quanto riguarda la forza del corpo, il più debole ne ha a sufficienza da
uccidere il più forte, sia con qualche trama segreta, sia alleandosi ad altri che corrono i suoi stessi pericoli.
E riguardo alle facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e specialmente
quella di procedere secondo regole generali e infallibili, cioè la scienza, che pochissimi possiedono, e solo
riguardo a pochi oggetti, non trattandosi di una facoltà innata, o conseguite, come la prudenza, mentre ci si
occupa d'altro), io trovo fra gli uomini un'eguaglianza ancora maggiore di quella della forza. Infatti la
prudenza non è altro che esperienza, e, in tempi eguali, viene acquistata in eguale misura da tutti gli uomini,
riguardo alle cose cui si applicano con eguale attenzione. Ciò che può forse rendere incredibile questa
eguaglianza è solo un vuoto concetto della propria saggezza, perché quasi tutti si stimano più saggi del
volgo, cioè di tutti gli altri uomini, eccettuati se stessi e pochi altri che approvano per fama o per
concordanza di opinioni. Infatti la natura degli uomini è tale che, per quanto possano riconoscere molti altri
come più ingegnosi o o più eloquenti o più dotti, difficilmente crederanno che molti siano saggi come loro,
perché vedono il proprio ingegno da vicino, e quello altrui a distanza. Ciò però prova che gli uomini sono a
questo riguardo eguali, piuttosto che diseguali: infatti, in generale, il migliore segno dell'eguale distribuzione
di una cosa è che ognuno sia soddisfatto della propria parte.
Da questa eguaglianza di capacità scaturisce l'eguaglianza nella speranza di attuare i nostri fini. Quindi
se due uomini desiderano la stessa cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, essi divengono nemici,
e, nel perseguire il loro fine (che è principalmente la conservazione di sé, e a volte solo il piacere), si
1 Testi tratti da: T.HOBBES, Leviatano, a cura di T.Magri, Editori Riuniti, Roma 2002
60
65
70
75
80
85
90
95
100
105
110
sforzano di distruggersi e sottomettersi a vicenda. Onde accade che, se un aggressore non ha da temere nulla
più che il potere individuale di un altro uomo, chi pianta, semina, costruisce o possiede una dimora
conveniente, deve con ogni probabilità attendersi che gli altri uniscano le loro forze per spossessarlo e
privarlo non solo dei frutti del suo lavoro, ma anche della vita o della libertà. E l'aggressore, a sua volta, si
trova a correre lo stesso pericolo, da parte di un altro.
E a causa di questa diffidenza reciproca, un uomo non ha modo più ragionevole di garantire la propria
sicurezza che l'anticipazione, cioè l'impadronirsi, con la forza o con l'astuzia, delle persone di quanti più
uomini può, finché non vede nessun altro potere tanto forte da costituire per lui un pericolo: e questo non è
più di ciò che è necessario alla conservazione, ed è in genere permesso. [...]
Perciò è chiaro che, nel tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in
soggezione, essi si trovano in quella condizione che è detta guerra; e che tale guerra è di tutti contro tutti.
Infatti la guerra non consiste solo nella battaglia, o nell'atto di combattere, ma in un periodo di tempo in cui
la volontà di scendere in combattimento è sufficientemente nota; e quindi la nozione di tempo deve essere
introdotta nella considerazione della natura della guerra, come lo è in quella della natura del tempo
atmosferico. Infatti la natura del maltempo non consiste in un rovescio o due di pioggia, ma in una tendenza
alla pioggia per molti giorni consecutivi; e così la natura della guerra non consiste nell'effettivo combattere,
ma in una nota disposizione in tal senso, per tutto il tempo in cui non c'è sicurezza per una disposizione
contraria. Ogni altro tempo è pace.
Quindi tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ogni uomo è nemico di tutti gli altri, sono
anche le conseguenze del tempo in cui gli uomini vivono con la sola sicurezza che è procurata dalla loro
forza ed inventiva. In tale condizione non è possibile alcuna industria, perché il suo frutto è incerto, e quindi
non c'è agricoltura, né navigazione, né l'uso dei beni che possono essere importati per mare; non vi sono
abitazioni confortevoli; non vi sono strumenti per muovere e rimuovere oggetti che richiedono grande
dispendio d forza; non c'è conoscenza della superficie terrestre, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né
società, e, quel che è peggio, dominano la continua paura e ed il pericolo di una morte violenta, e la vita
dell'uomo è solitaria, povera sordida, bestiale e corta.
Può sembrare strano, a chi non ha ben considerato queste cose, che la natura dissoci in tal modo gli
uomini, rendendoli atti ad aggredirsi e a distruggersi a vicenda; e perciò, diffidando di questa inferenza tratta
dalle passioni, egli potrebbe desiderare di vederla confermata con l'esperienza. Consideri allora fra sé come,
intraprendendo un viaggio, egli si armi e cerchi di andare ben accompagnato; come andando a dormire, serri
la porta, e perfino nella sua casa serri i suoi forzieri; e tutto questo pur sapendo che vi sono delle leggi e dei
pubblici ufficiali armati, per vendicare qualsiasi torto possa essergli fatto; e consideri quale opinione
manifesta degli altri sudditi, quando viaggia armato; dei suoi concittadini, quando serra la porta, e dei suoi
figli e dei suoi servi, quando serra i forzieri. Non accusa egli stesso con le sue azioni il genere umano, come
io lo accuso con le mie parole? Tuttavia nessuno di noi due accusa la natura dell'uomo. I desideri, e le altre
passioni dell'uomo, non sono in se stessi un peccato, né lo sono le azioni che da tali passioni derivano, finché
gli uomini non conoscono una legge che le proibisca; e le leggi non possono essere conosciute prima che
siano fatte, e non possono essere fatte prima che gli uomini si siano accordti sulla persona che le deve fare.
Si potrà forse pensare che un tempo come questo, o una simile condizione di guerra non siano mai
esistiti; e io non credo, in effetti, che essa sia mai stata generale, in tutto il mondo, anche se vi sono molti
luoghi in cui gli uomini vivono, oggi, in tale modo. Infatti le popolazioni selvagge, in molti luoghi
dell'America, non conoscono altra forma di governo che quella di piccole famiglie, la cui concordia dipende
dalla concupiscenza naturale, e vivono al giorno d'oggi nel modo bestiale di cui ho detto prima. Del resto si
può immaginare come vivrebbero gli uomini, se non avessero da temere un potere comune, dal modo di
vivere in cui degli uomini, che prima sono vissuti sotto un governo pacifico, finiscono con il degenerare in
occasione di una guerra civile.
Ma anche se non vi fosse mai stato un tempo in cui i singoli individui si trovassero in condizione di
guerra fra loro; pure in ogni tempo i re e le persone di autorità sovrana, a causa della loro indipendenza, si
sono sospettati reciprocamente, ponendosi nella condizione e nell'atteggiamento dei gladiatori, con le armi
puntate e gli occhi fissi negli occhi: cioè, munendo di forti, di guarnigioni e di armi le frontiere dei loro
regni; e inviando di continuo delle spie nei regni vicini; ciò che costituisce un atteggiamento di guerra. Ma
poiché in tal modo essi sostengono l'industria dei sudditi, non consegue a tutto ciò la miseria, che
accompagna invece la libertà dei singoli individui.
Un'altra conseguenza di questa guerra di tutti contro tutti è che nulla può essere ingiusto. In essa non
trovano luogo le nozioni di diritto e di torto, di giustizia e di ingiustizia. Dove non c'è un potere comune, non
c'è legge; e dove non c'è legge, non c'è ingiustizia. Forza e frode sono, in guerra, le due virtù cardinali.
Giustizia e ingiustizia non sono facoltà del corpo né della mente: se lo fossero, potrebbero trovarsi anche in
115
120
125
130
135
140
145
150
155
160
un uomo solo nel mondo, come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che si riferiscono agli uomini
in società, e non in solitudine. È inoltre una conseguenza di questa condizione che non vi sia proprietà, né
dominio, né distinzione di mio e di tuo, ma che appartenga a ciascun uomo ciò che egli è in grado di
prendere, e per il tempo che lo riesce a conservare. E ciò basti riguardo all'infelice condizione in cui l'uomo è
di fatto posto dalla sola natura; sebbene con una possibilità di uscirne, consistente in parte nelle passioni, in
parte nella ragione.
Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono la paura della morte, il desiderio delle cose
necessarie ad una vita confortevole, e la speranza di ottenerle con la propria industria. E la ragione
suggerisce degli adeguati articoli di pace, su cui gli uomini possono essere indotti ad accordarsi. Di questi
articoli, altrimenti detti leggi di natura, parlerò in particolare nei due prossimi capitoli.
14. La prima e la seconda legge naturale
Il diritto naturale, che gli autori chiamano comunemente jus naturale, è la libertà, propria di ciascun
uomo, di usare come vuole il suo potere per la conservazione della sua natura, cioè della vita; e di
conseguenza, di fare tutto ciò che secondo il suo giudizio e la sua ragione riterrà essere il mezzo più adatto
ad attuare quel fine.
Per libertà si intende, secondo il significato proprio del termine, l'assenza di impedimenti esterni. Tali
impedimenti possono spesso privare un uomo di una parte del suo potere di fare ciò che vuole, ma non
possono impedirgli di usare il potere che gli è lasciato, secondo il suo giudizio e la sua ragione.
Una legge di natura (lex naturalis) è un precetto, o regola generale, rinvenuto con la ragione, per cui si
proibisce all'uomo di fare ciò che è dannoso per la sua vita, o che lo priva dei mezzi per conservarla; e gli si
proibisce di omettere ciò, mediante cui pensa di poterla meglio conservare. Infatti, sebbene coloro che
trattano di questo argomento siano soliti confondere jus e lex, diritto e legge, pure essi vanno tenuti distinti,
perché il diritto consiste nella libertà di fare o di non fare, mentre la legge determina e vincola ad uno dei
due; così che la legge e il diritto differiscono, come l'obbligazione e la libertà, che non possono coesistere in
un solo e medesimo soggetto.
E poiché la condizione dell'uomo (come si è esposto nel capitolo precedente) è una condizione di
guerra di tutti contro tutti, in cui ognuno è governato dalla propria ragione e non c'è nulla, di ciò di cui può
far uso, che non possa in qualche modo essergli d'aiuto nel conservare la vita contro i nemici, ne segue che in
tale condizione tutti hanno un diritto a tutte le cose; e perfino gli uni al corpo degli altri. E perciò, finché
permane questo diritto di tutti gli uomini a tutte le cose, nessuno (per quanto sia saggio o forte) può essere
sicuro di giungere al termine naturale della sua vita. Di conseguenza è un precetto, o regola generale della
ragione, che ogni uomo debba tendere alla pace, finché ha speranza di ottenerla; e, quando non può
ottenerla, gli sia permesso di cercare e di usare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di
questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura, cioè cercare la pace e conformarsi ad essa; la
seconda parte contiene la somma del diritto naturale, cioè, difendere se stessi con tutti i mezzi possibili.
Da questa fondamentale legge di natura, che comanda agli uomini di tendere alla pace, deriva la
seconda legge, che si sia disposti, quando anche gli altri lo sono, e nella misura in cui lo si ritiene
necessario alla pace e alla propria sicurezza, a deporre questo diritto a tutte le cose, e ad accontentarsi di
tanta libertà nei confronti degli altri, quanta se ne concede agli altri nei propri confronti. Infatti, finché
ciascuno conserva il diritto di fare tutto ciò che vuole, tutti gli uomini si trovano in una condizione di guerra.
[…]
Si depone un diritto mediante una semplice rinuncia, o trasferendolo ad un altro. Si ha una semplice
rinuncia quando non ci si cura di chi tragga beneficio dall'atto; invece lo si trasferisce quando si destina quel
beneficio ad una o più determinate persone. […]
Il mutuo trasferimento di diritti si chiama contratto. […]
16. Le persone, gli autori e le cose personificate.
165
170
Una persona è colui le cui parole o azioni sono considerate come sue proprie, o come rappresentanti
le parole e le azioni di una ltro uomo o di una qualsiasi altra cosa, cui vengano, in verità o per finzione,
attribuite.
Quando sono considerate come sue proprie, allora egli è detto persona naturale; quando invece sono
considerate come rappresentanti le parole o le azioni di un altro, allora è una persona artificiale o fittizia.
Il termine persona è latino; e corrisponde al greco prosopon, che designa il volto, come persona in
latino significa il travestimento, o l'aspetto di un uomo, imitato sulla scena; e a volte, più in particolare, la
175
180
185
190
195
200
parte del travestimento che copre il volto, la maschera. Dalla scena, il termine è stato volto a indicare
chiunque rappresenti un discorso o un'azione, tanto nei tribunali che nei teatri. Quindi una persona è lo
stesso che un attore, sia sulla scena che nelle relazioni comuni; e personificare è agire o rappresentare se
stessi o un altro. Si dice che chi agisce per un altro ne sostiene la persona, o agisce in suo nome (in questo
senso Cicerone scrive: unus sustineo tres personas: mei, adversarii, et iudicis, cioè: io sostengo tre persone,
la mia, quella del mio avversario e quella del giudice); e a seconda delle diverse occasioni può essere detto
rappresentante, luogotenente, vicario, avvocato, deputato, procuratore, attore e simili.
Le parole e le azioni di alcune delle persone artificiali vengono riconosciute come proprie da coloro
che esse rappresentano. In questo caso la persona è l'attore; e colui che riconosce come proprie le sue parole
e le sue azioni è l'autore. E allora l'attore agisce d'autorità. Infatti colui che, riguardo ai beni e ai possessi, è
detto proprietario (in latino dominus, in greco chyrios), riguardo alle azioni è detto autore. E come il diritto
di possesso è detto dominio, così il diritto di compiere un'azione è detto autorità. Così, per «autorità», si
intende sempre il diritto di compiere un atto; e per compiuto d'autorità, si intende compiuto per delega o
licenza di chi ha quel diritto.
Ne segue che, quando l'attore conclude d'autorità un patto, vincola l'autore come se costui avesse
concluso quel patto di persona; e lo assoggetta a tutte le conseguenze di esso. […]
Se l'attore compie un'azione contraria alla legge di natura per comando dell'autore (cui è obbligato ad
obbedire in virtù di un patto precedente), l'infrazione alla legge di natura ricade non su di lui, ma sull'autore,
infatti, sebbene l'azione sia contraria alla legge di natura, non si tratta di una sua azione; e, al contrario,
rifiutandosi di compierla, avrebbe infranto la legge di natura che vieta di venire meno ai patti. […]
Una moltitudine di uomini diventa una sola persona, quando questi uomini sono rappresentati da un
solo uomo, o da una sola persona, in modo tale che ciò che avvenga con il consenso di ciascun singolo
individuo di quella moltitudine. Infatti è l'unità del rappresentante, e non l'unità del rappresentato, a rendere
una persona una; ed è il rappresentante che sostiene la persona, e ne sostiene una sola. E non si dà altro
modo, in cui si possa concepire l'unità in una moltitudine.
Poiché la moltitudine è per natura non una, ma molti, non si può intendere che esista un unico autore,
bensì molti autori di tutto ciò che il rappresentante dice e fain loro nome. Ognuno concede individualmente
al comune rappresentante la propria autorità e fa proprie, nel caso che gli concedano autorità illimitata, tutte
le azioni da lui compiute; oppure, se lo limitano nella materia e nella misura della rappresentanza, nessuno
degli autori riconosce come proprio nulla più di quello che gli hanno dato delega a fare. […]
Parte seconda
205
Lo Stato
17. Le cause, la generazione e la definizione di uno Stato.
210
215
220
225
La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli
altri) nell'introdurre sopra di sé le restrizioni, entro cui li vediamo vivere negli Stati, è la previsione di
ottenere in tal modo la propria conservazione, e una vita più confortevole; cioè, di uscire dalla miserabile
condizione di guerra che è la necessaria conseguenza (come si è mostrato) delle passioni naturali degli
uomini, quando manca un potere visibile che li tenga in soggezione, e li vincoli, con la paura delle punizioni,
all'adempimento dei loro patti e all'osservanza delle leggi di natura esposte nei capitoli quattordicesimo e
quindicesimo.
Infatti le leggi di natura […] di per se stesse, senza il terrore di un potere che ne causi l'osservanza,
sono contrarie alle nostre passioni naturali, che ci inducono alla parzialità, all'orgoglio, alla vendetta e simili.
E i patti, senza le spade, sono solo delle parole, prive della forza di dare agli uomini una qualsiasi sicurezza.
Quindi, nonostante le leggi di natura (che ognuno osserva solo quando ne ha voglia, e può farlo con
sicurezza), se non viene istituito un potere, e se tale potere non è sufficiente alla nostra sicurezza, ognuno
può legittimamente ricorrere alla propria forza e alla propria astuzia per garantirsi contro gli altri. […]
L'unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli
dall'aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi di garantire una sicurezza tale che essi possano
sostentarsi e viver bene grazie alla loro industri a ai frutti della terra, è quello di conferire tutto il loro potere
e la loro forza ad un uomo o ad un'assemblea di uomini, che, a maggioranza di voti, possano ridurre tutte le
loro volontà ad una volontà unica. Ciò torna a dire: è che nominino un uomo o un'assemblea, che sostenga la
loro persona, e che ciascuno di essi riconosca come proprie (e se ne riconosca come autore) tutte le azioni
che colui che in tale modo sostiene la loro persona compirà o farà compiere, in quelle cose che riguardano la
230
235
240
245
250
255
260
265
270
pace o la sicurezza comuni; e che tutti sottomettano, a questo riguardo, le loro volontà alla sua volontà e i
loro giudizi al suo giudizio. Questo è più del consenso o della concordia: si tratta di una unità reale di tutti
loro in una sola e identica persona, costituita mediante il patto di ogni individuo con ciascuno degli altri;
come se ognuno di essi avesse detto all'altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest'uomo o
a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte
le sue azioni. Ciò fatto, la moltitudine così unita in un'unica persona è detta Stato, in latino civitas. Questa è
la generazione del grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con maggiore reverenza), di quel Dio mortale,
cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti per questa autorità, che gli è
stata data da ogni singolo uomo dello Stato, gli è conferito l'uso di tanto potere e di tanta forza, da essere in
grado, con il terrore da essi suscitato, di conformare le volontà di tutti alla pace interna e all'aiuto reciproco
contro i nemici esterni. In lui risiede l'essenza dello Stato, che, per definirlo, è una persona unica, dei cui atti
si sono fatti individualmente attori, mediante patti reciproci, una grande moltitudine di uomini, al fine che
possa usare tutta la loro forza e tutti i loro mezzi, come riterrà opportuno, in vista della loro pace e della
loro difesa comune.
E chi sostiene questa persona è detto sovrano; e si dice che detiene il potere sovrano. Tutti gli altri
sono i suoi sudditi. […]
18. I diritti dei sovrani per istituzione
Si dice che uno Stato è istituito, quando degli uomini in moltitudine si accordano e concludono il
patto, l'uno con l'altro, che, chiunque sia l'uomo o l'assemblea di uomini cui sarà dato dalla dalla
maggioranza il diritto di rappresentare la persona di tutti (cioè di essere il loro rappresentante), ciascuno di
loro, sia chi ha votato a favore, sia chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell'uomo o
assemblea di uomini, esattamente come se fossero i suoi, al fine di vivere in pace ed essere protetto nei
confronti degli altri. […]
Inoltre, se chi tenta di deporre il suo sovrano, è da costui ucciso o punito per tale tentativo, egli stesso
è autore della propria punizione, in quanto, per l'istituzione, è autore di tutto ciò che il sovrano fa. […]
In secondo luogo, poiché il diritto di sostenere la persona di tutti è conferito al sovrano non mediante
un patto concluso fra di lui e tutti i sudditi, ma solo mediante un patto concluso fra questi ultimi, non può
aver luogo alcuna infrazione del patto da parte del sovrano, e di conseguenza nessun suddito può essere
liberato della propria soggezione, con il pretesto dell'inadempienza. È chiaro che chi è fatto sovrano non
conclude, in precedenza, alcun patto con i sudditi, perchè dovrebbe concluderlo con l'intera moltitudine
come parte del patto, oppure dovrebbe concludere un patto distinto con ciascuno degli individui. […]
In quarto luogo, poiché ogni suddito è per questa istituzione autore di tutte le azioni e i giudizi del
sovrano istituito, ne consegue che il sovrano, qualsiasi cosa faccia, non può commettere un torto nei
confronti di alcuno dei suoi sudditi, né deve essere da questi accusato di ingiustizia. Infatti chi fa qualcosa
per autorità di un altro non può fare torto a chi è autore dell'atto; ma per l'istituzione dello Stato, ogni singolo
individuo è autore di tutti gli atti del sovrano; quindi, se denuncia un torto commesso dal sovrano, denuncia
un atto di cui egli stesso è autore, e perciò non deve accusare altri che se stesso; e se l'accusa è di torto,
neppure se stesso, perché nessuno può farsi torto da sé. Chi ha il potere sovrano può, è vero, commettere
iniquità; ma non ingiustizia o torto, nel senso proprio dei termini.
In quinto luogo, e in conseguenza di ciò che si è detto, nessun sovrano può essere giustamente posto a
morte o comunque punito dai suoi sudditi, perché i sudditi sono autori delle sue azioni, e quindi punirebbero
un altro per delle azioni commesse da loro.