ritmi perduti nel tempo
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ritmi perduti nel tempo
AUTORI VARI RITMI PERDUTI NEL TEMPO TRADUZIONI DI POESIA LATINA BASATE SUI RITMI DEI VERSI ORIGINALI A FRONTE A CURA DI MARIO MALFETTANI INTRODUZIONE -4- Il sogno – o l’ illusione, secondo molti – di riprodurre in italiano il ritmo dei versi classici latini e greci perdura nella storia della nostra letteratura, riaffiorando periodicamente. L’ impostazione degli umanisti del Quattrocento che cercavano di definire anche nel volgare una prosodia con sillabe lunghe e brevi per applicare poi ad esse la metrica latina si è rivelata nel tempo artificiosa e sterile: quandanche ciò si potesse realizzare, come leggeremmo un testo simile, visto che non siamo in grado di leggere, nella maniera in cui lo avrebbero fatto i latini, gli stessi versi di Orazio? La posizione più negativa – ma anche fin troppo facile – è quella di escludere ogni possibilità di recupero del ritmo della poesia classica, data la radicale differenza tra l’ accentuazione tonale della lingua latina e quella intensiva dell’ italiano. In realtà, tuttavia, soprattutto in ambito scolastico, continuiamo ad avvalerci di quell’ artificio che comunemente definiamo “lettura metrica”, importato dalla Germania, sicuramente utile a fini didattici ma anche in grado di fornirci una base ritmica capace di sollevarci da una sia pur nobile prosa a qualcosa che è certamente più vicina all’ originale poesia. La trasposizione a livello intensivo (forte – piano) di un ritmo che ai tempi della latinità classica era invece ottenuto a livello tonale (alto – basso) – di questo si tratta – è infatti una soluzione che molti grandi poeti tedeschi, ma anche alcuni di lingua inglese adottarono non solo per traduzioni di testi classici ma anche per autonome opere poetiche in lingua moderna. Ciò non è avvenuto, in Italia, se non negli importanti esperimenti di traduzione di Pascoli e nell’ elegia Nevicata di Carducci (unico caso nella sua produzione). Il filone dominante, relativamente al recupero della metrica classica, è invece da noi rappresentato da Carducci stesso che preferì, a parte la citata eccezione, riecheggiare i metri latini, in lunghezza e pause, affidandosi alla combinazione di vari collaudati versi della tradizione italiana e rinunciando ad un rigido legame con il ritmo delle arsi e tesi originarie. In questa direzione, prima di lui, in vario modo: Chiabrera, Fantoni, Rolli ed altri; sulla sua scia: Ettore Romagnoli, Ferruccio Bernini ed altri. E’ mio personale convincimento che alla base di queste 5 scelte vi sia anche la notevole difficoltà pratica insita nel fatto che l’ italiano, a differenza del tedesco e dell’ inglese, è lingua prevalentemente parossitona, per cui risulta difficile realizzare arsi intensive nel corpo del verso, prima delle cesure, o a fine verso (come nel caso del pentametro) disponendo di un numero limitato di parole ossitone. Cercando di superare tale ostacolo con l’ impiego degli accorgimenti utilizzati da Pascoli (ad esempio parole piane con sillaba finale in elisione o sinalefe - anche in sinafia con il verso successivo - al posto di quelle tronche), qui si è invece seguito il criterio “alla tedesca”, più strettamente rispettoso del ritmo latino, cesure comprese; si è inoltre rinunciato alla sistematica utilizzazione di versi italiani tradizionali e all’ isosillabismo laddove, come nell’ esametro, esso non fosse previsto dalla metrica latina. Questo per non rinunciare al recupero, seppure parziale, del ritmo dei vari metri latini classici, nella convinzione che la melodia della sequenza dei suoni ed il ritmo che la scandisce siano elementi essenziali di ogni poesia, non meno dei concetti, delle immagini e dei sentimenti che le danno anima. Per far cogliere più facilmente al lettore non esperto del latino e della sua metrica i vari ritmi, ho evidenziato, nella traduzione italiana, le sillabe su cui cade l’ accento ritmico con il carattere corsivo, anche se ciò potrà risultare spesso superfluo, dato che in quasi tutte le parole polisillabe accento ritmico e grammaticale coincidono. mm. ESAMETRI 8 Verg. Aen. I, 1 – 22 Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris Italiam fato profugus Lavinaque venit litora, multum ille et terris iactatus et alto vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram, multa quoque et bello passus, dum conderet urbem inferretque deos Latio, genus unde Latinum Albanique patres atque altae moenia Romae. Musa, mihi causas memora, quo numine laeso quidve dolens regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores impulerit. Tantaene animis caelestibus irae? Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni) Kartago, Italiam contra Tiberinaque longe ostia, dives opum studiisque asperrima belli; quam Iuno fertur terris magis omnibus unam posthabita coluisse Samo: hic illius arma, hic currus fuit; hoc regnum dea gentibus esse, si qua fata sinant, iam tum tenditque fovetque. Progeniem sed enim Troiano a sanguine duci audierat, Tyrias olim quae verteret arces; hinc populum late regem belloque superbum venturum excidio Libyae: sic volvere Parcas. … 5 10 15 20 9 Virgilio Eneide I, 1 – 22 Canto le imprese dell’ uomo che, primo, dai lidi di Troia, profugo, il fato alle coste lavinie d’ Italia sospinse; molto per mare e per terra gli dei l’ incalzarono: ancora della spietata Giunone durava, memore, l’ ira. Molto in guerra soffrì perché la città si fondasse ove insediare i Penati nel Lazio; da qui la latina stirpe, i padri albani e dell’ alta Roma le mura. Musa, dimmi per quali ragioni, offesa al suo nume o differente lagnanza, di tutti gli dei la regina volle quell’ uomo di insigne virtù così travagliare. Grandi a tal punto nei cuori celesti dunque son l’ ire? Era Cartagine antica città, fondata dai Tiri, che, da lontano, guardava l’ Italia e le foci del fiume Tevere, ricca di mezzi e di grande forza guerriera; più d’ ogn’ altra terra l’ amava Giunone e di Samo stessa; il suo carro lì teneva e le armi e, se il fato mai l’ avesse permesso, tramava ed agiva in maniera che la città dominare le genti tutte potesse. Pure aveva udito che un giorno una stirpe di teucro sangue avrebbe le rocche dei Tiri abbattute: sarebbe, fiero e sovrano, di qui venuto un popolo a porre fine al regno di Libia. Filarono questo le Parche. … 10 Verg. Aen. I, 740 – II, 56 … Cithara crinitus Iopas personat aurata, docuit quem maximus Atlas. Hic canit errantem lunam solisque labores, unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes, Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones, quid tantum Oceano properent se tinguere soles hiberni vel quae tardis mora noctibus obstet. Ingeminant plausu Tyrii Troesque secuntur. Nec non et vario noctem sermone trahebat Infelix Dido longumque bibebat amorem, multa super Priamo rogitans, super Hectore multa; nunc quibus Aurorae venisset filius armis, nunc quales Diomedis equi, nunc quantus Achilles. «Immo age, et a prima dic hospes origine nobis insidias» inquit «Danaum casusque tuorum erroresque tuos; nam te iam septima portat omnibus errantem terris et fluctibus aestas». 740 745 750 755 II Conticuere omnes intentique ora tenebant. Inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem, Troianas ut opes et lamentabile regnum eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi et quorum pars magna fui. Quis talia fando Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi temperet a lacrimis? Et iam nox umida caelo praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros et breviter Troiae supremum audire laborem, quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, incipiam. Fracti bello fatisque repulsi ductores Danaum, tot iam labentibus annis, instar montis equom divina Palladis arte aedificant sectaque intexunt abiete costas; votum pro reditu simulant, ea fama vagatur. Huc delecta virum sortiti corpora furtim 5 10 15 11 Virgilio Eneide I, 740 – II, 34 … Iopa dai lunghi capelli, che alunno fu del grandissimo Atlante, la cetra d’ oro intonando, canta l’ errante luna e le eterne fatiche del sole; quindi degli animali e dell’ uomo, di fulmini e piogge, canta l’ origine e Arturo, le Iadi sempre piovose, l’ Orse gemelle; perché d’ inverno s’ affrettino i soli verso l’ oceano mentre le notti indugiano, tarde. Scroscia frequente l’ applauso dei Tiri e quello dei Teucri. Mentre la notte così l’ infelice Didone passava, presa da vari discorsi, beveva a lungo l’ amore; molto andava chiedendo di Priamo e d’ Ettore e come l’armi del figlio d’ Aurora splendessero; poi di Diomede quali i cavalli apparissero e poi la prestanza di Achille. «Ospite, su, dall’ inizio racconta le insidie dei Danai» disse «Dei tuoi le sventure ed il tuo continuo vagare; è la settima estate, difatti, questa che errante te per tutte quante le terre ed i mari sospinge». II Fece silenzio ognuno, tenendo fisso lo sguardo. Poi Enea così cominciò dall’ alto giaciglio: «Un dolore indicibile vuoi ch’ io rinnovi, o regina: come i Danai la forza di Troia ed il suo sventurato regno distrussero, eventi tremendi di cui testimone fui ed attore importante. Ma chi parlarne potrebbe senza pianto, quandanche mirmidone oppure soldato fosse del duro Ulisse? E già dal cielo discende l’ umida notte e le stelle calanti conciliano il sonno. Ma se tanto ti preme conoscere i nostri travagli ed ascoltare in breve di Troia l’ estrema agonia, anche se aborro il ricordo e da tanto dolore rifuggo, pur ti dirò. Dal conflitto fiaccati e respinti dai fati – sono molti gli anni trascorsi – i capi dei Danai fanno innalzare, con l’ arte divina di Pallade, grande quanto un monte, un cavallo, di travi d’ abete connesse. Fingono quindi che un voto per fare felice ritorno sia; ne spargono in giro la voce ed intanto, nel buio 12 includunt caeco lateri penitusque cavernas ingentis uterumque armato milite complent. Est in conspectu Tenedos, notissima fama Insula, dives opum, Priami dum regna manebant, nunc tantum sinus et statio male fida carinis: huc se provecti deserto in litore condunt. Nos abiisse rati et vento petiisse Mycenas. Ergo omnis longo solvit se Teucria luctu. Panduntur portae; iuvat ire et Dorica castra desertosque videre locos litusque relictum. Hic Dolupum manus, hic saevus tendebat Achilles, classibus hic locus, hic acie certare solebant. Pars stupet innuptae donum exitiale Minervae et molem mirantur equi; primusque Thymoetes duci intra muros hortatur et arce locari, sive dolo seu iam Troiae sic fata ferebant. At Capys et quorum melior sententia menti aut pelago Danaum insidias suspectaque dona praecipitare iubent subiectisque urere flammis aut terebrare cavas uteri et temptare latebras. Scinditur incertum studia in contraria volgus. Primus ibi ante omnis, magna comitante caterva, Laocoon ardens summa decurrit ab arce et procul: “O miseri, quae tanta insania, cives? creditis avectos hostis aut ulla putatis dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes? Aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi aut haec in nostros fabricatast machina muros inspectura domos venturaque desuper urbi aut aliquis latet error: equo ne credite, Teucri. Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes”. Sic fatus validis ingentem viribus hastam In latus inque feri curvam compagibus alvom contorsit. Stetit illa tremens, uteroque recusso Insonuere cavae gemitumque dedere cavernae. Et si fata deum, si mens non laeva fuisset, impulerat ferro Argolicas foedare latebras Troiaque nunc staret, Priamique arx alta maneres.» … 20 25 30 35 40 45 50 55 13 petto, in segreto, alcuni fra i capi, a sorte prescelti, celano e riempiono l’ ampie caverne del ventre d’ armati. L’ isola, al largo, si vede di Tenedo, ricca di fama, florida mentre il regno di Priamo ancora durava, ora soltanto un golfo, malfido ancoraggio alle navi. Giunti colà, sul lido deserto si celano tutti. Noi li credemmo partiti, diretti col vento a Micene. Ecco che tutta la Teucria si scioglie da un lungo dolore. S’ aprono allora le porte: conforta uscire e vedere vuoto il campo dei Dori e la riva sgombra da navi. Qui la schiera dei Dolopi, qui la tenda d’ Achìlle, qui si trovava la flotta; qui si veniva a battaglia. Sono stupiti, alcuni, del dono esiziale a Minerva Vergine e molto la mole ne ammirano; primo Timete dentro le mura esorta a condurlo e quindi alla rocca, o per dolo o perché così voleva il destino. Capi invece e quelli che sono d’ avviso migliore chiedono che, bruciato, si getti in mare il sospetto dono, possibile insidia, o che, con trivelle, si provi che nascondigli segreti non celi il cavo suo ventre. È divisa, incerta, la gente: opposti i pareri. Giù dalla rocca accorre per primo, infuriato e con grande turba al seguito, lì Laocoonte che, ancora lontano, “Quale mai follia, sventurati!” grida “Credete voi davvero partiti i nemici o che privi di inganno siano i doni dei Danai? Ulisse così conoscete? O, lì dentro, rinchiusi nel legno, si celano achei, o tal macchina fu costruita in danno alle mura, per spiarci e dall’ alto poter penetrare all’ interno, o comunque un inganno nasconde: attenti al cavallo! Anche se portano doni, dei Danai comunque diffido”. Disse e una lancia enorme scagliò con vigore nel fianco dell’ animale, nel seno suo curvo di legni giuntati. Essa, confitta, vibrò: dal ventre percosso un rimbombo venne: emisero l’ ampie caverne un gemito; forse, senza i fati divini e l’ erroneo nostro giudizio, spinti ci avrebbe a scovare le argoliche tane ed ancora Troia e di Priamo tu, svettante rocca, vivreste.» … 14 Verg. Aen. II, 768 – 804 … «Ausus quin etiam voces iactare per umbram implevi clamore vias maestusque Creusam nequiquam ingeminans iterumque iterumque vocavi. Qaerenti et tectis urbis sine fine furenti infelix simulacrum atque ipsius umbra Creusae visa mihi ante oculos et nota maior imago. Obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit. Tum sic adfari et curas his demere dictis: “Quid tantum insano iuvat indulgere dolori, o dulcis coniunx? Non haec sine numine divom eveniunt; nec te comitem hinc portare Creusam fas aut ille sinit superi regnator Olympi. Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum. Et terram Hesperiam venies, ubi Lydius arva inter opima virum leni fluit agmine Thybris; illic res laetae regnumque et regia coniunx parta tibi: lacrimas dilectae pelle Creusae. Non ego Myrmidonum sedes Dolupumve superbas aspiciam aut Graiis servitum matribus ibo, Dardanis et divae Veneris nurus, sed me magna deum genetrix his detinet oris. Iamque vale et nati serva communis amorem”. Haec ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem dicere deseruit tenuisque recessit in auras. Ter conatus ibi collo dare bracchia circum; ter frustra comprensa manus effugit imago, par levibus ventis volucrique simillima somno. Sic demum socios consumpta nocte reviso, atque hic ingentem comitum adfluxisse novorum invenio admirans numerum, matresque virosque, collectam exilio pubem, miserabile volgus. Undique convenere, animis opibusque parati, in quascumque velim pelago deducere terras. Iamque iugis summae surgebat Lucifer Idae ducebatque diem Danaique obsessa tenebant limina portarum nec spes opis ulla dabatur. Cessi et sublato montis genitore petivi». 770 775 780 785 790 795 800 15 Virgilio Eneide II, 768 – 804 … «Giunsi a lanciare grida nel buio e le vie di clamore feci, così, risuonare, chiamando invano a gran voce e ripetendo, mesto, Creusa ancora ed ancora. Come in preda a delirio, cercavo in mezzo alle case quando, fantasma infelice, dinanzi agli occhi m’ apparve proprio l’ immagine sua, di Creusa, maggiore di lei. Fui stupefatto, i capelli rizzati e la voce bloccata. Poi, con queste parole, da me gli affanni rimosse: “Da forsennato dolore perché, mio dolce marito, farsi vincere? Avviene non senza volere divino questo: seguirti non è consentito a Creusa e neppure dà il suo permesso colui che lassù l’ Olimpo governa. Lunghi esili e vaste distese di mare per te; ma poi nella terra Esperia verrai, dove il Tevere lidio, tra popolosi campi, con dolce corrente fluisce. Lieti eventi laggiù t’ attendono: un regno e di regia stirpe una sposa. La cara Creusa non piangere; infatti, né dei Mirmidoni né dei Dolopi mai le superbe case avverrà ch’ io veda e neppure – dardanide e nuora io di Venere – debba le greche matrone servire: me degli dei la gran madre trattiene in queste contrade. Ora addio: l’ amore di nostro figlio conserva”. Disse, lasciando me che piangevo e dirle volevo molto ancora, ma lei, nell’ aria lieve, scomparve. Mossi tre volte le braccia cercando di stringerla forte ma, per tre volte, sfuggì l’ immagine, invano afferrata, come vento leggera, che a sogno fugace somiglia. Torno così, consumata la notte, a vedere i compagni e, con sorpresa, di nuovi ne trovo, in gran numero giunti: donne ed uomini – triste raccolta – all’ esilio disposti, d’ ogni parte affluiti; per forza d’ animo e mezzi pronti a seguirmi dovunque volessi condurli per mare. Già Lucifero intanto lassù sorgeva, dagli alti gioghi dell’ Ida ed il giorno con sé conduceva; le porte erano tutte occupate dai Danai; alcuna speranza più non restava. Allora mi misi in cammino; mio padre presi in spalla e diressi la marcia alla volta dei monti». 16 Verg. Aen. VI, 426 – 476 … Continuo auditae voces vagitus et ingens infantumque animae flentes in limine primo quos dulcis vitae exsortis et ab ubere raptos abstulit atra dies et funere mersit acerbo. Hos iuxta falso damnati crimine mortis. Nec vero hae sine sorte datae, sine iudice sedes: quaesitor Minos urnam movet; ille silentum consiliumque vocat vitasque et crimina discit. Proxima deinde tenent maesti loca, qui sibi letum insontes peperere manu lucemque perosi proiecere animas. Quam vellent aethere in alto nunc et pauperiem et duros perferre labores! Fas obstat, tristisque palus inamabilis undae adligat et novies Styx interfusa coercet. Nec procul hinc partem fusi monstrantur in omnem lugentes campi; sic illos nomine dicunt. Hic quos durus amor crudeli tabe peredit, secreti celant calles et myrtea circum silva tegit; curae non ipsa in morte relinquont. His Phaedram Procrimque locis maestamque Eriphylen crudelis nati monstrantem volnera cernit, Evadnenque et Pasiphaën; his Laodamia it comes et iuvenis quondam, nunc femina, Caeneus rursus et in veterem fato revoluta figuram. Inter quas Phoenissa recens a volnere Dido errabat silva in magna. Quam Troïus heros ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras obscuram, qualem primo qui surgere mense aut videt aut vidisse putat per nubila lunam, demisit lacrimas dulcique adfatus amore est: «Infelix Dido, verus mihi nuntio ergo venerat extinctam ferroque extrema secutam? Funeris heu tibi causa fui? Per sidera iuro, per superos et si qua fides tellure sub ima est, invitus, regina, tuo de litore cessi. Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras, per loca senta situ cogunt noctemque profundam, 430 435 440 445 450 455 460 17 Virgilio Eneide VI, 426 – 476 … Subito s’ odono voci, un intenso vagire e, piangenti, l’ anime tutte dei bimbi che giunti appena di questa dolce vita alla soglia, strappati al seno materno, vennero un triste giorno da morte acerba sommersi. I giustiziati con falsa condanna son loro vicini. Viene a ciascuno la sede con equo criterio assegnata: scuote l’ urna Minosse, che giudica; l’ anime mute chiama a raccolta e discerne le vite ed i crimini loro. Seguono, tristi, coloro che, senza colpe, la morte vollero darsi, credendo d’ odiare la luce del giorno. Quanto vorrebbero adesso lassù ritornare tra i vivi, anche poveri e dure fatiche disposti a patire! Legge divina lo vieta: la triste palude li lega e, con nove cerchi, li chiude, attorno scorrendo, lento lo Stige. Da lì non lontano, s’ estendono in ogni parte quelli che sono chiamati i campi del pianto. Là nascosti sentieri protetti da un bosco di mirto celano quanti un amore spietato consunse con crudo morbo: neppure la morte da loro allontana gli affanni. Fedra e Procri laggiù riconosce e la triste Erifile che le ferite mostra del figlio crudele e con loro sono Pasifae, Evadne e v’ è Laodamia e colei, Ceneo, che, trasformata già in un giovane maschio, fu restituita infine dal fato all’ aspetto suo primo. Stava vagando lì, nella grande selva, tra loro anche Didone, fenicia regina, da poco ferita. Quando l’ eroe le giunse vicino ed oscura tra l’ ombre pur la conobbe, come chi vede o attraverso le nubi crede vedere la luna levarsi, all’ inizio del mese, prese a piangere e disse, con grande amore e dolcezza: «O Didone infelice, ciò che si disse era vero dunque: di spada avevi trovato la morte? E del lutto causa io stesso fui? Per le stelle lo giuro e gli dei su del cielo e per quanto si possa quaggiù sottoterra farlo: fui costretto, regina, a lasciare i tuoi lidi. Me degli dei chiamava il volere che adesso tra queste ombre, per plaghe deserte e profonda notte, mi spinge, 18 imperiis egere suis; nec credere quivi hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem. Siste gradum, teque adspectu ne subtrahe nostro. Quem fugis? Extremum fato quod te alloquor hoc est». Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem lenibat dictis animum lacrimasque ciebat. Illa solo fixos oculos aversa tenebat nec magis incepto voltum sermone movetur, quam si dura silex aut stet Marpesia cautes. Tandem corripuit sese atque inimica refugit in nemus ombriferum, coniunx ubi pristinus illi respondet curis aequatque Sychaeus amorem. Nec minus Aeneas, casu concussus iniquo, prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem. … 465 470 475 19 né potevo arrivare a pensare, mentre partivo, ch’ io t’ avrei causato un così fatale dolore. Ferma il passo; al mio sguardo, ti prego, non ti sottrarre. Chi vuoi fuggire? Il fato ci lascia quest’ ultimo incontro». Tali parole, piangendo, diceva Enea per lenire l’ animo ardente di lei, che torvo aveva lo sguardo. Ella, voltata, gli occhi teneva fissi per terra né, dall’ inizio, il suo volto mutava più che se fosse stato in dura pietra scolpito, o nel marmo Marpesio. Poi si sottrasse, ostile, e rifugio cercò nell’ ombroso bosco, dove Sicheo, marito suo primo, la colma d’ ogni premura e ne sa ricambiare in tutto l’ amore. Né di seguirla Enea con lo sguardo, commosso da quella sorte iniqua, cessava: piangeva e la commiserava. … 20 Verg. Aen. VI, 679 – 702 … At pater Anchises penitus convalle virenti inclusas animas superumque ad lumen ituras lustrabat studio recolens, omnemque suorum forte recensebat numerum, carosque nepotes, fataque fortunasque virum, moresque manusque. Isque ubi tendentem adversum per gramina vidit Aenean, alacris palmas utrasque tetendit, effusaeque genis lacrimae et vox excidit ore: «Venisti tandem, tuaque exspectata parenti vicit iter durum pietas, datur ora tueri, nate, tua et notas audire et reddere voces? Sic equidem ducebam animo rebarque futurum tempora dinumerans, nec me mea cura fefellit. Quas ego te terras et quanta per aequora vectum accipio, quantis iactatum, nate, periclis! Quam metui, ne quid Libyae tibi regna nocerent!». Ille autem: «Tua me, genitor, tua tristis imago saepius occurrens haec limina tendere adegit; stant sale Tyrrheno classes, da iungere dextram, da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro». Sic memorans largo fletu simul ora rigabat. Ter conatus ibi collo dare bracchia circum, ter frustra comprensa, manus effugit imago, par levibus ventis, volucrique simillima somno. … 680 685 690 695 700 21 Virgilio Eneide VI, 679 – 702 … V’ erano, giù nel fondo di quella verde vallata, anime pronte a salire di nuovo alla luce, che Anchise tutto intento scrutava, contando con cura tra loro quelle dei suoi che scorgeva ed i cari nipoti e con essi fati, umane vicende, costumi ed imprese future. Come vide Enea che verso di lui i per campi si dirigeva, entrambe le palme di slancio gli tese; poi, con le guance bagnate di pianto, «Infine giungesti» disse «E l’ atteso amore di figlio il duro cammino seppe vincere e dunque guardare ancora il tuo volto è concesso e note parole scambiare tra noi? Tale speranza sempre ho nutrito intanto che il tempo via trascorreva e non venni dal mio desiderio deluso. Figlio, per quali terre e per quanti mari sospinto ora t’ accolgo e da quali pericoli enormi agitato! Quanto ho temuto che a te nuocessero i regni di Libia!». «Fu la tua immagine triste, mai dalla mente rimossa, ciò che mi spinse a varcare i confini di queste contrade; là sul Tirreno attende la flotta. Dammi la mano, padre; all’ abbraccio mio non sottrarti». E mentre diceva queste parole, le gote di libero pianto rigava. Mosse tre volte le braccia, cercando di stringerlo forte, ma, per tre volte, sfuggì l’ immagine, invano afferrata, come vento leggera, che a sogno fugace somiglia. … 22 Verg. Ge. II, 458 – 494 … O fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas! Quibus ipsa procul discordibus armis fundit humo facilem victum iustissima tellus. Si non ingentem foribus domus alta superbis mane salutantum totis vomit aedibus undam, nec varios inhiant pulchra testudine postis inlusasque auro vestis Ephyreiaque aera, alba neque Assyrio fucatur lana veneno, nec casia liquidi corrumpitur usus olivi; at secura quies et nescia fallere vita, dives opum variarum, at latis otia fundis, speluncae vivique lacus et frigida tempe mugitusque boum mollesque sub arbore somni non absunt; illic saltus ac lustra ferarum et patiens operum exiguoque adsueta iuventus, sacra deum sanctique patres; extrema per illos Iustitia excedens terris vestigia fecit. Me vero primum dulces ante omnia Musae, quarum sacra fero ingenti percussus amore, accipiant caelique vias et sidera monstrent, defectus solis varios lunaeque labores; unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant obicibus ruptis rursusque in se ipsa residant, quid tantum Oceano properent se tingere soles hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet. Sin has ne possim naturae accedere partis frigidus obstiterit circum praecordia sanguis, rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes, flumina amem silvasque inglorius. O ubi campi Spercheosque et virginibus bacchata Lacaenis Taygeta! O qui me gelidis convallibus Haemi sistat, et ingenti ramorum protegat umbra! Felix qui potuit rerum cognoscere causas atque metus omnis et inexorabile fatum subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari: fortunatus et ille deos qui novit agrestis Panaque Silvanumque senem Nynphasque sorores. 460 465 470 475 480 485 490 23 Virgilio Georgiche II, 458 – 494 … O fortunati – e più, se capissero i beni che hanno – i contadini, ai quali la terra, giustissima, vitto facile apporta dal suolo, lontano dall’ armi discordi. Se l’ imponente palazzo dagli usci superbi, al mattino, di salutanti da tutte le stanze non libera un’ onda, se non ammirano porte di bella testuggine ornate, vesti d’ oro o di bronzo corinzio con arte fregiate; se la porpora assira la bianca lana non macchia, né la cannella corrompe la linfa dell’ olio d’ oliva; ma sicura quiete, ma vita incapace d’ inganni – ricca di vari beni e di pace in vaste campagne – grotte e vergini laghi non mancano e fresche vallate, buoi muggenti e, all’ ombra di un albero, sonni beati. Balze e tane di fiere lì si trovano; avvezzi sono i giovani al poco, gli dei venerati, onorati i genitori; tra loro lasciò Giustizia la sua ultima impronta prima d’ andare via dalla terra. Certo vorrei che le Muse, d’ ogn’ altra cosa più dolci, – serbo il loro culto, d’ ardente amore trafitto – mi rivelassero, accolto fra loro, del cielo le vie, gli astri, le eclissi di sole e le fasi lunari; le cause dei terremoti e la forza che i mari profondi rigonfia e, rotti gli argini, ancora li fa ritornare placati; quale fretta sospinga, d’ inverno, i soli a tuffarsi giù nell’ Oceano mentre le notti indugiano, tarde. Ma se il sangue, attorno ai precordi freddo, visioni simili della natura negasse a me, di campagne abbia allora e di fiumi e di valli irrorate il piacere: possa, senza gloria, le selve amare e i ruscelli. Dove le piane, dov’ è lo Spercheo e il Taigeto – l’ eco delle baccanti spartane vi aleggia – ? Chi nelle valli gelide mi porrà dell’ Emo, chi con l’ immensa ombra mi coprirà dei rami? Felice chi seppe della natura i segreti svelare vincendo i timori, l’ inesorabile Fato e lo strepito dell’ Acheronte; ma fortunato pure colui che gli dei della terra, Pan, il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle conosce. 24 Verg. Ge. IV, 453 – 503 … «Non te nullius exercent numinis irae; magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant, suscitat, et rapta graviter pro coniuge saevit. Illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps, immanem ante pedes hydrum moritura puella servantem ripas alta non vidit in herba. At chorus aequalis Dryadum clamore supremos implevit montis; flerunt Rodopeiae arces altaque Pangea et Rhesi Mavortia tellus atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia. Ipse cava solans aegrum testudine amorem te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, te veniente die, te decedente canebat. Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis, et caligantem nigra formidine lucum ingressus, Manisque adiit regemque tremendum nesciaque humanis precibus mansuescere corda. At cantu commotae Erebi de sedibus imis umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum, quam multa in foliis avium se milia condunt, Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber, matres atque viri defunctaque corpora vita magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae, impositique rogis iuvenes ante ora parentum, quos circum limus niger et deformis harundo Cocyti tardaque palus inamabilis unda alligat et novies Styx interfusa coercet. Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti Tartara ceruleosque implexae crinibus anguis Eumedines, tenuitque inhians tria Cerberus ora, atque Ixionii vento rota constitit orbis. Iamque pedem referens casus evaserat omnis, redditaque Eurydice superas veniebat ad auras pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem), cum subita incautum dementia cepit amantem, ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes: 455 460 465 470 475 480 485 25 Virgilio Georgiche IV, 453 – 503 … «L’ ira di qualche dio ti perseguita; gravi misfatti ora tu paghi: Orfeo, sventurato senza sua colpa, queste pene ti causa – finché non si oppongano i fati – reso folle da quando la sposa gli venne sottratta. Lei, che da te a precipizio, seguendo il fiume, fuggiva, prossima ormai alla morte non vide infatti un’ enorme serpe nell’ erba alta, dinnanzi ai suoi piedi in agguato. Giunsero fino alle cime dei monti allora dell’ altre Driadi amiche le grida; le vette del Rodope e l’ alto monte Pangeo così ne piansero e pure la terra marzia di Reso e i Geti con l’ Ebro e l’ attica Orizia. Sulla testuggine cava lui, per lenire il dolore, lungo il lido deserto cantava te, la sua dolce sposa, te sul fare del giorno, te col tramonto. Oltre le bocche Tenarie, profondo ingresso di Dite, quindi nel bosco oscurato da tenebre orrende si spinse; poi raggiunse i Mani, il re tremendo ed i cuori che impietosirsi non sanno d’ umane preghiere all’ ascolto. Ma, da quel canto attratte, venivano fin dagli estremi siti dell’ Erebo l’ ombre leggere e i fantasmi di quanti hanno perduto la luce; così numerosi gli uccelli dietro le foglie a sera si celano o quando, d’ inverno, dalle montagne li scaccia la pioggia: v’ erano madri, uomini e corpi privi di vita d’ eroi generosi; bimbi, fanciulle illibate, ragazzi che furono posti dai genitori sui roghi: lo scuro limo li lega tutti quanti e l’ orrendo canneto e la triste palude mentre lo Stige, lento, con nove cerchi li chiude. Sono ammaliate le stesse profonde dimore del Lete e pure le Eumenidi, che di cerulei serpenti i capelli hanno intrecciati. Trattiene le triplici fauci dischiuse Cerbero e il vento la ruota d’ Issione più non sospinge. Tutti gli ostacoli già superati, durante il ritorno, la restituita Euridice veniva oramai alla luce, dietro salendo (così Proserpina aveva prescritto), quando l’ incauto amante da un folle impulso fu colto, certo scusabile, se scusare sapessero i Mani: 26 restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa immemor – heu! – victusque animi respexit. Ibi omnis, effusus labor atque immitis rupta tyranni foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis. Illa “Quis et me” inquit “Miseram et te perdidit, Orpheu, quis tantus furor? En iterum crudelia retro fata vocant, conditque natantia lumina somnus. Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas”. Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras commixtus tenuis, fugit diversa, neque illum prensantem nequiquam umbras et multa volentem dicere praeterea vidit; nec portitor Orci amplius obiectam passus transire paludem. Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret? Quo fletu Manis, quae numina voce moveret? Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba. Septem illum totos perhibent ex ordine mensis rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam flesse sibi, et gelidis haec evolvisse sub antris mulcentem tigris et agentem carmine quercus: qualis populea maerens philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus arator observans nido implumis detraxit; at illa flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen integrat, et maestis late loca questibus implet. Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei: solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis dona querens. Spretae Ciconum quo munere matres inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi discerptum latos iuvenem sparsere per agros. Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua, a! miseram Eurydicen anima fugiente vocabat: Eurydicen toto referebant flumine ripae.» … 490 495 500 505 510 515 520 525 27 solo un istante ristette, volgendo lo sguardo a Euridice, ahi, dimentico e vinto: la sua fatica a quel punto tutta fu vana e i patti di quello spietato signore rotti; tre volte echeggiò sugli stagni d’ Averno un fragore. “Quale enorme follia” lei disse allora “ha potuto perderci entrambi, Orfeo? Di nuovo il fato, crudele, ecco, mi chiama ed il sonno richiude gli occhi miei spenti. Ora addio! Mi circonda e trascina una notte profonda mentre a te, non più tua, le palme invano protendo”. Disse e in breve sparì dalla vista, simile a fumo che per un lieve alitare di vento svanisce e non oltre vide lui che abbracciava le ombre invano e molt’ altro dire voleva; né permise il nocchiero dell’ Orco che l’ interposta palude venisse di nuovo varcata. Cosa fare mai? – due volte la sposa sottratta – dove andare? I Mani commuovere? O quali fra i numi? Fredda ormai sulla barca di Stige lei navigava. Sette lunghi mesi si dice che sotto un’ eccelsa rupe – lo Strimone, lì di fronte, deserto scorreva – lui ripetesse, piangendo, quei fatti in gelide grotte. Rese mansuete le tigri col canto e mosse le querce: quale dolente usignolo lamenta, all’ ombra di un pioppo, come il duro aratore, scovati gli implumi suoi figli, via li portasse dal nido; di notte, posato su un ramo, un miserevole canto ripete e di mesti lamenti riempie tutt’ intorno per ampia distanza quei luoghi. Non un amore più, non talami; lui percorreva, solo, iperborei ghiacci ed il Tanai, come la neve gelido e i campi Rifei, mai privi di brina, Euridice sempre e i vani doni di Dite sottratti invocando. Lo sbranarono e i resti del giovane sparsero in vasti campi le Ciconi donne respinte da lui – che fedele volle restare – durante le orge notturne di Bacco. Anche quando la testa, dal collo marmoreo strappata, l’ Ebro d’ Eagro faceva tra i gorghi ruotare – oramai fredda la lingua – “Euridice!” da sola invocava la voce sua, “Sventurata Euridice!”. Fuggiva la vita e le rive lungo l’ intera corrente rendevano l’ eco: “Euridice!”.» … 28 Lucr. De rerum natura I, 1 – 43 Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis, te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum. Nam simul ac species patefactast verna diei et reserata viget genitabilis aura favoni, aëriae primum vulucris te, diva, tuumque significant initum perculsae corda tua vi. Inde ferae pecudes persultant pabula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. Denique per maria ac montis fluviosque rapacis frondiferasque domos avium camposque virentis, omnibus incutiens blandum per pectora amorem, efficis ut cupide generatim saecla propagent. Quae quoniam rerum naturam sola gubernas, nec sine te quicquam dias in lumine oras exoritur, neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse, quos ego de rerum natura pangere conor Memmiadae nostro quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem. Effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant. Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reicit aeterno devictus volnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus, eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto 5 10 15 20 25 30 35 29 Lucrezio De rerum natura I, 1 – 43 Alma Venere, tu degli Eneadi madre, piacere tu dei mortali e così dei celesti, che sotto i vaganti astri del cielo il mare, di navi affollato, e le terre, ricche di messi, fecondi – poiché sono tutti i viventi grazie a te concepiti e portati alla luce del sole – fuggono te e il tuo arrivo nel cielo i venti e le nubi, fa spuntare per te, con arte, la terra soavi fiori e a te le distese del mare sorridono mentre torna di luce diffusa a risplendere il cielo, sereno. Come infatti nel giorno compaiono di primavera chiari segni e va di Favonio il soffio fecondo tutt’ attorno vagando, per primi gli uccelli dell’ aria danno, o dea, del tuo arrivo l’ annunzio, nel cuore toccati dalla tua forza. Quindi le greggi selvagge nei lieti campi scorrazzano e fiumi veloci attraversano: ognuna cupida segue te, dal tuo fascino presa, dovunque tend i a condurla. Infine per mari, monti, rapaci fiumi, frondose dimore d’ uccelli e floridi campi, susciti in tutti un amore suadente nel petto per cui con desiderio ciascuno la propria specie propaghi. E, poiché la natura tu sola governi e nessuna cosa nascere può nelle plaghe in cui regna la luce senza di te e neppure qualcosa di lieto avvenire nè d’ amabile, cerco di averti alleata nei versi sulla natura che inizio a comporre per questo rampollo della casata di Memmio che tu in qualunque occasione, d’ ogni valore dotato, volesti eccellesse fra tutti. Tanto più concedi ai miei versi eterna bellezza, diva, e fa’ che, sopiti, si plachino intanto di guerra gli atti feroci sui mari e per tutte quante le terre. Tu solamente infatti recare in soccorso ai mortali puoi la tranquilla pace: sovente il potente signore d’ armi e guerre, Marte, sul grembo tuo s’ abbandona, pure lui dall’ eterna ferita d’ amore sconfitto; egli allora, il collo tornito piegato all’ indietro, pasce gli avidi sguardi d’ amore; dalle tue labbra pende il suo respiro e supino si lascia cadere. Mentre giace al tuo corpo divino abbracciato, fluire 30 circumfusa super, suavis ex ore loquellas funde petens placidam Romanis, inclita, pacem. Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo, nec Memmi clara propago talibus in rebus communi deesse saluti. … 40 31 fai dalle labbra soavi parole e per i Romani chiedi la placida pace: sereni l’ opera infatti noi non possiamo comporre fin tanto che vive la patria questo momento infelice e non può negare il suo impegno alla comune salvezza l’ illustre prole di Memmio. … DISTICI ELEGIACI 34 Cat. Carm. 72 Dicebas quondam solum te nosse Catullum, Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem. Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam, sed pater ut gnatos diligit et generos. Nunc te cognovi: quare etsi inpensius uror, multo mi tamen es vilior et levior. «Qui potis est?» Inquis. Quod amantem iniuria talis cogit amare magis, sed bene velle minus. 5 35 Catullo Carmi 72 Tu dicevi una volta d’ amare solo Catullo, Lesbia, e che a Giove stesso io non venivo secondo. Oltre che come un amante, non meno d’ un padre t’ amai, quando ai suoi figli così, come ai congiunti, vuol bene. Ora che t’ ho conosciuta, sebbene io bruci più forte dalla passione per te, molto di meno ti stimo. «È possibile ciò?» ti domandi. Per questi tuoi torti cresce la fiamma di più, scema l’ affetto per te. 36 Cat. Carm. 101 Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam adloquerer cinerem, quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, heu miser indigne frater adempte mihi. Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multum manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 5 10 37 Catullo Carmi 101 Molte genti e molte distese di mare ho vedute prima di giungere infine alle tue misere esequie e tributarti, fratello, l’ estremo omaggio di morte, qui rivolgendomi, invano, alle tue ceneri mute, ora che proprio te, fratello misero mio, m’ ha strappato il destino, indegnamente, così. Questa funebre offerta ricevi intanto; secondo l’uso antico degli avi, ecco, la dedico a te: triste omaggio, di pianto fraterno intriso; poi questo l’ ultimo addio, fratello, ora e per sempre sarà. 38 Tib. I 3, 1 – 34 Ibitis Aegeas sine me, Messalla, per undas, o utinam memores ipse cohorsque mei! Me tenet ignotis aegrum Phaeacia terris: abstineas avidas Mors modo nigra manus. Abstineas, Mors atra, precor! Non hic mihi mater quae legat in maestos ossa perusta sinus, non soror, Assirios cineri quae dedat odores et fleat effusis ante sepulcra comis, Delia non usquam quae, me cum mitteret urbe, dicitur ante omnes consuluisse deos. Illa sacras pueri sortes ter sustulit: illi rettulit e trinis omina certa puer. Cuncta dabant reditus: tamen est deterrita nunquam quin fleret nostras respiceretque vias. Ipse ego solator, cum iam mandata dedissem, quaerebam tardas anxius usque moras. Aut ego sum causatus aves aut omina dira Saturnive sacram me tenuisse diem. O quotiens ingressus it er mihi tristia dixi offensum in porta signa dedisse pedem! Audeat invito ne quis discedere Amore, aut sciat egressum se prohibente deo. Quid tua nunc Isis mihi, Delia, quid mihi prosunt Illa tua totiens aera repulsa manu, quidve, pie dum sacra colis, pureque lavari te, memini, et puro secubuisse toro? Nunc, dea, nunc succurre mihi (nam posse mederi picta docet templis multa tabella tuis) ut mea votivas persolvens Delia voces ante sacras lino tecta fores sedeat bisque die resoluta comas tibi dicere laudes insignis turba debeat in Pharia. At mihi contingat patrios celebrare Penates reddereque antiquo menstrua tura Lari. … 5 10 15 20 25 30 39 Tibullo I 3, 1 – 34 Senza di me, Messalla, per l’ onde egee ve n’ andrete, memori – spero – tu con la coorte di me. Qui la Feacia mi tiene, malato in terra straniera: nera Morte, da me l’ avide mani allontana; atra Morte, ti prego, trattienile: certo mia madre l’ ossa bruciate qui mesta riunire non può né mia sorella assiri profumi alle ceneri offrire mentre scorrere fa, sciolte le chiome, il suo pianto; e neppure Delia che, dicono, prima del viaggio, tutti quanti gli dei fece a consulto invocare. Ella tre volte aveva al fanciullo richiesto le sacre sorti e tre volte le fu reso un presagio sicuro: era certo il ritorno, però dal pianto e dall’ ansia mai liberarsi poté, mentre al mio viaggio pensava. Era tutto pronto ed io stesso, che lei rincuoravo, pure accampavo, ansioso, ogni pretesto d’ indugio, ogni presagio o volo d’ uccelli infausto adducendo; né mi sfuggiva se il giorno era a Saturno sacrato. Oh, le volte in cui dissi, a cammino iniziato, che il piede nella mia porta inciampato era un presagio funesto! Abbia il consenso d’ Amore o rinunzi chiunque a partire; ma, se pure lo fa, sappia che un dio sta sfidando. Ora, o Delia, a che cosa mi giovano Iside e quelle tanto spesso da te scosse campane e i lavacri – io ben ricordo – compiuti secondo il rituale, per poi sola nel letto giacere in assoluta purezza? Ora, subito, o dea, soccorrimi; (mostrano i molti quadri votivi che tu puoi far guarire) e così fa’ che la cara mia Delia si sieda davanti alle sacre porte avvolta nel lino, ogni suo voto adempiuto e, due volte al giorno, disciolti i capelli, le lodi debba rendere a te, tra le fedeli spiccando. Io venerare i patri Penati possa ed in ogni mese l’ antico Lare abbia l’ incenso da me. … 40 Prop. I 17 Et merito, quoniam potui fugisse puellam, nunc ego desertas alloquor alcyonas. Nec mihi Cassiope solito visura carinam, omniaque ingrato litore vota cadunt. Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti aspice, quam saevas increpat aura minas. Nullane placatae veniet fortuna procellae? Haeccine parva meum funus harena teget? Tu tamen in melius saevas converte querelas: sat tibi sit poenae nox et iniqua vada. An poteris siccis mea fata reponere ocellis, ossaque nulla tuo nostra tenere sinu? A pereat, quicumque rates et vela paravit primus et invito gurgite fecit iter! Nonne fuit levius dominae pervincere mores (quamvis dura, tamen rara puella fuit), quam sic ignotis circumdata litora silvis cernere et optatos quaerere Tyndaridas? Illic si qua meum sepelissent fata dolorem, ultimus et posito staret amore lapis, illa meo caros donasset funere crines, molliter et tenera poneret ossa rosa: illa meum extremo clamasset pulvere nomen, ut mihi non ullo pondere terra foret. At vos, aequoreae formosa Doride natae, candida felici solvite vela choro: si quando vestras labens Amor attigit undas, mansuetis socio parcite litoribus. 5 10 15 20 25 41 Properzio I 17 L’ ho meritato: poiché lasciare potei la mia donna, sono ridotto a parlare, ora, ad alcioni sperdute. E mai più rivedrà Cassiope questa mia nave, mentre sul lido, ostile, ecco si spargono i voti. Anche lontana, Cinzia, con te si schierano i venti: guarda come si fa l’ aria pesante per me! Non concede il destino che questa tempesta si plachi? Delle mie spoglie sarà solo riparo la sabbia? A miglior conclusione rivolgi le dure proteste: pena bastante la notte entro le secche ti paia; o, con occhi asciutti, potresti lasciarmi al mio fato senza stringere al petto, ultimo addio, le mie ossa? Odio colui che approntò per primo le navi e le vele per praticare tra i gorghi inospitali una via. Ah, non sarebbe stato più facile, forse, piegare quella signora (che dura è ma preziosa fanciulla), anzi che scorgere lidi da selve ignote attorniati, dai Tindaridi spesso il salvataggio invocando? Oh, se avesse voluto il destino dolore ed amore con una pietra laggiù far ricoprire per sempre! Ella avrebbe i suoi cari capelli donati alle esequie, soffici rose spandendo ove posare le ossa; ella avrebbe invocato sull’ ultima cenere il nome mio con preghiera che me lieve coprisse la terra. O creature marine, di Doride bella voi figlie, tutte a schiera accorrete a liberare le vele e, se all’ onde vostre mai giunse Amore, schiudete facili approdi a chi, ora, esperienza ne fa. 42 Ov. Fasti II, 75 – 118 … Illa nocte aliquis, tollens ad sidera voltum, dicet: «Ubi est hodie quae Lyra fulsit heri?» Dumque Lyram quaeret, medii quoque terga Leonis in liquidas subito mersa notabit aquas. Quem modo caelatum stellis Delphina videbas, is fugiet visus nocte sequente tuos: seu fuit occultis felix in amoribus index, Lesbida cum domino seu tulit ille lyram. Quod mare non novit, quae nescit Ariona tellus? Carmine currentes ille tenebat aquas. Saepe sequens agnam lupus est a voce retentus, saepe avidum fugiens restitit agna lupum, saepe canes leporesque umbra iacuere sub una et stetit in saxo proxima cerva leae et sine lite loquax cum Palladis alite cornix sedit et accipitri iuncta columba fuit. Cynthia saepe tuis fertur, vocalis Arion, tamquam fraternis obstipuisse modis. Nomen Arionium Siculas impleverat undas Captaque erat lyricis Ausonis ora sonis. Inde domum repetens puppem conscendit Arion, atque ita quaesitas arte ferebat opes. Forsitan, infelix, ventos undasque timebas: At tibi nave tua tutius aequor erat. Namque gubernator destricto constitit ense ceteraque armata conscia turba manu. Quid tibi cum gladio? Dubiam rege, navita, puppem: non haec sunt digitis arma tenenda tuis. Ille, metu pavidus: «Mortem non deprecor» inquit «Sed liceat sumpta pauca referre lyra». Dant veniam ridentque moram; capit ille coronam quae possit crines, Phoebe, decere tuos. Induerat Tyrio bis tinctam murice pallam; reddidit icta suos pollice chorda sonos, flebilibus numeris veluti canentia dura traiectus penna tempora cantat olor. Protinus in medias ornatus desilit undas; 75 80 85 90 95 100 105 110 43 Ovidio Fasti II, 75 – 118 … Quella notte qualcuno, levando lo sguardo alle stelle, «Oggi la Lira dov’ è – ieri splendente? – » dirà. Mentre cerca la Lira, il Leone, ad un tratto, nell’ acque limpide immerso vedrà fino a metà del suo dorso. E, la notte seguente, il Delfino, prima di stelle fulgido, si celerà pure al tuo sguardo, non so se testimone felice d’ amori nascosti od accorso e della lira di Lesbo e del maestro in aiuto. È ben noto Arïone per tutti i mari e le terre: grazie al suo canto fermava anche le acque correnti e s’ arrestò, cacciando l’ agnella, il lupo e a sua volta spesso l’ agnella sostò, mentre dal lupo fuggiva. Era un’ ombra sola a proteggere i cani e le lepri; spesso la cerva ristette alla leonessa dappresso e cornacchia loquace e civetta di Pallade, in pace, furono assieme e sparviero alla colomba vicino. Anche Cinzia rimase sovente, Arïone, dal canto tuo stupefatta, così come da quello fraterno. Era portato il suo nome dall’ onde sicule e il suono della sua lira aveva le coste d’ Ausonia incantate. Indi Arïone, in patria tornando, salì sulla nave con le ricchezze che già l’ arte gli aveva fruttato. Onde e venti, infelice, temevi forse, ma il mare più sicuro per te della tua nave poi fu. Il timoniere infatti s’ alzò brandendo una spada: tutta la ciurma, concorde, era schierata con lui. Ah, ma che fai con la spada? Piuttosto la nave insicura guida: strumento adeguato essa di certo non è! Lui, dal timore pervaso: «Non chiedo evitare la morte» disse «Ma, breve, un canto, ultimo addio non negate». È concessa, ridendo, la tregua ed una corona, che degnamente tu, Febo, potresti portare, ed un mantello indossa, di porpora tiria due volte pregno: risuona la lira al magistrale suo tocco a somiglianza del canto che cigno, trafitto le tempie candide dallo strale, eleva flebile al cielo. All’ improvviso, così paludato, tra l’ onde si getta; 44 spargitur impulsa caerula puppis aqua. Inde – fide maius – tergo delphina recurvo se memorant oneri supposuisse novo. Ille sedens citharamque tenens pretiumque vehendi cantat et aequoreas carmine mulcet aquas. Di pia facta vident: astris delphina recepit Iuppiter et stellas iussit habere novem. … 115 45 l’ acqua che il tuffo spruzzò bagna la cerula poppa. Ecco un delfino però, si racconta, – incredibile! – il curvo dorso a quel carico strano offre per dargli sostegno. Egli, sedendo e suonando la lira qual prezzo del viaggio, canta e placa, col canto, anche le onde marine. Agli dei non sfuggì quel bel gesto: il delfino, da nove stelle ornato, lassù Giove tra gli astri chiamò. … SISTEMA ARCHILOCHEO QUARTO 48 Hor. Carm I 4 Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni trahuntque siccas machinae carinas, ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni nec prata canis albicant pruinis. Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna iunctaeque Nymphis Gratiae decentes alterno terram quatiunt pede dum gravis Cyclopum Volcanus ardens visit officinas. Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto aut flore, terrae quem ferunt solutae; nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis, seu poscat agna sive malit haedo. Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tavernas regumque turris. O beate Sesti, vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam. Iam te premet nox fabulaeque Manes et domus exilis Plutonia: quo simul mearis, nec regna vini sortiere talis, nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus nunc omnis et mox virgines tepebunt. 5 10 15 20 49 Orazio Odi I 4 Sciolgono il duro inverno Favonio e la nuova primavera: si varano con gli argani le navi, scorda l’ ovile il gregge e il fuoco di casa il contadino, scompaiono le brine biancheggianti. Venere già conduce le danze al chiaro della luna: mirabili le Grazie con le Ninfe battono il tempo col piede; Vulcano, nel mentre, dei Ciclopi s’ aggira per le torride fucine. Ora di mirto o di fiore sbocciato tra zolle dissodate conviene che si cingano le tempie; ora conviene immolare un’ agnella nel folto delle selve a Fauno o – se lui vuole – un bel capretto. Batte di pari passo la pallida Morte alle capanne dei poveri e alle torri dei potenti. Sestio beato, la vita – breve – ci vieta una speranza durevole: la notte e i favolosi Mani t’ incalzano ormai e la squallida casa di Plutone laddove tu mai più contemplerai, re del convito, il tenero Licida, fiamma dei ragazzi, e presto, per le giovani, sospiro. SISTEMA ALCMANIO 52 Hor. Carm. I 7 Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen aut Epheson bimarisve Corinthi moenia vel Baccho Thebas vel Apolline Delphos insignis aut Thessala Tempe; sunt quibus unum opus est intactae Palladis urbem carmine perpetuo celebrare et undique decerptam fronti praeponere olivam; plurimus in Iunonis honorem aptum dicet equis Argos ditesque Mycenas: me nec tam patiens Lacedaemon nec tam Larisae percussit campus opimae, quam domus Albuneae resonantis et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda mobilibus pomaria rivis. Albus ut obscuro deterget nubila caelo saepe Notus neque parturit imbris perpetuo, sic tu sapiens finire memento tristitiam vitaeque labores molli, Plance, mero, seu te fulgentia signis castra tenent seu densa tenebit Tiburis umbra tui. Teucer Salamina patremque cum fugeret, tamen uda Lyaeo tempora populea fertur vinxisse corona, sic tristis affatus amicos: «Quo nos cumque feret melior fortuna parente, ibimus, o socii comitesque. Nil desperandum Teucro duce et auspice, Teucro certus enim promisit Apollo ambiguam tellure nova Salamina futuram. O fortes peioraque passi mecum saepe viri, nunc vino pellite curas; cras ingens iterabimus aequor». 5 10 15 20 25 30 53 Orazio Odi I 7 C’ è chi Rodi splendente, chi loderà Mitilene, Efeso o di Corinto, da due mari lambite, le mura o, famose per Dioniso e Apollo, Tebe e Delfi e la tessala Tempe; Altro non fanno, alcuni, che carmi infiniti innalzare alla città di Pallade intatta, fronde d’ ulivo ovunque strappate ponendosi in capo; molti, degno omaggio a Giunone, d’ Argo i cavalli poi canteranno e la ricca Micene: me non tanto commosse la dura Sparta né di Larissa la lussureggiante campagna quanto d’ Albunea la grotta sonante, l’ alta cascata d’ Aniene e di Tivoli il bosco e i frutteti, bene irrorati da fiumi vivaci. Spesso Noto deterge le nubi del cielo oscurato e non sempre cagiona le piogge; tu, saggiamente, così ricordati, Planco, di porre fine a tristezze e fatiche col dolce vino, sia che al campo ti trovi tra fulgide insegne, sia che t’ accolga, tra l’ ombre sue fitte, Tivoli tua. Si dice che Teucro, benché fuggitivo da Salamina e dal padre, stringesse foglie di pioppo bagnate di vino attorno alle tempie quale corona e dicesse agli amici tristi: «Andremo, soci e compagni, dovunque la sorte – del genitore migliore – ci guidi. Non disperate: a Teucro, la guida e l’auspice vostro, fece promessa Apollo che in altra terra una nuova, eguale verrà Salamina fondata. Uomini forti, affrontaste peggiori prove con me; scacciate col vino gli affanni: all’ immenso mare faremo domani ritorno». SISTEMA ALCAICO 56 Hor. Carm. I 9 Vides ut alta stet nive candidum Soracte, nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Dissolve frigus ligna super foco large reponens atque benignius deprome quadrimum Sabina, o Thaliarche, merum diota. Permitte divis cetera, qui simul stravere ventos aequore fervido deproeliantis, nec cupressi nec veteres agitantur orni. Quid sit futurum cras fuge quaerere et quem fors dierum cumque dabit lucro adpone, nec dulcis amores sperne, puer, neque tu choreas, donec virenti canities abest morosa. Nunc et Campus et areae lenesque sub noctem sussurri composita repetantur hora, nunc et latentis proditor intumo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci. 5 10 15 20 57 Orazio Odi I 9 Tu vedi come candido s’elevi lassù il Soratte e più non sostengano le selve d’ alta neve il peso, mentre di ghiaccio si fanno i fiumi. Dissolvi il freddo, legna – sollecito – mettendo al fuoco e – prodigo – d’ anfora sabina puro vino versa che da quattr’ anni, o Taliarco, invecchia. Gli dei, al resto, lascia che pensino: sul mare irato appena trattengono i venti in lotta e già cipresso più non stormisce od antico orno. Qual sia il domani smetti di chiederti ed ogni giorno un dono considera del fato; dolci amori dunque non disdegnare, ragazzo, e danze finché lontana t’ è la sgradevole canizie. Adesso i giochi ti chiamino del Campo e piazze e, al far di notte, lievi sussurri al convegno; adesso le risa, che la giovane svelano laggiù, nascosta dietro ad un angolo, il pegno al braccio suo strappato o dal cedevole dito tolto. 58 Hor. Carm. II 20 Non usitata nec tenui ferar penna biformis per liquidum aethera vates neque in terris morabor longius invidiaque maior urbis relinquam. Non ego pauperum sanguis parentum, non ego quem vocas, dilecte Maecenas, obibo nec Stygia cohibebor unda. Iam iam residunt cruribus asperae pelles et album mutor in alitem superne nascunturque leves per digitos umerosque plumae. Iam Daedaleo tutior Icaro visam gementis litora Bosphori Syrtisque Gaetulas canorus ales Hyperboreosque campos. Me Colchus et qui dissimulat metum Marsae cohortis Dacus et ultimi noscent Geloni, me peritus discet Hiber Rhodanique potor. Absint inani funere neniae luctusque turpes et quaerimoniae; conpesce clamorem ac sepulcri mitte supervacuos honores. 5 10 15 20 59 Orazio Odi II 20 Da non consuete penne e non fragili librato su nell’ etere limpido, poeta dai due volti, in terra non rimarrò, le città lasciando da invidie intatto. Ed io, di non fulgidi natali, ed io che tu, dilettissimo, invochi, non morrò; lo Stige non mi terrà, Mecenate, avvinto. E già le gambe mie si ricoprono di pelle scabra e bianco volatile divengo: sulle dita lievi piume mi crescono e sulle spalle. Vedrò, sicuro in volo più d’ Icaro, canoro uccello, sotto, del Bosforo mugghiante i lidi e poi le Sirti Getule e poi l’ iperboree steppe. Ai Colchi e ai Daci, i quali non mostrano timore in faccia ai Marsi, ed agli ultimi Geloni noto, nella colta Spagna verrò, come in Gallia, letto. Perciò non voglio nenie all’ inutile funzione, lutti e pianti che umiliano! Il chiasso placa e fai che fine abbiano onori di tomba vani. SISTEMA ASCLEPIADEO QUINTO 62 Hor. Car m. I 11 Tu ne qaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius quidquid erit pati, seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrenum: sapias, vina liques et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero. 5 63 Orazio Odi I 11 Non cercar di sapere – è a noi vietato – in che momento fine, o Leuconoe, avranno e la mia stessa e la tua vita; gli astri altro non sveleranno ed accettare è per noi meglio ciò che da Giove verrà: molte stagioni o solamente questo aspro inverno che spossa onde tirrene oltre le dighe. Saggia, ora il vino tu filtra ed abbandona ogni speranza lunga. Anche mentre parliamo, invido, il tempo è via fuggito già: cogli l’ attimo adesso e non guardare al tuo futuro più. SISTEMA ASCLEPIADEO PRIMO 67 Hor. Carm. III 30 Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo inpotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum. Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam; usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex. Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium regnavit populorum, ex humili potens princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam. 5 10 15 67 Orazio Odi III 30 Più perenne del bronzo un monumento ho eretto: a piramidi regie è superiore, né pioggia lo roderà, né d’ Aquilone furia ed invano, con serie interminata d’ anni, il fuggire del tempo a devastarlo andrà. Non del tutto morrò: molto di me sottrarre alle esequie potrà postuma lode, sempre alta e viva finché, vergine muta al fianco, un pontefice salga al Campidoglio in vetta. Ove l’ Ofanto scroscia e di coloni fu – d’ acqua povero – re Dauno, diranno come io signore divenni, umile nato, e che primo seppi adattare anche d’ Eolia i carmi agli italici modi; un meritato vanto, o Melpomene, fanne e, volentieri, da’ dell’ alloro di Delfo una corona a me. SISTEMA ASCLEPIADEO QUARTO 70 Hor. Carm. IV 1 Intermissa, Venus, diu rursus bella moves? Parce precor, precor. Non sum qualis eram bonae sub regno Cinarae. Desine, dulcium mater saeva Cupidinum, circa lustra decem flectere mollibus iam durum imperiis: abi, quo blandae iuvenum te revocant preces. Tempestivius in domum Pauli purpureis ales oloribus comissabere Maximi, si torrere iecur quaeris idoneum; namque et nobilis et decens et pro sollicitis non tacitus reis et centum puer artium late signa feret militiae tuae, et, quandoque potentior largi muneribus riserit aemuli, Albanos prope te lacus ponet marmoream sub trabe citrea. Illic plurima naribus duces tura, lyraque et Berecyntia delectabere tibia mixtis carminibus non sine fistula; illic bis pueri die numen cum teneris virginibus tuum laudantes pede candido in morem Salium ter quatient humum. Me nec femina nec puer iam nec spes animi credula mutui nec certare iuvat mero nec vincire novis tempora floribus. Sed cur heu, Ligurine, cur manat rara meas lacrima per genas? Cur facunda parum decoro inter verba cadit lingua silentio? Nocturnis ego somniis iam captum teneo, iam volucrem sequor 5 10 15 20 25 30 35 71 Orazio Odi IV 1 Dopo tanto, di nuovo mi muovi guerra così, Venere? Pace, pace! Io non sono lo stesso che un tempo Cinara amò; smetti, crudele tu, madre d’ ogni passione, di farmi cedere ai tuoi dolci dettami: già dieci lustri mi pesano; dove i giovani te chiamano, invece, va’! Meglio se, su purpurei cigni, tu volerai a banchettare ov’ è Paolo Massimo l’ ospite, cuore degno, lui sì, se tu bruciarlo vuoi; egli, nobile, bello e che a quanti temono accuse abile aiuto dà, mille doti possiede ed in ogni luogo farà delle tue insegne mostra. I regali irridendo del suo rivale, che fu prodigo assai, vincente, in un tempio di cedro una statua ti donerà, prossima ai laghi albani, ove sarai circondata da molti incensi; la lira, il berecinzio flauto e, non senza zampogna, di vari canti un concerto allieteranno te. Lì, con tenere vergini, ogni giorno due volte i giovinetti lodi al tuo nume alzeranno, col nudo piede battendo, a mo’ dei Salii, il suolo. Ora donna o fanciullo non ho; reciproco amore io non m’ aspetto, né bere a gara mi piace e di fiori cingere il capo a primavera più. Ma perché, Ligurino, una rara lacrima a me scorre sul viso, allora? E la lingua, di solito sciolta, cede e si fa, con imbarazzo, muta? Io nei sogni notturni ti stringo, oppure tra l’ erbe, ecco, t’ inseguo là, 72 Te per gramina Martii Campi, te per aquas, dure, volubilis. 40 73 dentro al Campo di Marte, o tra l’ acque e i vortici in cui fuggi, ignorando me. SISTEMA ARCHILOCHEO PRIMO 76 Hor. Carm. IV 7 Diffugere nives, redeunt iam gramina campis arboribusque comae; mutat terra vices et decrescentia ripas flumina praetereunt; Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet ducere nuda choros. Immortalia ne speres, monet annus et almum quae rapit hora diem. Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas, Interitura simul pomifer autumnus fruges effuderit, et mox bruma recurrit iners. Damna tamen celeres reparant caelestia lunae: nos ubi decidimus quo pater Aeneas, quo dives Tullus et Ancus, pulvis et umbra sumus. Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae tempora di superi? Cuncta manus avidas fugient heredis, amico quae dederis animo. Cum semel occideris et de te splendida Minos fecerit arbitria, non, Torquate, genus, non te facundia, non te restituet pietas: infernis neque enim tenebris Diana pudicum liberat Hippolytum, nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro vincula Pirithoo. 5 10 15 20 25 77 Orazio Odi IV 7 Sciolte le nevi, nei campi ritornano l’ erbe e di chiome s’ ornano gli alberi già; muta aspetto la terra e di nuovo i fiumi, calando, scorrono dentro le sponde; osa, con le sorelle gemelle e le ninfe, la Grazia nuda guidare la danza. A non sperarti immortale ammoniscono l’ anno e le ore, ladre del giorno vitale. Ecco: la primavera, ammansito il gelo, scompare; fugge a sua volta l’ estate; alle messi ed ai frutti d’ autunno, priva di vita, tosto la bruma succede; Il susseguirsi perenne di celeri lune i celesti danni ripara ma noi, alla dimora d’ Enea, di Tullo e d’ Anco discesi, polvere ed ombra saremo. E chi sa se, in aggiunta ai trascorsi, giorni futuri ci serberanno gli dei? Ogni cosa donata col cuore all’ avide mani si sottrarrà dell’ erede. Al tuo tramonto, dopo che avrà Minosse un giudizio splendido espresso di te, non ti potrà, Torquato, la stirpe, né la facondia, né la virtù restituire alla vita, se Diana l’ onesto Ippolito lascia dentro alle tenebre inferne e se Teseo le catene del Lete a Piritoo, l’ amico caro, spezzare non può. SISTEMA SAFFICO MINORE 80 Hor. Carmen saeculare Phoebe silvarumque potens Diana, lucidum caeli decus, o colendi semper et culti, date quae precamur tempore sacro, quo Sibyllini monuere versus virgines lectas puerosque castos dis, quibus septem placuere colles, dicere carmen. Alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius. Rite maturos aperire partus lenis, Ilithya, tuere matres, sive tu Lucina probas vocari seu Genitalis: diva, producas subolem patrumque prosperes decreta super iugandis feminis prolisque novae feraci lege marita, 5 10 15 20 certus undenos deciens per annos orbis ut cantus referatque ludos ter die claro totiensque grata nocte frequentis. Vosque veraces cecinisse, Parcae, quod semel dictum est stabilisque rerum terminus servet, bona iam peractis iungite fata. Fertilis frugum pecorisque Tellus spicea donet Cererem corona; nutriant fetus et aquae salubres 25 30 81 Orazio Carmen saeculare Febo e, delle selve signora, Diana, su nel cielo glorie splendenti e cura nostra, date ciò che chiediamo in questo giorno sacrato che, seguendo della Sibilla i versi, casti bimbi vede ed elette vergini agli dei cui piacquero i sette colli porgere un carme. Almo Sole, che col lucente carro porti e celi il giorno ed uguale e nuovo nasci, nulla possa vedere tu di Roma maggiore. Come vuole il rito, a suo tempo i parti lieve schiudi, Ilitia e le madri assisti, o che tu Lucina chiamata sia, o Genitale: diva, accresci tu la progenie, forza alle nuove norme concedi e a queste leggi che le nostre famiglie fanno ricche di prole; porti allora un arco di cento e dieci anni canti e feste con molta folla, tre giornate chiare con tre gradite notti serene. Parche, che veraci predite quanto, detto, poi rimane per sempre punto fermo, ai già compiuti, destini lieti fate seguire. Dia la terra, ricca di greggi e biade, gran corona, tutta di spighe, a Cerere; acque pure e brezze di Giove, lievi, 82 et Iovis aurae. Condito mitis placidusque telo supplices audi pueros Apollo siderum regina bicornis, audi Luna, puellas. Roma si vestrum est opus Iliaeque litus Etruscum tenuere turmae, iussa pars mutare Lares et urbem sospite cursu, 35 40 cui per ardentem sine fraude Troiam castus Aeneas patriae superstes liberum munivit iter, daturus plura relictis: di, probos mores docili iuventae, di, senectuti placidae quietem, Romulae genti date remque prolemque et decus omne Quaeque vos bobus veneratur albis clarus Anchisae Venerisque sanguis, impetret, bellante prior, iacentem lenis in hostem. Iam mari terraque manus potentis Medus Albanasque timet securis; iam Scythae responsa petunt, superbi nuper et Indi. Iam Fides et Pax et Honor Pudorque priscus et negletta redire Virtus audet apparetque beata pleno Copia cornu. Augur et fulgente decorus arcu Phoebus acceptusque novem Camenis, qui salutari levat arte fessos 45 50 55 60 83 nutrano i frutti. L’ armi, in pace e mite, riposte via, dai ascolto a questi fanciulli, Apollo; Luna, tu regina bicorne, ascolta queste fanciulle. Roma voi voleste: che gente d’ Ilio, casa e patria addietro lasciasse in fuga, poi sul lido etrusco sbarcasse infine salva dal mare; seppe il casto Enea tra le fiamme d’ Ilio far passare indenni i compagni e fece loro, più di quelli perduti, nuovi beni ottenere. Sani apprenda la gioventù costumi; quiete date ai vecchi sereni, o dei, date forza, prole ed onore a chi da Romolo nacque: Ciò di cui vi prega con bianchi buoi possa lui, progenie di Anchise e Venere, aspro in guerra ma, con il vinto, mite, tutto ottenere. Sulla terra e in mare le forze armate già la Media teme e le scuri albane; fieri Sciti e Indiani in attesa sono della sentenza. Fede, Pace, Onore e Pudore antico fanno, con smarrite virtù, ritorno mentre lieta mostra Abbondanza il suo corno ricolmo. Febo, il divo vate cui l’ arco splende ed assieme a nove Camene siede, lui che membra inferme con l’ arte sua 84 corporis artus, si Palatinas videt aequus aras, remque Romanam Latiumque felix alterum in lustrum meliusque semper prorogat aevum. Quaeque Aventinum tenet Algidumque, quindecim Diana preces virorum curat et votis puerorum amicas applicat auris. Haec Iovem sentire deosque cunctos spem bonam certamque domum reporto, doctus et Phoebi chorus et Dianae dicere laudes. 65 70 75 85 sa risanare, calmo guarda del Palatino l’ are: ecco che il destino di Roma, quando volge il tempo dato, rinasce a vita nuova e migliore. Lei che regna sull’ Aventino, Diana, e sull’ Algido, ai sacerdoti attenta, ora ai bimbi, voti porgenti, amiche presta le orecchie. Questo coro, edotto a cantare a Febo lodi e a Diana, sente per certo come Giove, assieme a tutti gli dei celesti, sia consenziente. 86 Cat. Carm. LI Ille mi par esse deo videtur, ille, si fas est, superare divos qui sedens adversus identidem te spectat et audit dulce ridentem, misero quod omnis eripit sensus mihi: nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est super mi … lingua sed torpet, tenuis sub artus flamma demanat, sonitu suopte tintinant aures, gemina tegentur lumina nocte. … 5 10 87 Catullo Carmi 51 Pari a un dio mi sembra e, per quanto possa, agli stessi dei superiore, lui che siede a te dinnanzi ed a più riprese guarda ed ascolta te che, dolce, ridi. Svenire allora io mi sento – me sfortunato – infatti, non appena, Lesbia, ti vedo, resto [privo di voce,] ché la lingua più non risponde; un fuoco scorre per le membra, sottile; nasce nelle orecchie stesse un ronzio e vela gli occhi la notte. … 88 Hor. Carm. I 20 Vile potabis modicis Sabinum Cantharis, Graeca quod ego ipse testa conditum levi, datus in theatro cum tibi plausus, care Maecenas eques, ut paterni fluminis ripae simul et iocosa redderet laudes tibi Vaticani montis imago. Caecubum et prelo domitam Caleno tu bibes uvam; mea nec Falernae temperant vites neque Formiani pocula colles. 5 10 89 Orazio Odi I 20 In modeste coppe un Sabino andante tu berrai che in anfora greca io stesso chiusi quando fu nel teatro un tale plauso elevato in tua lode che, Mecenate caro, dalla riva giunse del patrio fiume ed, assieme, dal Vaticano colle l’ eco giocosa. Tu degusti Cecubo ed uve presse da caleni torchi; ma i miei boccali viti di Falerno o di Formia i colli non colmeranno. SISTEMA ARCHILOCHEO SECONDO 92 Hor. Epod. 13 Horrida tempestas caelum contraxit et imbres nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc silvae Threicio Aquilone sonant; rapiamus, amici, occasionem de die, dumque virent genua et decet, obducta solvatur fronte senectus. Tu vina Torquato move consule pressa meo; cetera mitte loqui: deus haec fortasse benigna reducet in sedem vice. Nunc et Achaemenio perfundi nardo iuvat et fide Cyllenea levare diris pectora sollecitudinibus, nobilis ut grandi cecinit Centaurus alumno: «Invicte mortalis dea nate puer Thetide, te manet Assarci tellus quam frigida parvi findunt Scamandri flumina, lubricus et Simois; unde tibi reditum certo subtemine Parcae rupere nec mater domum caerula te revehet. Illic omne malum vino cantuque levato, deformis aegrimoniae dulcibus alloquiis». 5 10 15 93 Orazio Epodi 13 Una tempesta orrenda ricopre il cielo e le piogge con neve si frammischiano; fa l’ Aquilone di Tracia ora il mare e le selve mugghiare. Amici, dal giorno cogliamo l’ occasione e, se salde ginocchia ed età non ci dissuadono, lasci Vecchiezza la fronte aggrottata. Quel vino che pigiarono quando io nacqui e Torquato era console mesci: non dire altro, che forse le cose si potranno poi, grazie ad un dio, sistemare. Ora, cosparsi di nardo persiano, la lira cillenia conviene che ci sciolga da cure affannose; così come al suo grande alunno l’ illustre Centauro cantava: «O invitto, che mortale da Teti divina sei nato, ora d’ Assarco la terra t’ attende, il freddo torrente Scamandro e il Simoenta, che scorre con rapido flusso. Ha del ritorno la Parca troncato il filo e neppure la madre tua cerulea la patria ridarti potrà. D’ ogni affanno laggiù ti sollevino il vino ed il canto, conforti alla tristezza che squallido il vivere fa». SISTEMA SENARIO GIAMBICO 96 Phaedr. Fabulae I Prologus Aesopus auctor quam materiam repperit, hanc ego polivi versibus senariis. Duplex libelli dos est: quod risum movet et quod prudentis vitam consilio monet. Calumniari si quis autem voluerit, quod arbores loquantur, non tantum ferae, fictis iocari nos meminerit fabulis. 5 97 Fedro Favole I Prologo Esopo fu l’ autore dei racconti che, limati qui in senari, vi propongo adesso. Il pregio del libretto è duplice: al sorriso induce e dà consigli di prudente vita. E chi la voce data agli alberi – in aggiunta a quella delle bestie – contestasse, beh: ricordi che son fiabe quelle che v’ offro qui! 98 Phaedr. Fabulae I Lupus et Agnus Ad rivum eundem Lupus et Agnus venerant siti compulsi; superior stabat Lupus longeque inferior Agnus. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit. «Cur» inquit «Turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?». Laniger contra timens: «Qui possum, quaeso, facere, quod quereris, Lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor». Repulsus ille veritatis viribus: «Ante hos sex menses male» ait «dixisti mihi». Respondit Agnus: «Equidem natus non eram». «Pater Hercle tuus» ille inquit «male dixit mihi», atque ita correptum lacerat iniusta nece. Haec propter illos scripta est homines fabula, qui fictis causis innocentes opprimunt. 5 10 15 99 Fedro Favole I Il lupo e l’ agnello La sete ad uno stesso fiume Lupo e Agnello aveva spinti; il lupo stava a monte; ben più giù l’ agnello ma, da smodata fame mosso, ad ogni costo lite il gran bandito va cercando: « L’ acqua hai tutta intorbidata a me che bevo!»; ed il lanuto gli risponde: «Ma non posso proprio, Lupo, farti questo, se per primo bevi l’ acqua che poi giunge a me». Respinto dalla forza delle cose: «Tu sei mesi fa parlasti male assai di me». «Ma se» l’agnello obbietta «Non ero ancora nato!». «Allora fu tuo padre che sparlò di me»; lo prese e con ingiusta morte lo sbranò. Chiunque, con pretesti falsi, gli innocenti opprima, questa fiaba intenda adatta a sé. 100 Cat. Carm. 4 Phaselus ille, quem videtis hospites, ait fuisse navium celerrimus, neque ullius natantis impetum trabis nequisse praeterire, sive palmulis opus foret volare sive linteo. Et hoc negat minacis Adriatici Negare litus insulasve Cycladas Rhodumque nobilem horridamque Thraciam Propontida trucemve Ponticum sinum ubi iste post phaselus antea fuit comata silva: nam Cytorio in iugo loquente saepe sibilum edidit coma. Amastri Pontica et Cytore buxifer, tibi haec fuisse et esse cognitissima ait phaselus: ultima ex origine tuo stetisse dicit in cacumine, tuo imbuisse palmulas in aequore, et inde tot per inpotentia freta erum tulisse, laeva sive dextera vocaret aura, sive utrumque Iuppiter simul secundus incidisset in pedem; neque ulla vota litoralibus deis sibi esse facta, cum veniret a mari novissimo hunc ad usque limpidum lacum. Sed haec prius fuere: nunc recondita senet quiete seque dedicat tibi, gemelle Castor et gemelle Castoris. 5 10 15 20 25 101 Catullo Carmi 4 Amici, quel “fagiolo” che vedete là d’ ogn’ altra nave dice d’ esser più veloce e di poter produrre un tale spunto, a remi oppure, quando occorre, con la vela, che nessun natante, in questo, possa stargli al pari. E afferma che non può negarlo il lido d’ Adria ostile né le Cicladi o la chiara Rodi o, fiera, la Propontide o, tremendo, il Ponto Eusino, ov’ esso prima che battello fu chiomata selva. Infatti, del Citorio in vetta, emise spesso un gran stormir di fronde. Amastri in Ponto e tu, Citorio, ricco assai di bossi, a te ben note queste cose sono state e son tuttora – dice quel “fagiolo” – e tu lo sai che dalla prima origine esso ritto in cima crebbe di tua vetta; i remi prima immerse in acqua a te dinnanzi e quindi trasse il suo padrone per diversi mari e fra tempeste varie, sia che da babordo il vento o da tribordo gli soffiasse, sia da poppa; ed agli dei che verso i lidi danno scorta a chi il naufragio teme mai soccorso chiese. Eppur partì da un mare assai remoto e solo in fine a questo chiaro lago giunse qui. Ma queste son passate cose; adesso, schivo, invecchia in pace e tutto si consacra a voi: al tuo gemello Castore e, Polluce, a te. INDICE Pagina Introduzione Virgilio Eneide Georgiche 3 I I II II VI VI II IV Lucrezio De rerum natura I Catullo Carmi Tibullo Elegie I 3 Properzio Elegie I 17 Ovidio I Fasti II Orazio Odi I I I II I III IV IV 1 – 22 740 – 756 1 – 56 768 – 804 426 – 476 679 – 702 458 – 494 453 – 503 9 11 11 15 17 21 23 25 1 – 43 29 72 101 35 37 1 – 34 39 41 75 – 118 43 4 7 9 20 11 30 1 7 49 53 57 59 63 67 71 77 81 51 87 Car. saeculare Catullo Carmi Orazio Odi Epodi I 20 13 89 93 Fedro Favole I I Prologo 1 Il lupo e l’agnello 97 99 Catullo Carmi 4 101