ritmi perduti nel tempo

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ritmi perduti nel tempo
AUTORI VARI
RITMI PERDUTI NEL TEMPO
TRADUZIONI DI POESIA LATINA
BASATE SUI
RITMI DEI VERSI ORIGINALI A FRONTE
A CURA DI
MARIO MALFETTANI
INTRODUZIONE
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Il sogno – o l’ illusione, secondo molti – di riprodurre in
italiano il ritmo dei versi classici latini e greci perdura nella
storia della nostra letteratura, riaffiorando periodicamente.
L’ impostazione degli umanisti del Quattrocento che
cercavano di definire anche nel volgare una prosodia con sillabe
lunghe e brevi per applicare poi ad esse la metrica latina si è
rivelata nel tempo artificiosa e sterile: quandanche ciò si
potesse realizzare, come leggeremmo un testo simile, visto che
non siamo in grado di leggere, nella maniera in cui lo avrebbero
fatto i latini, gli stessi versi di Orazio? La posizione più negativa
– ma anche fin troppo facile – è quella di escludere ogni
possibilità di recupero del ritmo della poesia classica, data la
radicale differenza tra l’ accentuazione tonale della lingua latina
e quella intensiva dell’ italiano.
In realtà, tuttavia, soprattutto in ambito scolastico,
continuiamo ad avvalerci di quell’ artificio che comunemente
definiamo “lettura metrica”, importato dalla Germania,
sicuramente utile a fini didattici ma anche in grado di fornirci
una base ritmica capace di sollevarci da una sia pur nobile
prosa a qualcosa che è certamente più vicina all’ originale
poesia. La trasposizione a livello intensivo (forte – piano) di un
ritmo che ai tempi della latinità classica era invece ottenuto a
livello tonale (alto – basso) – di questo si tratta – è infatti una
soluzione che molti grandi poeti tedeschi, ma anche alcuni di
lingua inglese adottarono non solo per traduzioni di testi
classici ma anche per autonome opere poetiche in lingua
moderna.
Ciò non è avvenuto, in Italia, se non negli importanti
esperimenti di traduzione di Pascoli e nell’ elegia Nevicata di
Carducci (unico caso nella sua produzione). Il filone dominante,
relativamente al recupero della metrica classica, è invece da noi
rappresentato da Carducci stesso che preferì, a parte la citata
eccezione, riecheggiare i metri latini, in lunghezza e pause,
affidandosi alla combinazione di vari collaudati versi della
tradizione italiana e rinunciando ad un rigido legame con il
ritmo delle arsi e tesi originarie. In questa direzione, prima di
lui, in vario modo: Chiabrera, Fantoni, Rolli ed altri; sulla sua
scia: Ettore Romagnoli, Ferruccio Bernini ed altri.
E’ mio personale convincimento che alla base di queste
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scelte vi sia anche la notevole difficoltà pratica insita nel fatto
che l’ italiano, a differenza del tedesco e dell’ inglese, è lingua
prevalentemente parossitona, per cui risulta difficile realizzare
arsi intensive nel corpo del verso, prima delle cesure, o a fine
verso (come nel caso del pentametro) disponendo di un numero
limitato di parole ossitone.
Cercando di superare tale ostacolo con l’ impiego degli
accorgimenti utilizzati da Pascoli (ad esempio parole piane con
sillaba finale in elisione o sinalefe - anche in sinafia con il verso
successivo - al posto di quelle tronche), qui si è invece seguito il
criterio “alla tedesca”, più strettamente rispettoso del ritmo
latino, cesure comprese; si è inoltre rinunciato alla sistematica
utilizzazione di versi italiani tradizionali e all’ isosillabismo
laddove, come nell’ esametro, esso non fosse previsto dalla
metrica latina. Questo per non rinunciare al recupero, seppure
parziale, del ritmo dei vari metri latini classici, nella
convinzione che la melodia della sequenza dei suoni ed il ritmo
che la scandisce siano elementi essenziali di ogni poesia, non
meno dei concetti, delle immagini e dei sentimenti che le danno
anima.
Per far cogliere più facilmente al lettore non esperto del
latino e della sua metrica i vari ritmi, ho evidenziato, nella
traduzione italiana, le sillabe su cui cade l’ accento ritmico con
il carattere corsivo, anche se ciò potrà risultare spesso
superfluo, dato che in quasi tutte le parole polisillabe accento
ritmico e grammaticale coincidono.
mm.
ESAMETRI
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Verg. Aen. I, 1 – 22
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus Lavinaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram,
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem
inferretque deos Latio, genus unde Latinum
Albanique patres atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso
quidve dolens regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?
Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni)
Kartago, Italiam contra Tiberinaque longe
ostia, dives opum studiisque asperrima belli;
quam Iuno fertur terris magis omnibus unam
posthabita coluisse Samo: hic illius arma,
hic currus fuit; hoc regnum dea gentibus esse,
si qua fata sinant, iam tum tenditque fovetque.
Progeniem sed enim Troiano a sanguine duci
audierat, Tyrias olim quae verteret arces;
hinc populum late regem belloque superbum
venturum excidio Libyae: sic volvere Parcas.
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Virgilio Eneide I, 1 – 22
Canto le imprese dell’ uomo che, primo, dai lidi di Troia,
profugo, il fato alle coste lavinie d’ Italia sospinse;
molto per mare e per terra gli dei l’ incalzarono: ancora
della spietata Giunone durava, memore, l’ ira.
Molto in guerra soffrì perché la città si fondasse
ove insediare i Penati nel Lazio; da qui la latina
stirpe, i padri albani e dell’ alta Roma le mura.
Musa, dimmi per quali ragioni, offesa al suo nume
o differente lagnanza, di tutti gli dei la regina
volle quell’ uomo di insigne virtù così travagliare.
Grandi a tal punto nei cuori celesti dunque son l’ ire?
Era Cartagine antica città, fondata dai Tiri,
che, da lontano, guardava l’ Italia e le foci del fiume
Tevere, ricca di mezzi e di grande forza guerriera;
più d’ ogn’ altra terra l’ amava Giunone e di Samo
stessa; il suo carro lì teneva e le armi e, se il fato
mai l’ avesse permesso, tramava ed agiva in maniera
che la città dominare le genti tutte potesse.
Pure aveva udito che un giorno una stirpe di teucro
sangue avrebbe le rocche dei Tiri abbattute: sarebbe,
fiero e sovrano, di qui venuto un popolo a porre
fine al regno di Libia. Filarono questo le Parche.
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Verg. Aen. I, 740 – II, 56
… Cithara crinitus Iopas
personat aurata, docuit quem maximus Atlas.
Hic canit errantem lunam solisque labores,
unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes,
Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones,
quid tantum Oceano properent se tinguere soles
hiberni vel quae tardis mora noctibus obstet.
Ingeminant plausu Tyrii Troesque secuntur.
Nec non et vario noctem sermone trahebat
Infelix Dido longumque bibebat amorem,
multa super Priamo rogitans, super Hectore multa;
nunc quibus Aurorae venisset filius armis,
nunc quales Diomedis equi, nunc quantus Achilles.
«Immo age, et a prima dic hospes origine nobis
insidias» inquit «Danaum casusque tuorum
erroresque tuos; nam te iam septima portat
omnibus errantem terris et fluctibus aestas».
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II
Conticuere omnes intentique ora tenebant.
Inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto:
«Infandum, regina, iubes renovare dolorem,
Troianas ut opes et lamentabile regnum
eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi
et quorum pars magna fui. Quis talia fando
Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi
temperet a lacrimis? Et iam nox umida caelo
praecipitat suadentque cadentia sidera somnos.
Sed si tantus amor casus cognoscere nostros
et breviter Troiae supremum audire laborem,
quamquam animus meminisse horret luctuque refugit,
incipiam. Fracti bello fatisque repulsi
ductores Danaum, tot iam labentibus annis,
instar montis equom divina Palladis arte
aedificant sectaque intexunt abiete costas;
votum pro reditu simulant, ea fama vagatur.
Huc delecta virum sortiti corpora furtim
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Virgilio Eneide I, 740 – II, 34
… Iopa dai lunghi capelli, che alunno
fu del grandissimo Atlante, la cetra d’ oro intonando,
canta l’ errante luna e le eterne fatiche del sole;
quindi degli animali e dell’ uomo, di fulmini e piogge,
canta l’ origine e Arturo, le Iadi sempre piovose,
l’ Orse gemelle; perché d’ inverno s’ affrettino i soli
verso l’ oceano mentre le notti indugiano, tarde.
Scroscia frequente l’ applauso dei Tiri e quello dei Teucri.
Mentre la notte così l’ infelice Didone passava,
presa da vari discorsi, beveva a lungo l’ amore;
molto andava chiedendo di Priamo e d’ Ettore e come
l’armi del figlio d’ Aurora splendessero; poi di Diomede
quali i cavalli apparissero e poi la prestanza di Achille.
«Ospite, su, dall’ inizio racconta le insidie dei Danai»
disse «Dei tuoi le sventure ed il tuo continuo vagare;
è la settima estate, difatti, questa che errante
te per tutte quante le terre ed i mari sospinge».
II
Fece silenzio ognuno, tenendo fisso lo sguardo.
Poi Enea così cominciò dall’ alto giaciglio:
«Un dolore indicibile vuoi ch’ io rinnovi, o regina:
come i Danai la forza di Troia ed il suo sventurato
regno distrussero, eventi tremendi di cui testimone
fui ed attore importante. Ma chi parlarne potrebbe
senza pianto, quandanche mirmidone oppure soldato
fosse del duro Ulisse? E già dal cielo discende
l’ umida notte e le stelle calanti conciliano il sonno.
Ma se tanto ti preme conoscere i nostri travagli
ed ascoltare in breve di Troia l’ estrema agonia,
anche se aborro il ricordo e da tanto dolore rifuggo,
pur ti dirò. Dal conflitto fiaccati e respinti dai fati
– sono molti gli anni trascorsi – i capi dei Danai
fanno innalzare, con l’ arte divina di Pallade, grande
quanto un monte, un cavallo, di travi d’ abete connesse.
Fingono quindi che un voto per fare felice ritorno
sia; ne spargono in giro la voce ed intanto, nel buio
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includunt caeco lateri penitusque cavernas
ingentis uterumque armato milite complent.
Est in conspectu Tenedos, notissima fama
Insula, dives opum, Priami dum regna manebant,
nunc tantum sinus et statio male fida carinis:
huc se provecti deserto in litore condunt.
Nos abiisse rati et vento petiisse Mycenas.
Ergo omnis longo solvit se Teucria luctu.
Panduntur portae; iuvat ire et Dorica castra
desertosque videre locos litusque relictum.
Hic Dolupum manus, hic saevus tendebat Achilles,
classibus hic locus, hic acie certare solebant.
Pars stupet innuptae donum exitiale Minervae
et molem mirantur equi; primusque Thymoetes
duci intra muros hortatur et arce locari,
sive dolo seu iam Troiae sic fata ferebant.
At Capys et quorum melior sententia menti
aut pelago Danaum insidias suspectaque dona
praecipitare iubent subiectisque urere flammis
aut terebrare cavas uteri et temptare latebras.
Scinditur incertum studia in contraria volgus.
Primus ibi ante omnis, magna comitante caterva,
Laocoon ardens summa decurrit ab arce
et procul: “O miseri, quae tanta insania, cives?
creditis avectos hostis aut ulla putatis
dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?
Aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi
aut haec in nostros fabricatast machina muros
inspectura domos venturaque desuper urbi
aut aliquis latet error: equo ne credite, Teucri.
Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes”.
Sic fatus validis ingentem viribus hastam
In latus inque feri curvam compagibus alvom
contorsit. Stetit illa tremens, uteroque recusso
Insonuere cavae gemitumque dedere cavernae.
Et si fata deum, si mens non laeva fuisset,
impulerat ferro Argolicas foedare latebras
Troiaque nunc staret, Priamique arx alta maneres.»
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petto, in segreto, alcuni fra i capi, a sorte prescelti,
celano e riempiono l’ ampie caverne del ventre d’ armati.
L’ isola, al largo, si vede di Tenedo, ricca di fama,
florida mentre il regno di Priamo ancora durava,
ora soltanto un golfo, malfido ancoraggio alle navi.
Giunti colà, sul lido deserto si celano tutti.
Noi li credemmo partiti, diretti col vento a Micene.
Ecco che tutta la Teucria si scioglie da un lungo dolore.
S’ aprono allora le porte: conforta uscire e vedere
vuoto il campo dei Dori e la riva sgombra da navi.
Qui la schiera dei Dolopi, qui la tenda d’ Achìlle,
qui si trovava la flotta; qui si veniva a battaglia.
Sono stupiti, alcuni, del dono esiziale a Minerva
Vergine e molto la mole ne ammirano; primo Timete
dentro le mura esorta a condurlo e quindi alla rocca,
o per dolo o perché così voleva il destino.
Capi invece e quelli che sono d’ avviso migliore
chiedono che, bruciato, si getti in mare il sospetto
dono, possibile insidia, o che, con trivelle, si provi
che nascondigli segreti non celi il cavo suo ventre.
È divisa, incerta, la gente: opposti i pareri.
Giù dalla rocca accorre per primo, infuriato e con grande
turba al seguito, lì Laocoonte che, ancora lontano,
“Quale mai follia, sventurati!” grida “Credete
voi davvero partiti i nemici o che privi di inganno
siano i doni dei Danai? Ulisse così conoscete?
O, lì dentro, rinchiusi nel legno, si celano achei,
o tal macchina fu costruita in danno alle mura,
per spiarci e dall’ alto poter penetrare all’ interno,
o comunque un inganno nasconde: attenti al cavallo!
Anche se portano doni, dei Danai comunque diffido”.
Disse e una lancia enorme scagliò con vigore nel fianco
dell’ animale, nel seno suo curvo di legni giuntati.
Essa, confitta, vibrò: dal ventre percosso un rimbombo
venne: emisero l’ ampie caverne un gemito; forse,
senza i fati divini e l’ erroneo nostro giudizio,
spinti ci avrebbe a scovare le argoliche tane ed ancora
Troia e di Priamo tu, svettante rocca, vivreste.»
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Verg. Aen. II, 768 – 804
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«Ausus quin etiam voces iactare per umbram
implevi clamore vias maestusque Creusam
nequiquam ingeminans iterumque iterumque vocavi.
Qaerenti et tectis urbis sine fine furenti
infelix simulacrum atque ipsius umbra Creusae
visa mihi ante oculos et nota maior imago.
Obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit.
Tum sic adfari et curas his demere dictis:
“Quid tantum insano iuvat indulgere dolori,
o dulcis coniunx? Non haec sine numine divom
eveniunt; nec te comitem hinc portare Creusam
fas aut ille sinit superi regnator Olympi.
Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum.
Et terram Hesperiam venies, ubi Lydius arva
inter opima virum leni fluit agmine Thybris;
illic res laetae regnumque et regia coniunx
parta tibi: lacrimas dilectae pelle Creusae.
Non ego Myrmidonum sedes Dolupumve superbas
aspiciam aut Graiis servitum matribus ibo,
Dardanis et divae Veneris nurus,
sed me magna deum genetrix his detinet oris.
Iamque vale et nati serva communis amorem”.
Haec ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem
dicere deseruit tenuisque recessit in auras.
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum;
ter frustra comprensa manus effugit imago,
par levibus ventis volucrique simillima somno.
Sic demum socios consumpta nocte reviso,
atque hic ingentem comitum adfluxisse novorum
invenio admirans numerum, matresque virosque,
collectam exilio pubem, miserabile volgus.
Undique convenere, animis opibusque parati,
in quascumque velim pelago deducere terras.
Iamque iugis summae surgebat Lucifer Idae
ducebatque diem Danaique obsessa tenebant
limina portarum nec spes opis ulla dabatur.
Cessi et sublato montis genitore petivi».
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Virgilio Eneide II, 768 – 804
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«Giunsi a lanciare grida nel buio e le vie di clamore
feci, così, risuonare, chiamando invano a gran voce
e ripetendo, mesto, Creusa ancora ed ancora.
Come in preda a delirio, cercavo in mezzo alle case
quando, fantasma infelice, dinanzi agli occhi m’ apparve
proprio l’ immagine sua, di Creusa, maggiore di lei.
Fui stupefatto, i capelli rizzati e la voce bloccata.
Poi, con queste parole, da me gli affanni rimosse:
“Da forsennato dolore perché, mio dolce marito,
farsi vincere? Avviene non senza volere divino
questo: seguirti non è consentito a Creusa e neppure
dà il suo permesso colui che lassù l’ Olimpo governa.
Lunghi esili e vaste distese di mare per te; ma
poi nella terra Esperia verrai, dove il Tevere lidio,
tra popolosi campi, con dolce corrente fluisce.
Lieti eventi laggiù t’ attendono: un regno e di regia
stirpe una sposa. La cara Creusa non piangere; infatti,
né dei Mirmidoni né dei Dolopi mai le superbe
case avverrà ch’ io veda e neppure – dardanide e nuora
io di Venere – debba le greche matrone servire:
me degli dei la gran madre trattiene in queste contrade.
Ora addio: l’ amore di nostro figlio conserva”.
Disse, lasciando me che piangevo e dirle volevo
molto ancora, ma lei, nell’ aria lieve, scomparve.
Mossi tre volte le braccia cercando di stringerla forte
ma, per tre volte, sfuggì l’ immagine, invano afferrata,
come vento leggera, che a sogno fugace somiglia.
Torno così, consumata la notte, a vedere i compagni
e, con sorpresa, di nuovi ne trovo, in gran numero giunti:
donne ed uomini – triste raccolta – all’ esilio disposti,
d’ ogni parte affluiti; per forza d’ animo e mezzi
pronti a seguirmi dovunque volessi condurli per mare.
Già Lucifero intanto lassù sorgeva, dagli alti
gioghi dell’ Ida ed il giorno con sé conduceva; le porte
erano tutte occupate dai Danai; alcuna speranza
più non restava. Allora mi misi in cammino; mio padre
presi in spalla e diressi la marcia alla volta dei monti».
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Verg. Aen. VI, 426 – 476
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Continuo auditae voces vagitus et ingens
infantumque animae flentes in limine primo
quos dulcis vitae exsortis et ab ubere raptos
abstulit atra dies et funere mersit acerbo.
Hos iuxta falso damnati crimine mortis.
Nec vero hae sine sorte datae, sine iudice sedes:
quaesitor Minos urnam movet; ille silentum
consiliumque vocat vitasque et crimina discit.
Proxima deinde tenent maesti loca, qui sibi letum
insontes peperere manu lucemque perosi
proiecere animas. Quam vellent aethere in alto
nunc et pauperiem et duros perferre labores!
Fas obstat, tristisque palus inamabilis undae
adligat et novies Styx interfusa coercet.
Nec procul hinc partem fusi monstrantur in omnem
lugentes campi; sic illos nomine dicunt.
Hic quos durus amor crudeli tabe peredit,
secreti celant calles et myrtea circum
silva tegit; curae non ipsa in morte relinquont.
His Phaedram Procrimque locis maestamque Eriphylen
crudelis nati monstrantem volnera cernit,
Evadnenque et Pasiphaën; his Laodamia
it comes et iuvenis quondam, nunc femina, Caeneus
rursus et in veterem fato revoluta figuram.
Inter quas Phoenissa recens a volnere Dido
errabat silva in magna. Quam Troïus heros
ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras
obscuram, qualem primo qui surgere mense
aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,
demisit lacrimas dulcique adfatus amore est:
«Infelix Dido, verus mihi nuntio ergo
venerat extinctam ferroque extrema secutam?
Funeris heu tibi causa fui? Per sidera iuro,
per superos et si qua fides tellure sub ima est,
invitus, regina, tuo de litore cessi.
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,
per loca senta situ cogunt noctemque profundam,
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Virgilio Eneide VI, 426 – 476
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Subito s’ odono voci, un intenso vagire e, piangenti,
l’ anime tutte dei bimbi che giunti appena di questa
dolce vita alla soglia, strappati al seno materno,
vennero un triste giorno da morte acerba sommersi.
I giustiziati con falsa condanna son loro vicini.
Viene a ciascuno la sede con equo criterio assegnata:
scuote l’ urna Minosse, che giudica; l’ anime mute
chiama a raccolta e discerne le vite ed i crimini loro.
Seguono, tristi, coloro che, senza colpe, la morte
vollero darsi, credendo d’ odiare la luce del giorno.
Quanto vorrebbero adesso lassù ritornare tra i vivi,
anche poveri e dure fatiche disposti a patire!
Legge divina lo vieta: la triste palude li lega
e, con nove cerchi, li chiude, attorno scorrendo,
lento lo Stige. Da lì non lontano, s’ estendono in ogni
parte quelli che sono chiamati i campi del pianto.
Là nascosti sentieri protetti da un bosco di mirto
celano quanti un amore spietato consunse con crudo
morbo: neppure la morte da loro allontana gli affanni.
Fedra e Procri laggiù riconosce e la triste Erifile
che le ferite mostra del figlio crudele e con loro
sono Pasifae, Evadne e v’ è Laodamia e colei,
Ceneo, che, trasformata già in un giovane maschio,
fu restituita infine dal fato all’ aspetto suo primo.
Stava vagando lì, nella grande selva, tra loro
anche Didone, fenicia regina, da poco ferita.
Quando l’ eroe le giunse vicino ed oscura tra l’ ombre
pur la conobbe, come chi vede o attraverso le nubi
crede vedere la luna levarsi, all’ inizio del mese,
prese a piangere e disse, con grande amore e dolcezza:
«O Didone infelice, ciò che si disse era vero
dunque: di spada avevi trovato la morte? E del lutto
causa io stesso fui? Per le stelle lo giuro e gli dei
su del cielo e per quanto si possa quaggiù sottoterra
farlo: fui costretto, regina, a lasciare i tuoi lidi.
Me degli dei chiamava il volere che adesso tra queste
ombre, per plaghe deserte e profonda notte, mi spinge,
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imperiis egere suis; nec credere quivi
hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.
Siste gradum, teque adspectu ne subtrahe nostro.
Quem fugis? Extremum fato quod te alloquor hoc est».
Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
nec magis incepto voltum sermone movetur,
quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus ombriferum, coniunx ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sychaeus amorem.
Nec minus Aeneas, casu concussus iniquo,
prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem.
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né potevo arrivare a pensare, mentre partivo,
ch’ io t’ avrei causato un così fatale dolore.
Ferma il passo; al mio sguardo, ti prego, non ti sottrarre.
Chi vuoi fuggire? Il fato ci lascia quest’ ultimo incontro».
Tali parole, piangendo, diceva Enea per lenire
l’ animo ardente di lei, che torvo aveva lo sguardo.
Ella, voltata, gli occhi teneva fissi per terra
né, dall’ inizio, il suo volto mutava più che se fosse
stato in dura pietra scolpito, o nel marmo Marpesio.
Poi si sottrasse, ostile, e rifugio cercò nell’ ombroso
bosco, dove Sicheo, marito suo primo, la colma
d’ ogni premura e ne sa ricambiare in tutto l’ amore.
Né di seguirla Enea con lo sguardo, commosso da quella
sorte iniqua, cessava: piangeva e la commiserava.
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Verg. Aen. VI, 679 – 702
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At pater Anchises penitus convalle virenti
inclusas animas superumque ad lumen ituras
lustrabat studio recolens, omnemque suorum
forte recensebat numerum, carosque nepotes,
fataque fortunasque virum, moresque manusque.
Isque ubi tendentem adversum per gramina vidit
Aenean, alacris palmas utrasque tetendit,
effusaeque genis lacrimae et vox excidit ore:
«Venisti tandem, tuaque exspectata parenti
vicit iter durum pietas, datur ora tueri,
nate, tua et notas audire et reddere voces?
Sic equidem ducebam animo rebarque futurum
tempora dinumerans, nec me mea cura fefellit.
Quas ego te terras et quanta per aequora vectum
accipio, quantis iactatum, nate, periclis!
Quam metui, ne quid Libyae tibi regna nocerent!».
Ille autem: «Tua me, genitor, tua tristis imago
saepius occurrens haec limina tendere adegit;
stant sale Tyrrheno classes, da iungere dextram,
da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro».
Sic memorans largo fletu simul ora rigabat.
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum,
ter frustra comprensa, manus effugit imago,
par levibus ventis, volucrique simillima somno.
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Virgilio Eneide VI, 679 – 702
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V’ erano, giù nel fondo di quella verde vallata,
anime pronte a salire di nuovo alla luce, che Anchise
tutto intento scrutava, contando con cura tra loro
quelle dei suoi che scorgeva ed i cari nipoti e con essi
fati, umane vicende, costumi ed imprese future.
Come vide Enea che verso di lui i per campi
si dirigeva, entrambe le palme di slancio gli tese;
poi, con le guance bagnate di pianto, «Infine giungesti»
disse «E l’ atteso amore di figlio il duro cammino
seppe vincere e dunque guardare ancora il tuo volto
è concesso e note parole scambiare tra noi?
Tale speranza sempre ho nutrito intanto che il tempo
via trascorreva e non venni dal mio desiderio deluso.
Figlio, per quali terre e per quanti mari sospinto
ora t’ accolgo e da quali pericoli enormi agitato!
Quanto ho temuto che a te nuocessero i regni di Libia!».
«Fu la tua immagine triste, mai dalla mente rimossa,
ciò che mi spinse a varcare i confini di queste contrade;
là sul Tirreno attende la flotta. Dammi la mano,
padre; all’ abbraccio mio non sottrarti». E mentre diceva
queste parole, le gote di libero pianto rigava.
Mosse tre volte le braccia, cercando di stringerlo forte,
ma, per tre volte, sfuggì l’ immagine, invano afferrata,
come vento leggera, che a sogno fugace somiglia.
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Verg. Ge. II, 458 – 494
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O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas! Quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus.
Si non ingentem foribus domus alta superbis
mane salutantum totis vomit aedibus undam,
nec varios inhiant pulchra testudine postis
inlusasque auro vestis Ephyreiaque aera,
alba neque Assyrio fucatur lana veneno,
nec casia liquidi corrumpitur usus olivi;
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis,
speluncae vivique lacus et frigida tempe
mugitusque boum mollesque sub arbore somni
non absunt; illic saltus ac lustra ferarum
et patiens operum exiguoque adsueta iuventus,
sacra deum sanctique patres; extrema per illos
Iustitia excedens terris vestigia fecit.
Me vero primum dulces ante omnia Musae,
quarum sacra fero ingenti percussus amore,
accipiant caelique vias et sidera monstrent,
defectus solis varios lunaeque labores;
unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant
obicibus ruptis rursusque in se ipsa residant,
quid tantum Oceano properent se tingere soles
hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet.
Sin has ne possim naturae accedere partis
frigidus obstiterit circum praecordia sanguis,
rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes,
flumina amem silvasque inglorius. O ubi campi
Spercheosque et virginibus bacchata Lacaenis
Taygeta! O qui me gelidis convallibus Haemi
sistat, et ingenti ramorum protegat umbra!
Felix qui potuit rerum cognoscere causas
atque metus omnis et inexorabile fatum
subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari:
fortunatus et ille deos qui novit agrestis
Panaque Silvanumque senem Nynphasque sorores.
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Virgilio Georgiche II, 458 – 494
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O fortunati – e più, se capissero i beni che hanno –
i contadini, ai quali la terra, giustissima, vitto
facile apporta dal suolo, lontano dall’ armi discordi.
Se l’ imponente palazzo dagli usci superbi, al mattino,
di salutanti da tutte le stanze non libera un’ onda,
se non ammirano porte di bella testuggine ornate,
vesti d’ oro o di bronzo corinzio con arte fregiate;
se la porpora assira la bianca lana non macchia,
né la cannella corrompe la linfa dell’ olio d’ oliva;
ma sicura quiete, ma vita incapace d’ inganni
– ricca di vari beni e di pace in vaste campagne –
grotte e vergini laghi non mancano e fresche vallate,
buoi muggenti e, all’ ombra di un albero, sonni beati.
Balze e tane di fiere lì si trovano; avvezzi
sono i giovani al poco, gli dei venerati, onorati
i genitori; tra loro lasciò Giustizia la sua
ultima impronta prima d’ andare via dalla terra.
Certo vorrei che le Muse, d’ ogn’ altra cosa più dolci,
– serbo il loro culto, d’ ardente amore trafitto –
mi rivelassero, accolto fra loro, del cielo le vie,
gli astri, le eclissi di sole e le fasi lunari; le cause
dei terremoti e la forza che i mari profondi rigonfia e,
rotti gli argini, ancora li fa ritornare placati;
quale fretta sospinga, d’ inverno, i soli a tuffarsi
giù nell’ Oceano mentre le notti indugiano, tarde.
Ma se il sangue, attorno ai precordi freddo, visioni
simili della natura negasse a me, di campagne
abbia allora e di fiumi e di valli irrorate il piacere:
possa, senza gloria, le selve amare e i ruscelli.
Dove le piane, dov’ è lo Spercheo e il Taigeto – l’ eco
delle baccanti spartane vi aleggia – ? Chi nelle valli
gelide mi porrà dell’ Emo, chi con l’ immensa
ombra mi coprirà dei rami? Felice chi seppe
della natura i segreti svelare vincendo i timori,
l’ inesorabile Fato e lo strepito dell’ Acheronte;
ma fortunato pure colui che gli dei della terra,
Pan, il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle conosce.
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Verg. Ge. IV, 453 – 503
…
«Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant,
suscitat, et rapta graviter pro coniuge saevit.
Illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
servantem ripas alta non vidit in herba.
At chorus aequalis Dryadum clamore supremos
implevit montis; flerunt Rodopeiae arces
altaque Pangea et Rhesi Mavortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
Ipse cava solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum,
te veniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus, Manisque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
At cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis avium se milia condunt,
Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et novies Styx interfusa coercet.
Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara ceruleosque implexae crinibus anguis
Eumedines, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii vento rota constitit orbis.
Iamque pedem referens casus evaserat omnis,
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes:
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Virgilio Georgiche IV, 453 – 503
…
«L’ ira di qualche dio ti perseguita; gravi misfatti
ora tu paghi: Orfeo, sventurato senza sua colpa,
queste pene ti causa – finché non si oppongano i fati –
reso folle da quando la sposa gli venne sottratta.
Lei, che da te a precipizio, seguendo il fiume, fuggiva,
prossima ormai alla morte non vide infatti un’ enorme
serpe nell’ erba alta, dinnanzi ai suoi piedi in agguato.
Giunsero fino alle cime dei monti allora dell’ altre
Driadi amiche le grida; le vette del Rodope e l’ alto
monte Pangeo così ne piansero e pure la terra
marzia di Reso e i Geti con l’ Ebro e l’ attica Orizia.
Sulla testuggine cava lui, per lenire il dolore,
lungo il lido deserto cantava te, la sua dolce
sposa, te sul fare del giorno, te col tramonto.
Oltre le bocche Tenarie, profondo ingresso di Dite,
quindi nel bosco oscurato da tenebre orrende si spinse;
poi raggiunse i Mani, il re tremendo ed i cuori
che impietosirsi non sanno d’ umane preghiere all’ ascolto.
Ma, da quel canto attratte, venivano fin dagli estremi
siti dell’ Erebo l’ ombre leggere e i fantasmi di quanti
hanno perduto la luce; così numerosi gli uccelli
dietro le foglie a sera si celano o quando, d’ inverno,
dalle montagne li scaccia la pioggia: v’ erano madri,
uomini e corpi privi di vita d’ eroi generosi;
bimbi, fanciulle illibate, ragazzi che furono posti
dai genitori sui roghi: lo scuro limo li lega
tutti quanti e l’ orrendo canneto e la triste palude
mentre lo Stige, lento, con nove cerchi li chiude.
Sono ammaliate le stesse profonde dimore del Lete e
pure le Eumenidi, che di cerulei serpenti i capelli
hanno intrecciati. Trattiene le triplici fauci dischiuse
Cerbero e il vento la ruota d’ Issione più non sospinge.
Tutti gli ostacoli già superati, durante il ritorno,
la restituita Euridice veniva oramai alla luce,
dietro salendo (così Proserpina aveva prescritto),
quando l’ incauto amante da un folle impulso fu colto,
certo scusabile, se scusare sapessero i Mani:
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restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
immemor – heu! – victusque animi respexit. Ibi omnis,
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa “Quis et me” inquit “Miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas”.
Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diversa, neque illum
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere praeterea vidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret?
Quo fletu Manis, quae numina voce moveret?
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
Septem illum totos perhibent ex ordine mensis
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi, et gelidis haec evolvisse sub antris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus:
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet.
Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei:
solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens. Spretae Ciconum quo munere matres
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua,
a! miseram Eurydicen anima fugiente vocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.»
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solo un istante ristette, volgendo lo sguardo a Euridice,
ahi, dimentico e vinto: la sua fatica a quel punto
tutta fu vana e i patti di quello spietato signore
rotti; tre volte echeggiò sugli stagni d’ Averno un fragore.
“Quale enorme follia” lei disse allora “ha potuto
perderci entrambi, Orfeo? Di nuovo il fato, crudele,
ecco, mi chiama ed il sonno richiude gli occhi miei spenti.
Ora addio! Mi circonda e trascina una notte profonda
mentre a te, non più tua, le palme invano protendo”.
Disse e in breve sparì dalla vista, simile a fumo
che per un lieve alitare di vento svanisce e non oltre
vide lui che abbracciava le ombre invano e molt’ altro
dire voleva; né permise il nocchiero dell’ Orco
che l’ interposta palude venisse di nuovo varcata.
Cosa fare mai? – due volte la sposa sottratta –
dove andare? I Mani commuovere? O quali fra i numi?
Fredda ormai sulla barca di Stige lei navigava.
Sette lunghi mesi si dice che sotto un’ eccelsa
rupe – lo Strimone, lì di fronte, deserto scorreva –
lui ripetesse, piangendo, quei fatti in gelide grotte.
Rese mansuete le tigri col canto e mosse le querce:
quale dolente usignolo lamenta, all’ ombra di un pioppo,
come il duro aratore, scovati gli implumi suoi figli,
via li portasse dal nido; di notte, posato su un ramo,
un miserevole canto ripete e di mesti lamenti
riempie tutt’ intorno per ampia distanza quei luoghi.
Non un amore più, non talami; lui percorreva,
solo, iperborei ghiacci ed il Tanai, come la neve
gelido e i campi Rifei, mai privi di brina, Euridice
sempre e i vani doni di Dite sottratti invocando.
Lo sbranarono e i resti del giovane sparsero in vasti
campi le Ciconi donne respinte da lui – che fedele
volle restare – durante le orge notturne di Bacco.
Anche quando la testa, dal collo marmoreo strappata,
l’ Ebro d’ Eagro faceva tra i gorghi ruotare – oramai
fredda la lingua – “Euridice!” da sola invocava la voce
sua, “Sventurata Euridice!”. Fuggiva la vita e le rive
lungo l’ intera corrente rendevano l’ eco: “Euridice!”.»
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Lucr. De rerum natura I, 1 – 43
Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis,
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aëriae primum vulucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis,
omnibus incutiens blandum per pectora amorem,
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas,
nec sine te quicquam dias in lumine oras
exoritur, neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
Effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant.
Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno devictus volnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
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Lucrezio De rerum natura I, 1 – 43
Alma Venere, tu degli Eneadi madre, piacere
tu dei mortali e così dei celesti, che sotto i vaganti
astri del cielo il mare, di navi affollato, e le terre,
ricche di messi, fecondi – poiché sono tutti i viventi
grazie a te concepiti e portati alla luce del sole –
fuggono te e il tuo arrivo nel cielo i venti e le nubi,
fa spuntare per te, con arte, la terra soavi
fiori e a te le distese del mare sorridono mentre
torna di luce diffusa a risplendere il cielo, sereno.
Come infatti nel giorno compaiono di primavera
chiari segni e va di Favonio il soffio fecondo
tutt’ attorno vagando, per primi gli uccelli dell’ aria
danno, o dea, del tuo arrivo l’ annunzio, nel cuore toccati
dalla tua forza. Quindi le greggi selvagge nei lieti
campi scorrazzano e fiumi veloci attraversano: ognuna
cupida segue te, dal tuo fascino presa, dovunque
tend i a condurla. Infine per mari, monti, rapaci
fiumi, frondose dimore d’ uccelli e floridi campi,
susciti in tutti un amore suadente nel petto per cui
con desiderio ciascuno la propria specie propaghi.
E, poiché la natura tu sola governi e nessuna
cosa nascere può nelle plaghe in cui regna la luce
senza di te e neppure qualcosa di lieto avvenire
nè d’ amabile, cerco di averti alleata nei versi
sulla natura che inizio a comporre per questo rampollo
della casata di Memmio che tu in qualunque occasione,
d’ ogni valore dotato, volesti eccellesse fra tutti.
Tanto più concedi ai miei versi eterna bellezza,
diva, e fa’ che, sopiti, si plachino intanto di guerra
gli atti feroci sui mari e per tutte quante le terre.
Tu solamente infatti recare in soccorso ai mortali
puoi la tranquilla pace: sovente il potente signore
d’ armi e guerre, Marte, sul grembo tuo s’ abbandona,
pure lui dall’ eterna ferita d’ amore sconfitto;
egli allora, il collo tornito piegato all’ indietro,
pasce gli avidi sguardi d’ amore; dalle tue labbra
pende il suo respiro e supino si lascia cadere.
Mentre giace al tuo corpo divino abbracciato, fluire
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circumfusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, inclita, pacem.
Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo, nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi deesse saluti.
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fai dalle labbra soavi parole e per i Romani
chiedi la placida pace: sereni l’ opera infatti
noi non possiamo comporre fin tanto che vive la patria
questo momento infelice e non può negare il suo impegno
alla comune salvezza l’ illustre prole di Memmio.
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DISTICI ELEGIACI
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Cat. Carm. 72
Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi inpensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?» Inquis. Quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.
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Catullo Carmi 72
Tu dicevi una volta d’ amare solo Catullo,
Lesbia, e che a Giove stesso io non venivo secondo.
Oltre che come un amante, non meno d’ un padre t’ amai,
quando ai suoi figli così, come ai congiunti, vuol bene.
Ora che t’ ho conosciuta, sebbene io bruci più forte
dalla passione per te, molto di meno ti stimo.
«È possibile ciò?» ti domandi. Per questi tuoi torti
cresce la fiamma di più, scema l’ affetto per te.
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Cat. Carm. 101
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam adloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.
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Catullo Carmi 101
Molte genti e molte distese di mare ho vedute
prima di giungere infine alle tue misere esequie
e tributarti, fratello, l’ estremo omaggio di morte,
qui rivolgendomi, invano, alle tue ceneri mute,
ora che proprio te, fratello misero mio,
m’ ha strappato il destino, indegnamente, così.
Questa funebre offerta ricevi intanto; secondo
l’uso antico degli avi, ecco, la dedico a te:
triste omaggio, di pianto fraterno intriso; poi questo
l’ ultimo addio, fratello, ora e per sempre sarà.
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Tib. I 3, 1 – 34
Ibitis Aegeas sine me, Messalla, per undas,
o utinam memores ipse cohorsque mei!
Me tenet ignotis aegrum Phaeacia terris:
abstineas avidas Mors modo nigra manus.
Abstineas, Mors atra, precor! Non hic mihi mater
quae legat in maestos ossa perusta sinus,
non soror, Assirios cineri quae dedat odores
et fleat effusis ante sepulcra comis,
Delia non usquam quae, me cum mitteret urbe,
dicitur ante omnes consuluisse deos.
Illa sacras pueri sortes ter sustulit: illi
rettulit e trinis omina certa puer.
Cuncta dabant reditus: tamen est deterrita nunquam
quin fleret nostras respiceretque vias.
Ipse ego solator, cum iam mandata dedissem,
quaerebam tardas anxius usque moras.
Aut ego sum causatus aves aut omina dira
Saturnive sacram me tenuisse diem.
O quotiens ingressus it er mihi tristia dixi
offensum in porta signa dedisse pedem!
Audeat invito ne quis discedere Amore,
aut sciat egressum se prohibente deo.
Quid tua nunc Isis mihi, Delia, quid mihi prosunt
Illa tua totiens aera repulsa manu,
quidve, pie dum sacra colis, pureque lavari
te, memini, et puro secubuisse toro?
Nunc, dea, nunc succurre mihi (nam posse mederi
picta docet templis multa tabella tuis)
ut mea votivas persolvens Delia voces
ante sacras lino tecta fores sedeat
bisque die resoluta comas tibi dicere laudes
insignis turba debeat in Pharia.
At mihi contingat patrios celebrare Penates
reddereque antiquo menstrua tura Lari.
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Tibullo I 3, 1 – 34
Senza di me, Messalla, per l’ onde egee ve n’ andrete,
memori – spero – tu con la coorte di me.
Qui la Feacia mi tiene, malato in terra straniera:
nera Morte, da me l’ avide mani allontana;
atra Morte, ti prego, trattienile: certo mia madre
l’ ossa bruciate qui mesta riunire non può
né mia sorella assiri profumi alle ceneri offrire
mentre scorrere fa, sciolte le chiome, il suo pianto;
e neppure Delia che, dicono, prima del viaggio,
tutti quanti gli dei fece a consulto invocare.
Ella tre volte aveva al fanciullo richiesto le sacre
sorti e tre volte le fu reso un presagio sicuro:
era certo il ritorno, però dal pianto e dall’ ansia
mai liberarsi poté, mentre al mio viaggio pensava.
Era tutto pronto ed io stesso, che lei rincuoravo,
pure accampavo, ansioso, ogni pretesto d’ indugio,
ogni presagio o volo d’ uccelli infausto adducendo;
né mi sfuggiva se il giorno era a Saturno sacrato.
Oh, le volte in cui dissi, a cammino iniziato, che il piede
nella mia porta inciampato era un presagio funesto!
Abbia il consenso d’ Amore o rinunzi chiunque a partire;
ma, se pure lo fa, sappia che un dio sta sfidando.
Ora, o Delia, a che cosa mi giovano Iside e quelle
tanto spesso da te scosse campane e i lavacri
– io ben ricordo – compiuti secondo il rituale, per poi
sola nel letto giacere in assoluta purezza?
Ora, subito, o dea, soccorrimi; (mostrano i molti
quadri votivi che tu puoi far guarire) e così
fa’ che la cara mia Delia si sieda davanti alle sacre
porte avvolta nel lino, ogni suo voto adempiuto
e, due volte al giorno, disciolti i capelli, le lodi
debba rendere a te, tra le fedeli spiccando.
Io venerare i patri Penati possa ed in ogni
mese l’ antico Lare abbia l’ incenso da me.
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Prop. I 17
Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Nec mihi Cassiope solito visura carinam,
omniaque ingrato litore vota cadunt.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti
aspice, quam saevas increpat aura minas.
Nullane placatae veniet fortuna procellae?
Haeccine parva meum funus harena teget?
Tu tamen in melius saevas converte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
An poteris siccis mea fata reponere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
A pereat, quicumque rates et vela paravit
primus et invito gurgite fecit iter!
Nonne fuit levius dominae pervincere mores
(quamvis dura, tamen rara puella fuit),
quam sic ignotis circumdata litora silvis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?
Illic si qua meum sepelissent fata dolorem,
ultimus et posito staret amore lapis,
illa meo caros donasset funere crines,
molliter et tenera poneret ossa rosa:
illa meum extremo clamasset pulvere nomen,
ut mihi non ullo pondere terra foret.
At vos, aequoreae formosa Doride natae,
candida felici solvite vela choro:
si quando vestras labens Amor attigit undas,
mansuetis socio parcite litoribus.
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Properzio I 17
L’ ho meritato: poiché lasciare potei la mia donna,
sono ridotto a parlare, ora, ad alcioni sperdute.
E mai più rivedrà Cassiope questa mia nave,
mentre sul lido, ostile, ecco si spargono i voti.
Anche lontana, Cinzia, con te si schierano i venti:
guarda come si fa l’ aria pesante per me!
Non concede il destino che questa tempesta si plachi?
Delle mie spoglie sarà solo riparo la sabbia?
A miglior conclusione rivolgi le dure proteste:
pena bastante la notte entro le secche ti paia;
o, con occhi asciutti, potresti lasciarmi al mio fato
senza stringere al petto, ultimo addio, le mie ossa?
Odio colui che approntò per primo le navi e le vele
per praticare tra i gorghi inospitali una via.
Ah, non sarebbe stato più facile, forse, piegare
quella signora (che dura è ma preziosa fanciulla),
anzi che scorgere lidi da selve ignote attorniati,
dai Tindaridi spesso il salvataggio invocando?
Oh, se avesse voluto il destino dolore ed amore
con una pietra laggiù far ricoprire per sempre!
Ella avrebbe i suoi cari capelli donati alle esequie,
soffici rose spandendo ove posare le ossa;
ella avrebbe invocato sull’ ultima cenere il nome
mio con preghiera che me lieve coprisse la terra.
O creature marine, di Doride bella voi figlie,
tutte a schiera accorrete a liberare le vele
e, se all’ onde vostre mai giunse Amore, schiudete
facili approdi a chi, ora, esperienza ne fa.
42
Ov. Fasti II, 75 – 118
…
Illa nocte aliquis, tollens ad sidera voltum,
dicet: «Ubi est hodie quae Lyra fulsit heri?»
Dumque Lyram quaeret, medii quoque terga Leonis
in liquidas subito mersa notabit aquas.
Quem modo caelatum stellis Delphina videbas,
is fugiet visus nocte sequente tuos:
seu fuit occultis felix in amoribus index,
Lesbida cum domino seu tulit ille lyram.
Quod mare non novit, quae nescit Ariona tellus?
Carmine currentes ille tenebat aquas.
Saepe sequens agnam lupus est a voce retentus,
saepe avidum fugiens restitit agna lupum,
saepe canes leporesque umbra iacuere sub una
et stetit in saxo proxima cerva leae
et sine lite loquax cum Palladis alite cornix
sedit et accipitri iuncta columba fuit.
Cynthia saepe tuis fertur, vocalis Arion,
tamquam fraternis obstipuisse modis.
Nomen Arionium Siculas impleverat undas
Captaque erat lyricis Ausonis ora sonis.
Inde domum repetens puppem conscendit Arion,
atque ita quaesitas arte ferebat opes.
Forsitan, infelix, ventos undasque timebas:
At tibi nave tua tutius aequor erat.
Namque gubernator destricto constitit ense
ceteraque armata conscia turba manu.
Quid tibi cum gladio? Dubiam rege, navita, puppem:
non haec sunt digitis arma tenenda tuis.
Ille, metu pavidus: «Mortem non deprecor» inquit
«Sed liceat sumpta pauca referre lyra».
Dant veniam ridentque moram; capit ille coronam
quae possit crines, Phoebe, decere tuos.
Induerat Tyrio bis tinctam murice pallam;
reddidit icta suos pollice chorda sonos,
flebilibus numeris veluti canentia dura
traiectus penna tempora cantat olor.
Protinus in medias ornatus desilit undas;
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Ovidio Fasti II, 75 – 118
…
Quella notte qualcuno, levando lo sguardo alle stelle,
«Oggi la Lira dov’ è – ieri splendente? – » dirà.
Mentre cerca la Lira, il Leone, ad un tratto, nell’ acque
limpide immerso vedrà fino a metà del suo dorso.
E, la notte seguente, il Delfino, prima di stelle
fulgido, si celerà pure al tuo sguardo, non so
se testimone felice d’ amori nascosti od accorso
e della lira di Lesbo e del maestro in aiuto.
È ben noto Arïone per tutti i mari e le terre:
grazie al suo canto fermava anche le acque correnti
e s’ arrestò, cacciando l’ agnella, il lupo e a sua volta
spesso l’ agnella sostò, mentre dal lupo fuggiva.
Era un’ ombra sola a proteggere i cani e le lepri;
spesso la cerva ristette alla leonessa dappresso
e cornacchia loquace e civetta di Pallade, in pace,
furono assieme e sparviero alla colomba vicino.
Anche Cinzia rimase sovente, Arïone, dal canto
tuo stupefatta, così come da quello fraterno.
Era portato il suo nome dall’ onde sicule e il suono
della sua lira aveva le coste d’ Ausonia incantate.
Indi Arïone, in patria tornando, salì sulla nave
con le ricchezze che già l’ arte gli aveva fruttato.
Onde e venti, infelice, temevi forse, ma il mare
più sicuro per te della tua nave poi fu.
Il timoniere infatti s’ alzò brandendo una spada:
tutta la ciurma, concorde, era schierata con lui.
Ah, ma che fai con la spada? Piuttosto la nave insicura
guida: strumento adeguato essa di certo non è!
Lui, dal timore pervaso: «Non chiedo evitare la morte»
disse «Ma, breve, un canto, ultimo addio non negate».
È concessa, ridendo, la tregua ed una corona,
che degnamente tu, Febo, potresti portare,
ed un mantello indossa, di porpora tiria due volte
pregno: risuona la lira al magistrale suo tocco
a somiglianza del canto che cigno, trafitto le tempie
candide dallo strale, eleva flebile al cielo.
All’ improvviso, così paludato, tra l’ onde si getta;
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spargitur impulsa caerula puppis aqua.
Inde – fide maius – tergo delphina recurvo
se memorant oneri supposuisse novo.
Ille sedens citharamque tenens pretiumque vehendi
cantat et aequoreas carmine mulcet aquas.
Di pia facta vident: astris delphina recepit
Iuppiter et stellas iussit habere novem.
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l’ acqua che il tuffo spruzzò bagna la cerula poppa.
Ecco un delfino però, si racconta, – incredibile! – il curvo
dorso a quel carico strano offre per dargli sostegno.
Egli, sedendo e suonando la lira qual prezzo del viaggio,
canta e placa, col canto, anche le onde marine.
Agli dei non sfuggì quel bel gesto: il delfino, da nove
stelle ornato, lassù Giove tra gli astri chiamò.
…
SISTEMA
ARCHILOCHEO QUARTO
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Hor. Carm I 4
Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni
trahuntque siccas machinae carinas,
ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni
nec prata canis albicant pruinis.
Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna
iunctaeque Nymphis Gratiae decentes
alterno terram quatiunt pede dum gravis Cyclopum
Volcanus ardens visit officinas.
Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto
aut flore, terrae quem ferunt solutae;
nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis,
seu poscat agna sive malit haedo.
Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tavernas
regumque turris. O beate Sesti,
vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam.
Iam te premet nox fabulaeque Manes
et domus exilis Plutonia: quo simul mearis,
nec regna vini sortiere talis,
nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus
nunc omnis et mox virgines tepebunt.
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Orazio Odi I 4
Sciolgono il duro inverno Favonio e la nuova primavera:
si varano con gli argani le navi,
scorda l’ ovile il gregge e il fuoco di casa il contadino,
scompaiono le brine biancheggianti.
Venere già conduce le danze al chiaro della luna:
mirabili le Grazie con le Ninfe
battono il tempo col piede; Vulcano, nel mentre, dei Ciclopi
s’ aggira per le torride fucine.
Ora di mirto o di fiore sbocciato tra zolle dissodate
conviene che si cingano le tempie;
ora conviene immolare un’ agnella nel folto delle selve
a Fauno o – se lui vuole – un bel capretto.
Batte di pari passo la pallida Morte alle capanne
dei poveri e alle torri dei potenti.
Sestio beato, la vita – breve – ci vieta una speranza
durevole: la notte e i favolosi
Mani t’ incalzano ormai e la squallida casa di Plutone
laddove tu mai più contemplerai,
re del convito, il tenero Licida, fiamma dei ragazzi,
e presto, per le giovani, sospiro.
SISTEMA
ALCMANIO
52
Hor. Carm. I 7
Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen
aut Epheson bimarisve Corinthi
moenia vel Baccho Thebas vel Apolline Delphos
insignis aut Thessala Tempe;
sunt quibus unum opus est intactae Palladis urbem
carmine perpetuo celebrare et
undique decerptam fronti praeponere olivam;
plurimus in Iunonis honorem
aptum dicet equis Argos ditesque Mycenas:
me nec tam patiens Lacedaemon
nec tam Larisae percussit campus opimae,
quam domus Albuneae resonantis
et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda
mobilibus pomaria rivis.
Albus ut obscuro deterget nubila caelo
saepe Notus neque parturit imbris
perpetuo, sic tu sapiens finire memento
tristitiam vitaeque labores
molli, Plance, mero, seu te fulgentia signis
castra tenent seu densa tenebit
Tiburis umbra tui. Teucer Salamina patremque
cum fugeret, tamen uda Lyaeo
tempora populea fertur vinxisse corona,
sic tristis affatus amicos:
«Quo nos cumque feret melior fortuna parente,
ibimus, o socii comitesque.
Nil desperandum Teucro duce et auspice, Teucro
certus enim promisit Apollo
ambiguam tellure nova Salamina futuram.
O fortes peioraque passi
mecum saepe viri, nunc vino pellite curas;
cras ingens iterabimus aequor».
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Orazio Odi I 7
C’ è chi Rodi splendente, chi loderà Mitilene,
Efeso o di Corinto, da due
mari lambite, le mura o, famose per Dioniso e Apollo,
Tebe e Delfi e la tessala Tempe;
Altro non fanno, alcuni, che carmi infiniti innalzare
alla città di Pallade intatta,
fronde d’ ulivo ovunque strappate ponendosi in capo;
molti, degno omaggio a Giunone,
d’ Argo i cavalli poi canteranno e la ricca Micene:
me non tanto commosse la dura
Sparta né di Larissa la lussureggiante campagna
quanto d’ Albunea la grotta sonante,
l’ alta cascata d’ Aniene e di Tivoli il bosco e i frutteti,
bene irrorati da fiumi vivaci.
Spesso Noto deterge le nubi del cielo oscurato
e non sempre cagiona le piogge;
tu, saggiamente, così ricordati, Planco, di porre
fine a tristezze e fatiche col dolce
vino, sia che al campo ti trovi tra fulgide insegne,
sia che t’ accolga, tra l’ ombre sue fitte,
Tivoli tua. Si dice che Teucro, benché fuggitivo
da Salamina e dal padre, stringesse
foglie di pioppo bagnate di vino attorno alle tempie
quale corona e dicesse agli amici
tristi: «Andremo, soci e compagni, dovunque la sorte
– del genitore migliore – ci guidi.
Non disperate: a Teucro, la guida e l’auspice vostro,
fece promessa Apollo che in altra
terra una nuova, eguale verrà Salamina fondata.
Uomini forti, affrontaste peggiori
prove con me; scacciate col vino gli affanni: all’ immenso
mare faremo domani ritorno».
SISTEMA
ALCAICO
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Hor. Carm. I 9
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras fuge quaerere et
quem fors dierum cumque dabit lucro
adpone, nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem sussurri
composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
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Orazio Odi I 9
Tu vedi come candido s’elevi
lassù il Soratte e più non sostengano
le selve d’ alta neve il peso,
mentre di ghiaccio si fanno i fiumi.
Dissolvi il freddo, legna – sollecito –
mettendo al fuoco e – prodigo – d’ anfora
sabina puro vino versa
che da quattr’ anni, o Taliarco, invecchia.
Gli dei, al resto, lascia che pensino:
sul mare irato appena trattengono
i venti in lotta e già cipresso
più non stormisce od antico orno.
Qual sia il domani smetti di chiederti
ed ogni giorno un dono considera
del fato; dolci amori dunque
non disdegnare, ragazzo, e danze
finché lontana t’ è la sgradevole
canizie. Adesso i giochi ti chiamino
del Campo e piazze e, al far di notte,
lievi sussurri al convegno; adesso
le risa, che la giovane svelano
laggiù, nascosta dietro ad un angolo,
il pegno al braccio suo strappato
o dal cedevole dito tolto.
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Hor. Carm. II 20
Non usitata nec tenui ferar
penna biformis per liquidum aethera
vates neque in terris morabor
longius invidiaque maior
urbis relinquam. Non ego pauperum
sanguis parentum, non ego quem vocas,
dilecte Maecenas, obibo
nec Stygia cohibebor unda.
Iam iam residunt cruribus asperae
pelles et album mutor in alitem
superne nascunturque leves
per digitos umerosque plumae.
Iam Daedaleo tutior Icaro
visam gementis litora Bosphori
Syrtisque Gaetulas canorus
ales Hyperboreosque campos.
Me Colchus et qui dissimulat metum
Marsae cohortis Dacus et ultimi
noscent Geloni, me peritus
discet Hiber Rhodanique potor.
Absint inani funere neniae
luctusque turpes et quaerimoniae;
conpesce clamorem ac sepulcri
mitte supervacuos honores.
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Orazio Odi II 20
Da non consuete penne e non fragili
librato su nell’ etere limpido,
poeta dai due volti, in terra
non rimarrò, le città lasciando
da invidie intatto. Ed io, di non fulgidi
natali, ed io che tu, dilettissimo,
invochi, non morrò; lo Stige
non mi terrà, Mecenate, avvinto.
E già le gambe mie si ricoprono
di pelle scabra e bianco volatile
divengo: sulle dita lievi
piume mi crescono e sulle spalle.
Vedrò, sicuro in volo più d’ Icaro,
canoro uccello, sotto, del Bosforo
mugghiante i lidi e poi le Sirti
Getule e poi l’ iperboree steppe.
Ai Colchi e ai Daci, i quali non mostrano
timore in faccia ai Marsi, ed agli ultimi
Geloni noto, nella colta
Spagna verrò, come in Gallia, letto.
Perciò non voglio nenie all’ inutile
funzione, lutti e pianti che umiliano!
Il chiasso placa e fai che fine
abbiano onori di tomba vani.
SISTEMA
ASCLEPIADEO QUINTO
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Hor. Car m. I 11
Tu ne qaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quidquid erit pati,
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
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Orazio Odi I 11
Non cercar di sapere – è a noi vietato – in che momento fine,
o Leuconoe, avranno e la mia stessa e la tua vita; gli astri
altro non sveleranno ed accettare è per noi meglio ciò
che da Giove verrà: molte stagioni o solamente questo
aspro inverno che spossa onde tirrene oltre le dighe. Saggia,
ora il vino tu filtra ed abbandona ogni speranza lunga.
Anche mentre parliamo, invido, il tempo è via fuggito già:
cogli l’ attimo adesso e non guardare al tuo futuro più.
SISTEMA
ASCLEPIADEO PRIMO
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Hor. Carm. III 30
Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.
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Orazio Odi III 30
Più perenne del bronzo un monumento ho eretto:
a piramidi regie è superiore, né
pioggia lo roderà, né d’ Aquilone furia
ed invano, con serie interminata d’ anni,
il fuggire del tempo a devastarlo andrà.
Non del tutto morrò: molto di me sottrarre
alle esequie potrà postuma lode, sempre
alta e viva finché, vergine muta al fianco,
un pontefice salga al Campidoglio in vetta.
Ove l’ Ofanto scroscia e di coloni fu
– d’ acqua povero – re Dauno, diranno come
io signore divenni, umile nato, e che
primo seppi adattare anche d’ Eolia i carmi
agli italici modi; un meritato vanto,
o Melpomene, fanne e, volentieri, da’
dell’ alloro di Delfo una corona a me.
SISTEMA
ASCLEPIADEO QUARTO
70
Hor. Carm. IV 1
Intermissa, Venus, diu
rursus bella moves? Parce precor, precor.
Non sum qualis eram bonae
sub regno Cinarae. Desine, dulcium
mater saeva Cupidinum,
circa lustra decem flectere mollibus
iam durum imperiis: abi,
quo blandae iuvenum te revocant preces.
Tempestivius in domum
Pauli purpureis ales oloribus
comissabere Maximi,
si torrere iecur quaeris idoneum;
namque et nobilis et decens
et pro sollicitis non tacitus reis
et centum puer artium
late signa feret militiae tuae,
et, quandoque potentior
largi muneribus riserit aemuli,
Albanos prope te lacus
ponet marmoream sub trabe citrea.
Illic plurima naribus
duces tura, lyraque et Berecyntia
delectabere tibia
mixtis carminibus non sine fistula;
illic bis pueri die
numen cum teneris virginibus tuum
laudantes pede candido
in morem Salium ter quatient humum.
Me nec femina nec puer
iam nec spes animi credula mutui
nec certare iuvat mero
nec vincire novis tempora floribus.
Sed cur heu, Ligurine, cur
manat rara meas lacrima per genas?
Cur facunda parum decoro
inter verba cadit lingua silentio?
Nocturnis ego somniis
iam captum teneo, iam volucrem sequor
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Orazio Odi IV 1
Dopo tanto, di nuovo mi
muovi guerra così, Venere? Pace, pace!
Io non sono lo stesso che un
tempo Cinara amò; smetti, crudele tu,
madre d’ ogni passione, di
farmi cedere ai tuoi dolci dettami: già
dieci lustri mi pesano;
dove i giovani te chiamano, invece, va’!
Meglio se, su purpurei
cigni, tu volerai a banchettare ov’ è
Paolo Massimo l’ ospite,
cuore degno, lui sì, se tu bruciarlo vuoi;
egli, nobile, bello e che a
quanti temono accuse abile aiuto dà,
mille doti possiede ed in
ogni luogo farà delle tue insegne mostra.
I regali irridendo del
suo rivale, che fu prodigo assai, vincente,
in un tempio di cedro una
statua ti donerà, prossima ai laghi albani,
ove sarai circondata da
molti incensi; la lira, il berecinzio flauto
e, non senza zampogna, di
vari canti un concerto allieteranno te.
Lì, con tenere vergini,
ogni giorno due volte i giovinetti lodi
al tuo nume alzeranno, col
nudo piede battendo, a mo’ dei Salii, il suolo.
Ora donna o fanciullo non
ho; reciproco amore io non m’ aspetto, né
bere a gara mi piace e di
fiori cingere il capo a primavera più.
Ma perché, Ligurino, una
rara lacrima a me scorre sul viso, allora?
E la lingua, di solito
sciolta, cede e si fa, con imbarazzo, muta?
Io nei sogni notturni ti
stringo, oppure tra l’ erbe, ecco, t’ inseguo là,
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Te per gramina Martii
Campi, te per aquas, dure, volubilis.
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dentro al Campo di Marte, o tra
l’ acque e i vortici in cui fuggi, ignorando me.
SISTEMA
ARCHILOCHEO PRIMO
76
Hor. Carm. IV 7
Diffugere nives, redeunt iam gramina campis
arboribusque comae;
mutat terra vices et decrescentia ripas
flumina praetereunt;
Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
ducere nuda choros.
Immortalia ne speres, monet annus et almum
quae rapit hora diem.
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas,
Interitura simul
pomifer autumnus fruges effuderit, et mox
bruma recurrit iners.
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae:
nos ubi decidimus
quo pater Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,
pulvis et umbra sumus.
Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae
tempora di superi?
Cuncta manus avidas fugient heredis, amico
quae dederis animo.
Cum semel occideris et de te splendida Minos
fecerit arbitria,
non, Torquate, genus, non te facundia, non te
restituet pietas:
infernis neque enim tenebris Diana pudicum
liberat Hippolytum,
nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro
vincula Pirithoo.
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Orazio Odi IV 7
Sciolte le nevi, nei campi ritornano l’ erbe e di chiome
s’ ornano gli alberi già;
muta aspetto la terra e di nuovo i fiumi, calando,
scorrono dentro le sponde;
osa, con le sorelle gemelle e le ninfe, la Grazia
nuda guidare la danza.
A non sperarti immortale ammoniscono l’ anno e le ore,
ladre del giorno vitale.
Ecco: la primavera, ammansito il gelo, scompare;
fugge a sua volta l’ estate;
alle messi ed ai frutti d’ autunno, priva di vita,
tosto la bruma succede;
Il susseguirsi perenne di celeri lune i celesti
danni ripara ma noi,
alla dimora d’ Enea, di Tullo e d’ Anco discesi,
polvere ed ombra saremo.
E chi sa se, in aggiunta ai trascorsi, giorni futuri
ci serberanno gli dei?
Ogni cosa donata col cuore all’ avide mani
si sottrarrà dell’ erede.
Al tuo tramonto, dopo che avrà Minosse un giudizio
splendido espresso di te,
non ti potrà, Torquato, la stirpe, né la facondia,
né la virtù restituire
alla vita, se Diana l’ onesto Ippolito lascia
dentro alle tenebre inferne
e se Teseo le catene del Lete a Piritoo, l’ amico
caro, spezzare non può.
SISTEMA
SAFFICO MINORE
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Hor. Carmen saeculare
Phoebe silvarumque potens Diana,
lucidum caeli decus, o colendi
semper et culti, date quae precamur
tempore sacro,
quo Sibyllini monuere versus
virgines lectas puerosque castos
dis, quibus septem placuere colles,
dicere carmen.
Alme Sol, curru nitido diem qui
promis et celas aliusque et idem
nasceris, possis nihil urbe Roma
visere maius.
Rite maturos aperire partus
lenis, Ilithya, tuere matres,
sive tu Lucina probas vocari
seu Genitalis:
diva, producas subolem patrumque
prosperes decreta super iugandis
feminis prolisque novae feraci
lege marita,
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certus undenos deciens per annos
orbis ut cantus referatque ludos
ter die claro totiensque grata
nocte frequentis.
Vosque veraces cecinisse, Parcae,
quod semel dictum est stabilisque rerum
terminus servet, bona iam peractis
iungite fata.
Fertilis frugum pecorisque Tellus
spicea donet Cererem corona;
nutriant fetus et aquae salubres
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Orazio Carmen saeculare
Febo e, delle selve signora, Diana,
su nel cielo glorie splendenti e cura
nostra, date ciò che chiediamo in questo
giorno sacrato
che, seguendo della Sibilla i versi,
casti bimbi vede ed elette vergini
agli dei cui piacquero i sette colli
porgere un carme.
Almo Sole, che col lucente carro
porti e celi il giorno ed uguale e nuovo
nasci, nulla possa vedere tu di
Roma maggiore.
Come vuole il rito, a suo tempo i parti
lieve schiudi, Ilitia e le madri assisti,
o che tu Lucina chiamata sia,
o Genitale:
diva, accresci tu la progenie, forza
alle nuove norme concedi e a queste
leggi che le nostre famiglie fanno
ricche di prole;
porti allora un arco di cento e dieci
anni canti e feste con molta folla,
tre giornate chiare con tre gradite
notti serene.
Parche, che veraci predite quanto,
detto, poi rimane per sempre punto
fermo, ai già compiuti, destini lieti
fate seguire.
Dia la terra, ricca di greggi e biade,
gran corona, tutta di spighe, a Cerere;
acque pure e brezze di Giove, lievi,
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et Iovis aurae.
Condito mitis placidusque telo
supplices audi pueros Apollo
siderum regina bicornis, audi
Luna, puellas.
Roma si vestrum est opus Iliaeque
litus Etruscum tenuere turmae,
iussa pars mutare Lares et urbem
sospite cursu,
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cui per ardentem sine fraude Troiam
castus Aeneas patriae superstes
liberum munivit iter, daturus
plura relictis:
di, probos mores docili iuventae,
di, senectuti placidae quietem,
Romulae genti date remque prolemque
et decus omne
Quaeque vos bobus veneratur albis
clarus Anchisae Venerisque sanguis,
impetret, bellante prior, iacentem
lenis in hostem.
Iam mari terraque manus potentis
Medus Albanasque timet securis;
iam Scythae responsa petunt, superbi
nuper et Indi.
Iam Fides et Pax et Honor Pudorque
priscus et negletta redire Virtus
audet apparetque beata pleno
Copia cornu.
Augur et fulgente decorus arcu
Phoebus acceptusque novem Camenis,
qui salutari levat arte fessos
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nutrano i frutti.
L’ armi, in pace e mite, riposte via,
dai ascolto a questi fanciulli, Apollo;
Luna, tu regina bicorne, ascolta
queste fanciulle.
Roma voi voleste: che gente d’ Ilio,
casa e patria addietro lasciasse in fuga,
poi sul lido etrusco sbarcasse infine
salva dal mare;
seppe il casto Enea tra le fiamme d’ Ilio
far passare indenni i compagni e fece
loro, più di quelli perduti, nuovi
beni ottenere.
Sani apprenda la gioventù costumi;
quiete date ai vecchi sereni, o dei,
date forza, prole ed onore a chi da
Romolo nacque:
Ciò di cui vi prega con bianchi buoi
possa lui, progenie di Anchise e Venere,
aspro in guerra ma, con il vinto, mite,
tutto ottenere.
Sulla terra e in mare le forze armate
già la Media teme e le scuri albane;
fieri Sciti e Indiani in attesa sono
della sentenza.
Fede, Pace, Onore e Pudore antico
fanno, con smarrite virtù, ritorno
mentre lieta mostra Abbondanza il suo
corno ricolmo.
Febo, il divo vate cui l’ arco splende
ed assieme a nove Camene siede,
lui che membra inferme con l’ arte sua
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corporis artus,
si Palatinas videt aequus aras,
remque Romanam Latiumque felix
alterum in lustrum meliusque semper
prorogat aevum.
Quaeque Aventinum tenet Algidumque,
quindecim Diana preces virorum
curat et votis puerorum amicas
applicat auris.
Haec Iovem sentire deosque cunctos
spem bonam certamque domum reporto,
doctus et Phoebi chorus et Dianae
dicere laudes.
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sa risanare,
calmo guarda del Palatino l’ are:
ecco che il destino di Roma, quando
volge il tempo dato, rinasce a vita
nuova e migliore.
Lei che regna sull’ Aventino, Diana,
e sull’ Algido, ai sacerdoti attenta,
ora ai bimbi, voti porgenti, amiche
presta le orecchie.
Questo coro, edotto a cantare a Febo
lodi e a Diana, sente per certo come
Giove, assieme a tutti gli dei celesti,
sia consenziente.
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Cat. Carm. LI
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
…
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina tegentur
lumina nocte.
…
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Catullo Carmi 51
Pari a un dio mi sembra e, per quanto possa,
agli stessi dei superiore, lui che
siede a te dinnanzi ed a più riprese
guarda ed ascolta
te che, dolce, ridi. Svenire allora
io mi sento – me sfortunato – infatti,
non appena, Lesbia, ti vedo, resto
[privo di voce,]
ché la lingua più non risponde; un fuoco
scorre per le membra, sottile; nasce
nelle orecchie stesse un ronzio e vela
gli occhi la notte.
…
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Hor. Carm. I 20
Vile potabis modicis Sabinum
Cantharis, Graeca quod ego ipse testa
conditum levi, datus in theatro
cum tibi plausus,
care Maecenas eques, ut paterni
fluminis ripae simul et iocosa
redderet laudes tibi Vaticani
montis imago.
Caecubum et prelo domitam Caleno
tu bibes uvam; mea nec Falernae
temperant vites neque Formiani
pocula colles.
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10
89
Orazio Odi I 20
In modeste coppe un Sabino andante
tu berrai che in anfora greca io stesso
chiusi quando fu nel teatro un tale
plauso elevato
in tua lode che, Mecenate caro,
dalla riva giunse del patrio fiume
ed, assieme, dal Vaticano colle
l’ eco giocosa.
Tu degusti Cecubo ed uve presse
da caleni torchi; ma i miei boccali
viti di Falerno o di Formia i colli
non colmeranno.
SISTEMA
ARCHILOCHEO SECONDO
92
Hor. Epod. 13
Horrida tempestas caelum contraxit et imbres
nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc silvae
Threicio Aquilone sonant; rapiamus, amici,
occasionem de die, dumque virent genua
et decet, obducta solvatur fronte senectus.
Tu vina Torquato move consule pressa meo;
cetera mitte loqui: deus haec fortasse benigna
reducet in sedem vice. Nunc et Achaemenio
perfundi nardo iuvat et fide Cyllenea
levare diris pectora sollecitudinibus,
nobilis ut grandi cecinit Centaurus alumno:
«Invicte mortalis dea nate puer Thetide,
te manet Assarci tellus quam frigida parvi
findunt Scamandri flumina, lubricus et Simois;
unde tibi reditum certo subtemine Parcae
rupere nec mater domum caerula te revehet.
Illic omne malum vino cantuque levato,
deformis aegrimoniae dulcibus alloquiis».
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93
Orazio Epodi 13
Una tempesta orrenda ricopre il cielo e le piogge
con neve si frammischiano; fa l’ Aquilone di Tracia
ora il mare e le selve mugghiare. Amici, dal giorno
cogliamo l’ occasione e, se salde ginocchia ed età
non ci dissuadono, lasci Vecchiezza la fronte aggrottata.
Quel vino che pigiarono quando io nacqui e Torquato
era console mesci: non dire altro, che forse
le cose si potranno poi, grazie ad un dio, sistemare.
Ora, cosparsi di nardo persiano, la lira cillenia
conviene che ci sciolga da cure affannose; così
come al suo grande alunno l’ illustre Centauro cantava:
«O invitto, che mortale da Teti divina sei nato,
ora d’ Assarco la terra t’ attende, il freddo torrente
Scamandro e il Simoenta, che scorre con rapido flusso.
Ha del ritorno la Parca troncato il filo e neppure
la madre tua cerulea la patria ridarti potrà.
D’ ogni affanno laggiù ti sollevino il vino ed il canto,
conforti alla tristezza che squallido il vivere fa».
SISTEMA
SENARIO GIAMBICO
96
Phaedr. Fabulae I
Prologus
Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet
et quod prudentis vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.
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97
Fedro Favole I
Prologo
Esopo fu l’ autore dei racconti che,
limati qui in senari, vi propongo adesso.
Il pregio del libretto è duplice: al sorriso
induce e dà consigli di prudente vita.
E chi la voce data agli alberi – in aggiunta
a quella delle bestie – contestasse, beh:
ricordi che son fiabe quelle che v’ offro qui!
98
Phaedr. Fabulae I
Lupus et Agnus
Ad rivum eundem Lupus et Agnus venerant
siti compulsi; superior stabat Lupus
longeque inferior Agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit.
«Cur» inquit «Turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?». Laniger contra timens:
«Qui possum, quaeso, facere, quod quereris, Lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor».
Repulsus ille veritatis viribus:
«Ante hos sex menses male» ait «dixisti mihi».
Respondit Agnus: «Equidem natus non eram».
«Pater Hercle tuus» ille inquit «male dixit mihi»,
atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula,
qui fictis causis innocentes opprimunt.
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99
Fedro Favole I
Il lupo e l’ agnello
La sete ad uno stesso fiume Lupo e Agnello
aveva spinti; il lupo stava a monte; ben
più giù l’ agnello ma, da smodata fame mosso,
ad ogni costo lite il gran bandito va
cercando: « L’ acqua hai tutta intorbidata a me
che bevo!»; ed il lanuto gli risponde: «Ma
non posso proprio, Lupo, farti questo, se
per primo bevi l’ acqua che poi giunge a me».
Respinto dalla forza delle cose: «Tu
sei mesi fa parlasti male assai di me».
«Ma se» l’agnello obbietta «Non ero ancora nato!».
«Allora fu tuo padre che sparlò di me»;
lo prese e con ingiusta morte lo sbranò.
Chiunque, con pretesti falsi, gli innocenti
opprima, questa fiaba intenda adatta a sé.
100
Cat. Carm. 4
Phaselus ille, quem videtis hospites,
ait fuisse navium celerrimus,
neque ullius natantis impetum trabis
nequisse praeterire, sive palmulis
opus foret volare sive linteo.
Et hoc negat minacis Adriatici
Negare litus insulasve Cycladas
Rhodumque nobilem horridamque Thraciam
Propontida trucemve Ponticum sinum
ubi iste post phaselus antea fuit
comata silva: nam Cytorio in iugo
loquente saepe sibilum edidit coma.
Amastri Pontica et Cytore buxifer,
tibi haec fuisse et esse cognitissima
ait phaselus: ultima ex origine
tuo stetisse dicit in cacumine,
tuo imbuisse palmulas in aequore,
et inde tot per inpotentia freta
erum tulisse, laeva sive dextera
vocaret aura, sive utrumque Iuppiter
simul secundus incidisset in pedem;
neque ulla vota litoralibus deis
sibi esse facta, cum veniret a mari
novissimo hunc ad usque limpidum lacum.
Sed haec prius fuere: nunc recondita
senet quiete seque dedicat tibi,
gemelle Castor et gemelle Castoris.
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101
Catullo Carmi 4
Amici, quel “fagiolo” che vedete là
d’ ogn’ altra nave dice d’ esser più veloce
e di poter produrre un tale spunto, a remi
oppure, quando occorre, con la vela, che
nessun natante, in questo, possa stargli al pari.
E afferma che non può negarlo il lido d’ Adria
ostile né le Cicladi o la chiara Rodi
o, fiera, la Propontide o, tremendo, il Ponto
Eusino, ov’ esso prima che battello fu
chiomata selva. Infatti, del Citorio in vetta,
emise spesso un gran stormir di fronde. Amastri
in Ponto e tu, Citorio, ricco assai di bossi,
a te ben note queste cose sono state
e son tuttora – dice quel “fagiolo” – e tu
lo sai che dalla prima origine esso ritto
in cima crebbe di tua vetta; i remi prima
immerse in acqua a te dinnanzi e quindi trasse
il suo padrone per diversi mari e fra
tempeste varie, sia che da babordo il vento
o da tribordo gli soffiasse, sia da poppa;
ed agli dei che verso i lidi danno scorta
a chi il naufragio teme mai soccorso chiese.
Eppur partì da un mare assai remoto e solo
in fine a questo chiaro lago giunse qui.
Ma queste son passate cose; adesso, schivo,
invecchia in pace e tutto si consacra a voi:
al tuo gemello Castore e, Polluce, a te.
INDICE
Pagina
Introduzione
Virgilio
Eneide
Georgiche
3
I
I
II
II
VI
VI
II
IV
Lucrezio
De rerum natura I
Catullo
Carmi
Tibullo
Elegie
I
3
Properzio
Elegie
I
17
Ovidio
I Fasti
II
Orazio
Odi
I
I
I
II
I
III
IV
IV
1 – 22
740 – 756
1 – 56
768 – 804
426 – 476
679 – 702
458 – 494
453 – 503
9
11
11
15
17
21
23
25
1 – 43
29
72
101
35
37
1 – 34
39
41
75 – 118
43
4
7
9
20
11
30
1
7
49
53
57
59
63
67
71
77
81
51
87
Car. saeculare
Catullo
Carmi
Orazio
Odi
Epodi
I
20
13
89
93
Fedro
Favole
I
I
Prologo
1 Il lupo e l’agnello
97
99
Catullo
Carmi
4
101