Esperienze e problemi - Fondazione Marco Biagi
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Esperienze e problemi - Fondazione Marco Biagi
Università di Roma "Tor Vergata" Alessandro Anastasi Esperienze e problemi nei Paesi dell'Europa Centro-orientale Seminario internazionale Lavoro autonomo e Diritto del lavoro: quali frontiere? Roma 12-13 febbraio 2008 L'idéologie n'est pas le reflet du vécu, c'est un projet d'agir sur lui G. Duby, Les Trois Ordres ou L'imaginaire féodal 1. Muoviamo da qualche considerazione preliminare. Nel contesto di questo Seminario internazionale, dedicato a "Lavoro autonomo e diritto del lavoro: quali frontiere?", mi è stato affidato il compito di tracciare il quadro normativo proprio dei Paesi dell'Europa orientale. Compito, questo, probabilmente impari alle mie forze, alle fonti reperibili e, certamente, non adeguato alle mie capacità; ma che, se affrontato esclusivamente in tale prospettiva, con ogni probabilità, si ridurrebbe in un'arida elencazione di testi legislativi (se, in quanto e dove esistenti), non credo potrebbe fornire una soddisfacente descrizione, un quadro unitario del presente/passato di questi Paesi, di una complessa realtà in via di profonda trasformazione, di un processo in buona sostanza uniforme, influenzato da una complessa fenomenologia che supera confini nazionali, omogeneizza situazioni difformi, prescinde da ogni frontiera e, comunque, si ispira ad una feroce logica neoliberista. Proprio alla luce di tale premessa, ho ritenuto opportuno tentare la descrizione della complessiva situazione sociale, del suo impatto sul sistema del diritto del lavoro e sulla stessa dinamica dei rapporti di lavoro subordinato. Nel momento in cui l'Unione europea si è allargata ai Paesi dell'Europa centroorientale, per quanto concerne in generale gli stessi meccanismi di protezione sociale (ma il diritto del lavoro, la disciplina del lavoro subordinato, le note differenziali che segnano il confine tra autonomia e subordinazione non appartengono per definizione ai sistemi di protezione sociale?) registrano un progressivo smantellamento, un devastante processo di erosione, una critica interna al sistema stesso. D’altra parte, dopo la caduta del muro di Berlino la stessa struttura del diritto del lavoro ha subito un radicale processo di trasformazione: in effetti, sotto l'influenza sovietica, pur con le varie caratterizzazioni nazionali, emergeva un sistema complessivo relativamente uniforme, che finiva con lo sfociare nella garanzia della piena occupazione, pur se con salari miserabili, ma tendenzialmente egualitari, garantendo ai lavoratori un livello minimo di retribuzione e di protezione socio-sanitaria. Certo, si trattava di un sistema che non può, e non deve, essere idealizzato in quanto fonte di povertà diffusa, penuria di beni, distorsione di prezzi, rilevanti disparità (specie tra la gran massa della popolazione e la nomenklatura) e, soprattutto, di una forte compressione delle libertà individuali e collettive. Non è un caso che, talora, specie in alcuni Paesi, si avvertano rigurgiti nostalgici; come non è accidentale che Banca Mondiale e FMI abbiano 2 raccomandato proprio a questi Paesi di ridurre l'offerta di servizi sociali, ritenuti troppo generosi. In effetti, in questa regione europea tutti i governi che, nella nuova realtà politica si sono succeduti, pur se di diversa ispirazione politica, hanno introdotto drasticamente significativi tagli della spesa sociale: così, per esempio, in Polonia una terapia choc, adottata da un governo di stampo conservatore, faceva svanire la dimensione sociale nella, e della, politica delle pensioni1 (ma successivamente tale maggioranza è stata penalizzata, mentre l'elettorato premiava i post-comunisti!); nella Repubblica ceca si procedeva analogamente con brutali liberalizzazione dei prezzi dei beni al consumo, un feroce controllo dei salari ed in genere dei livelli retributivi, l'adozione di politiche fiscali (ma anche retributive) fortemente restrittive. Analogamente in Ungheria agiva una coalizione, questa d'ispirazione liberalsocialista - con un pacchetto di riforme denominato Bokros (dal nome del ministro delle Finanze)- cui però seguiva un governo conservatore. D'altra parte appare significativo che, in numerosi Paesi, alla compressione delle spese sociali corrisponda un sensibile aumento del tasso di disoccupazione, un notevole decremento del potere di acquisto dei salari minimi che ha toccato vertici preoccupanti - come è il caso della Bulgaria - dove alla luce del nuovo secolo il potere d'acquisto del salario minimo si pone al 30% rispetto agli Anni novanta, mentre per le pensioni si parla, addirittura, di una caduta pari al 60%. 2. Nello stesso tempo, si diffonde un sempre più intenso processo di privatizzazione, che non risparmia settori di tradizionale competenza pubblica. Ormai molteplici servizi sociali vengono improvvisamente, quanto improvvidamente, deposti nelle mani dei privati2: salute, assistenza sociale, educazione, pensioni, lavoro. Sicché si può annotare che in questi Paesi due terzi dei servizi sociali sono ormai privatizzati, né il fenomeno appare destinato ad arrestarsi. Ma è a rischio soprattutto il sistema pensionistico dei lavoratori, la cui riforma3 costituisce un significativo esempio dell'imperante processo di privatizzazione in corso nell'ambito sociale e del vasto campo di sperimentazione avviato. Infatti, proprio mentre numerosi Paesi europei sono impegnati nel (e travagliati dal) dibattito sulle riforme dei sistemi pensionistici, i Paesi dell'Europa centro-orientale si sono avventurati nella adozione di misure molto più rapide e radicali con il ricorso alla 1 Uscinska G, Pension System in Poland After Reform, Rapporto presentato alla conferenza su La nouvelle gouvernance et la dimension sociale de l'élargissement, Osservatorio sociale europeo, Bruxelles, 2000. 2 Puntualmente il fenomeno veniva annotato dalla Commissione europea, già nel periodo della candidatura dei Paesi dell'Europa Centro-orientale: cfr. Commission européenne, The modernisation of Social Protection in Candidate Countries: New Opportunities and Challenges for the European Union, Rapporto di sintesi e rapporti nazionali, Bruxelles, 2002. 3 Illuminanti considerazioni in BIT, La réforme des pensions en Europe centrale et orientale, I, II, Budapest, 2002 3 formula magica dei "tre pilastri", elaborata dalle istituzioni finanziarie internazionali e fortemente sostenuta dalla stessa Banca mondiale. Un percorso riformista ben più estremo di quello degli altri Paesi dell'UE, mentre la diminuzione dell'ammontare della pensione-base, a carico del sistema pubblico, sembra essere fin troppo drastica. Valga a titolo di esempio il fatto che in Polonia essa non assicura ai pensionati una percentuale superiore al 28% del salario medio; d'altra parte, il suo carattere contributivo viene imposto con sempre maggior vigore anche in Ungheria e nella Repubblica ceca (e ci riferiamo a Paesi tra i più avanzati,a livello economico e sociale!), a tutto danno dei lavoratori, nel momento in cui maturano il diritto alla pensione4. Senza dire, ancora, che le scelte operate, ed i relativi meccanismi introdotti, sembrano soprattutto privilegiare - come è il caso di Estonia, Polonia, Ungheria5 - le grandi e potenti istituzioni bancarie, finanziarie ed assicurative multinazionali; sul presupposto di un sistema bancario e di mercati finanziari stabili: dati non ancora acquisiti in questi Paesi. E non solo in questi. Come se non bastasse, sempre su questo argomento, appare opportuno segnalare che il passaggio ai sistemi pensionistici privati è stato spesso condotto e sviluppato senza adottare gli indispensabili meccanismi di trasparenza e con esorbitanti costi complessivi: tant'è che numerosi fondi pensioni, creati in Ungheria e Polonia, dopo solo qualche anno di attività hanno denunciato perdite rilevanti6. Concludendo, sul punto: è dato rilevare profonde differenze tra i sistemi pensionistici introdotti nell'Europa centro-orientale e quelli degli altri Paesi europei, poiché i primi sembrano aver optato per un regime pubblico ridotto al minimo, utile solo a fini speculativi sui mercati finanziari. 3. Il contesto complessivo conferma l'attualità di alcune considerazioni sulla sempre più rilevante compressione della stessa azione e della politica sociali, alle quali si coniuga una progressiva riduzione dell'area del garantismo, non solo quale collaudato trend di politica legislativa, ma nei suoi stessi termini originari di qualificante perimetro di dibattito culturale e forte criterio di interpretazione; contestualmente insorgono figure contrattuali atipiche di ardua collocazione in un mercato del lavoro per sua parte anelastico ed ipostatizzato e si avverte una preoccupante caduta di consenso ed una sfiducia diffusa nei meccanismi della democrazia rappresentativa. In questo ideale perimetro problematico occorre quindi collocare la magmatica materia oggetto di osservazione, senza dimenticare che alcuni elementi restano basilari, anche nella nuova realtà, che si propone (o si configura): soprattutto che 4 5 6 Kessler F., Rapport sur les pensions, Bruxelles, 2002. Per il "caso Ungheria" si veda il Financial Times del 30 gennaio 1998; in genere cfr. Uscinska G, op. cit., passim BIT, La réforme des pensions en Europe centrale et orientale, cit. 4 "democrazia" - il necessario termine di riferimento con il quale occorre misurarsi e parametro al quale ogni dibattito deve rapportarsi - ha significato e continua a significare governo di tutti o dei molti o dei più contro il governo di uno o dei pochi o dei meno e che il relativo concetto si intorbidisce quando si scambia il governo del popolo con il governo per il popolo7. Se tali sono le linee-guida, nello stesso tempo, non si deve dimenticare - qualunque sia l'atmosfera che ci circonda o ci condiziona che "le droit du travail si imparfait soit-il, est un élément essentiel de la démocratie" e, inoltre, che "c'est dans le sens d'un renforcement des droits démocratiques hors et dans l'entreprise que se fera la sortie de la crise"8. Avviato un ideale e moderno processo di rafforzamento della democrazia9, in senso sostanziale, la conquista di nuovi spazi di libertà, di efficaci strumenti di controllo della logica capitalista costituiscono evidenti fattori di progresso verso tale obiettivo; non si tratta, logicamente, di rispolverare idoli infranti o polverose ideologie, centrati sull'opportunità di abolire quel diritto di proprietà privata (anche dei mezzi di produzione) che sarebbe l'antitesi logica della natura sociale delle forze produttive e del lavoro. Né si intendono azzardare incerti e vacillanti slogan di gusto giacobino o vetero-comunista, a suo tempo sintetizzati in formule di facile effetto demagogico10; tuttavia in questo ideale processo di rafforzamento della democrazia - che da una rivalutazione politica e culturale della funzione del diritto del lavoro non può prescindere - se da un lato restano attuali il rifiuto e la critica della assolutizzazione marxista del lavoro come attività economica11, dall'altro la libertà economica non può ridursi in una somma algebrica di altre libertà in senso formale riconosciute ai cittadini o esaurirsi nell'astratto esercizio del diritto di proprietà e delle libertà contrattuali. Che, ben s'intende, devono comunque essere garantiti. Da segnalare però che la stessa struttura del "diritto di libertà economica", con ogni probabilità chiede un'accurata rilettura, per scioglierne quelle incrostazioni che, appesantendola, l'hanno fatta precipitare nell'area delle libertà "borghesi" per eccellenza, dissolvendo quei referenti giusnaturalistici che, almeno alle origini, avevano costituito uno dei suoi connotati dominanti. Forse, in via di principio, è il caso di ricordare che, se la dottrina liberista si oppone all'intervento dello Stato 7 N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un'alternativa, Torino 1976, 72 ss. Così, quasi profeticamente, G. Lyon-Caen, La crise actuelle du droit du travail cit., 271. 9 Che, almeno a nostro avviso, non si può ridurre - in ciò concordando con l’opinione di Soulier (Id., La crise et le droit, in Léviathan, 1979, 2, 9) - nel "sens actuel des transformations du droit de la societé libérale". 10 Appartengono esclusivamente agli scaffali della Storia le enfatiche dichiarazioni quali "l'attività di una società può benissimo svilupparsi senza la proprietà privata" (J. Froelich, Uerber den Menschen und seine Verhältnisse, Berlin, 1979, 219); o le consonanti tesi di Hess , a cui avviso, "la miseria sociale ha la sua radice nell'eredità dei beni e nel predominio dell'aristocrazia del denaro" (Id., Die heilige Geschichte des Mensscheit von einem Jünger Spinosa, Stuttgart 1837, 308) o, ancora di Weltling, per cui "ad uguale ripartizione di lavoro deve corrispondere uguale ripartizione di beni" (Id., Die Menscheit wie sie ist und wie sie sein soll, Paris 1838). 11 W. Scheler, Arbeit und Ethik, in Frühe Schriften. Gesammelte Werke, I, Bern-München 1971, 169. 8 5 nell'economia12, proprio ad esso spetta il compito primario di assicurare il funzionamento e lo sviluppo del sistema economico con le ragioni, e le esigenze, della giustizia sociale e nel rispetto dei diritti della persona13. Parallelamente, la stessa legge è chiamata a perseguire un "piano economico", che si traduce in un più intenso intervento legislativo, in un maggiore accentramento nella stessa fase di produzione sociale della norma. Sicché il diritto si pone (anche) quale strumento idoneo ad intervenire sul/nel processo economico, non limitandosi a svolgere le funzioni di mero garante di un processo economico naturalmente regolato14: e lo Stato può essere considerato un peso, una bardatura estranea solo in forza di una definizione tanto approssimativa, quanto superficiale e grossolana. Non ogni fenomeno di una storia recente, insomma, può essere interpretato sotto l'effetto delle lenti deformanti di certi, pur gravi, avvenimenti. Il cosiddetto sistema del "socialismo reale", per la sua parte, ha mostrato i propri limiti e celebrato il suo fallimento non solo per una manifesta incapacità di soddisfare una legittima domanda di beni, servizi e prodotti, largamente diversificata ed instabile, come vogliono le caratteristiche di una moderna economia di mercato; a sancirne l'ineluttabile fine è stato, piuttosto, il doloroso, e sofferto, tributo imposto sul piano della compressione di ogni forma di democrazia politica, di restrizione delle libertà individuali e collettive, di violenza sui più elementari diritti della persona. Dunque, se è vero che il comunismo è fallito e che il capitalismo ha trionfato, non per questo è altrettanto vero che la sconfitta del cosiddetto socialismo reale "lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica"15 e che l'attuale azione dei governi democratici debba svolgersi nel dispregio dei bisogni collettivi, sotto il segno di una democrazia formale, in quanto non democrazia di tutti i cittadini, ma espressione del gruppo sociale di una "maggioranza appagata"16. In una realtà nuova, che si affida ai valori della democrazia e della libertà17 in senso 12 "Liberisti sono coloro i quali, ragionando, cercano di precisare le ragioni e i limiti dell'intervento dello Stato e degli altri numerosi e variabilissimi enti pubblici nelle cose economiche" (L. Einaudi, Lo scrittoio del Presidente, Torino 1956, 8 s.) 13 Anzi, la cosiddetta "teoria degli effetti esterni", come in particolare proposta da Wolf, ha svolto un ruolo significativo per la legittimazione - all'interno della stessa dottrina liberale - dell'intervento statale (cfr. Id., A Theory of Non-Market Failures: Framework for Implementation Analysis, in The Journal of Law and Economics, 1919 e W. J. Baumol, Welfare Economics and Thery of the State, Cambridge 1967). 14 Ricaviamo l'indicazione metodologica, sempre valida, da T. Ascarelli, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, Milano 1959, 70 ss.. 15 Il monito proviene da una Cattedra alla quale non possono certo essere addebitati estremismi di stampo sinistroide (l'espressione, infatti, è di Giovanni Paolo II, Enciclica "Centesimus Annus", par. 35), che peraltro denuncia i rischi di una "ideologia radicale di tipo capitalistico", che fideisticamente affida la soluzione di innumerevoli e persistenti problemi sociali "al libero sviluppo delle forze di mercato" (Ibidem, par. 42). 16 L'espressione, ed il concetto, sono di J. K. Galbraith, La cultura dell'appagamento, Milano 1993. 17 Alle origini dell'ideologia liberale la società, lo Stato (elementi integranti di una presunta libertà naturale) si propongono come strumenti di libertà giuridica, non quali strumenti di dispotismo (De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo cit., 31). 6 sostanziale, non può essere consentita una indiscriminata aggressione del sociale, il più turpe peggioramento delle condizioni di lavoro delle classi meno abbienti (e più sfruttate), il taglio indiscriminato della spesa sociale, mentre per converso non si interviene sulla spesa pubblica - specie per quanto concerne talune funzioni privilegiate come la difesa e la spesa per gli armamenti e certe discutibili operazioni di salvataggio finanziario - e si progettano sensibili riduzioni delle tasse a favore dei più ricchi, spesso legittimandole con spudorate affermazioni, per cui tali forme di intervento sarebbero necessarie per aiutare i poveri18. Insomma, un sistema che, ove lasciato agire senza correttivi, non è certo in grado di produrre apprezzabili risultati sul piano sociale ed appare funzionalmente più idoneo a produrre capital anziché labor saving, favorendo la formazione di una vera e propria "sottoclasse funzionale"19. 4. Per non dilungarci oltre misura sul tema, e correre anche il rischio di sconfinare oltre il consentito, sono possibili soltanto alcuni ulteriori, telegrafici rilievi. Passando, infatti, a svolgere alcune riflessioni sui rapporti tra il fenomeno della globalizzazione e la complessa situazione della tutela dei “diritti sociali” nei Paesi in via di transizione20, ci si imbatte nella esigenza di richiamare alcune coordinate logico-storiche e taluni dati di un passato/presente, a loro volta, presupposto del presente/futuro. Forse, occorre muovere da un dato preliminare: all’inizio degli Anni ottanta, proprio alla vigilia dei grandi mutamenti in fieri, era ancora possibile riferirsi ad una Europa dell’Est, quale elemento organico ed unitario? Dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, quella che veniva, comunemente, definita come “l’Europa dell’Est”, in effetti, indicava una realtà geo-politica individuabile con una qualche certezza, in quanto riferibile agli Stati al tempo comunemente definiti di “democrazia popolare”21; solo che tale unità, proprio nel corso degli Anni ottanta, denunciava limiti politici sostanziali. Per lungo tempo compresse ed artificiosamente annullate le diversità nazionali22 dall’onnipresenza dell’impero sovietico, dal sipario di una 18 Per tutti cfr. Gilder, Wealth and Powerty, New York, 1981 (non vidi: cit. da A. W. Phillips, The Politics of Rich and Poor: Wealth and the American lectorate in the Reagan Aftermath, New York 1990). 19 Cfr. Galbraith, La cultura dell'appagamento cit., 37 ss e 58. 20 Definiti, talora, con formula non proprio felice, anche come “nuove democrazie”. 21 Che secondo l’utopistica definizione di Andrej Jdanov (come riportata da H. Bogdan, Storia dei Paesi dell’Est, Torino 1991, 1, al quale comunque rimandiamo per un esauriente affresco storico, utile per meglio comprendere la galassia di questa “altra Europa”) sarebbero quegli Stati nei quali “il potere appartiene al popolo, l’industria pesante, i trasporti e le banche allo Stato, e la forza dirigente è costituita dal blocco compatto delle classi lavoratrici della popolazione con, alla testa, quella operaia”. 22 Sottolinea l’importanza ed il significato dei sentimenti nazionali - curando un’attenta ricostruzione delle relative questioni - M. Waldenberg, Le questioni nazionali nell’Europa Centro-orientale, (tr. it. di M. Olszańska - S. 7 totalizzante ideologia, col senno di poi siamo in grado di cogliere, in tale contesto solo apparentemente organico ed unitario molteplici tensioni, lacerazioni, differenze, compromessi, antitesi, prima di giungere ad una sorta di unificante mediazione finale. Anche nei Paesi del cosiddetto “socialismo reale”, entro i limiti imposti dai diversi margini di elasticità delle strutture giuridiche al tempo esistenti ed in ragione dell’incidenza di differenti tradizioni storico-culturali, avanzavano impetuosamente nuove e pressanti domande di riconoscimento e tutela dei diritti sociali fondamentali (a partire dal “diritto di sciopero), emergevano spinte provenienti dai lavoratori, in quanto singoli, e dalle stesse organizzazioni operaie23. Il tutto, ovviamente, in maniera e misura non omogenea nei diversi sistemi, al cui interno emergevano anche istanze di contenuto più squisitamente politico. Mentre in alcuni Stati, che pur non avevano vissuto l’esperienza (e visto agire i meccanismi) del Welfare, rivendicazioni di tipo originariamente quantitativo si trasformavano in proiezioni di genere qualitativo24. In una parola, la realtà del produttivismo e dell’industrialismo si andava intimamente intrecciando con la componente collettivista25 posta alla base del cosiddetto “ordine legale” proprio dei Paesi socialisti26, soprattutto nel settore che più direttamente ci interessa27, preoccupandosi di regolamentare con varia e diversa gradualità nazionale, particolarmente l’area dei poteri di organizzazione e di attività sindacali, il ruolo di rappresentanza e di tutela degli interessi individuali e collettivi, i principi essenziali della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese28. Esposito) Milano 1994; nell’edizione italiana il lavoro presenta alcune varianti rispetto alla versione originale Id., Kwestie Narodowe w Europie Środkowo-Wschodniej. Dzieje. Idee, Warszawa 1992. 23 Esemplare, in materia, il caso della Polonia, Paese cui può essere accreditato il “primato della ribellione sociale contro il regime comunista” (F. Fejtö (con la collaborazione di E. Kulesza-Mietkowski), La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989, Milano 1994, 285), con i suoi antichi contrasti interni, le sue lunghe lotte, l’emergere di una opposizione sindacale, ineluttabilmente destinata a trasformarsi in opposizione politica. Un fenomeno, questo, in sé emblematico, in quanto esso presuppone una realtà sociale, politica, giuridica da sempre atipica, che già rappresentava un universo specifico nel blocco relativamente monolitico dei sistemi giuspolitici oggetto di queste riflessioni. 24 Cfr. F. Naschold, Die Politik von Staat und Tarifparteien zur Technologie-entwiklung in der Bdr, Berlin 1982. 25 R. Strasser, Die Zukunft des Fortschritts, Bonn 1981. 26 Un classico studio sui molteplici profili della “legalità socialista” in D. Kerimov, Staatslehre und Revisionismus, Berlin 1959. 27 Storicamente interessante rileggere A. Weltner, Réglementation juridique de la démocratie d’usine dans les pays socialistes, in Rivista int. dir. comp. lav., 1978, 159 ss.. 28 Qualche riferimento in A. Anastasi, Note sulla autogestione in Polonia, in Rivista it. dir. lav., 1983, I, 3 ss.. Per una prospettiva, anch’essa ormai solo storicamente valida, cfr. anche Anastasi (ed.), Modelli di democrazia industriale e sindacale, cit. (in particolare M. Kalenskà, La participation des travailleurs à la gestion de l’entreprise en Tchecoslovaquie, ivi, 57; V. Brajic , The law tendencies in industrial democracy and unions labour relations and worker’s self-management, ivi, 121 ss.; M. Matey, L’autogestion des travailleurs en Pologne, ivi, 199 ss.; S. Ghimpu, Institution et réglementation dans le droit de la République Socialiste de Roumanie concernant la participation des ouvriers à la gestion de l’entreprise, ivi, 317 ss.; L. Nagy, La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa in Ungheria, ivi, 519 ss.; S. A. Ivanov – V. N. Koudriatsev, De la participation des travailleurs à la gestion des entreprises: nouvelle loi et sa vocation sociale, ivi, 55 ss.). 8 5. Si muova, inoltre, da un’ulteriore considerazione: l’apparato normativo ed extra-normativo dei Paesi dell’Europa Centro-orientale, esprimeva fin dai tempi del ”blocco sovietico” una variegata tipologia del diritto sindacale29, quale sistema di norme legali, cornice dell’attività dei gruppi organizzati, peraltro rilevabile, e comprensibile, anche dall’osservatorio di un giurista euro-occidentale30. Variamente improntato al principio della collaborazione ed all’esigenza di una forzosa “pace sociale”31, quel modello non sembrava tuttavia escludere del tutto, ed ovunque, la presenza e l’esistenza del “conflitto”. In effetti, il momento del conflitto era originariamente presente, certo con differenti sfumature, e con diverso rilievo istituzionale, anche nei Paesi a proprietà collettiva32: strutturalmente connesso, peraltro, ad un sistema di produzione e di organizzazione del lavoro che si richiamava a modelli gerarchici, ma anche conseguenza ed espressione del (e nel) conflitto con l’autorità, che nell’impresa 33 trovava origine ed occasione, pur potendosi risolvere in conflitto organizzato e non organizzato34. Per esser chiari fino in fondo: anche un’ipotetica assenza di scioperi, non escludeva, come non esclude, tuttavia, l’effettiva presenza di un vero e proprio “conflitto industriale”35, oltre ad una forte domanda di tutela dei diritti sociali dei lavoratori, fortemente compressi in quegli schemi sociali e non adeguatamente garantiti dai sindacati, ridotti sul piano funzionale a meri organismi burocratici ed amministrativi, oltre che in termini politici ad anelastico volano per lo sviluppo di (un improbabile) consenso sociale. In questo ambito, è da considerare un ulteriore elemento concettuale. Il meccanismo monopolistico di potere economico-politico proprio dei Paesi del cosiddetto socialismo reale, costituiva sotto molti aspetti la fonte primaria del sistema uniforme dei rapporti di lavoro, anzi dello stesso sistema sindacale36, al cui interno i sindacati si proponevano, nella logica dei fatti, come parte organica dell’establishment dell’apparato di potere. 29 Un’analisi, centrata sul “caso Polonia”, trovasi in A. Anastasi, Sindacato, tripartitismo, concertazione sociale e riforme economiche: “il caso Polonia”, in Dir.Lav., 1997, 4, 1, 309 ss. 30 Al tempo, si annotava come gli istituti degli ordinamenti socialisti siano “facilmente leggibili e molto più decifrabili di quanto non siano istituti di ordinamento a Common Law” (così M. S. Giannini, Prefazione a V. Knapp, La scienza del diritto, Bari 1978, XXXIII). 31 Cfr. A. Świątkowski, Social Peace, Obligation During Transition Period from Planned to Market Economy, in Yearbook of Polish Labour Law and Social Policy, 1933, 4, 111 ss.. 32 L’annotazione si trovava già in Giugni, Diritto sindacale, Bari 1980, 12. 33 R. Dahrendorf, Classi e conflitti di classe, Bari 1974, passim. 34 Secondo la felice classificazione proposta da R. Hyman, Strikes, London 1972, 52 ss.. 35 Chiaramente G. Ingham, Strikes and Industrial Conflict, London 1974, 25. 36 M. Seweryński, Les particularités du syndicalisme des pays de l’Est et les tendances récentes dans ce domaine, in Revue internationale de droit comparé, 1990, 1, 115 ss.. 9 Anche se tutto è successo tanto velocemente da farci quasi dimenticare che lo Stato comunista barricato nella sua fortezza-prigione, un tempo, è effettivamente esistito37, esso rispondeva ad una propria ferrea logica interna, affermava rigide regole, si ispirava a principi inderogabili: uno dei quali voleva che i sindacati fossero una “scuola di comunismo”; sottomessi al potere ideologico-politico del partito comunista, essi venivano considerati come una specifica ”cinghia di trasmissione”. Pur mantenendo parte delle proprie funzioni tradizionali, il loro principale compito politico consisteva, infatti, nel trasmettere ai lavoratori le direttive, i programmi, le ideologie del partito e, nello stesso tempo, al partito informazioni riguardanti lo stato d’animo e le richieste dei lavoratori. L’innegabile sottomissione dei sindacati al partito non aveva tuttavia vera e propria natura giuridico-istituzionale. Essa era, in fatto, realizzata sia per il tramite di vari meccanismi informali, che garantivano l’affidamento delle funzioni dirigenziali nell’ambito sindacale a funzionari del partito, sia mediante una centralizzazione (effettuata dalla cosiddetta nomenklatura: dirigenti del partito e dell’apparato burocratico) del processo decisionale in materia economica e di politica economica. In particolare per quel che riguardava le condizioni, i processi e le relazioni di lavoro. Nel “socialismo reale” le funzioni dei sindacati, in effetti, eccedevano l’àmbito tradizionale dell’attività sindacale, sconfinando in attività di natura squisitamente politica, amministrativa, talora anche, gestionale e comunque nell’organizzazione del consenso sociale. Come noto, infatti, le funzioni loro assegnate dalla legge, più che essere di rappresentanza e tutela (spesso, peraltro, solo formali) degli interessi dei lavoratori, si traducevano anche in compiti cosiddetti produttivi (organizzativi, economici, sociali, partecipativi). Specificamente, al sindacato spettava di mobilitare i lavoratori per la compiuta realizzazione dei piani produttivi, per l’incremento della produttività, per stimolare l’emulazione nel lavoro ed eseguire i programmi economici elaborati dal governo. Un’altra funzione dei sindacati, sempre secondo l’ideologia comunista, si risolveva in una sorta di controllo sociale dell’apparato amministrativo dello Stato e nella partecipazione alla sua attività organizzativa. La tendenza, esistente specie nel periodo dello stalinismo, di affidare ai sindacati compiti specifici dell’apparato dello Stato, ha determinato almeno in alcune esperienze nazionali, tra l’altro, l'attribuzione di un ruolo importante al Consiglio Centrale dei Sindacati nel campo dei conflitti individuali di lavoro, introducendo così anche una competenza di natura giudiziaria, oltre a funzioni amministrative, specie in materia ispettiva. 37 Così, felicemente, de Bresson, in Le Monde, 9 novembre 1990. 10 Questo fenomeno della cosiddetta amministrazione affidata alle organizzazioni sociali, che in teoria doveva servire all’aumento del grado di ”socializzazione” dello Stato, in pratica ha comportato la burocratizzazione dell’apparato sindacale e l’allontanamento dei sindacati dal loro ruolo tipico e principale di tutela degli interessi dei lavoratori, confermando quella linea di tendenza che ha interpretato la “rivoluzione” comunista come una “rivoluzione” deformata sin dal suo concepimento, poiché la dittatura del proletariato si era trasformata a poco a poco nella dittatura di un gruppo oligarchico ristretto ed ostile al proletariato stesso38. L’affidamento ai sindacati di tali funzioni ed una forma di collaborazione, imposta, con l’apparato politico veniva sfruttata dall’ideologia comunista come dimostrazione della partecipazione dei sindacati al governo del paese ed in seguito è servito proprio ad elaborare e sostenere la teoria dell’assenza di un modello conflittuale nel sistema socialista. Mentre, per altro verso, l’inesistenza di un sistema autonomo di articolazione degli interessi dei singoli gruppi sociali, dovuta alla mancanza di sindacati che rappresentassero realmente gli interessi dei lavoratori, provocava il rischio di un permanente confronto degli interessi sociali contraddittori, trasformando di conseguenza i conflitti di carattere economico in grandi conflitti sociali e non di rado politici, tout court. Resta, ancora, da considerare che in genere la centralizzazione delle strutture sindacali era consonante con il modello centralistico dell’economia socialista. Tale caratteristica propria del sistema del socialismo reale, specie in Polonia, venne fortemente contestata e, quindi, duramente combattuta dai lavoratori durante gli ormai famosi eventi dell’agosto 1980, intuitivamente consapevoli dell’insormontabile ed insolubile dilemma che “lo sviluppo economico non poteva ottenersi che al prezzo della stabilità politica, mentre quest’ultima poteva mantenersi solo al prezzo di un disastro economico”39. Un dibattito, un confronto avviati che, dilatando i confini dell’area delle relazioni industriali, hanno dimostrato come le “idee” abbiano una capacità propulsiva loro propria e non possano essere ridotte, come voleva una visione riduttivamente marxiana, a mera sovrastruttura delle condizioni produttive. Un dibattito, peraltro, al tempo, dolente e sofferto, che ha visto la classe operaia, specie in Polonia, riaffermare costantemente una propria lucida coscienza storico-politica40, con uno sforzo di auto-definizione in un contesto globale che sembrava non ammettere ampi margini di azione politica e di conflitto sociale. 38 P. Uhl, Le Socialisme Emprisonné, Paris 1980. Z. Brzeziński, The Great Failure, New York 1989 (ed. it. Il grande fallimento. Ascesa e caduta del comunismo nel XX secolo, Milano 1989). 40 A. Gieysztor, Una società in ebollizione, in Mondoperaio,1980, 11, 48. 39 11 6. Crollato il marxismo, i Paesi in via di transizione, pur con una “memoria ritrovata”41 vivono un periodo marcato da forti sussulti sociali, da una notevole instabilità politica, da un profondo disagio collettivo, da una dilagante economia sommersa: ma segnato soprattutto da un'imponente crisi industriale, da fenomeni di recessione e da un mal coniugato imperialismo economico, ai quali continui sforzi, numerosi tentativi, diversi esperimenti non sono ancora riusciti a mettere un freno, a provocare una definitiva e generale inversione di tendenza: anche se, sul piano economico, ed almeno in alcune realtà nazionali, si colgono interessanti e significativi segnali di ripresa. Su un turbolento sfondo di politiche restrittive, di riduzione della produzione industriale e di una sua vera e propria caduta di immagine internazionale, di complessivo deterioramento della situazione finanziaria nazionale, di una sorta di "corsa al ribasso" delle riserve finanziarie, di sensibile calo dell'occupazione e di imponente aumento delle importazioni; in genere i redditi delle famiglie e lo stesso potere d'acquisto dei salari sono sensibilmente diminuiti. Mentre, per altro verso, si registrano una forte compressione della liquidità e mutamenti negativi nella bilancia reale dei pagamenti esteri, oltre ad un elevato tasso di inflazione: certo, solide politiche di stabilizzazione hanno provocato una significativa riduzione del fenomeno inflattivo, che tuttavia, in alcuni Paesi ed in taluni momenti, ha raggiunto persino un tasso del 66%. In effetti le più rilevanti difficoltà del processo di trasformazione economicosociale dei paesi postcomunisti discendono da molteplici fattori. Ma di non poco rilievo è il dato che, mentre i mutamenti strutturali hanno investito il sistema economico, sociale e politico, nella realtà delle cose si è determinata una sorta di frattura dialettica, anche perché sono intervenute notevoli resistenze culturali e di costume alla applicazione di modelli predefiniti, non esistendo specifici precedenti nazionali ai quali richiamarsi. Da considerare, inoltre, l’influenza decisiva di quel sistema economico internazionale, che - nell’avviare il processo di internazionalizzare dell'economia e, concretamente, favorendo esplosioni endemiche di vero e proprio capitalismo42 sfrenato - ha contribuito ad alimentare la crisi di quella che potrebbe essere definita una specie di “cintura sicurezza” sociale, alimentando il disagio e la protesta sociali, 41 Ricorda J. Le Goff, Prefazione a AA.VV., A Est, la memoria ritrovata (tr. it di E. Monasteri – I. Negri), Torino 1991, XIV che “Non si ha popolo, nazione, identità, senza memoria, non si ha democrazia senza memoria libera” (tit. or. À l’Est la mémoire retrovée, Paris 1990). 42 In questa logica si iscrivono i timori di quanti vedendo profilarsi una specie di imperialismo, espressione di un certo modello economico, guardano con profonde riserve alla globalizzazione, della quale peraltro non si riesce nemmeno a dare un’univoca definizione: per tutti cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano 1988; P. Barcellona, Dallo Stato sociale allo Stato immaginario, Torino 1994; D. Zolo, Cosmopolis, Milano 1995; G. Soros, La minaccia capitalistica, Milano 1997 e Id., La crisi del capitalismo lobale: la società aperta in pericolo, Milano 1999. 12 provocando vere e proprie discrasie nelle varie fasi, e nei diversi momenti, del processo globale di riforma e trasformazione43. Mentre il passaggio da una economia centralizzata ad un'economia di mercato44 rischia di provocare notevoli difficoltà in materia di dialogo sociale e di contrattazione collettiva45. 7. In questo scenario di magmatica definizione, delimitato da un orizzonte di profonda incertezza, aggravato dal processo di globalizzazione dell’economia e di integrazione del mercato dei capitali46 si colloca il generale cambiamento del sistema politico e socio-economico nei Paesi in via di transizione, al cui interno la società civile si pone quale obiettivo primario - tanto essenziale e politicamente qualificato, quanto difficilmente perseguibile - di ottenere la massimizzazione del benessere individuale e collettivo47, secondo schemi e modelli "occidentali": anche al di fuori, anzi al di là, delle stesse regole di un Welfare State avanzato48, del quale, d’altra parte, occorre verificare la compatibilità con le norme economiche internazionali49 e con gli assetti politici definiti. Ovunque, ed in termini generali, i cambiamenti sistemici, d'altra parte, si sono sviluppati soprattutto ed almeno su alcuni significativi livelli: la sostituzione di un sistema a partito unico con uno democratico multipartitico, il passaggio da un'economia dirigistica ad un modello di mercato in una condizione di pregnante deregulation, l’istituzione di un progetto (di apparato) di relazioni industriali 43 Si avverte la necessità di individuare un solido apparato teorico in grado di comprendere, in termini generali, e di spiegare i nuovi processi che Stato e sistema giuridico stanno vivendo (in materia cfr. E. Resta (ed.), Diritto e trasformazione sociale, Roma-Bari 1978, specie la parte relativa al “Diritto e conflitto sociale”). 44 In tempi di esaltazione delle virtù spontanee del mercato e di concitate esortazioni a liberare lo sviluppo delle società capitaliste da ogni vincolo, è stato teorizzato che il capitalismo, come “sistema-mondo”, sia un sistema “storico”, quindi verosimilmente destinato ad essere sostituito da qualche altra, diversa forma (I. Wallerstein, Il capitalismo storico, Torino 1985). 45 Significative, sempre in relazione alla Polonia, le annotazioni di M. Pliszkiewicz, Privatisation et droit social en Pologne, in Revue int. dr. econ., 3, 436, 1992. 46 In merito, per tutti, M. Goldstein – M. Mussa, The Integration of World Capital Markets, IMF Workin Paper, 93/95, 1993 e M. Obstfeld, International Capital Mobilityin the 1990s, in P. Kenen (ed.), Understanding Interdependence: The Macroeconomics of the Open Economy, New York. 47 In realtà, come annota R. Dahrendorf, Lebenschancen. Auflante zur socialen und politischen Theorie, Frankfurt a. M. 1979, (tr.it. di P. Micchia, La libertà che cambia, Roma-Bari 1981, 35) la massimizzazione della funzione del benessere è "una definizione del progresso che è insieme sociale, nel suo carattere, e compatibile con una definizione precisa, anzi con una misurazione. Per la maggior parte degli obiettivi pratici, il benessere é certamente la definizione più convincente di ciò che è in gioco nei progressi sociali. Ma sono obiettivi pratici e non teorici" (il neretto è nostro). 48 Sulla “Welfare function”, nella specifica dimensione della Polonia contemporanea, cfr. M. Seweryński, Status and Functions of Trade Unions in Poland, in AA.VV., Nuovi modelli di diritto sindacale nell’Europa centrale, cit., 161 ss.. 49 Lo stato del relativo dibattito in R. Gilpin, Welfare State e norme economiche internazionali, in M. Ferrera (ed.), Stato sociale e mercato mondiale, Torino 1993, 25 ss. e R. Rose, Il welfare state in un’economia internazionale aperta, ivi, 127 ss.. 13 caratterizzato da un reale pluralismo sindacale50, il diffondersi di (non)meccanismi di relazioni industriali, ispirati ad una durissima logica protocapitalista. In questo ambito appare significativa la mitizzazione dell'economia di mercato51, che ha assunto all'interno della società e spesso nella stessa coscienza collettiva un ruolo analogo a quello svolto in altri tempi dalla pianificazione centralizzata. Il tutto, in fondo, con una adesione di tipo emozionale, assolutamente acritica, che peraltro non tiene nel debito conto che all'economia di mercato deve associarsi un quadro globale di diritti economici e sociali, un corretto modello di democrazia industriale, un organico apparato di democrazia sindacale. In assenza di tali elementi non è del tutto improprio prevedere, e temere, che nei paesi postcomunisti possa consolidarsi un ceto proprietario dai connotati simili a certa imprenditoria ottocentesca ed imporsi una forma di capitalismo selvaggio, forse mai effettivamente esistito se non nella previsione marxista52. La fideistica fiducia nel mercato, nei Paesi dell’Europa Centro-orientale, si può giustificare, solo in quanto concorrente presupposto dell’eliminazione della nomenklatura; ma quanto distrugge il passato non basta per costruire il futuro, mentre occorre riflettere sulla possibile formazione di nuovi movimenti sociali, che trasformino in istituzioni democratiche una istintiva resistenza al totalitarismo53. A ciò aggiungasi che, una volta sistemata la struttura istituzionale, la democrazia capitalistica54 funziona solo a condizione che gli interessi siano subordinati ai bisogni di chi controlla le decisioni sugli investimenti. Quindi, è solo una questione di tempo, in quanto la cultura operaia, vista e considerata la distribuzione del potere, è destinata ad esaurirsi insieme con le istituzioni ed organizzazioni che la sostengono: sicché indebolite o eliminate le organizzazioni popolari, gli individui isolati divengono incapaci di esprimere una reale e significativa partecipazione al sistema politico, che nel tempo diverrà un fatto meramente simbolico55. 50 In generale, sulla formazione del “nuovo” movimento sindacale nei paesi postcomunisti, utile la consultazione di M. Seweryński, Związki zawodowe w Krajach postkomunistycznych, in AA.VV., Syndykalizm Współczesny i jego Przyszłość, cit., 163 ss.. 51 Sui confini e sugli intrecci tra regolazione macro-politica e regolazione micro-sociale dell’economia cfr. M. Regini, Confini mobili. La costruzione dell’economia fra politica e società, Bologna 1991. 52 J. Staniszkis, Ontologia socjalizmu, Warszawa 1989. 53 A. Touraine, Critica della modernità, Milano 1993, 401. 54 Per la tipologia e le modalità di funzionamento delle interrelazioni tra sistema economico e sistema giuridico, stabilendo il peso e l’influenza delle decisioni normative sulla produzione e sulla circolazione della ricchezza, oltre alla descrizione del sistema giuridico, come elemento essenziale nella determinazione dei rapporti economici, vedasi la classica opera di J. R. Commons, Legal Foundation of Capitalism, New York 1924 (ed. it. I fondamenti giuridici del capitalismo, Bologna 1981). 55 Così N. Chomsky, Democrazia agli ostacoli, Firenze 1994, 176 (ed or. Deterring Democracy, London 1991). 14 Con un ulteriore corollario: il pericolo di rigurgiti nostalgici, di una riproposta, se non dello stesso ritorno, del totalitarismo56, in una dimensione sociale, economica e politica ispirata soltanto dalla realtà dell’industrialismo57. Da non sottovalutare, infine, il fatto che - unitamente a certe diffuse e mai sopite forme di protesta - si vada diffondendo l'opinione che le pratiche del socialismo reale e le sue aberranti deformazioni non siano state un effetto della stessa teoria marxista del socialismo, quanto, piuttosto, una conseguenza della sua falsa realizzazione, in contrasto con i presupposti di quella teoria58. 8. A questo punto, mi sia consentita qualche ulteriore annotazione. Lo smantellamento progressivo dei sistemi sociali, un'insufficiente progressione dei salari, i sistemi pensionistici introdotti, i sempre più devastanti meccanismi di flessibilità dei rapporti di lavoro, ricorrenti fenomeni di disoccupazione di lunga durata, il moltiplicarsi di regimi caratterizzati da un'assoluta precarietà (si registra una media pari al 40%, con picchi del 70%, come in Lituania), tutto ciò implica il fenomeno dell'aumento dei "lavoratori poveri", generando un contesto generatore di esclusione e di sempre maggiore povertà, a fronte di fenomeni imponenti di accumulazione capitalistica, a beneficio di pochi singoli privilegiati. A ciò si aggiungano numerose, altre fonti di disuguaglianza tipiche del mercato del lavoro; si tratta di una serie di variabili che accelerano tale processo immanente59, tra le quali sono soprattutto da segnalare la diversificazione di condizioni e trattamenti, l'eterogeneità della mano d'opera, le disarticolazioni territoriali. Tutto ciò nel contesto di un mercato del lavoro europeo, teoricamente privo di vincoli per i Paesi membri, caratterizzati da una profonda diversificazione soprattutto con la realtà economica e sociale dell'area post-comunista, che non può non provocare traumi sociali, diversi equilibri ed una più intensa domanda di giustizia sociale. Dai "mercati del lavoro" si è infatti passati al "mercato del lavoro", con una contestuale modificazione della domanda e dell'offerta di lavoro, con una serie di conseguenze sociali - come si annotava già in precedenza - che implicano maggiori disuguaglianze nella situazione di mercato della forza-lavoro, anche per l'influenza di un'economia informale che rende meno visibili , trattamenti, prestazioni e gli stessi rapporti di 56 M. Petrusek, Il postcomunismo come concetto e problema sociopolitico, in AA.VV., Democrazie da inventare, Torino 1991, 88. 57 Che, però, sembra aver dimenticato che se l’illuminismo “aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime. L’apparato economico dota automaticamente, prima ancora della pianificazione totale, le merci dei valori che decidono del comportamento degli uomini”. Sicché il singolo “si determina più solo come una cosa, come elemento statistico, come success of failure. Il suo criterio è l’autoconservazione (....). Tutto il resto, idea o criminalità, apprende la forza del collettivo, che fa buona guardia dalla scuola al sindacato.” (Così M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1966, 36 s.). 58 Cfr. A. Schaff, List do mojego prawnuka, in Polityka, 12, 1988; anche Id., Dokąd prowadzi droga, Szczecin 1988. 59 Timtuss R., Saggi sul "welfare State", Roma, 1986, 216. 15 lavoro: reagendo a sistemi di norme e di vincoli rigidi, ma favorendo l'espansione di forme meno tutelate di regolazione e mobilitazione del lavoro. 9. Il processo in corso, del quale possono essere sintetizzate solo alcune tra le direttrici di maggior rilievo anche ai fini dell'indagine, vede quindi - in una con l'accennato fenomeno di una forte mitizzazione dell'economia di mercato - il concorrere di una serie di gravi problemi che, nei Paesi dell'Europa centro-orientale ostacolano o rallentano il ritorno ad un effettivo Stato di diritto o il suo consolidamento. Non senza significato, nella polemica in corso, a volte, si contrappongono opinioni totalmente divergenti. Come quando con la fine della tecnocrazia nelle imprese di stato si accenna alla riscoperta di nuovi momenti di socializzazione, collegati ad una sorta di "re-proletarizzazione"; alla quale si oppongono tesi contrarie che, condannando le ipotesi di politici vissuti sotto il segno della "mitologia di sinistra", parlano di attentati alle riforme avviate in senso liberista60. Certo, l'eredità di mezzo secolo di totalitarismo, di dominio sovietico e di correlata sovranità nazionale limitata restano uno dei punti nodali della questione, mentre si avverte una riscoperta dei valori europei, non sempre facilmente conciliabile con quel singolare fenomeno in corso di una ricomposizione di disomogenee culture politiche, che tenta complicate mediazioni ed ardimentose convergenze tra solidarismo cattolico, liberalismo economico e populismo wałesiano. In una sorta di disordine organizzato (che, nel caso particolarmente emblematico della Polonia, ha visto quel passaggio “morbido” dal comunismo alla democrazia, a suo tempo teorizzato da Michnik e Kuroń, ed in seguito sacrificato sull’altare del demagogismo popolare di Wałęsa) si accavallano perciò spinte eterogenee che tendono tra l'altro alla restaurazione dello Stato di diritto, della sovranità nazionale, della proprietà privata, di antichi e romantici valori popolari, delle libertà civili, dell'economia di mercato, mentre sullo sfondo si agitano nostalgici echi della società vetero-comunista. E, talora, ci si imbatte persino nel progetto di puntuali, quanto discutibili, modelli di Stato, aperti ad impulsi confessionali, fondati su talune opzioni politiche e culturali, oltre che sull'assunto che il concetto e la struttura della democrazia implichino necessariamente l'esaltazione dell'individualismo proprio del capitalismo liberale61, dimenticando con ciò che, in realtà, una "nuova" democrazia62, uno Stato 60 M. Balicka, Reproletaryzacja, in Wprost, 47, 22 novembre 1992, 66 Si ripropone così, anche se solo per certi aspetti, l’ormai stantia tesi di chi (F. A. von Hayek, Road to Serfdom, Chicago 1944, 56 ss.) ha proposto l'identificazione del socialismo con il collettivismo e di quest'ultimo con il totalitarismo. 62 Contro i grandi centri di potere economico e “contro le industrie culturali che controllano l’informazione, in nome del consumatore e non più del produttore, cioè della cultura e della personalità e non dell’economia” si devono formare quei movimenti sociali sulla cui azione si fonda la democrazia (così Touraine, Critica della modernità cit., 61 16 di diritto devono reinterpretare in termini economici le idee democratiche di uguaglianza e libertà e "far sì che i diritti politici siano al di sopra del potere economico"63. Senza dire che lo sviluppo di uno Stato moderno é caratterizzato dalla crescente tendenza verso una disciplina legale delle questioni economiche. Sicché, una attenta legislazione del lavoro e una normativa antitrust, pur rappresentando una sensibile compressione delle libertà economiche, non incidono certo sulla democraticità di un sistema politico. Come resta da ricordare che il modello democratico non postula soltanto la presenza di istituzioni democratiche formali - come il sistema multipartitico, il suffragio universale, le legislature elettive, la separazione dei poteri - ma ha bisogno di componenti culturali ancor più sofisticate (norme, valori, atteggiamenti, convinzioni) per il rispetto della libertà e dignità personali, l'esercizio del governo con il consenso dei governati, la tutela dei diritti delle minoranze, l’effettiva uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge64. Mentre sullo sfondo, in tale complesso scenario, l’ideale modello di riferimento resta l’Unione europea, l'ingresso dei Paesi comunemente definiti “in via di transizione”65 si atteggia talora come un "idolo falso", incentrato sulla scelta di un sistema "ultraliberale"66. Valga un esempio: se la Terza Repubblica polacca si colloca su una dichiarata linea di continuità con la Seconda repubblica d'anteguerra quasi a voler cercare patenti di legittimazione ed a coprire il "vuoto" storico del periodo comunista per il tramite di un azione politica tanto radicale e decisa nel suo sforzo di frantumare persino i segni esteriori del comunismo, enfatizzando i simboli formali e nostalgici di un passato, spesso fortemente segnato da marcati tratti nazionalisti, non a caso, l'angoscia di fronte al futuro, in realtà sottintende ed implica spesso un forte sentimento di angoscia di fronte al passato. In effetti i percorsi ed i temi da utilizzare in questa analisi passano, quindi, inevitabilmente attraverso il nucleo di una nebulosa giuridica storicamente rappresentata dall’incompiuto processo di formazione dello Stato di diritto; addensandosi, quasi sempre in maniera disordinata, in neo-ordinamenti che vedono lo stesso pluralismo politico ridursi, trasformarsi in una pericolosa frammentazione, polverizzazione, proliferazione di gruppi, centri, aggregazioni di interesse, che si 400); d’altra parte solo le forze culturali, ancor più mobilitatrici delle forze sociali o istituzionali, sono capaci di resistere ai regimi totalitari, come il comunismo, (che si sono basati all’inizio su una rivoluzione sociale, trasformandola però in potere totalitario repressivo), e costituiscono il fondamento di una “democrazia possibile”. 63 E. H. Carr, Conditions of Peace, New York 1942, 28. 64 G. Almond – S. Verba, The Civic Culture, Princeton 1963, passim. 65 Illuminanti, anche se limitate alla Polonia, le annotazioni concernenti i profili giuslavoristici di M. Matey, Aproximating Polish Labour Law to European Community Standards, in M. Seweryński (ed.), Polish Labour Law and Collective Labour Relations in the Period of Transformation, Warsaw 1995, 69 ss.. 66 L'indicazione ed il giudizio provengono dalla autorevole Cattedra romana di Giovanni Paolo II (cfr., infatti, Intervista a Wojtyła (J. Gawroński ed.), in La Stampa, 2 novembre 1993, a. 127, n. 299, 2). In genere, sul pensiero sociale dei Pontefici, ed in particolare sulle Encicliche di Giovanni Paolo II (“Laborem Excercens”, Sollicitudo Rei Socialis” e “Centesimus Annus”), si veda M. Novak, L’Etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Milano 1994. 17 auto-qualificano come partiti67; dimensioni nelle quali l’autorità si propone quale volontà generale, senza che sia stato previamente determinato quel processo di razionalizzazione del potere68, presupposto di una vera forma di democrazia. Tale percorso e siffatti temi non possono non tenere conto delle speranze deluse di una “rivoluzione stanca”69 (che esprime l’insoddisfazione e l’angoscia di quella parte della popolazione, spesso portata a non riconoscere le ragioni di una vecchia classe politica, impegnata in una lotta trasformista per la propria sopravvivenza, senza tuttavia aderire a quella nuova, somma e prodotto degli effetti del dominio comunista, della crisi post-comunista e di una brusca terapia d’urto di stampo capitalista), peraltro chiamata ad un confronto brutale con una sorta di nascente imperialismo economico70. Nel tempo, i diversi passaggi mostrano d’essere molteplici e complessi; certo è che, osservando le complessive situazioni economiche e sociali nelle nuove democrazie, si avverte l’insorgere di una rampante forma di neo-capitalismo, che si avvia a divenire successivamente una specie di “turbocapitalismo”71, destinato ad incidere, soprattutto in materia di diritti sociali; anche perché nell’esaltare gli ormai sempre presenti valori dell’efficienza, della produttività, della competitività, dell’utilità e della flessibilità72, esso si risolve in una sorta di sfrenato economicismo e, nello stesso tempo, intende misurarsi, senza averne gli strumenti, in quel “mercato globale” che, sotto molteplici aspetti, non ha aiutato e non aiuta lo sviluppo della società civile. 10. Nella prima fase di siffatto processo di trasformazione, avviato in un clima di sfrenata competitività73, si avverte come nel sistema sociale non esista una 67 Una tendenza, già oggetto di approfondite riflessioni in tempi diversi, che potrebbe condurre persino al disconoscimento della stessa essenza dei partiti, tendenti a divenire solo la risultante di una concezione atomisticoindividualistica dello Stato (cfr., già, H. Triepel, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlin 1927, 31). 68 B. Mirkine Guetzevich, Die Rationalisierung der Macht im neuen Verfassungsrecht, in Zeitschrift fur offentliches Recht, VIII, 2, 259 ss. 69 Fejtö, La fine delle democrazie popolari, cit., 215. 70 Per una definizione delle coordinate fondamentali, si rinvia a J. O’Connor, The Economic Meaning of Imperialism, in Fann-Odges (ed.), Readings in US Imperialism, Boston 1971. Ma cfr. anche J. A. Schumpeter, Imperialism and Social Classes, New York 1951 (tr. it. Sociologia dell’imperialismo, Bari 1972), oltre a R. Koebner, The Concept of Economic Imperialism, in Economic History Review, 2, II, 1949, 8 ss. 71 Si vedano le preoccupate annotazioni di E. N. Luttwak, Voi, colletti bianco-blu vittime di Bill Gates, in Liberal, 1, 97, 32 ss., che - nel sottolineare come, negli Stati Uniti ed in Europa, destra e sinistra commettano lo stesso errore prestando troppa attenzione al mito dell’informatica ed ai nemici dell’inflazione - richiama il paradosso di un’economia sempre più ricca, nella quale un numero crescente di persone è sempre più povero, e contestualmente denuncia i pericoli del “turbocapitalismo”. 72 D’obbligo ricordare le (profetiche) considerazioni di G. Lyon-Caen, Plasticité du capital et nouvelles formes d’emploi, estratto da Libro en Homenaje al Maestro Mario De La Cueva, s.d., 265 ss., come è inevitabile il rinvio a G. Lyon-Caen, La crise actuelle du droit du travail, in AA.VV., Le Droit capitaliste du travail, Grenoble 1980, 255 ss.. 73 Sui profili economici, per tutti, cfr. J. E. Stiglitz, The Meanings of Competition in Economic Analysis, in Riv, int. Scienze soc., 1992, 2, 191 ss.. 18 netta separazione dello Stato dalla società e dall’economia, mentre emerge una stretta interrelazione tra diritti ed economia74. In assenza di un quadro istituzionale che disciplini la regolamentazione sociale degli interessi collettivi, è da segnalare che, in ogni caso, lo Stato rimane ancora un attore principale nella scena economica: senza dire che specie nel settore delle imprese statali, il ruolo dei quadri dirigenti (i datori di lavoro diretti) non gode di particolare autonomia e le loro decisioni nel campo dei rapporti collettivi di lavoro mostrano di non essere ancora del tutto indipendenti dal potere centrale. Nel corso di tale processo di trasformazione75 è dato, inoltre, constatare, accanto alla moltiplicazione sindacale ed alla correlata nascita di notevoli problemi in materia di rappresentatività76, anche un aumento dei conflitti77 settoriali che, nello stesso tempo, vedono lo Stato partecipe, assumendo un carattere verticale. Questo, mentre le singole imprese e le varie categorie del settore statale, a richiesta dei lavoratori, bloccano o ritardano i processi della ristrutturazione. Intanto, se la principale causa di conflitto è la retribuzione media nel settore produttivo, resta abbastanza diffusa la convinzione sociale che le azioni di protesta per motivi economici siano giustificate e che lo Stato abbia l’obbligo di partecipare alle trattative con i sindacati e di soddisfare le richieste dei lavoratori. In questo quadro è da sottolineare che le richieste rivolte allo Stato da parte dei singoli sindacati o da loro associazioni sono spesso incoerenti, se non contraddittorie, e che i rapporti tra i vari sindacati sono non di rado molto tesi: il che rende difficile la loro collaborazione e la comune partecipazione alle trattative 11. La Storia, prima ancora della cronaca di quei tempi, ha, ormai, dimostrato che proprio questo fermento sociale, tale inquietudine diffusa hanno considerevolmente concorso alla caduta del vecchio regime, creando le basi per quegli essenziali cambiamenti strutturali, che però hanno fatto scattare il processo dell’eliminazione graduale del settore pubblico e della trasformazione delle regole del suo funzionamento. Il costo sociale di questi processi è stato, ed è, pagato soprattutto proprio dai lavoratori: il che, forse, può spiegare l’insorgere di rigurgiti nostalgici, di tensioni sociali, di movimenti di protesta, talora anche significativi. 74 Per un quadro di insieme cfr. A. A. Schmid, Tra economia e diritti. Proprietà, potere e scelte pubbliche, Bologna 1988. 75 In generale L. Bruszt, Le politiche di trasformazione in Europa orientale, in Stato e mercato, 1992, 34, 131 ss.. 76 Si rinvia a M. Pliskiewicz - M. Seweryński, Les problemes de la répresentativité dans les relations professionnelles, in E. Sobótka – M. Pliskewicz, La répresentativité des partéeaires sociaux dans les relations collectives de travail, Biblioteque du Dialogue social, Varsovie 1996, 52 ss.. 77 Un esame significativo in T. Zieliński, Conflicts collectifs de travail dans le droit polonais - pèriode communiste e postcommuniste, in M. Seweryński- A. Mazal (ed.), Changement politique et droit du travail, cit., 135 ss. ; i puntuali rilievi concernono l’esperienza della Polonia, ma è il caso di ricordare come il fenomeno, almeno nelle sue linee generali, sia comune anche ad altri Paesi. 19 In termini generali, nell’attuale momento storico-sociale, lo sviluppo della concertazione e il ricorso a pratiche di natura spesso neo-corporativa sono considerati, almeno in termini speculativi, quali strumenti e procedure necessari per giungere alla soluzione di numerosi e seri problemi economici e sociali, non ultimo quello dell’aumento della disoccupazione. Certo, tali metodiche non sono nuove: mentre, per altro verso, i conflitti esistevano ed esistono ancora nel nuovo sistema e il tripartitismo non è certo un fenomeno nuovo nelle relazioni di lavoro. Perché un dialogo di tal genere possa determinarsi, occorre ovviamente, da una parte, che esistano le condizioni di natura politica ed economica78, da individuare secondo la lunga esperienza dei Paesi occidentali e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro; quindi, la possibilità di funzionamento di un sistema ispirato al tripartitismo richiede non solo l’autonomia dei partners sociali e la loro indipendenza, ma la definizione dell’oggetto della contrattazione e l’esistenza della volontà politica di raggiungere un accordo. In via di principio i problemi da affrontare, nei paesi in via di trasformazione, possono essere sinteticamente raggruppati in tre gruppi, riferibili ai temi della privatizzazione (strumenti e processi), alla ingombrante presenza delle imprese transnazionali, alla ristrutturazione finanziaria delle imprese nazionali ed al complesso dei relativi problemi sociali (contratti collettivi, protezione dei lavoratori nel caso di insolvenza dei datori di lavoro, fondo sociale dell’impresa, sicurezza e salute dei lavoratori, ricorso al dumping sociale). In ogni caso, le maggiori difficoltà, in questa delicata materia, risiedono nella concreta identificazione delle parti: ma, certo - occorre sottolinearlo - lo Stato resta, ancora, un significativo e qualificato datore di lavoro, talora parte, paradossalmente contro se stesso, nei conflitti di lavoro. Situazione, questa, strettamente connessa alla debole posizione delle organizzazioni dei datori di lavoro (privati), mentre i sindacati sembrano sempre più aggrovigliarsi in un gioco squisitamente politico, che rende difficile lo svolgimento della loro attività statutaria. 12. Concludendo, sul punto specifico; ché la situazione dei Paesi dell’Europa Centro-orientale appare in una delicata fase di continua trasformazione. Se è vero che, allo stato, sul modello teorico della democrazia nato dalla rivoluzione francese come “veicolo del progresso” sembra prevalere quello della democrazia quale “apparato procedurale”, è altrettanto vero (anche se spesso non adeguatamente considerato) che nel faticoso processo di trasformazione dei Paesi 78 Si parla in questo senso dell’esistenza di un regime democratico, di un sistema improntato alla libertà di mercato e più specificamente di un mercato del lavoro ove agiscano liberamente, quali partners sociali, le organizzazioni dei datori di lavoro ed i sindacati. 20 post-comunisti le politiche sociali non possono essere un frutto eventuale e terminale della democrazia. Esse, piuttosto, ne costituiscono il presupposto per il consolidamento. A ciò si aggiunga che affinché, specie nel campo delle relazioni industriali, un organico progetto di razionale modernizzazione possa essere realizzato e in un sistema rinnovato trovino ingresso (anche ed almeno) i principi fondamentali dell’Europa politica e sociale, appare indispensabile riaffermare il primato della politica79: soltanto rimedi di natura politica, infatti, appaiono in grado di correggere quella “terza fase” del ciclo globale domanda/tecnologia/fenomeni economici, che tra l’altro registra, provocandolo, un alto tasso di disoccupazione e manifesta preoccupanti fenomeni deflattivi. Ora, di fronte all’impotenza dell’arsenale della teoria economica si impongono scelte e rimedi di natura politica. Una azione politica, però, che sia espressione dei singoli governi nazionali, sintesi delle più profonde istanze popolari, e non frutto dei calcoli, delle opzioni e delle scelte delle banche centrali80 o, peggio ancora, di alcune tra esse. A questo punto, consapevoli dell’immanenza di una Storia del nostro tempo81 e delle incombenti responsabilità che gravano su tutti - pur rifiutando di sentirci come sopravvissuti che appartengono ad un mondo e ad idee che non ci sono più - riserve e perplessità sulle possibili soluzioni diventano legittime. In tale quadro, il processo di allargamento dell’Unione Europea assume un ruolo fondamentale: ovviamente se ed in quanto alle astratte dichiarazioni di principio seguano comportamenti concludenti82, anche sul piano della reale affermazione e della tutela dei diritti sociali83. 79 Da confermare la fondatezza della “regola democratica del primato della politica, la quale è certamente suscettibile di trovare limiti soltanto nei principi costituzionali che mirano a salvaguardare i diritti inviolabili ed i doveri inderogabili corrispondenti al complesso di valori che la società di cui trattasi ritiene non assoggettabili alla regola della maggioranza” (A. Pizzorusso, Sistemi giuridici comparati, Milano 1995, 110) (il neretto è nostro). 310 Sul “bancocentralismo" si rinvia, ancora, a Luttwak, op. cit., 35. 81 Pur ricordando, con letteraria devozione, che “la Mitteleuropa internazionale, oggi idealizzata quale armonia di popoli diversi, è stata certo una realtà dell’impero asburgico, nella sua ultima stagione, una tollerante convivenza comprensibilmente rimpianta dopo la sua fine, anche per il confronto con la barbarie totalitaria che le è succeduta, fra le due guerre mondiali, nello spazio danubiano. La vocazione mitteleuropea degli Asburgo è tuttavia, in parte, un’ideologia di ripiego, che si sviluppa con le delusioni della politica austriaca in Germania” (C. Magris, Danubio7, Milano 1997, 29), oggi quel Centro-Europa, quel tramonto di una civiltà, quel “mondo crollato” (come già avvertiva J. Roth, La marcia di Radetzky, Milano 1990, 413) - la cui fine è stata solo certificata a Yalta – è riemerso a seguito della caduta del Muro di Berlino e con la fine dei rigidi confini geopolitici, un tempo segnati dall’Elba; oggi, di questa rinnovata Mitteleuropa proprio la Germania unificata sembra costituire il motore politico, economico e culturale. 82 Richiama l’opportunità di una “ridefinizione” del modello sociale europeo S. Giubboni, Politiche sociali e leggi dell’economia. L’integrazione sociale europea rivisitata, in Riv. dir. sic. soc. , 2001. I, 26 ss.. 83 Il dibattito sulla rilevanza e sulla stessa “collocazione” dei diritti sociali è di sempre maggiore attualità: si vedano, tra l’altro, le recenti annotazioni di T. Treu, L’Europa sociale: problemi e prospettive, in Dir. rel. ind., 2001, 307 ss. e R. Del Punta, I diritti sociali, come diritti fondamentali: riflessioni sulla Carta di Nizza, ivi, 335 ss. 21 13 Con il crollo del "Muro di Berlino" 84, con il disfacimento dell’impero sovietico85 e con la crisi della/e ideologia/e, il mondo sembra alla ricerca di una nuova stabilità86 e, se è possibile dubitare che il socialismo abbia ancora "un avvenire"87, è consentito tuttavia supporre – e sottolineare - che un accanito liberalismo provochi drammatiche conseguenze sociali88, degrado dei pubblici servizi, deindustrializzazione, crescita della disoccupazione89, enorme accumulo di ricchezze private90 (le ricchezze dei primi 358 miliardari globali equivalgono al reddito del 45% della popolazione mondiale91), formazione di poteri occulti92, recrudescenza delle disuguaglianze93 e l'affermarsi di una economia di azzardo, nella quale celebrando i fasti del “Dio Denaro”94 con manigolda destrezza navigano - sotto le insegne della deregulation e di un malinteso liberismo95 - avventurieri e golden 84 Alla fine del conflitto Est-Ovest avrebbe potuto/dovuto seguire una kantiana "pace perpetua", propria di una società mondiale fondata sul mercato: la seconda guerra del Golfo, il conflitto in Jugoslavia, i focolai e gli scontri armati che si sono proposti nell'Unione Sovietica in fase di autodissoluzione ed in una Russia alla ricerca di identità anche internazionale, i molteplici e tragici disastri africani, i mille rigurgiti nazionalisti, l'eterno e sanguinoso confronto frontale che agita la Palestina, il moltiplicarsi di localistici regimi criminali spesso installati, e non di rado sovvenzionati dalle democrazie occidentali, sembrano, piuttosto, predire una sorta di irragionevole "guerra civile mondiale". 85 Da condividere l'ironica (ma non troppo!) osservazione di D. De Masi, Il futuro del lavoro. Fatica ozio nella società postindustriale, Milano 1999, 11 a cui parere se "il comunismo ha dimostrato di saper distribuire la ricchezza ma non di saperla produrre, il capitalismo ha dimostrato di saper produrre la ricchezza ma non di saperla distribuire" (cfr. anche Aut. op. prec. cit., 195). 86 Si tratta, in effetti di una stabilità artificiosa, che vede la sua ultima ratio in una forzata quanto spesso irragionevole amministrazione poliziesca del pianeta. 87 Così il leader socialista francese L. R. Jospin, in Le Monde, 11 aprile 1992 88 Fin dagli ultimi anni del secolo XVIII, infatti, il liberalismo industriale determinava gravi ripercussioni sociali a carico dei lavoratori che, non più protetti dagli statuti delle corporazioni, finiscono col cadere sotto l'illimitato arbitrio dei padroni; il lavoratore è proclamato libero, "ma questa libertà, tanto utile ai borghesi, è per lui, privo di mezzi di sussistenza e di strumenti di lavoro, null'altro che la libertà di farsi schiavo" (G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Bari 1959, 50) 89 Di "killer capitalism" parla a chiare lettere Neewsweek, 26 febbraio 1996, quando - denunciando dodici grandi industriali per il licenziamento di oltre 363.000 dipendenti, senza la giustificazione di una crisi delle relative imprese si sottolinea come in altri tempi il licenziamento di massa fosse un'infamia, una vergogna, mentre oggi più cresce il numero dei licenziati "più la Borsa è contenta". 90 T. Keegan, Highway Robbery by the Super-rich, in The Guardian, 22 luglio 1996. 91 Aut. op. lc. prec. cit., a commento dell'Human Development Report delle Nazioni Unite. 92 Non si tratta di esercitazione fantapolitica: al tema del "potere occulto, olim degli arcana imperii" si richiamava N. Bobbio, La crisi della democrazia e la lezione dei classici, in AA.VV., Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Roma 1984, lamentando che lo stesso sia stato "bandito dai trattati di scienza politica, come se non avesse alcun interesse, come se con l'avvento degli stati costituzionali moderni e con la formazione dell'opinione pubblica, il fenomeno fosse completamente scomparso" 93 Cfr. L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Roma-Bari 2000. 94 “Molto fa il denaro, molto è da amare, / il povero fa buono e uomo da prestare, / fa correre lo zoppo e il muto fa parlare / colui che non ha mani, denaro vuol contare“: il distico, in italiano, si trova in Arciprete di Hita (J. Ruiz), Libro del buon amore, Delle proprietà del denaro, Torino 1983), a proposito del quale si avverte che “ con umorismo beffardo e sottile acutezza”, in uno dei “gioielli filosofici, antropologici, letterari e poetici che occupano di diritto un posto nella grande Biblioteca europea di tutti i tempi”, Ruiz, un europeo del XIV secolo come Petrarca, Boccaccio e Chaucer, mostra la “realtà nuda e cruda” (le espressioni sono di J. A. Jáyturegui, Europa. Tema e variazioni, Milano, 2002, 189 (tr. it. Di Sichel della ed. or. Europa: tema y variaciones, Maeva ed. 2000). 95 Superfluo annotare che, in diversi paesi, ormai, con la rigorosa applicazione delle tesi neoliberiste, intere fasce di servizi della sanità e della pubblica istruzione sono state semplicemente smantellate ed i diritti sociali dei cittadini non 22 boys, spesso semplici speculatori finanziari, quando non addirittura volgari impostori96. Nello stesso tempo il sistema monetario internazionale, nato dalla Conferenza di Bretton Woods, appare sempre più superato dalla mondializzazione dei mercati monetari e finanziari, l'economia finanziaria97 batte l'economia reale, si assiste al progressivo dissolversi dei mercati nazionali, mentre il numero delle società multinazionali, ed i relativi profitti, aumentano in una sorta di progressione geometrica98. Senza dire, per converso, di una montante massificazione della pubblica opinione99, dell'adagiarsi in una specie di moderno dogmatismo, alimentati non solo dalle grandi istituzioni economiche e monetarie internazionali, ma dalla cassa di risonanza dei più significativi organi di informazione economica o di informazione tout court (spesso: molto, troppo spesso di proprietà di grandi gruppi finanziari o industriali100) e dal coro salmodiante di non pochi studiosi, centri di ricerca, fondazioni e talora persino università, tutti di varia estrazione, sempre pronti - a comando o su commissione prezzolata - a rimasticare tesi di comodo: finanziati, trovano una specifica considerazione. In realtà, se è vero che la formula economica del liberismo ha in comune il carattere e l'origine con quella politica del liberalismo, le difficoltà insorgono quando - come avviene - al liberismo economico si dia "valore di regola o legge suprema della vita sociale; perché allora esso vien posto accanto al liberalismo etico e politico, che è dichiaramene altresì regola e legge suprema della vita sociale", con la fatale conseguenza che da legittimo principio economico esso si trasformi in "illegittima teoria etica, in una morale edonistica e utilitaria" (B. Croce, Liberalismo e liberalismo, in Etica e politica. Contributo alla critica di me stesso3, Bari 1945, 316 s.). . 96 In Giappone, ad esempio, secondo le indicazioni dell'autorevole mensile Nikkei Ventre, nella lista dei dieci maggiori patrimoni si trovano solo tre miliardari arricchitisi grazie alla intrapresa di attività economiche reali, gli altri sarebbero semplici speculatori; tutto ciò mentre numerosi soggetti, fulmineamente arricchitisi in Occidente, sono stati spesso accusati di estorsione, truffa, corruzione, appropriazione indebita, finendo persino in carcere. 97 Le transazioni finanziarie speculative raggiungerebbero ogni giorno un volume complessivo pari a 1300 miliardi di dollari, somma cinquanta volte superiore al volume complessivo degli scambi commerciali, pari quasi al totale delle riserve complessive di tutte le banche centrali del mondo: sicché, non è azzardato concludere che nessuno stato possa resistere più di pochi giorni alle pressioni speculative dei mercati (R. Passet, Les promesses des technologies de l'immateriel, in Le Monde diplomatique, luglio, 1997, 26). 98 Il numero delle società multinazionali, infatti, è passato in pochi anni da qualche centinaio ad oltre 40.000 ed il relativo giro di affari rappresenta più di un quarto della attività economica mondiale: restando nel campo dell'economia reale, ad esempio, è da segnalare come il giro di affari della Ford superi il PIL del Sudafrica, quello della General Motors sia più alto del PIL danese e quello della Toyota maggiore del PIL norvegese. Considerando poi altri significativi attori dell'economia finanziaria, quali i fondi pensione giapponesi ed americani, si avverte come il nuovo potere mondiale sfugga con impressionante accelerazione agli Stati nazionali, che "sempre di più, si trasformano in esecutori e plenipotenziari di forze che non hanno nessuna speranza di controllare sul piano politico" (così Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari 1999, tr. it. di O. Pesce della ed. or. Globlisation. The Human Consequences, 74). 99 R. Kapuscinski, Lapidarium III, Warsaw 1996, annota gli espedienti cui ricorrono i mezzi di comunicazione nel pilotare notizie relative ad occasionali, quanto scomodi, episodi di interesse pubblico (quali le ricorrenti carestie in remoti paesi africani o asiatici) circa i problemi dei "poveri del mondo": in effetti, si dà per scontato che le ricchezze sono globali, mentre la miseria è locale, quasi non esistesse alcun collegamento, nessun nesso causale tra le prime e la seconda. 100 Senza citare i "casi di casa nostra", si pensi solo a titolo esemplificativo a The Wall Street Journal, The Economist, The Financial Times, Far Eastern Economic Review. 23 arruolati ed utilizzati dai centri dell'effettivo potere economico, comunque, tutti consapevoli del fatto che, nella società mediatica, "ripetizione" equivale a "dimostrazione". In questo convulso agitarsi di fenomeni economici e di pulsioni politiche, in un immaginario collettivo disorientato (proprio perché aprioristicamente "orientato"), emergono i tratti di una depistante irrazionalità, che talora in modo inconscio registra l'incapacità della "scienza economica” di correggere i furiosi disordini e le incongruenze della globalizzazione, oltre che dello stesso nuovo ordine economico mondiale. Insomma, di fronte all'eclisse della ragione101, si perdono di vista le ragioni della ragione e non si avvertono i rischi della "nascita di un'ideologia irrazionale che si oppone al processo scientifico e industriale"102 e che non di rado si traduce in una sorta di risveglio tribale, fonte di diffuse e preoccupanti tentazioni scissionistiche103. 14. Su un diverso, ma correlato, versante occorre tener conto che ormai, accanto a circa duecento sistemi politici statali (dei quali alcuni sono veri e propri sistemi di sistemi, che rappresentano un sistema politico internazionale interdipendente), si è formato anche un organismo politico globale, comprensivo degli Stati nazionali, del relativo sistema e di un insieme di soggetti non-statali, diversamente connessi, ma in grado di condizionare l'utilizzazione e la distribuzione delle risorse e dei valori nel mondo intero. Tale complesso sistemico interferisce con la politica statale interna e con quella internazionale ed intergovernativa, determinando di frequente un trasferimento di competenze, poteri e funzioni dal livello statale a quello sovrastatale ed aprendo la via ad un sistema socio-economico, diviso in un'area centrale ed in aree periferiche e semiperiferiche, nelle quali la molteplicità dei sistemi politici statali non rappresenta 101 Il sonno della ragione genera i mostri: esemplare, sul piano della riflessione culturale, la didascalica esperienza propria del cinema espressionista tedesco, che può essere considerato, quasi freudianamente, la manifestazione di una coscienza negativa, identificando le tendenze psicologiche dominanti in un periodo storico dato (S. Krakauer, From Caligari to Hitler, Princeton 1947); da tali opere, oltre a dolorose anticipazioni su un'epoca da venire può ricavarsi "il rifiuto della concezione e della logica di una società capitalista, ferrea cristallina totalità del disumano" (A. Anastasi, Al centro del labirinto. Note sul cinema "espressionista" tedesco, in AA.VV., Saggi sul cinema espressionista tedesco, Messina 1980, 40). Nell'universo deformato della visione filmica, l'orrore, il fantastico (E. Morin, Le cinéma ou l'homme imaginaire. Essai d'anthropologie, Paris 1956) sono proprio le dominanti con le quali più o meno consapevolmente è tratteggiato "il torbido disordine del dopoguerra tedesco" (G. Sadoul, Storia del cinema mondiale, Milano 1964, 194). Occorre tuttavia ricordare che nei periodi di miseria culturale, di imperante conformismo, di rinuncia agli imperativi razionali si moltiplicano i rischi politici, le ideologie di fuga: solo che, successivamente, quando sfuma ogni sogno di evoluzione egualitaria, quasi selvaggiamente, ritorna il tempo delle "rivoluzioni", sotto le più imprevedibili forme. 102 L'autorevole monito, firmato da circa trecento scienziati di tutto il mondo, tra i quali una cinquantina di Premi Nobel, è contenuto nell'Appello di Heidelberg (vedilo in Le Monde, 3 giugno 1992). 103 I. Ramonet, Géopolitique du chaos, Paris 1997. 24 altro che il lato politico della organizzazione economica capitalista104. O che dà vita ad un meccanismo economico fondato su una logica unitaria, in forza della quale il potere politico-militare e l'appropriazione del plus-valore discendente dalla produzione e vendita su scala globale realizzano un ruolo integrato nel mercato mondiale105, transitando dal tentativo di imporre/indurre una diffusa omogeneità ad una manifesta volontà di ingerenza ed alla esportazione/imposizione di un modello (di democrazia) dai chiari connotati politici ed economici106. A questo punto diviene, comunque, necessaria una precisazione: analizzare criticamente - sia pure ai fini limitati di queste riflessioni ed in una prospettiva meramente introduttiva - la globalizzazione107, non implica una scelta aprioristica, quanto ovviamente utopica, di rifiuto108 del fenomeno nel suo complesso109: anche in questo caso, come (ri)pensando alla "rivoluzione industriale", non si tratta di avviare retoriche esercitazioni luddiste, ma di esplorarne e sottolinearne taluni profili e non poche distorsioni, soprattutto in relazione ai gravi effetti che essa sta provocando sul piano sociale, oltre che nell'area più generica delle relazioni industriali e, ancora più specificamente, nell'ambito del diritto del lavoro: specie nella logica di una critica ricorrente, quanto universalizzata, del Welfare State (e della sua crisi110). L'annotazione appare ancor più opportuna, particolarmente quando si pensi che il dibattito in materia di globalizzazione deve essere necessariamente trasferito, da 104 Già I. Wallerstein, The rise and Future Demise of the World Capitalist System: Concepts of or Comparative Ansalysis, Comparative Studies in Society and History, 1974, XVI, 3, 387 ss.. a cui adde T.R. Shannon, An Introduction to the World-System Perspective, Boulder 1989. 105 Così C. Chase-Dunn, Global Formation. Structures of the Wold-Economy, Oxford 1989. 106 Il progetto statunitense, infatti, movendo dalla coscienza, propria della cultura politica americana, di una vera e propria asimmetria tra Stato-patrono e Stato-cliente implica una disparità di poteri e diritti tra chi impone e riceve la democrazia, la fede nella superiorità del proprio modello di democrazia e del proprio sistema sociale ed economico, il compimento di atti unilaterali di imposizione delle istituzioni democratiche, il mantenimento anche forzato di uno status quo nello scenario internazionale (per tutti cfr. A. N. Whitehead, The Imposition of Democracy, in Lowenthal, 1991, passim, ma specie 258). 107 Per una rassegna di critiche, di varia estrazione ideologica, alla "globalizzazione", sinteticamente, si rinvia a P. Hirst – G. Thompson, Globalisation in Question, Cambridge 1996; K. Ohmae, La fine dello stato-nazione. L'emergere delle economie regionali, Milano 1996; H. P. Martin - H. Schumann, La trappola della globalizzazione. L'attacco alla democrazia e al benessere, Bolzano 1997; U. Beck, Politik der Globalisierung, Frankfurt a. M. 1998; J. Gray, Alba bugiarda. Il mito del capitalismo globale e il suo fallimento, Milano 1998; AA.VV., The Treat of Globalism, in Race & Class, XL, 2/3, 1998-1999; M. d'Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Milano 1999. 108 In effetti, "ad essere parte in causa non è la globalizzazione, fase storica dovuta ai prodigiosi progressi delle tecnologie di punta, che potrebbero essere convenienti per tutti; è la gestione ultraliberale di tale globalizzazione che è da biasimare" (Forrester, La sfida degli ottimisti alla dittatura del mercato, in Corriere della Sera, 15 luglio 2001). 109 Allo stato la globalizzazione, infatti, mostra d'essere un fattore ineliminabile di integrazione economica e di mobilità verso un nuovo assetto mondiale, come concordano (e non sono i soli!) personalità quali Baldwin, Bayaumi, Burda, Haskel, Leamer, Lorz, Markusen, Martin, Tanzi in un lavoro coordinato da S. Siebert (ed.), Globalisation and Labor: is globalisation the villain of labor market problems?, Tübingen 1999. 110 Sulla crisi del Welfare, e sui relativi riflessi nell'ambito del diritto del lavoro, cfr. per tutti T. Treu, Lineamenti per una riforma dello Stato sociale, in Riv. giur. lav., 1997, I, 3 ss.; G. Balandi, "Pubblico", "privato" e principio di sussidiarietà nel sistema del welfare state, in Riv. giur. lav., 1998, I, 213 ss.; a cui adde i lavori di Carby-Hall, Mückenberger, Supiot, Veneziani in Riv.giur. lav., 1996, I, 3 ss.. 25 una parte, a livello di organismi sovra-nazionali e, dall'altra, deve incentrarsi sul ruolo riservato ai singoli Stati nazionali111: in particolare per verificare se lo Stato sia relegato a fare la semplice parte dello spettatore nel generale processo di globalizzazione112. 15. La scena politica, economica e sociale annuncia la fine del lavoro, mentre si avverte l'eco montante di un requiem per i lavoratori113. Il compito di progettare il futuro del lavoro consiste quindi nell'aprire lo sguardo, nell'aguzzare la vista sul futuro: oltre la società del lavoro114. In questo contesto, è sempre più frequente il ricorso ad una formula magica, ad una panacea che dovrebbe risolvere tutti problemi della società contemporanea, nel suo attuale stadio tardo-moderno o post-tradizionale115, secondo-moderno116 o di modernizzazione riflessiva, che può sfociare nel sur-moderno117 o nel post-moderno. Sintetizzando, si dice che il mercato del lavoro è troppo "rigido": bisogna, quindi, renderlo "flessibile". Così, i meccanismi messi in movimento nella (e dalla) società globale sono molteplici, non sempre semplici118, e trovano un limite soltanto nell'inesauribile fantasia capitalista di perseguire il massimo reddito possibile, subendo i minori costi sostenibili e tentando anche una sorta di legittimazione teorica di alcune scelte, specie quando esistano disuguaglianze formali e sostanziali da giustificare. Tali meccanismi, ormai, sono entrati nella pratica sociale ed economica dei Paesi post-comunisti, 111 "I nuovi padroni del mondo non hanno bisogno di governare direttamente. I governi sono incaricati di amministrare gli affari per conto loro" (vedi Sept pièces du puzzle néolibéral: la quatrième guerre mondiale a commencé, in Le Monde diplomatique, agosto, 1997, 4). 112 J. H. Mittelmann, How Does Globalisation Really Work, in J. H. Mittelmann, Globalisation. Critical Reflections, Boulder 1996, 233. 113 J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era del post-mercato, Milano, 1995; cfr. anche D. Collin, La fin du travail et la mondialisation. Idéologie et réalité sociale, Paris-Montréal 1997. 114 "Solo così sarà possibile dare una risposta sistematica se e in che misura noi viviamo ancora oppure non viviamo più, in una società del lavoro" (U. Beck, Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Torino 2000, 17). La problematica della "fine della società del lavoro" è ormai da tempo un tema di sicuro rilievo: già R. Dahrendorf (Im Entschwinden der Arbeitergesellschaft, in Merkur, 8, 1980) parlava della sua scomparsa o del suo dileguarsi, trovando consenziente J. Habermas, Il Discorso filosofico della modernità, RomaBari 1987, tr. it. di E. - E. Agazzi (ed. or. Id., Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölfe Vorlesungen, Frankfurt a. M. 1985), che, anch'egli, ne annunciava la fine; i termini del dibattito in D. Mèda, Le travail. Une valeur en voie de disparition, Paris 1995. 115 A. Giddens, Linving in a Post-Traditional Society, in A. Giddens, In Defense of Sociology: Essays, Interpretations & Rejoinders, Cambridge 1996; Id., Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna 2000. 116 U. Beck, The Renaissance of Politics in Reflexive Modernity, in U. Beck, Democracy without Enemies, Cambridge 1998. 117 U. Beck – A. Giddens – S. Lash, Modernizzazione riflessiva. Politica, tradizione ed estetica nell'ordine sociale della modernità, Trieste 1999. 118 Tali meccanismi intendono probabilmente formare i membri della società per ricoprire il ruolo primario di consumatori, ovviamente senza rinunciare del tutto alla presenza di una manodopera industriale, ma introducendo gradualmente nuovi momenti di enfasi sociale e di priorità funzionale. 26 divenendo l’asse di uno sviluppo annunciato, pur se non organicamente ed uniformemente realizzato. In questa prospettiva tentiamo di precisare la portata di espressioni, in fondo, volutamente ermetiche: che altro significano "flessibilità" e "flessibilizzazione" (del mercato del lavoro) se non l'intento di rendere l'area dell'incontro/confronto tra domanda ed offerta di lavoro in termini di maggiore plasticità, sempre più facile da modellare a seconda delle situazioni, delle esigenze di impresa, del perseguimento dei maggiori utili? Messi su questa strada si giunge a criticare taluni modelli introdotti in Francia e Germania per promuovere l'occupazione, in quanto contrari al progetto da perseguire di un'efficace "flessibilità del mercato del lavoro", che richiederebbe l'abrogazione delle norme che tutelano lavoro e retribuzioni, l'introduzione di una selvaggia competitività e la lotta a qualunque fattore di stabilità dell'impiego e di protezione dei redditi da lavoro119. Che significano, per altro verso, flessibilità e flessibilizzazione (questa volta "del lavoro") se non la volontà di non considerare il lavoro (come in effetti può/deve essere considerato) quale complessa variabile economica, con la consapevolezza che saranno solo le scelte ed i comportamenti degli investitori a determinarne il costo e il comportamento? Insomma, in termini politici e culturali, il concetto di flessibilità120 (o, se vogliamo, di flessibilizzazione) sottende un complessivo progetto di riformulazione, rifondazione, ricostruzione sociali, al fine di sottrarre la forza e ridurre la capacità di resistenza della parte economicamente e socialmente più debole (i lavoratori subordinati), che solo nella "rigidità", nel presidio normativo (di diritto pubblico) e nell'autonomia collettiva - come insegna la storia - possono trovare supporto e sostegno di fronte al potere (economico e sociale) della controparte datoriale. D’altra parte, in questa logica, e proprio per correggere tali distorsioni logicostoriche, il diritto del lavoro è nato e si è sviluppato121. 119 Si vedano le conclusioni dei dirigenti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, nella riunione di Hong Kong del 1997, in F. Marti, Le FMI critique les méthodes anti-chômage de Bonn et de Paris, in Le Monde, 19 settembre 1997. 120 R. Sennet, L’uomo flessibile4, Milano 2000, 45, ricorda che il termine flexibility è entrato nel linguaggio inglese nel Quattrocento. 121 Sulle ideologie e sui modelli normativi del diritto del lavoro, almeno come esso si è atteggiato negli ordinamenti giuridici fondati sull'antagonismo conflittuale, si può ricordare questa classificazione che, alternativamente, definisce il diritto del lavoro: a) quale "diritto di classe" (vera e propria struttura giuridica alternativa al diritto borghese, per favorirne il processo di trasformazione in senso sostanzialmente egualitario); b) lo colloca in una logica di impronta riformistica (che privilegiando il momento della azione collettiva, ma soprattutto la funzione di tutela del sistema del contraente più debole, non lo riduce a fattore meccanico di un processo di trasformazione ordinamentale, ma lo esalta quale valore, strumento, di giustizia sociale); c) lo considera secondo una prospettiva organicistica (che esalta i valori della solidarietà professionale e/o interclassista); d) infine, lo riporta ai modelli del conflitto industriale, con la conseguente valorizzazione della contrattazione collettiva ed il riconoscimento di una funzione di "contropotere" al sindacato (in genere, sulle tendenze di politica del diritto, si rinvia a G. Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale2, Milano 1972 e W. Daübler, Gesellschaftliche Interessen und Arbeitsrecht, zum Selbsverständnis der Arbeitsrechtswissenschaft, Köln 1974). 27 La natura stessa del rapporto di lavoro, che sotto la maschera del contratto cela un rapporto di dominio122, ne spiega, quindi, le origini, definendone la funzione se non esclusiva, quanto meno necessaria, di tutelare il lavoratore dipendente123: proprio la sottostante condizione fisica e psicologica hanno determinato infatti la formazione progressiva di un diritto protettore124 dei lavoratori subordinati125. A quanto precede aggiungasi che il diritto del lavoro, almeno da un puntuale angolo di osservazione, si propone di ridurre la dose di disuguaglianza propria dei rapporti di lavoro, costruendo un sistema di limiti alla stessa autonomia privata126; anzi, esso, in una parola, rappresenterebbe un meccanismo spesso chiamato a trasformare l'illegale in legale127, vedendosi assegnata una funzione protettrice che non risponde ad alcun obiettivo o progetto egualitario128 e che, nell'incombente epoca della globalizzazione, resiste alle inarrestabili prospettive di una regolazione sopranazionale129, ispirata ai principi diffusi di una "razionalità" ormai supinamente accettata130. D'altra parte, l'evidente, incontestabile, asimmetria degli attori sociali spiega come l'oggetto del diritto del lavoro131 sia stato, sia - e debba continuare ad essere una forza di equilibrio sociale intesa a compensare quella non-uguaglianza del potere contrattuale inerente alla stessa natura del rapporto di lavoro132; proprio tale considerazione, nella stringente logica della storia, giustifica la stessa nascita del diritto del lavoro, anche quale limite normativo al principio di autorità ("Führerprinzip") nell'impresa133 e, talora, può essere utile per legittimare una concezione organicistica del rapporto di lavoro, di lontana ispirazione romantico- 122 C. Menger, Il diritto civile e il proletariato, Torino 1894. I termini del problema, nella loro essenza, non mutano, almeno per una dottrina giuslavoristica avvertita, quando, una volta superati i confini culturali posti dall'Oceano Atlantico, si affronti la realtà nord-americana: cfr., infatti, P. Verge - G. Vallée, Un droit du travail? Essai sur la spécificité du droit du travail, Québec 1997. 124 La protezione, infatti, è « la finalité première, historiquement déterminante du droit du travail » (J. C. Javillier, Droit du travail 7, Paris 1999, 73), anche se deve essere rimarcato il carattere bivalente di tale diritto,a volte strumento di protezione del lavoratore, altre volte elemento di promozione delle relazioni industriali. 125 Il concetto è ribadito da A. Supiot, Pourquoi un droit du travail, in Droit social, 1990, 487 ss. 126 G. Giugni, Diritto del lavoro (voce per un'Enciclopedia), in Giornale dir. lav. rel. ind., 1979, I, 1, 127 G. Lyon-Caen, La crise actuelle du droit du travail, in AA.VV., Le droit capitaliste du travail cit., 255. 128 B. Veneziani, The Evolution of the Contract of Employment, in B. Hepple (ed.) The making Labour Law in Europe, London 1986. 129 A. Perulli, Diritto del lavoro e globalizzazione, Padova 1999, XI. 130 Per tutti cfr. T. Treu, L'internazionalizzazione dei mercati: problemi di diritto del lavoro e di metodo comparato, in AA.VV., Scritti in onore di Sacco, I, Milano 1994, 1119 ss.. 131 “Ha cambiado el trabajo y, en certa medida, algunas de las funciones y de los instrumentos del Derecho del Trabajo, pero permanecen los valores, principios y derechos fondamentales que dieron lugar a su surgimiento y que siguen justificando su persistencia como instrumento indispensable” (M. Rodrìguez-Piñero, El Derecho del Trabajo a fin de siglo, in Relaciones Laborales, II, 1999, 86). 132 Giusta la sempre valida indicazione di O. Kahn-Freund, Labour and the Law2, London 1977. 133 Come formulato già in W. Siebert, Das Arbeitsverhältnis in der Ordnung der Nationalen Arbeit, Hamburg 1935. 123 28 medioevalista, impostata sulla fedeltà del lavoratore e sulla protezione 134 dell'imprenditore . Una specie di diritto socialmente "rivoluzionario", insomma, fondato sulla critica del principio di uguaglianza giuridica (in senso strettamente formale)135, quale assioma dell'individualismo liberale136; un sistema al cui interno ai diritti fondamentali137, e fin tal tempo della costituzione di Weimar, erano stati riservati un ruolo ed un significato (sociali), fin troppo enfatizzati138. Un diritto che risponde ad un indirizzo, peraltro ribadito in diverse sedi ed occasioni, quasi universalmente assunto (e non a caso!), anche per l'influenza che in materia è stata esercitata delle Convenzioni internazionali e, per quanto concerne l'Europa comunitaria, dalle varie Direttive nel tempo susseguitesi. Tutti gli Stati, ormai, affermano infatti, e solennemente, tra gli altri, il principio di uguaglianza dei cittadini e, nell'ambito dei rapporti di lavoro, quelli del giusto salario, della parità di trattamento, oltre ai postulati fondamentali in materia di sicurezza sociale: la Costituzione della Repubblica italiana introduce anzi, opportunamente e in modo formale, il concetto di uguaglianza "sostanziale". Il vero - occorre sottolinearlo esplicitamente - è che si possono considerare i principi139 del diritto del lavoro140 quali postulati a carattere normativo, destinati a svolgere un ruolo ed una funzione determinanti e determinati nel sistema delle norme giuridiche. In fondo, alla base di una esasperata difesa-offensiva in tema di flessibilità si riscontra la aspirazione di quanti la riducono nella speranza di recuperare tutti i 134 Per tutti O. von Gierke, Die Wurzeln des Diestvertrages, in Berliner Festchrift für Brunner, München 1914 e A. Nikish, Die Grundformen des Arbeitsvertrags und des Anstellungvertrags, Berlin 1926. 135 I codici liberali, infatti, assumono il proprietario come esclusivo modello antropologico, ed alla sua stessa stregua trattano tutti gli esseri umani; mentre il diritto del lavoro deve disciplinare una materia, il "contratto di lavoro" che se "riguarda ancora l'avere per l'imprenditore, (...) per il lavoratore riguarda e garantisce l'essere" (F. Santoro Passarelli , Spirito del diritto del lavoro, in Saggi di diritto civile, II, Napoli, 1962 1071). 136 A. Lyon Caen, L'égalité et la loi en droit du travail, in Droit social 1990, I, 68 ss.. 137 Da annotare che, con particolare asprezza, era stata sottolineata l’inconciliabilità tra i diritti fondamentali di stampo liberale e una concezione socialista dello Stato (così K. Marx, Randglossen zum Programm der deutschen Arbeiterpartei (K. Korsh ed.), Berlin 1922): se ne vedano le argomentazioni, in italiano, in Id., La sacra famiglia, Roma 1967. 138 D’obbligo il rinvio a F. L. Neumann, Die soziale Bedeutung der Grundrechte in der Weimarer Verfassung, Die Arbeit, 1930, 569 ss (anche in F. L. Neumann, Wirtschaft, Staat, Demokratie. Aufsätze 1930-1954, ( A. Söllner ed.). Franfurt a. M., 1978, 57 ss); in generale cfr. Id., Koalitionsfreiheit und Reichsverfassung. Die Stellung der Gewerkschaften im Verfassungssystem, Berlin 1932). 139 G. Ripert, Les forces créatrices du droit, Paris 1955, ricorda che spesso i giuristi parlano dei "principi" ma poi evitano di analizzarli. 140 "But at discussing the basic principles of the labour law, the investigation into the economical laws and the connection with the development of those cannot be neglect At this, we have a start from that the structure of society is the real basis; witch is superstructure of each of the historical periods and means, in this relation, a principal starting point for interpreting the legal and political institution. This is decisive concerning the basic principles as well" (L. Nagy, Les principes fondamentaux du droit du travail, in Bulletin de Droit comparé du Travail et de la Sécurité sociale, Bordeaux 1982, 2, 70 ss.). 29 possibili frutti del coordinamento sociale ed economico "sans avoir rien à payer en contrepartie"141, mentre sullo sfondo collocano il miraggio della gratuità del lavoro e la protezione sociale finanziata esclusivamente dagli stessi destinatari della tutela. Aspirazione e speranze tutt'altro che infondate e chimeriche, se è vero che proprio in Europa142, e soprattutto nell’area centro-orientale, si registra un imponente sviluppo del lavoro precario, del lavoro sottopagato e che, comunque, si allargano quelle sacche nelle quali si agitano, almeno per garantirsi una stentata sopravvivenza, soggetti marginali (rispetto ai normali standard sociali), sempre che non si tratti di lavoratori puramente e semplicemente esclusi dall'area di efficacia e tutela proprie del diritto posto. Una tale idea di flessibilità, non scevra dall’incidenza di interessi sopranazionali143 ,che persegue una progressiva riduzione dei livelli retribuitivi e della protezione sociale, ovviamente non può consentire - in Europa ed altrove - lo sviluppo del dialogo sociale144. Essa si ispira, piuttosto, ad una strategia industriale (del tutto americana) che obbliga i lavoratori a passare da una posizione di sfida ad una totale sottomissione, progetto agevolato quando la politica sociale venga costruita "sul lavoro precario o usando lavoratori avventizi, in violazione degli standards internazionali del lavoro, e con la complicità di uno Stato che si rifiuta di far rispettare le leggi sul lavoro"145. In ogni caso, combinando diversi tipi di flessibilità, i modi d'organizzazione della produzione ed in differenti meccanismi retributivi presentano una tale varietà di forme ed un tanto elevato livello di complessità da rendere difficile ogni tentativo di schematizzazione, sia con l’assumere quale parametro di riferimento le ormai obsolete forme di organizzazione fordista146, che, per converso, richiamando 141 Testualmente A. Supiot, Au-delà de l'emploi. Transformation du travail et devenir du droit de travail en Europe, Paris 1999, 262. 142 Su un particolare aspetto della situazione europea cfr. M. Regini, L’Europa tra de-regolazione e patti sociali, in Stato e mercato 143 A. Perulli, Interessi e tecniche di tutela nella disciplina del lavoro flessibile, in AA.VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, Milano 2003, 59 ss. 144 Supiot, op. lc. ult. cit.; anche Regini, L’Europa tra de-regolazione e patti sociali cit. 145 Così N. Chomsky (Democrazia e mercati nel nuovo ordine mondiale, in N. Chomsky – H. Dieterich, La società globale cit., 29), commentando le dichiarazioni del responsabile degli affari industriali della multinazionale Caterpillar, teorico di una strategia produttiva che consiste nel "produrre in fabbriche meno costose all'estero (… per poi) servirsi delle importazioni dalle fabbriche in Brasile, Giappone e Europa" (cfr. Tyson, in Business Week, 23 maggio 1994). 146 E. Leclercq, Les théories du marché du travail, Paris 1999, 389. 30 l'esperienza giapponese e la "filosofia toyotista"147, come microsistema produttivo e quale paradigma macroeconomico148. 16. Restiamo nell'ottica del mercato del lavoro solo per accennare ad un altro problema, strettamente legato all'evoluzione trasnazionale dell'economia ed al nuovo "ordine politico" internazionale. In nome della competitività149, le imprese multinazionali150, procedendo ad una dislocazione organizzata su scala globale dei centri di progettazione, produzione, gestione e commercializzazione tendono ovviamente a realizzare alte economie di spesa e rilevanti redditi aziendali, anche mediante la soppressione di ogni limite alla circolazione di monete, merci e capitali151. Sicché la concorrenza si affida soprattutto ad economie di scala, fondate sulla compressione (e sulla riduzione) di una serie di costi sociali152, specie mediante il ricorso al dumping sociale153, da cui discende non solo una maggior rendita, ma che implica la possibilità di (re)orientare investimenti e localizzazioni produttivi, solo relativamente ad alcune fasi del processo produttivo154, nei settori labour intensive155 o a medio contenuto tecnologico, a seconda delle esigenze e delle vocazioni di impresa. Quanto precede, con un duplice effetto. Restando nel contesto europeo e considerando i Paesi nei quali si vanno ad allocare gli insediamenti industriali "migranti", all'apparente beneficio di un effimero 147 L’idea della produzione « giusto a tempo », in che essenzialmente si concreta tale “filosofia”, viene attribuita a Kiichiro Toyoda, che l’avrebbe concepita negli Anni trenta per ridurre l’incidenza dei costi di produzione; tale idea viene riscoperta e concretizzata, alle soglie degli Anni cinquanta, da Taïïchi Ohno (vedi l’interessante ricostruzione del fenomeno fatta da K. Shimizu, Le toyotisme, Paris 1999). 148 Un'accurata descrizione del duplice aspetto del toyotismo in P. Dockès, Les recettes fordistes et les marmites de l'histoire (1907-1993), in Revue économique, maggio 1993; sul tema si veda anche T. Ohno, Lo spirito Toyota, Torino 1995. 149 Sul ruolo della competitività e della libera concorrenza, nel contesto della globalizzazione, e sul dato che “les changements touchent particulièrement les règles protectives” (del diritto del lavoro), insiste L. Nagy, Globalisation et emploi, in Acta Universitatis Szegediensis, Acta Juridica et Politica, t. LIX, fasc. 13, Szeged 2001, 3 ss. 150 Per una lucida analisi ed un approfondimento del dibattito sull’analisi economica della globalizzazione, sulle sue conseguenze macro-economiche e sul ruolo delle imprese multinazionali - sia pure da uno specifico angolo visuale – cfr. J. L. Mucchielli, Multinationales et mondialisation, Paris 1988. 151 A. Gorz, Forger un autre avenir, in Le Monde, 8 ottobre 1996. 152 Mediante tale strategia che si traduce in basse retribuzioni, incerte condizioni di lavoro, casi limite persino di sfruttamento del lavoro minorile - comprimendo gli standard sociali utilizzando metodiche di sweatshop - i beni sono prodotti ad un costo di gran lunga inferiore al costo di produzione dei Paesi verso i quali l'esportazione è orientata e dove si determina la relativa commercializzazione. In buona sostanza, il bene importato non è gravato da costi sociali di produzione assunti come parametri minimi degli stessi paesi di importazione 153 In generale - com'è noto - il dumping, premettendo l'introduzione dei prodotti di un Paese sul mercato di un altro Paese, ad un prezzo inferiore al loro valore normale, si risolve nella vendita di un prodotto su un mercato estero, appunto, ad un prezzo inferiore al suo valore normale, cioè a quello praticato nel mercato di origine e comunque ad un prezzo non sufficiente a coprirne l'effettivo costo di produzione (art. VI, c. 1, GATT) 154 Classica la forma dell'outward processing trade, talora elusiva dei dazi antidumping. 155 Tipico, nel nostro Paese, il caso dell'industria dell'abbigliamento, con una manifesta propensione alla localizzazione di assetti produttivi nei Paesi dell'Europa Centro-orientale, nel Nord Africa e in Estremo Oriente. 31 aumento dell'occupazione si coniugano fenomeni reali e/o indotti di sfruttamento dei lavoratori, il diffondersi di meccanismi di corruzione, il radicarsi di una mentalità diffusa che vede nel mancato progresso sociale una condizione "naturale", alla quale non bisogna opporsi nel nome di un presunto benessere nazionale e collettivo. Sull'altro versante, quello dei Paesi dai quali le industrie "partono alla conquista" di nuovi mercati di produzione e lavoro a basso costo, l'effetto più immediato e manifesto - ci limitiamo a questa semplice ed immediata osservazione - consiste nell'aumento della disoccupazione, un trend tanto effettivo quanto preoccupante, non a caso tipico dei Paesi altamente industrializzati156. La disoccupazione, quindi: un altro dei guasti di maggior peso effetto diretto ed indiretto della globalizzazione economica. E' piuttosto singolare, verrebbe da dire bizzarro, che nel passaggio dalla società industriale alla società post-industriale la produzione aumenti, mentre il lavoro diventa una specie di privilegio; aumenta, quindi, la produzione globale e non aumenta l'occupazione, non migliorano il tempo e la qualità del lavoro, non crescono le retribuzioni, non si elevano gli standards sociali; e, invece, si registra un parallelo aumento dei redditi di imprese, una crescita esponenziale delle rendite parassitarie157, un incremento del tasso di disoccupazione dei Paesi maggiormente industrializzati. E, intendiamoci, si assume con accenti fideistici la validità a tutto campo del modello americano (dimentichi, peraltro, della specificità di quella esperienza), ma non si sottolinea che proprio nell'ultimo periodo in quel Paese si sono verificati consistenti tagli di posti di lavoro nelle aziende hi-tech, nel campo della cosiddetta "New Economy"; che solo in un mese, proprio quest'anno, l'economia americana ha perduto complessivamente oltre duecentomila posti di lavoro e che il tasso di disoccupazione (peraltro, rilevato secondo discutibili criteri statistici) è anch'esso aumentato e che nel 2007 ha presentato gli indici peggiori degli ultimi cinque anni . Non mancano, ancora, in Europa ed in Italia, corifei e cantori ammirati della filosofia industriale del kai zen158 o del just in time159, tendenti ad eliminare quella parte di organico prima utilizzata per svolgere compiti di natura prevalentemente logistica, trasferendo tali mansioni ai lavoratori già impiegati, ed impegnati, nella produzione: e si dimentica di osservare che anche le grandi multinazionali giapponesi 156 Per restare in Italia, basti pensare che negli ultimi "dieci anni le aziende italiane con più di cinquecento addetti hanno incrementato del 18 per cento la loro produzione riducendo del 22 per cento la loro forza lavoro" (De Masi, Il futuro del lavoro cit., 10). 157 Si veda la severa condanna delle posizioni di rendita, in cui ci si arricchisce al di fuori o indipendentemente dall'esercizio di un lavoro produttivo, pronunciata a suo tempo dalla CEI - Commissione Episcopale per i Problemi Sociali e il Lavoro, Democrazia economica, sviluppo e bene comune, Bologna 1994. 158 Si tratta del miglioramento continuo dell'uso dei fattori di produzione, per abbassarne il costo migliorandone la qualità. 159 Tale strategia implica una forte riduzione dei "tempi di attraversamento" del prodotto dentro il ciclo lavorativo e dell'uso delle scorte. 32 procedono, inesorabilmente, sulla via di una drastica riduzione dei posti di lavoro. E non si tratta, certo, di imprese in crisi. D'altra parte, un meccanismo di utilizzo astratto e meramente aziendale della forza lavoro (sconnesso, quindi, da un’ottica organica e lungimirante) può esser utile per creare dal (e nel) nulla le strutture più elementari dell'industrializzazione moderna, può tornare comodo in una logica di impresa che si ispiri alla filosofia neocolonialista del "mordi e fuggi", ma è destinato a precipitare nella stagnazione; tant'è che - esemplare il caso delle economie dei Paesi dell'Europa Centro-orientale, in via di transizione - il peggioramento dei terms of trade ( vale a dire il rapporto tra prezzi di esportazione e prezzi di importazione) ha determinato il collasso di economie già marginali; alle quali, cinicamente, viene additata quale unica possibile soluzione, la "via occidentale" del progresso economico. Anzi si prescrive loro di avviare privatizzazioni scriteriate, di introdurre una deregolamentazione selvaggia, con fin troppo ovvie conseguenze sociali. 17. L'ingresso nella società postindustriale, il passaggio dal fordismo160 al postfordismo (potremmo anche parlare, ricorrendo ad una palese provocazione, di "gatismo"?), che nei rapporti di lavoro appare segnato da un progressivo avvicinamento tra lavoro subordinato e lavoro autonomo161 (ampliando l'area della subordinazione economica correlata ad una indipendenza formale), ha dato anche l'avvio ad un processo di profonda modificazione del rapporto tra impresa e mercato, onde dall'impresa product oriented si è passati a quella marketing oriented. Nello stesso tempo, però, si prospetta (la costruzione di) una società globale, nella quale i "ricchi" diventano ancora più ricchi ed i "poveri" sempre più poveri (a livello individuale162 e di Paesi), mentre svaniscono le lucide argomentazioni di chi, 160 Sulla scia dell'esperienza taylorista (i cui principi trovarono un’essenziale enunciazione nel 1899), Henry Ford - che aveva costruito la sua prima automobile nel 1893 - fondava la Ford Motor Company nel 1903 ed inaugurava la catena di montaggio, sintesi massima del taylorismo-fordismo, nel 1913: in quel momento per montare un motore occorrevano 9 ore e 54 minuti; dopo appena sei mesi questo tempo era stato ridotto a 5 ore e 56 minuti! Ispirandosi a valori che derivano direttamente dall'illuminismo francese, ma permeati di pragmatismo anglosassone, l'impresa, in questa fase, si propone quale struttura collettiva (al cui interno la composizione della forza-lavoro si è modificata rispetto il modello industriale inglese), centrale rispetto la società; l'azienda industriale produce prodotti, servizi e valori per imporli alla società, agendo secondo uno schema organizzativo fondato su sei principi: standardizzazione dei prodotti, parcellizzazione delle mansioni operaie, applicazione di un'economia di scala, sincronizzazione dei tempi di vita e lavoro, accentramento delle informazioni e del potere nei vertici aziendali e costruzione di un sistema d'impresa piramidale, massimizzazione dell'efficienza e della produttività (cfr. A. Toffler, La terza ondata, Milano 1987). 161 Riflessioni relative sull'esperienza italiana in S. Bologna – A. Fumagalli (ed.), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Milano 1997. 162 Secondo talune previsioni, infatti, se non si determineranno cambiamenti radicali, nel non lontano 2005 il discrimine tra ricchezza e povertà non passerebbe – com’è adesso – tra un 78% povero ed un 22% ricco, ma tra un 17% ricco e un 83% povero (A. Rossi, Il mito del mercato, Enna 2002, 16) Né si può dimenticare che in Malesia, Tailandia e Filippine, già nel 1997, 40 milioni di persone vivevano con meno di un $ americano al giorno e secondo una stima (che risale a quel periodo) si ritiene che, al momento attuale, in questa situazione versino circa 100 milioni di persone: ovviamente 33 in tempi non lontani, riconosceva al demos ed ai suoi rappresentanti "il diritto di decidere, mediante il processo democratico, come dovrebbero essere possedute e controllate le imprese economiche, allo scopo di realizzare, per quanto è possibile, valori quali la democrazia, l'equità l'efficienza, la promozione delle qualità umane desiderabili ed il diritto a quelle minime risorse individuali che possono essere necessarie a condurre una buona vita"163. Una transizione dal fordismo al postfordismo che, con l'esodo dalla "società del lavoro", ormai agonizzante164, dovrebbe aprire una nuova era, nella quale "il lavoro a tempo pieno di tutti i cittadini non è più necessario né economicamente utile" 165; dove - per dirla con gli operai di Wolsburg - finalmente il lavoratore possa conseguire in una con la stabilità occupazionale, "Zeit zum leben, lieben, lachen". Anzi, proprio con il termine "post-industriale" si indicherebbe un nuovo modello di società improntata alla connessione e ricomposizione: tra vita e lavoro, ufficio e casa, etica ed affari, beni e servizi, quantità e qualità. Solo che, nella società globale, all'aumento oggettivo del tempo libero166 non sembra corrispondere l'avverarsi della profezia per cui il "lavoro totale" sarebbe destinato a scomparire o a depotenziarsi; alcuni indici dimostrano, piuttosto, che, in sostanza, quello che viene definito come una forma di "dualizzazione del salariato", in una con la frammentazione e gerarchizzazione del mercato del lavoro, con una diffusa precarizzazione, con il moltiplicarsi di nuovi casi di esclusione o marginalità167, con l'allargamento del ventaglio remunerativo, rappresentino piuttosto esempi significativi e preoccupanti di un processo di totalizzazione che passa attraverso l'individualizzazione, muovendosi nel cuore stesso della transizione dal fordismo al posfordismo168. Non sempre si ricorda che, in via generale ed astratta, il lavoro come categoria reale include il "non-lavoro"169 e che solo nelle società "le conseguenze sociali sono allarmanti. (…..) La violenza, i bambini abbandonati nelle strade, la prostituzione aumentano, mentre il tessuto sociale si trova sempre più teso" (I. Chote, Poverty Coming Back to E. Asia, in Financial Times, 28 settembre 1998). 163 R. Dahl, La democrazia economica, Bologna 1989, 75. 164 A. Gorz, Misères du présent, richesse du possible, Paris 1997, 9. 165 Sempre A. Gorz, Capitalismo, socialismo, ecologia, Roma 1992, 50 166 Nel XIX secolo il capitale di tempo libero, nell'arco di una vita, corrispondeva a 25.000 ore; tra il 1945 ed il 1975 è passato da 45.000 a 135.000 ore (Rapporto Danzin, in Lettre d'écologie, maggio 1978 (non vidi: cit. da De Masi, Il futuro del lavoro cit., 264). 167 Agli emarginati che vivono nei paesi industrializzati, Giovanni Paolo II si riferisce come al "quarto mondo", ricordando che devono essere garantiti "il salario sufficiente per la vita della famiglia, le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione, la tutela adeguata delle condizioni di lavoro" (Giovanni Paolo II, Enciclica "Centesimus Annus", par. 34); nel suo pensiero sociale è stato ravvisato "un certo disprezzo per le caratteristiche del capitalismo liberale", probabilmente "appena migliore del comunismo marxista" (così Wiles, Vatican Prepares Attach on Sins of Capitalism, in Financial Times, 9-10 marzo 1991). 168 L. Boltanski - E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Paris 1999. 169 R. Kurz, L'onore perduto del lavoro, Roma 1994, 32. 34 primitive si avverte la totalità di un processo riproduttivo nel quale non esistono, quali sfere particolari, né lavoro, né tempo libero, né cultura. D'altra parte occorre riconoscere che le nuove tecniche di trasferimento di autonomia e di personalizzazione del lavoro tipiche della nuova fabbrica "a ciclo teso" ed ad alto grado di flessibilità non hanno provocato, infatti, una desaturazione del lavoro, un effettivo alleggerimento del suo peso, ma che semmai hanno determinato un aggravio d'intensità a carico dei lavoratori: insomma, una loro più totale integrazione nel sistema produttivo. 18. Ai profondi cambiamenti della struttura e della composizione della forzalavoro si è già accennato; come non si è mancato di far cenno al fenomeno della flessibilità e, soprattutto, di richiamare le drammatiche conseguenze che il gioco perverso ed il nefasto combinarsi di diversi elementi (che vanno, appunto, dalla globalizzazione economica all'avvento della rivoluzione postfordista) hanno determinato sul piano generale della occupazione. Visto il tema affrontato – e proprio per delineare le "nuove frontiere" del diritto del lavoro170 - non è possibile, tuttavia, esimersi dall'effettuare una pur sommaria ricognizione delle conseguenze intervenute nel/sul mercato del lavoro; un'area nella quale lo sviluppo della flessibilità e della elasticità, oltre all'affermarsi di forme molteplici di lavoro "atipico", di impensabili e talora contrastanti innovazioni introdotte in materia di orario di lavoro171, implicano un'inevitabile erosione (della funzione normativa172) dell’autonomia collettiva, a tutto favore della negoziazione individuale. 170 In tempi, ormai non solo cronologicamente lontani, parlando delle frontiere "attuali" del diritto del lavoro, G. Giugni (Diritto del lavoro (voce per una enciclopedia), in Giornale dir. lav. rel. ind., I, 1, 1979, 44 ss.), sottolineato l'intenso dibattito in corso e le probabili innovazioni, ben a ragione si soffermava sulla disciplina dei licenziamenti, sulla tutela del lavoratore dalla discriminazione, sul pubblico impiego ("vero e proprio campo di frontiera"), sul diritto allo svolgimento"effettivo" del lavoro, sul rapporto lavoro-impresa rimarcando una linea di tendenza orientata "nel senso di una contrazione dell'area di libera valutazione dell'imprenditore" (Aut. op. cit., 47) 171 Mentre in Francia viene introdotta la settimana di 35 ore, nuove forme di organizzazione economica e sociale impongono una estensione del lavoro notturno (con circa 20 milioni di persone normalmente impegnate di notte negli Stati Uniti e quasi 2 milioni in Gran Bretagna) e la previsione di un sensibile incremento di tali cifre e della estensione di siffatta pratica (cfr. Kreitzman, Something of the Night about Too Many of US, in Financial Times, 13-14 marzo 1999). 172 Con una definizione empirico-sociologica del contratto collettivo, che muoveva da una rilevazione delle sue caratteristiche costanti, H. Sinzheimer (Grundzüge des Arbeitsrechts2, Jena 1927 e Der korporative Arbeitsnormenvertrag, I, Berlin 1971, ristampa) preso l'avvio dalla sua "materiale razionalità" (in questo, influenzato dalle idee e dall'uso dell'espressione proprio di M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922) è pervenuto ad una qualificazione giuridico-formale, contigua alla realtà sociale dell'istituto, in applicazione del "diritto vivente" (E. Erlich, Grundlegung der Soziologie des Rechts, München-Leipzig 1913) e, soprattutto, contro un dilagante formalismo giuridico. 35 Al grave problema di un ricorso diffuso e frequente alle possibilità offerte dal "dumping sociale", dallo sfruttamento del lavoro minorile173, dal prepotente riaffacciarsi di un arrogante caporalato 174 si aggiungono i molteplici problemi posti (o imposti) dai processi di ristrutturazione e riconversione industriale, di "reengineering" insomma, dalla decentralizzazione ed atomizzazione delle relazioni di lavoro, dalle modifiche legali intervenute al concetto di "autorità" nell'impresa, da una diversa (rispetto al passato) configurazione del sistema di relazioni industriali - al cui interno un gioco di non poco conto è assunto da un sindacalismo 175 alla ricerca di nuove identità - dal ruolo svolto dagli organismi sopranazionali e dal consolidarsi di nuovi ordinamenti giuridici176. Intanto, " the hierarchical enterprise, the pyramid (….) belongs to the glorious years of Fordism, i.e. the past”177; alla "nuova" impresa, una "corporazione individualizzata", è affidato il compito di sviluppare la creatività e l'iniziativa individuale, di collegare l'attività dell'imprenditore con le capacità individuali (dei lavoratori), costruendo un processo integrato di natura organizzativa, e di svilupparsi ininterrottamente178, mentre in genere il diritto del lavoro (quale complesso organizzato di norme giuridiche), è chiamato a confrontarsi (anche) con la magmatica e sfuggente realtà/dimensione dei gruppi di imprese179. 19. Nella prima fase di siffatto processo di trasformazione, avviato in un clima di sfrenata competitività180, si avverte come nel sistema sociale non esista una 173 Nella civilissima Gran Bretagna lavorano circa due milioni di ragazzi, dei quali mezzo milione non ha ancora compiuto 15 anni! (Validire, Social: les cacophonies de l'Union Européenne, in Le Figaro Economique, 30 settembre 1998). 174 Per una definizione si rinvia a A. Anastasi, Appunti in tema di "caporalato", in Incontri meridionali, 1, 1989, 73 ss.. 175 Recentemente l'OIT, in un suo Rapporto, riservato alle Relations industrielles, à la Démocratie et à la Stabilité sociale denuncia un declino su scala mondiale della capacità rappresentativa del sindacato, mentre il tasso di sindacalizzazione nel settore privato continuerebbe a decrescere, passando dal 10,8% del 1994 al 9,7% del 1997 (Taylor, Union Survival Is "Hitting Snags", in Financial Times, 22 ottobre 1998). 176 Il caso del "diritto comunitario del lavoro" appare paradigmatico; per coglierne le linee essenziali, le caratteristiche, gli organi e gli istituti cfr., tra gli altri, M. Roccella - T. Treu, Diritto del lavoro della Comunità europea 3, Padova 2002; L. Galantino, Lineamenti di diritto comunitario del lavoro, Torino, 1997; G. Arrigo, Il diritto del lavoro dell'Unione europea, I, Milano 1998 e II, Milano 2001. Per una prospettiva parzialmente diversa si rinvia a B. Teyssié, Droit Européen du Travail, Paris 2001. 177 Efficacemente Blanpain, Social Dialogue cit., 54. 178 S. Goshal - C. Bartlett, The Individualized Corporation. A Fundamentally New Approach to Management. Great Companies Ate Defines by Pourpise, Process and People, London 1998, passim ma, soprattutto, 14. 179 Per quanto riguarda l'Italia, poneva già l'accento su tale tematica B. Veneziani, Gruppi di imprese e diritto del lavoro, in Lavoro e diritto, IV, 4, 1990, 609 ss., ricordando che il diritto del lavoro "ha trovato una collocazione normativa nello schema del contratto di lavoro, costruito intorno a quelle che potremmo chiamare le regole aristoteliche del diritto del lavoro", caratteristiche però delle società pretecnologiche e che ormai le alterazioni delle regole classiche del lavoro possono verificarsi "sia nel momento genetico che in quello funzionale del rapporto" (611). 180 Sui profili economici, per tutti, cfr. J. E. Stiglitz, The Meanings of Competition in Economic Analysis, in Riv, int. Scienze soc., 1992, 2, 191 ss.. 36 netta separazione dello Stato dalla società e dall’economia ed emerge la stretta interrelazione tra diritti ed economia181. In assenza di un quadro istituzionale che disciplini la regolamentazione sociale degli interessi collettivi, è da segnalare che, in ogni caso, lo Stato rimane ancora un attore principale nella scena economica: senza dire che specie nel settore delle imprese statali, il ruolo dei quadri dirigenti (i datori di lavoro diretti) non gode di particolare autonomia e le loro decisioni nel campo dei rapporti collettivi di lavoro mostrano di non essere del tutto indipendenti dal potere centrale. Nel corso di tale processo di trasformazione182 è dato, inoltre, constatare, accanto alla moltiplicazione sindacale ed alla correlata nascita di notevoli problemi in materia di rappresentatività183, anche un aumento dei conflitti184 settoriali che, nello stesso tempo, vedono lo Stato partecipe, assumendo un carattere verticale. Questo, mentre le singole imprese e le varie categorie del settore statale, a richiesta dei lavoratori, bloccano o ritardano i processi della ristrutturazione. Intanto, se la principale causa di conflitto è la retribuzione media nel settore produttivo, resta abbastanza diffusa la convinzione sociale che le azioni di protesta per motivi economici siano giustificate e che lo Stato abbia l’obbligo di partecipare alle trattative con i sindacati e di soddisfare le richieste dei lavoratori. In tale contesto è da sottolineare che le richieste rivolte allo Stato da parte dei singoli sindacati o da loro associazioni sono spesso incoerenti, se non contraddittorie, e che i rapporti tra i vari sindacati sono non di rado molto tesi: il che rende difficile la loro collaborazione e la comune partecipazione alle trattative 20. Giunti a questo punto, anche se - almeno a mio avviso - non si poteva prescindere da un disegno unitario di una complessa realtà che resta lo sfondo unitario di un comune processo di trasformazione, pur segnato da percorsi talora diversificati, da tappe spesso disomogenee resta ancora un debito: trarre, in ogni caso, alcune conclusioni puntuali, in riferimento al tema affrontato in questa sede. Sia detto chiaramente: nello specifico spaccato dei Paesi dell'Europa centroorientale, nella fase del post-comunismo e nel complesso percorso inteso alla costruzione di una democrazia disomogenea, pur nelle differenze ontologiche e 181 Per un quadro di insieme cfr. A. A. Schmid, Tra economia e diritti. Proprietà, potere e scelte pubbliche, Bologna 1988. 182 In generale L. Bruszt, Le politiche di trasformazione in Europa orientale, in Stato e mercato, 1992, 34, 131 ss.. 183 Si rinvia a M. Pliskiewicz - M. Seweryński, Les problemes de la répresentativité dans les relations professionnelles, in E. Sobótka – M. Pliskewicz, La répresentativité des partéeaires sociaux dans les relations collectives de travail, Biblioteque du Dialogue social, Varsovie 1996, 52 ss.. 184 Un esame significativo in T. Zieliński, Conflicts collectifs de travail dans le droit polonais - pèriode communiste e postcommuniste, in M. Seweryński- A. Mazal (ed.), Changement politique et droit du travail, cit., 135 ss. ; i puntuali rilievi concernono l’esperienza della Polonia, ma è il caso di ricordare come il fenomeno, almeno nelle sue linee generali, sia comune anche ad altri Paesi. 37 funzionali che segnano tale processo, si possono cogliere alcuni dati unitari: che, tipici delle specifiche situazioni nazionali, ripropongono comunque, ed enfatizzano, momenti e situazioni di un processo di disgregazione di quel diritto del lavoro, nato - per richiamare, ancora una volta, la felice espressione di Gérard Lyon-Caen - come diritto rivoluzionario. Nell'ambito di quello che possiamo chiamare un sofferto185 percorso tendente alla (ri)civilizzazione del diritto del lavoro186, dalla Bulgaria (della quale con la competenza e la capacità che La distinguono, certamente, meglio di me si occuperà l'avvocato Panova) alla Repubblica Ceca, dalla Lettonia all'Estonia, dalla Lituania alla Polonia, dalla Romania alla Slovacchia, dalla Slovenia all'Ungheria resta un unico comune denominatore, ricorrente nei Codici del lavoro già riformati, talora in corso di riforma e spesso in leggi speciali187. Una nuova tecnica regolativa (ma il meccanismo non è mutuato dai paesi che non hanno vissuto la dolorosa esperienza di un cieco collettivismo?) che si affida alla derogabilità, quale principio comune ai contratti di lavoro. Così i Paesi dell'Europa centro-orientale si sono aggregati in un comune, ricorrente processo riformistico, esploso sotto il drappo di una cultura della libertà non sempre e non pienamente intesa e, comunque, fondata sull'erosione di alcuni fondamentali parametri di socialità: in ogni caso nel solco di un processo di profonda modificazione delle stesse finalità del diritto del lavoro, specie mediante una progressiva erosione della nozione di inderogabilità. Un processo che sottintende pregiudiziali scelte politiche dei diversi legislatori nazionali, non di rado ispirate alla logica di un selvaggio protocapitalismo, che non di rado - rispetto al diritto dei Paesi di antica cultura lavoristica proprio dell'Europa occidentale - sembrano esplodere in una sorta di tensione critica, quando non appaiono disorientate da tale confronto finendo con l'esprimere scelte strumentali, non sempre coerenti con l’impianto di democrazia costituzionale che sta alla base dell’ordinamento nazionale. 185 Appare sintomatico della "sofferenza" del processo riformatore il caso della Slovacchia, che muovendo dalla Legge No. 311/2001 Coll.., Codice lavoro, vede intervenire successive riforme con le Leggi No.165/2002 Coll., No. 408/2002 Coll., L. No. 413/2002 Coll., L. No. 639/2002 Coll.,L. No. 210/2003 Coll., L. No.210/2003 Coll. – Part No. 177/2003 Coll., L. No. 461/2003 Coll., L. No. 5/2004 Coll.,L. No. 365/2004 Coll., L. No. 82/2005 Coll., L. No. 131/2005 Coll., L. No. 244/2005 Coll., L.No. 570/2005 Coll., L.No. 124/2006 Coll. e L. No. 231/2006 Coll. 186 Su un diverso versante, emblematico il percorso della Polonia, un Paese distintosi già nel periodo del più feroce comunismo, per la propria eterodossia ed un diffuso sentimento libertario: in una tormentata fase post-comunista, la disciplina del lavoro vede convergere la normativa del Codice del lavoro, con le vibranti (ri)affermazioni del principio di libertà contrattuale e della coesistenza sociale (ex art. 353-1, Codice civile), tant'é che le parti devono essere consapevoli di aver concluso un "contratto di diritto civile" (ex art. 22 § 1, Codice lavoro), non privo di risvolti commerciali (ex art. 177 del Codice di commercio), rilevando almeno per la giurisprudenza della Corte Suprema una certa relatività delle stesse forme legali (Corte Suprema, 14 gennaio 1993, II CZP 21/92, OSNCP 1993, libro V, 69). 187 Significativa, in tema di definizione dell'orario di lavoro, la disciplina introdotta in Lettonia, risultante dalla legge sul lavoro (Capitoli 31-35), ma anche da atti di natura legislativa dal Gabinetto del Ministero ed "atti locali" (quali contratti collettivi, procedure di regolamentazione del lavoro e contratti individuali). 38 Il panorama diviene, così, variopinto, segnato da norme derogabili, contratti di lavoro non-standard e dal riequilibrio dei poteri delle parti, nella logica di una flessibilità nell’organizzazione del lavoro realizzata facendo soprattutto ricorso alla tecnica della derogabilità: fenomeno al quale non è certo estranea la debolezza istituzionale di un sindacalismo evanescente, che perdute quelle funzioni - specie amministrative - che gli erano proprie nella realtà comunista, non riesce ad acquisire nè coscienza cogestionale nè consapevolezza conflittuale. In tal modo, nei diversi sistemi, non solo si espandono quelle tipologie contrattuali in cui ad un esercizio assai ampio di prerogative manageriali fanno riscontro posizioni soggettive di tutela attenuata, oltre che una variegata espansione delle forme di subordinazione (spesso camuffata) che meglio si prestano ad essere funzionalmente orientate verso tali poteri imprenditoriali, enfatizzando il momento della libertà contrattuale delle parti188. Tant'è che emergono fattispecie di contratti individuali in cui quell'assetto disciplinare inderogabile, che tradizionalmente ha retto e definito gli stessi assetti del contratto di lavoro subordinato, viene legislativamente adattato alle (ed adottato nelle) strutture di un’organizzazione del lavoro tanto flessibile quanto non compatibile con un civile sistema di garanzie dei diritti fondamentali del lavoratore. Non è priva di rilievo, ad esempio, la constatazione che le relazioni di lavoro trangolari non trovino, in un grande Paese qual'è la Polonia, una loro specifica disciplina: il che comunque non ne esclude l'esistenza e l'utilizzo, indipendentemente da qualunque regolamentazione normativa. Insomma, può annotarsi, sempre in relazione alla Terra di Copernico e di Chopin, che in materia di lavoro anche lo stesso principio dei diritti quesiti non costituisce un valore assoluto, anzi che gli stessi non sono "sacri"189; mentre - come annotato già in precedenza190 - si può ribadire che in numerose ipotesi il "lavoro subordinato", in quanto attività prestata in forza di specifico contratto di diritto commerciale, trovi la propria disciplina primaria nel "diritto civile dei contratti", rispetto alla quale deve essere considerato come una "specie differente di lavoro retribuito"191. Sostanzialmente analoga l'esperienza ceca, dove il Codice del lavoro distingue tra rapporto di lavoro (se il lavoro costituisca l'unica forma di sostentamento per il lavoratore e la sua famiglia), da una parte, e accordo per svolgere un lavoro, dall'altra, introducendo diverse formule contrattuali; tutto ciò mentre la disciplina codicistica concentra la propria attenzione soprattutto su alcuni minuziosi profili, quali una 188 Cfr. § 18 Codice lavoro della Slovacchia T. Zieliński, The Role of Law in the Transition to a Democratic System, in M. Seweryński (a cura di), Polish Labour Law and Collective Labour Relations in the Period of Transformation, Social Dialogue Library, Warsaw, 1995, p. 10 s.). 190 Cfr. nota 245. 191 Così la l. 14 Dicembre 1994. 189 39 tradizionale definizione del contratto di lavoro 192, il periodo di prova 193, la clausola di non-concorrenza194, la sospensione e l'interruzione del mercato del lavoro195, l'estinzione del rapporto di lavoro196, la materia dei licenziamenti collettivi197, del tempo di lavoro198, le festività199, i legittimi impedimenti200. Resta, inoltre, da segnalare l'attenzione che il legislatore ungherese, impegnato in un processo riformistico del Codice del lavoro, abbia centrato la propria attenzione essenzialmente sulla materia delle discriminazioni201. Nello stesso tempo è, forse, appena il caso di ricordare che una molteplicità di interventi riformatori del Codice del lavoro intervenuti nel tempo in Romania non affronti alle radici una complessiva tematica definitoria con gli emendamenti che a partire dal 2003 - data di approvazione del nuovo Codice del lavoro - si sono susseguiti anche negli anni 2005 e nel 2006: fermando piuttosto la propria attenzione su talune forme di una diffusa precarietà e concentrando il dibattito sulla definizione di diritti ed obblighi delle parti. Tradizionale la definizione di contratto di lavoro proposta dal Codice di lavoro lettone (art. 94), che propone quali contratti speciali il lavoro addizionale, secondario, a domicilio, suppletivo. 21. Così, può avvenire (ed avviene) che in un'area geografica di non poco rilievo quanto di antica e profonda civiltà, il contratto individuale di lavoro anziché incidere sul tradizionale squilibrio fra le situazioni soggettive dei soggetti contraenti, si risolva e si riduca in un assetto disciplinare del contenuto obbligatorio del rapporto, finendo col consolidarne la strutturale asimettricità. Non a caso, specie dopo il recente allargamento dell'Unione europea, si impone un'ulteriore riflessione, sulla compatibilità di assetti nazionali in cui la derogabilità sembra essere divenuta "la" nuova tecnica regolativa dei rapporti individuali di lavoro, specie in alcune particolari materie: quali - solo per fare qualche esempio - è possibile citare il principio della parità di trattamento, assente nell'area dei contratti non-standard, marcati piuttosto da una forte frammentazione delle tutele; una sempre più articolata diversificazione dei trattamenti economici e normativi all’interno dello stesso luogo di lavoro o, comunque, alle dipendenze dello stesso datore di lavoro; i 192 Vedasi la Sezione 29 del Codice lavoro Ceco. Cfr. Sezione 31 ibidem. 194 Sezione 32 ibidem, come emendata dalla l. No. 46/2004, in applicazione della Direttiva 91/553/EEC 195 Sezione 124, 127 e 128 ibidem. 196 Sezione 46 ibidem. 197 Sezione 52 del Codice lavoro Ceco, in applicazione della Direttiva 98/59/EC 198 Sezione 83 del Codice lavoro Ceco, in applicazione Convenzione OIT 1919/1 e della Direttiva EC 93/104/EC come emendata dalla Direttiva 2000/34/EC 199 L. slovacca No. 245/2000 Coll. 200 Sezione 124 (1) del Codice lavoro Ceco. 201 L. XXII/1992, di riforma del Codice del lavoro. 193 40 frammentati sistemi nazionali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; le stesse nozioni di "orario di lavoro"202 e di "periodo di riposo" che in forza del diritto comunitario occorrerebbe definire secondo criteri oggettivi, sì da garantirne un’applicazione uniforme in tutti gli Stati membri; senza dire, ancora della materia del lavoro part-time203 e dei contratti a termine. Che la situazione sia drammatica, si ricava - se ve ne fosse bisogno o necessità di ulteriore dimostrazione - dalle preoccupanti riflessioni di chi, e riferendosi all'esperienza ungherese testualmente, in modo non equivoco, sottolinea che, addirittura già dall'era comunista, "the use of ‘bogus’ or false civil law contracts is quite common in Hungary; in other words, employers often do not employ their workforce (or part of it) on the basis of standard employment contracts regulated by the Labour Code, but on the basis of bogus contracts under civil law". 204 22. Su un altro versante si colloca un comune, diffuso, indifferenziato processo legislativo e non che, sfrangiando le frontiere tra lavoro autonomo e subordinato, favorisce in sempre maggior misura, anche se con alcune diversificazioni nazionali, il consolidarsi di una sorta di “zona grigia” fra subordinazione e autonomia. Sia chiaro: la comune espressione, grey zone, può provocare una qualche confusione concettuale, in quanto essa assume almeno due diversi significati, poiché a tale area possono essere ricondotte quelle forme di lavoro che è possibile collocare in una logica binaria, presentando, oggettivamente, caratteri propri sia del lavoro subordinato che di quello autonomo. D'altra parte, forse arbitrariamente, vengono definiti "grigi" quei lavori che sotto l'apparenza di lavoro autonomo celano un rapporto di lavoro subordinato, integrando la fattispecie dei "falsi lavoratori autonomi", che in via di fatto vengono trattati come autonomi, ma che sub specie juris e nella sostanza delle cose svolgono una attività di lavoro subordinato, ricorrendone tutti i requisiti. Nella prima ipotesi, invece, non si tratta di verificare la corretta applicazione della legge, quanto risolvere una strutturale incertezza sulle stesse categorie giuridiche (lavoro subordinato e lavoro autonomo) e sui i criteri legali e giurisprudenziali utilizzabili per qualificare il rapporto di lavoro. Insomma, non si tratta di una pratica illegale, quanto dell'emergere di figure lavorative "di confine" non facilmente qualificabili. 202 Cfr. nota 246. Si vedano, però, a mero titolo esemplificativo, le sezioni 134 (1) e (2) della legge lettone sul lavoro intesa all'armonizzazione con Direttiva 1999/70/EC. 204 L. Neumann, Economically Dependents Worker in Hungary, Institute for Political Science, Hungarian Academy of Sciences, Budapest 2007. 203 41 Ora il dato che ci sembra caratterizzare la complessa realtà giuridica e sociale osservata, consiste nella difficoltà di applicare schemi precostituiti, probabilmente validi per paesi di consolidato assetto giuridico formale, ma assolutamente inidonei nelle situazioni esaminate, ove il dato normativo appare (volutamente) magmatico, sfuggente, piegato alle ragioni di una (nuova) Storia, con ogni probabilità non sempre correttamente interpretata. Ampliamo la riflessione, sottolineando che con una certa dose di ipocrisia, soprattutto in ossequio alle esigenze del grande capitale internazionale, alla logica della globalizzazione, al diffondersi di sistemi e meccanismi di flessibilizzazione, insomma per ragioni e spinte economiche e finanziarie - per dirla in breve - si è andata nello stesso tempo restringendo l'area del lavoro subordinato, allargando quella del lavoro autonomo, mentre si è affacciato il tertium genus, battezzato con sicura fantasia (ma, forse, anche con un pizzico di ipocrisia) del lavoro economicamente dipendente, dal punto di vista formale non subordinato. L’importanza di tale tendenza non sta tanto nella dimensione quantitativa del fenomeno, in quanto il lavoro non subordinato, benché in aumento, rimane un fenomeno di gran lunga meno consistente di quello subordinato: essa risiede piuttosto nella sua dimensione qualitativa, vale a dire nelle caratteristiche nuove che il lavoro “indipendente” (almeno dal punto di vista formale, ma sostanzialmente dipendente da uno o pochissimi committenti) è andato in parte assumendo; onde - come noto - a livello europeo, in un dibattito sul futuro del lavoro avviato a suo tempo con successo205, è invalso l’uso di farvi riferimento come alla specifica tipologia del lavoro autonomo, economicamente dipendente. Con uno sforzo logico, si può sostenere che si tratti di una forma di lavoro che si colloca in posizione intermedia tra il lavoro (pienamente) autonomo e il lavoro (pienamente) dipendente, vale a dire in una sorta di zona grigia in cui in qualche misura si sommano alcune delle caratteristiche di entrambe le due categorie lavorative: non a caso, se ne parla talvolta come di lavoro “semi-indipendente” ovvero “quasi-dipendente”. Si tratta di un fenomeno dettato (anche) dalla crescita dei processi di outsourcing, che si accompagna ad una crescita di forme di lavoro autonomo, denominate dependent outsourcing in quanto il lavoratore è sì formalmente autonomo, ma le condizioni di svolgimento della propria attività sono in molti casi simili a quelle del lavoratore subordinato (dependent self-employed workers”). Tale vicinanza al lavoro subordinato è confermata da evidenze empiriche: infatti, su ricerche condotte in 10 Stati europei, è stato rilevato che il 13% delle imprese utilizzata l’outsourcing per attività che in precedenza venivano svolte da lavoratori subordinati. 205 A. Supiot, Critique du droit du travail, Paris 1994, specie 255 ss. (ma già A. Supiot, Le travail, liberté partagée, in Droit social, 1993, 715 ss. 42 Da annotare, tuttavia che, più in generale si tratta di lavoro la cui denominazione, anzi, la cui stessa identificazione, tendono a rimanere ampiamente indeterminate e incerte, e a variare sensibilmente tra i paesi206. Inutile sottolineare (ma opportuno ricordare) che una definizione normativa di lavoratore “economicamente dipendente” ovvero di lavoratore parasubordinato è propria degli ordinamenti di Italia, Germania e Regno Unito, ma che è possibile includere in questo gruppo anche quegli Stati (Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda , Norvegia Paesi Bassi, Portogallo), nei quali pur non esistendo una nozione legale di lavoratore economicamente dipendente, non è macato un vivace dibattito politico centrato sulla stessa opportunità di introdurre misure legali per i lavoratori economicamente dipendenti. D’altra parte, in altri Stati (quali Belgio, Lusasemburgo, Spagna e Svezia manca una definizione di lavoratore economicamente dipendente e risulta assente anche un significativo dibattito interno alle forze politiche e sociali su tale fenomeno. Esiste quindi un serie di stati dove è stata formulata una nozione legale di lavoratore economicamente dipendente: all’interno di tale raggruppamento vanno messi in evidenza quelli nei quali tale nozione è oggetto di una disciplina legale, ed è pertanto possibile individuare sia i caratteri giuridici del lavoro economicamente dipendente, sia la disciplina ad essi applicabile. In particolare gli Stati membri nei quali il ricorso alla figura del lavoratore economicamente dipendente assume un carattere più preciso sono senza dubbio l’Italia e la Germania, ove da almeno due decenni è stata introdotta, ora dalla dottrina ora dallo stesso legislatore, il termine “lavoro parasubordinato”. Questi Stati, pertanto, si presentano come osservatori privilegiati per verificare quali possono sono i contorni di questo fenomeno e quali le risposte che sono state concretamente apprestate sul piano giuridico. A fianco di essi occorre ricordare il Regno Unito, per gli sviluppi di una recente legislazione intesa ad allargare le tradizionali categorie di riferimento, mediante il ricorso alla nozione di “worker”. Resta, comunque, un dato, che sembra necessario richiamare in questa sede: in nessun paese è stata formalmente proposta una terza categoria giuridica, oltre a quelle del lavoro autonomo e del lavoro dipendente, in quanto il lavoro “economicamente dipendente” viene infatti ricondotto entro l’ambito del lavoro autonomo, benché se ne riconoscano, almeno in alcune ipotesi, le peculiarità rispetto al lavoro autonomo tradizionale. Privo, quindi, di una chiara ed uniforme definizione giuridica, il lavoro 206 Come noto, solo in alcuni casi (Italia, Germania, Regno Unito) sono state proposte definizioni giuridiche riguardanti alcune figure di "lavoratori economicamente dipendenti" (in Italia "parasubordinati"); negli altri non si dispone di nozioni giuridiche precise, benché in qualche caso (come in Francia e nei Paesi bassi non sia mancato un dibattito sulla opportunità di introdurre misure giuridiche a favore di tali figure. La confusione concettuale e le carenze legislative appaiono di ancor maggior rilievo nei Paesi dell'Europa centro orientale. , 43 economicamente dipendente si caratterizza anche per l’assenza di una precisa delimitazione statistica e quindi per la difficoltà di misurarne la consistenza con una certa accuratezza, tant'è che in molti paesi non è possibile fornire dati sulla diffusione di questa modalità di lavoro “autonomo". 23. É fin troppo ovvio richiamare, a questo punto, che lo sviluppo di forme di lavoro non subordinato, o indipendente, costituisce uno dei tratti centrali dell’economia dei paesi più sviluppati negli ultimi anni e che una sorta di ritorno al lavoro indipendente si atteggi per la Commissione Europea una ipotesi ritenuta particolarmente fruttuosa. Sia come sia, resta incontestabile lo sviluppo in tutti i paesi di modalità di lavoro (solo) formalmente autonomo, o indipendente, che di fatto si differenzia dall’attività dell’imprenditore pienamente indipendente, in grado di muoversi liberamente sul mercato. Appare, tuttavia, indiscutibile che tale fenomeno ponga un problema di definizione dei suoi confini in esame rispetto a quelli consolidati del lavoro dipendente e del lavoro indipendente; o, forse, più in generale, che possa provocare un ripensamento delle categorie con cui il lavoro si classifica. In questa sede, comunque, rileva solo sottolineare l’ambiguità, o la doppia natura, di forme di lavoro in cui - indipendentemente dall’esistenza di definizioni giuridiche dedicate, ma anche dalle valutazioni che ne diano gli stessi interessati variamente si combinano elementi che siamo abituati a considerare tipici del lavoro autonomo ed elementi che riguardano piuttosto quello dipendente, concretizzando una fattispecie che, in effetti, appartiene all'area del lavoro subordinato. Una fattispecie che, però, specie nelle dimensioni geo-politiche oggetto delle nostre riflessioni, non trovano formale collocazione, puntuale definizione all'interno - e questo è ciò che conta, nello specifico - di una realtà magmatica, plastica, socialmente delicatissima, non di rado suscettibile di equivoche interpretazioni. Valga l'esempio offerto dalla legislazione romena, dove alla figura non è riservata alcuna classificazione, nemmeno a livello di contrattazione collettiva207, ma dove si approda alla sconcertante conclusione che "economically dependent workers are active in the highly dynamic niche sectors of the Romanian economy"208. In ogni caso emerge una strutturale duplicità o ambivalenza, se non - come ci sembra - una sostanziale e spesso voluta ambiguità, innanzitutto suggerita dalla definizione convenzionale propria di queste forme di lavoro, incentrata sulla coppia 207 Così C. Ciutacu, Economically Dependents Worker in Romania, Institute of National Economy, Bucarest 2007, che, testualmente, sottolinea come "the classification of economically dependent workers is not specifically defined in Romanian legislation, such workers could be assimilated into the category of workers who do not conclude any employment contract and are not under the rule of any collective agreements. These employees work on the basis of other types of work arrangements, including the provision of services agreements which are outside the reach of employment relations". 208 Aut. op. prec. cit. 44 autonomia/dipendenza; ma ciò che rileva, almeno da questo punto di vista, è l'individuazione di ciò che si pone sul piano dell’autonomia e di ciò che si pone su quello della dipendenza, affiancata o integrata da altre, tra le quali le nozioni ed il rapporto rischio/sicurezza. Non a caso, almeno in alcuni paesi come la Slovenia, la stessa definizione non ha trovato ingresso nella realtà delle relazioni industriali e questa tipologia si applica solo ad alcune categorie di lavoratori autonomi o "freelance" in taluni specifici settori dell'economia, mentre i criteri essenziali per la qualificazione del lavoratore subordinato sono contenuti dell'art. 5 Codice del lavoro. Anche in Ungheria non esiste una disciplina legale di tale, ormai diffusa, forma di attività lavorativa209, ove si eccettui il caso degli agenti di commercio210. Interessante il caso dei lavoratori impegnati nel settore edilizio (area nella quale, comunque, la figura non trova esplicito riconoscimento), dove comunque i sindacati hanno sollecitato l'introduzione della "parità di trattamento", specie nel settore dei subappalti e in generale nella piccola e media impresa, trovando, almeno in via di principio, una certa disponibilità dalla parte datoriale. All'opposto, in Estonia, alcune attività lavorative (si tratta, in particolare, dei tassisti e di lavoratori impegnati nei servizi postali) sono esplicitamente classificate come "economicamente dipendenti", distinte quindi dall'area del lavoro autonomo, a sua volta ricompreso nel campo dell'imprenditoria. Ciò premesso, in ogni caso il processo normativo, sul piano definitorio, non manca di incertezze ed ambiguità, specie ove si consideri che, soprattutto negli ultimi anni, ed in alcune materie, a queste figure viene applicata la normativa prevista per i lavoratori autonomi (com'è il caso, ad esempio, dell'emendamento approvato, proprio alla fine del 2006, dal Riigikogu (il Parlamento) al Töötervishoiu ja tööohutuse seadus , una legge in materia di salute e sicurezza). Nello stesso tempo, un articolato tessuto legislativo, una trentina di provvedimenti (che vanno dalla l. 09.02.93 Riigi Teataja - la Gazzetta di Stato - 1993, 10, 150 fino alla l. 08.12.2004 Riigi Teataja 2004, 86, 584) definisce i tratti generali del lavoro subordinato, comunque nel solco dei tradizionali, consolidati modelli. Un caso a sé sembra essere la Lituania, dove a partire dal 2004 si registra un alto livello di disoccupazione, provocando l'immissione di numerose persone su un mercato del lavoro "non ufficiale", alimentando la schiera dei lavoratori marginali, in una situazione complessiva nella quale - in assenza di un'effettiva difesa sindacale - si diffonde il fenomeno del lavoro nero. Proprio per tali ragioni di fondo, si riesce a 209 Anche se un documento sulle linee "concettuali" del nuovo Codice del lavoro, in fase di elaborazione, sostiene l'esigenza che i lavoratori economicamente dipendenti debbano godere di uno specifico apparato di protezione legale, anche se non necessariamente all'interno dello stesso Codice; il governo, appare impegnato in questo senso nei lavori prepatori, pur se con scarsi risultati. 210 Legge sul contatto degli agenti di commercio, CXVII/2000 (Direttiva 86/653/EEC) 45 comprendere come, e perché, in quel Paese baltico la tematica dei lavoratori economicamente dipendenti non rivesta alcuna importanza e che, anzi, si arrivi si proponga una sorta di tripartizione classificatoria, distinguendo tra lavoratori autonomi, lavoratori subordinati (sotto contratto) e lavoratori impegnati in attività "non-ufficiali) Che dire, ancora, dal particolare angolo visuale nel quale, da ultimo, mi sono posto? Probabilmente occorre sottolineare che, in realtà, non omogenee emerge nello specifico una duplicità strutturale che merita di essere rilevata e sottolineata. In precedenza si è ricordato che il lavoro autonomo economicamente dipendente viene (spesso anche per ragioni di comodo) collocato in un’area intermedia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente. Così, in assenza di chiare definizioni giuridiche già a livello europeo, una ricorrente metodica sembra volere risolvere (e chiudere) il problema ponendolo all’interno di un continuum - costituito da tutto il mondo del lavoro - che si sviluppa tra i due poli del lavoro pienamente indipendente e quello pienamente dipendente. Ne consegue che, specie in società segnate da un alto grado di fluidità, artificialmente tra un estremo e l’altro possono essere introdotte molte gradazioni intermedie; inoltre - talora arbitrariamente, anche in base alle diverse tradizioni nazionali, al livello della coscienza civile, alla complessità delle situazioni economiche, al grado di sviluppo della cultura giuslavoristica - nel fissare il punto di passaggio tra le diverse categorie si coglie una sempre più intensa tendenza ad ampliare i confini del lavoro autonomo, cui si è accennato. In tale dimensione geo-politica, il lavoro (che da subordinato si trasforma in) economicamente dipendente costituisce un insieme eterogeneo, per quanto concerne i contenuti, la qualità del lavoro, le stesse caratteristiche dei lavoratori impegnati. In concreto, nello specifico considerato, si rileva che vengono espulse dall'area del lavoro subordinato, per finire nella zona grigia, attività di servizio per le imprese di profilo medio-basso (quali catering, ristorazione), attività produttive svolte in proprio a domicilio (come nel caso del tessile e dell'abbigliamento), in particilari settori quali l’edilizia, i trasporti, complesse attività di freelance (nel giornalismo, editoria, pubblicità, intrattenimento, vendite e promozioni, assicurazioni, call-center), attività qualificate (insegnamento, formazione, contabilità, amministrazione, servizi sociali), per giungere anche ad attività di elevato contenuto professionale nei settori della ricerca, dell’ITC, delle professioni del terziario avanzato. Per quanto, poi, riguarda le caratteristiche dei lavoratori, in base alle dimensioni della durata prevista e del grado di volontarietà di queste modalità di lavoro, si va da chi le svolge provvisoriamente in attesa di un altro lavoro, a chi le accetta per necessità in assenza di alternative, a chi le svolge per scelta come modalità preferita di impiego, a chi vi ricorre come opportunità di lavoro aggiuntiva (pensionati, secondi lavori). 46 Si tratta, insomma, di una molteplicità di situazioni assai diverse ma, per molti aspetti, del tutto speculare alla situazione degli altri Pesi dell'Europa occidentale. Ça va sans dire che vi sono ricomprese le non poche situazioni di finto lavoro autonomo, in quanto lavoro subordinato mascherato da lavoro autonomo. Certo, in questo caso si tratta di situazioni talora ritenute concettualmente diverse dal lavoro economicamente dipendente, poiché i finti lavoratori autonomi sono lavoratori trattati come autonomi, ma che, sotto il profilo giuridico, rientrano in modo non equivoco nell'area del lavoro subordinato. 24. In chiusura, "finalmente!" (..... penserete). Siate tranquilli: a questo punto, solo alcune annotazioni e, almeno nella prospettiva nella quale mi sono mosso, qualche considerazione conclusiva. La sofferta prassi e l’elegante dottrina dei sistemi occidentali hanno proposto una costruzione, certo abbastanza complessa e comunque non omogenea, del dato fenomenologico del quale ultimamente ci siamo occupati. Siffatte considerazioni, tali modelli - innestati, gli uni e le altre, su una realtà che subisce l’influenza della globalizzazione, ma che dalla stessa mantengono una profonda distanza culturale e sistematica - non mi sembra che possano valere nell’area economica, politica, geografica e culturale della quale mi sono occupato in questa sede. In primo luogo per l’incidenza di quell’insieme di (non poche) ragioni di carattere storico, politico, economico e sociale che mi sono sforzato di richiamare, di prospettare, di assumere quale fondamento della costruzione sottoposta alla Vostra pazienza. D’altra parte, è vero, non contestabile, che nella prassi, oltre che nella stessa cultura di un’esperienza che si innesta sul sofferto percorso del Welfare State si imponga un sempre più articolato dibattito - imposto dalla stessa realtà del tempo - su quella che abbia chiamato la “zona grigia” di un’annaspante contrattualistica, di tutto un processo di revisione degli stessi postulati, delle ragioni storiche che stanno alla base del concetto e dell’evoluzione del diritto del lavoro: tema ed argomenti sui quali la cultura occidentale (usiamo l’aggettivo in modo - se volete - provocatorio) è ormai quotidianamente chiamata a confrontarsi, a misurarsi. Ma, è altrettanto vero che nella realtà dei Paesi dell’Europa centro-orientale, obbligati al confronto con una nuova, aggressiva dimensione economica e con un brusco sconvolgimento politico, mancano alcuni passaggi logici, cadono talune barriere, si introducono brutali quanto dolorosi salti sociali, politici ed economici. Sicché nel momento in cui in tali magmatiche, sfuggenti, incerte, realtà, a loro volta prive di un forte e consolidato zoccolo sociale preesistente, nel settore del lavoro emergono nuovi modelli contrattuali: insomma, una cultura industriale ancien régime li impronta, li definisce, li impone, li diffonde. Non a caso, proprio e sempre nei Paesi dell’Europa centro-orientale, non trova alcuna eco nemmeno il dibattito svoltosi in seno all’Organizzazione Internazionale 47 del Lavoro (OIL) intorno al cosiddetto “contract labour”: anche in questo contesto la prima e più evidente difficoltà è di carattere terminologico. Infatti, con il termine “contract labour” l’OIL definisce un insieme di “different ways of employing workers otherwise than under a normal employment contract between the workers concerned and the enterprise for which they work”, a metà strada fra il diritto del lavoro e il diritto commerciale. Non senza significato, nella 85a sessione della Conferenza dell’OIL (tenutasi nell'ormai lontano 1997), era stata formulata una proposta di Convenzione intesa a definire proprio l’ambito di applicazione con riferimento al lavoro “performed personally under actual conditions of dependency on or subordination to the user enterprise and these conditions are similar to those that characterize an employment relationship under national law and practice but where the person who performs this work does not have a recognized employment relationship with the user enterprise” (art. 1). Anche se le ricerche condotte dall’OIL concludono nel senso che nella maggioranza dei Paesi presi in esame non esiste alcuna categoria legale intermedia fra subordinazione e autonomia, ciò non esclude che il fenomeno della dipendenza all’interno del lavoro formalmente autonomo (“dependency within independence”) sia molto diffuso. I criteri suggeriti per stabilire la condizione di lavoro autonomo in situazione di dipendenza “are basically related to links with contractors and clients, conditions of access or use of basic and specific means of production, ownership or non-ownership of such means, as well as the prerogatives of organization and management of work or activities carried out by third parties, and work performed for only one or a small number of clients”211. L’obiettivo dell’OIL, quindi, si propone di estendere una serie di garanzie ben oltre i tradizionali confini del diritto del lavoro, individuando quelle forme di lavoro, comprese tra lavoro subordinato e socio-economico che necessitano di adeguate tutele. In tale prospettiva le strategie proposte si centrano sulla estensione dell’ambito di applicazione del diritto del lavoro oltre il lavoro subordinato e sulla introduzione di una serie di tutele fondamentali per tutte le forme di lavoro nelle quali viene fornito un servizio per un’altra persona, a prescindere dalla forma legale in cui ciò avviene. Come noto, la proposta di Convenzione a suo tempo elaborata dall’OIL definisce l’area dei diritti spettanti al lavoratore nell’ambito del “contract labour” (art. 5), identificandoli in libertà di organizzazione sindacale, diritto alla contrattazione collettiva, divieto di discriminazioni, limiti di età, retribuzione, salute e sicurezza sul lavoro, tutela contro ILO, Meeting of Experts on Workers in Situation Needing Protection (The employment relationship: Scope), Basic technical document, Geneva 2000, in http://www.ilo.org/public/english/dialogue/govlab/papers/2000 211 48 infortuni e malattie professionali, sicurezza sociale. Anche se tale proposta di Convenzione non è stata approvata, è stato invece deciso (1998) di sottoporre il problema del lavoro economicamente dipendente a ulteriori riflessioni e ricerche in una specifica sessione della Conferenza OIL, in vista dell’approvazione di una Convenzione in materia. Che vuol dire tutto ciò: semplificando al massimo, e pur consapevoli che qualunque schematizzazione è affetta da qualche pecca di arbitrarietà, ciò significa che quando si invade l’area di una forzosa flessibilità, collocata sull’incerto crinale che talora separa l’autonomia dalla subordinazione, nella logica dei fatti, la prima impronta la seconda, la assume nel proprio ambito, la riconduce ai suoi schemi, le impone un modello forzoso, dettato dalla logica dell’economia capitalista, non da quella di un’economia (da porre alla base) di un benessere diffuso. Ne consegue che la difficoltà fondamentale con la quale ci si misura risiede nel fatto che, soprattutto in siffatti sistemi giuridici, mentre per il lavoro subordinato si può fare riferimento ad una categoria generale e unitaria, per il lavoro autonomo un tale richiamo risulta tanto superficiale quanto impreciso, poiché in realtà la categoria “lavoro autonomo” appare soprattutto un’astrazione teorica: nella pratica, infatti, la figura si articola in molteplici e frammentati regimi giuridici, che si stendono al di fuori della loro specifica area logica, improntando altre e diverse fattispecie, al solo fine di escludere e paralizzare l’arsenale delle difese giuridiche approntato (anche in meccanismi giuridici elementari) proprio a presidio del lavoro subordinato. Inutile, a questo punto, sottolineare che - così facendo - diviene evanescente lo stesso meccanismo essenziale che sta alla base del sistema del diritto del lavoro, concepito al fine di individuare (e tutelare) le situazioni di debolezza economica e giuridica del lavoratore e definire gli strumenti idonei per la tutela di tali situazioni: in una diversa logica che spinge ad includere nella categoria del lavoro autonomo anche la micro-impresa. Ovviamente, dal punto di vista della dipendenza in senso economico e giuridico, il lavoro autonomo e la micro-impresa si prestano ad una considerazione unitaria; mentre, argomentando con diversa riflessione, si incorrerebbe nel rischio di porre delle irragionevoli disparità di trattamento tra fenomeni connotati da una analoga situazione di scarsa forza contrattuale. Non a caso, ne deriva che a contrario, nei sistemi dell’Europa occidentale si afferma, specie in presenza di imprese di piccole se non piccolissime dimensioni, la vicinanza sul piano strutturale tra lavoro autonomo e micro-impresa, nonché il mancato riconoscimento anche a livello legislativo della esigenza di prevedere delle tutele con riguardo specifico alla condizione di dipendenza economica in cui può trovarsi l’impresa, inducono ad includere nella nozione di lavoro autonomo anche la microimpresa. 49 Il vero è che il lavoro autonomo, specie nei Paesi di recente ammissione all’Unione Europea mostra d’essere un concetto che contiene al proprio interno una (crescente) pluralità di tipi di lavoro e di relativi regimi giuridici. Tale assunto rappresenta un punto di partenza ineludibile nel quadro della ricostruzione e delle proposte contenute nel presente rapporto. Sarebbe infatti un errore metodologico, con negative ripercussioni sia per la valutazione dei problemi, sia per l’elaborazione delle relative soluzioni, muovere dal presupposto che il lavoro autonomo sia una categoria compatta ed unitaria che si contrappone al lavoro subordinato. Ebbene, come è facile immaginare, una situazione di dipendenza - oserei dire “organica” - si verifica con maggiore frequenza in presenza di imprese di piccole o piccolissime dimensioni. D’altra parte, è vero che il concetto stesso di lavoro autonomo contiene al proprio interno una (crescente) pluralità di tipi di lavoro e di relativi regimi giuridici: tale assunto rappresenta un punto di partenza ineludibile nel quadro della ricostruzione e delle proposte contenute nel presente rapporto. Sarebbe, infatti, un errore metodologico, con negative ripercussioni sia per la valutazione dei problemi, sia per l’elaborazione delle relative soluzioni, muovere dal presupposto che il lavoro autonomo sia una categoria compatta ed unitaria che si contrappone al lavoro subordinato. In ogni caso, da qualunque premessa si muova, resta il fatto la subordinazione si presenta, in primo luogo, come nozione giuridica. E che tale deve restare ad Ovest come ad Est. Ne deriva l’esigenza di abbandonare una accezione socio-economica di subordinazione fondata esclusivamente su di uno stato di dipendenza sociale ed economica del prestatore di lavoro rispetto al datore di lavoro. Anche se la tendenza ad identificare la subordinazione come dipendenza socio-economica è rintracciabile tanto nei presupposti storici che portano alla formulazione della nozione giuridica, oltre che nella elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, tale identificazione non esaurisce e concentra il substrato dalla nozione tecnico-giuridica. In quanto nozione giuridica, la subordinazione esprime la eterodirezione, quale elemento strutturale del rapporto, termine e concetto che sottendono l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro e si risolvono nelle facoltà di impartire istruzioni al lavoratore subordinato circa l’esecuzione dell’attività lavorativa, di sanzionarne eventuali inadempimenti, di esercitare un (funzionale) potere di controllo. Il lavoro subordinato si configura quindi come una relazione gerarchica tra datore di lavoro e lavoratore, dove esiste un'evidente asimmetria di poteri affermata dall’ordinamento, pur se bilanciata da un composito meccanismo di protezioni posto nell’interesse del lavoratore. 50 In questa logica, nel tradizionale sistema proprio dei Paesi dell'Europa centroorientale, in prevalenza permane una suddivisione binaria delle prestazioni di lavoro, che non ammette categorie intermedie e l’inquadramento di un rapporto di lavoro si colloca in una netta alternativa: lavoro subordinato o lavoro autonomo, riconducendo al secondo tutta una serie di figure (e di attività) che più propriamente dovrebbero essere collocate nella prima area. D’altra parte, in tutti gli Stati europei, il sistema nel suo complesso rimane sostanzialmente inalterato, in quanto in nessuno dei tradizionali ordinamenti il modello si è trasformato, passando da binario a ternario, attraverso l’introduzione di una terza categoria classificatoria che affianchi il lavoro subordinato e autonomo, proponendosi come tertium genus. Tanto è vero che, da un punto di vista strettamente formale, anche a fronte di nuovi apporti normativi e sociali, l’esigenza di una protezione maggiore di particolari categorie di lavoratore si colloca nell’alveo del tradizionale modello binario. Così, pure in sistemi europei particolarmente evoluti per consolidata tradizione storica, in un'atmosfera di trionfante flessibilizzazione, avviene che figure di lavoro economicamente dipendente siano spesso incluse nella categoria del lavoro autonomo, sebbene con tratti peculiari; annotazione valida anche se il fenomeno non deve essere confuso con quello del falso lavoro autonomo, rappresentando il primo un fenomeno diverso sia giuridicamente sia dal punto di vista socio-economico. La nozione di lavoratore economicamente dipendente insomma, allo stato, identifica una condizione giuridica una aperta e parzialmente indefinita, non essendo in grado di individuare una precisa tipologia di lavoro. Ne consegue che la vigente bipartizione subordinazione/autonomia mantenga la propria validità, anche se proprio e soprattutto nella seconda categoria si registra la tendenza ad individuare un sottogruppo: onde, almeno nella realtà dell’Europa occidentale (non riproponibile, ovviamente, nei Paesi dell’Europa centro-orientale), si tratta di vedere in quale modo gli Stati europei definiscano ed eventualmente disciplinino il lavoro economicamente dipendente e se lo mantengano nell'ambito di una logica binaria. A questo punto, ricordiamo, ancora una volta, che nel panorama europeo possiamo suddividere gli Stati a seconda che utilizzino o meno la nozione di lavoratore economicamente dipendente, ma sottolineando che esiste un insieme maggioritario di Paesi nei quali la nozione di lavoratore economicamente dipendente è conosciuta e che all’interno di tale raggruppamento vanno messi in evidenza quelli nei quali tale nozione è oggetto di una disciplina legale; ed è pertanto possibile individuare sia i caratteri giuridici del lavoro economicamente dipendente, sia la disciplina ad essi applicabile. Tutte queste considerazioni, ovviamente, non valgono nell'esperienza oggetto delle nostre riflessioni: c'è da augurarsi che tale problematica si imponga o sia imposta dal consorzio europeo. 51