1. Il virus In un ambiente tiepido, illuminato dalle luci al neon, mani
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1. Il virus In un ambiente tiepido, illuminato dalle luci al neon, mani
1. Il virus In un ambiente tiepido, illuminato dalle luci al neon, mani ingegnose, inguainate nel lattice, lavoravano alla costruzione di artigianali ordigni esplosivi. La tuta antibatterica in poliacetato di colore bianco, provvista di copricapo e mascherina usa e getta, ne assicurava l’anonimato. Le pareti e il soffitto della stanza erano di nuda terra. I rinforzi, le travi e i murali di legno, erano ricoperti da pannelli isolanti. Il pavimento di linoleum poggiava su un’intercapedine alveolare di polistirolo ad alta densità. Due pompe sommerse evitavano il problema delle infiltrazioni d’acqua. L’impianto elettrico, quello di ventilazione e il sistema idrico funzionavano grazie a svariati accumulatori. Alcuni pannelli fotovoltaici, mimetizzati in superficie, assicuravano un’adeguata fonte d’energia. Sul piano da lavoro l’attrezzatura elettromeccanica e l’essenziale strumentazione elettronica apparivano ordinate, in modo quasi maniacale. Una grande lente con l’illuminazione anulare e un microscopio Nikon consentivano la costruzione di congegni molto piccoli. Assistiti da questi strumenti due occhi sinistri guidavano abilissime mani. Quegli stessi organi tattili e prensili che, sette anni prima, avevano suggerito a Zucchero il testo della canzone Con Le Mani. Sopra una spartana scrivania in mogano, svariati articoli di cronaca attendevano l’archiviazione. Erano trofei di caccia. Ritagliarli e collezionarli costituiva un rito capace di stimolare mentalmente le sue gonadi da predatore. C’erano voluti moltissimi anni di duro lavoro per scavare nel sottosuolo. Si trattava di cunicoli che scendevano 11 Francesco Altan fino al laboratorio e al poligono. Là sotto bastavano un paio di cuffie per testare gli ordigni in assoluta tranquillità. Per la realizzazione di questo arduo progetto aveva trascorso un’infinità di notti insonni. L’ispirazione gli era venuta con le letture e i filmati sulla guerra del Vietnam. “I giornalisti si staranno chiedendo chi sia l’autore degli attentati” rifletté tra sé l’uomo senza volto e senza nome “ma io non appartengo alla specie umana. Sono il suo peggior incubo. La falce che miete le mani impure. Sono un grande, come i re persiani Ciro e Dario, o come Alessandro. Sono astuto come Ulisse a Troia e Leonida alle Termopili. Sono invulnerabile come Achille. Mi muovo tra i mortali, ma non possono vedermi, perché non sono uno di loro. A differenza dei mitici eroi dell’antica Grecia, i grandi uomini della storia recente sono morti senza varcare le soglie dell’olimpo! Non erano semidei. Ora lassù hanno deciso che è giunto il tempo per un nuovo personaggio epico! Io sono il prescelto. Devo affrettarmi, affinare le tecniche di caccia e preparare nuovi castighi per coloro che mi avversano. Un giorno sarò ammirato e acclamato per le mie gesta!” Esaltato da questi pensieri ritornò con la mente alla propria infanzia, dove tutto aveva avuto inizio. Come tanti bambini e ragazzi, durante le festività natalizie o a Carnevale, anche a lui piaceva far scoppiare i petardi. Si divertiva a vedere saltare in aria le lattine vuote di coca cola o le cassette della posta. Prima con un solo Raudo, poi con cinque e infine con dieci, avvolti con del nastro isolante. Quel gioco pericoloso interagiva con la sua psicosi dissociativa. La personalità mite e creativa stava per essere sopraffatta da quella distruttiva. Presto l’insano divertimento si sarebbe tramutato in un rito ossessivo-compulsivo; dando luogo alla costruzione di ordigni sempre più efficienti e potenti. Le frustrazioni più profonde e la grave carenza affettiva attendevano di essere riscattate da un ‘super-io’ assetato di protagonismo e autoaffermazione. Tutto questo presa- 12 Dietro la maschera di Unabomber giva una lenta ma costante evoluzione. Anche i test sulle cabine telefoniche non gli bastavano più. Come un drogato assuefatto aveva bisogno di qualcosa di più forte. Non accettava più la propria emarginazione ed era stanco di non sentirsi amato. La sua rabbia viscerale pretendeva un tributo di sangue; non per uccidere, ma solo per punire e per umiliare. Alle due del mattino valutò che era giunto il tempo di agire. Indossò pantaloni, giubbotto, copriscarpe e guanti, neri come la pece. Una tasca interna celava il passamontagna realizzato con lo stesso materiale elastico. La particolarità di questi tessuti d’impiego militare stava nel colore, in grado di assorbire la luce. Infilò in uno zainetto un visore notturno, uno scanner portatile e un paio di tubi bomba pronti per essere attivati e uscì di casa. Mentre alla guida della propria macchina percorreva la strada che conduceva a Pordenone ripensò alle trappole esplosive della guerra del Vietnam. Per lui erano sempre state una grande fonte d’ispirazione. 13