N° 15, 2006 - Nuova Museologia

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N° 15, 2006 - Nuova Museologia
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Novembre 2006 - N°
15
Rivista semestrale di Museologia
Giornale ufficiale
dell’Associazione Italiana di Studi Museologici
www.nuovamuseologia.org
sped. in abb. post. 70% Milano
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Il vero e il falso
Il Louvre, con i suoi metal detector e con il vasto centro commerciale – negozi di
vario genere, bar, ristoranti – che circonda il suo atrio da stazione ferroviaria, è
divenuto ormai, proprio come una stazione ferroviaria o un aeroporto, un “nonluogo”
secondo ciò che Marc Augé vuol significare con questa parola (Marc Augé, 1999 Disneyland e altri nonluoghi. Bollati Boringhieri, Torino). Il carattere principale dei nonluoghi
(che si somigliano tutti) è di essere aree ove non ci si ferma, che si attraversano più o
meno velocemente, passando da un servizio a un altro, da un’offerta commerciale a un’altra.
Così è il Louvre, dentro e fuori; i visitatori non vivono il museo, ma scorrono lungo le
gallerie, passano da un’opera a un’altra per sostare in tre punti irrinunciabili, di fronte
alla Gioconda, attorno alla Venere di Milo e nei negozi di souvenir che si aprono
sull’atrio centrale, epitome, questo insieme di boutique, della commercializzazione del
museo.
Proprio qui mi è capitato un fatto singolare, ma indicativo di come oggi nei musei
il commercio abbia un peso maggiore dei contenuti artistici, storici o letterari. Bisogna
sapere che, contrariamente a quanto avviene nei musei italiani, nelle sale del Louvre è
possibile fotografare, tutti possono usare la propria macchina fotografica o la cinepresa.
Non solo! Sebbene sia ufficialmente vietato, è quasi impossibile impedire l’uso del flash,
cosicché le pitture – compresa la Gioconda – sono bersagliate da centinaia di lampi ogni
giorno. Comprenderete perciò il mio stupore quando scoprii a mie spese – sorpreso con
la macchina fotografica in mano, bloccato e rimbrottato da una solerte sorvegliante –
che i soli luoghi in cui è assolutamente vietato fotografare sono le boutique del museo.
Insomma, siamo al culmine della commercializzazione dei musei: mentre si possono
liberamente riprendere gli originali esposti, è assolutamente vietato fotografare le loro
copie in vendita!
Giovanni Pinna
L’esposizione di una delle boutique del Louvre. (Foto Nuova Museologia)
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Dall’edificio storico al museo
Carlo Teruzzi
L’Italia è colma di palazzi, castelli, edifici storici di grandi e piccole dimensioni. La ricca e variegata storia del nostro Paese ha fatto sì che anche le città minori posseggano
pregiati edifici storici che spesso versano in condizioni di abbandono per ragioni economiche o sono altrettanto spesso
sottoutilizzate o male utilizzate. Il revival delle identità locali,
il riconoscimento della storia come valore comunitario hanno spinto molte piccole e medie amministrazioni all’utilizzo
museale di queste strutture, cosa che le grandi città d’arte italiane hanno fatto da sempre. Ciò ha creato una “museologia
del riutilizzo delle strutture storiche” caratteristica del nostro
Paese, che fu teorizzata in alcuni articoli apparsi negli anni
Trenta1. Questa utilizzazione a scopo museale di antichi edifici storici pone naturalmente notevoli problemi per quanto
riguarda la sicurezza delle collezioni e delle persone e la garanzia di una buona conservazione del patrimonio: metodi
antieffrazione, impianti antincendio, vie di fuga, controllo del
clima e delle polveri devono essere studiati per la specifica
tipologia di ogni museo e devono essere adattati alle antiche strutture storiche, il che può essere fatto solo a seguito
di onerosi interventi, resi spesso complessi in conseguenza
dell’esistenza di vincoli monumentali.
La museologia insegna che la destinazione a museo di un
edificio storico è sempre possibile, ma indica anche che tale
trasformazione è realizzabile solo a seguito di un’attenta valutazione che la sede scelta sia congruente, per lo meno nelle grandi linee, con le funzioni culturali che il museo sarà chiamato a svolgere e garantisca la sicurezza di cose e persone.
Io sono del parere che è indispensabile che tale valutazione non sia lasciata solo al progettista ma che debba essere il risultato di una collaborazione fra colui che sarà chiamato a dirigere l’azione culturale del museo e a gestire le collezioni e colui cui sarà affidata l’organizzazione degli spazi,
vale a dire fra il museologo e il museografo; una collaborazione che deve instaurarsi fin dai momenti iniziali del procedimento, cioè subito dopo la nascita dell’ipotesi di costruire
un nuovo museo.
In questo articolo mi propongo di discutere di questa collaborazione fra museologo e museografo, che l’esperienza insegna essere a volte difficile e che pure ritengo essenziale per
il successo di ogni progettazione museale. Senza una collaborazione fra questi due soggetti, che può trasformarsi in aperta conflittualità in qualsiasi momento del percorso di proget-
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tazione e di costruzione del museo, sarà infatti difficile armonizzare
il contenitore e il contenuto e si creeranno così istituzioni imperfette e incapaci di realizzare il progetto culturale che deve stare alla base dell’istituzione di ogni museo. Contenitore
e contenuto sono due opposti contendenti che cercano di prevalere l’uno sull’altro e che hanno come palafrenieri da un
lato l’architetto/progettista, incline a enfatizzare l’estetica dello spazio e della forma, dall’altro il conservatore/museologo
per il quale la comunicazione del messaggio culturale è
l’espressione massima della funzione museale.
Contenitore e contenuto
Il conflitto fra contenitore e contenuto può emergere già
prima dell’inizio del processo di progettazione, quando cioè
viene assunta la decisione di far nascere un museo. Una scelta, questa, che soprattutto nel nostro Paese, viene solitamente
presa dalle amministrazioni pubbliche o da enti privati, senza
curarsi di chi gestirà i contenuti del museo, senza valutare la
congruità degli edifici scelti per contenere ed esporre le collezioni esistenti, spesso senza avere la minima idea di quanto
il museo dovrà comunicare alla comunità di riferimento. Senza cioè che sia stata elaborata a monte un’idea “culturale” che
vada oltre la semplice esposizione degli oggetti storici, artistici o naturali di proprietà dell’amministrazione. Scegliere di fare un museo e di definire la sua sede fisica senza tener conto
che ogni istituzione museale, per piccola che sia, è un mezzo
di comunicazione complesso, che andrà gestito sia dal punto
di vista della trasmissione dei contenuti, sia dal punto di vista
della sicurezza di cose e persone, crea non pochi problemi già
prima di iniziare la progettazione, in virtù dei vincoli che scelte predeterminate impongono. Scelte predeterminate, non dettate da un’analisi preventiva dell’attività e della consistenza del
museo, obbligano infatti il progettista ad adeguare a esse le necessità del museo e non viceversa, imprigionano in schemi preordinati il processo di progettazione e, di conseguenza, il potere comunicativo ed educativo delle esposizioni.
Ogni museo è un caso a se stante per la natura, la qualità
e il numero degli oggetti che deve contenere e per i problemi
di conservazione preventiva delle collezioni; ogni museo ha perciò la necessità di avere spazi che si adattino alla sua specificità e di altrettanto specifici impianti tecnici che garantiscano
la conservazione degli oggetti, l’accessibilità ai contenuti da parte del pubblico e lo svolgimento delle attività di ricerca. Cose
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e trasmette al progettista le proprie richieste. L’attività che ho
svolto nel campo della progettazione museale mi suggerisce che
in questa fase di progettazione una carente conoscenza delle
attività che il museo sarà chiamato a svolgere influenzerà la crescita del museo e la sua capacità produttiva. Per esempio, poiché le leggi sulla sicurezza che i musei sono tenuti ad applicare non impediscono lo svolgimento di alcuna attività, ma si limitano a stabilirne le modalità di svolgimento o a disporre limiti di affluenza, la collaborazione fra museologo e museografo
in questa fase permette di stabilire a priori l’ubicazione delle attività a rischio e i punti di debolezza per la sicurezza, e di far
fronte così ai vincoli normativi posti all’attività del museo2. Uno
La progettazione
La progettazione di un museo si attua per fasi successive
studio preventivo delle attività del museo e della loro ubicazione
in ciascuna delle quali il museologo e il museografo devono
spaziale permette inoltre un risparmio in termini economici, conoperare attraverso un continuo confronto di idee. Per il sucsentendo la scelta delle soluzioni migliori in termini di qualità/prezzo.
cesso del progetto è necessario che fra queste due figure si crei
In questa fase di rilievo e di acquisizione di dati dovranuna sorta di complicità che le conduca a parlare una lingua cono essere effettuate due operazioni indispensabili alla progettazione
mune. La ricerca di un’identità
del futuro museo: l’analisi deldi linguaggio permette infatti un
la consistenza delle collezioni,
costante scambio di dati, la soe dei valori di conservazione
luzione di reciproci interrogapreventiva necessari alla saltivi, la verifica delle ipotesi provaguardia dei diversi materiagettuali – il tutto formulato in
li, e l’identificazione degli ogforma comprensibile anche per
getti destinati all’esposizione.
chi, come il museologo, spesQueste due operazioni sono inso non ha dimestichezza con i
fatti il fondamento dell’orgadisegni o le rappresentazioni granizzazione del percorso espofiche bidimensionali –, e gasitivo, dei depositi di collerantisce l’identificazione delle mizione e dei laboratori di stugliori idee espositive e della
dio e di restauro.
più opportuna organizzazione
Il progettista dovrà invece
degli spazi.
verificare l’esistenza di vincoLa comunicazione fra muli architettonici o urbanistici, la
seologo e museografo è molposizione degli impianti esistenti
Roma, Museo nazionale romano, Palazzo Altemps. Un esempio
to facilitata dalle nuove tecnie le loro caratteristiche.
di incompleta collaborazione tra museologo e progettisti
che di rappresentazione tridiPer garantire la sicurezza
degli impianti: i componenti degli impianti di illuminazione
mensionale (rendering) che
del nuovo museo è essenziae di sicurezza sembrano collocati in modo casuale. In
permettono di valutare “dal
le che in questa fase vengaparticolare si noti il sensore sulla sinistra sopra la fascia
vivo” la validità delle soluziono acquisite inoltre informadelle luci posizionato in modo da proiettare l’ombra sull’affresco.
ni progettuali.
zioni dettagliate sulle attività
(Foto Carlo Teruzzi)
Le principali fasi di proche si svolgono in prossimità
gettazione di un museo possono essere riassunte nei pundell’edificio destinato a sede museale e vengano valutati i posti analizzati nel seguito.
sibili rischi connessi con tali attività. Non mi risulta che
un’analisi di questo tipo venga sempre effettuata per le nuo1. Fase di acquisizione dei dati per la progettazione
ve realizzazioni, e non sono sicuro che siano tenute sotto conIn questa fase il museologo, individua gli spazi da allestitrollo “attività a rischio” che circondano musei già esistenti.
re, i servizi da prevedere, la tipologia dei visitatori cui il museo
Per fare un solo esempio citerò il Museo Correr di Venezia
dovrà rivolgersi e fa una valutazione del loro numero, indiviubicato, assieme alla Biblioteca Marciana e al museo ardua i laboratori di preparazione e di restauro, con particolare
cheologico, direttamente sopra una lunga serie di esercizi comriguardo per il tipo di lavorazione che essi dovranno attuare,
merciali e di ristorazione che si affacciano lungo i portici di
onde permettere l’identificazione di eventuali zone di pericolo
Piazza San Marco. La situazione è paradossale perché menche non possono essere garantite né da una determinazione
preventiva degli spazi, né dall’indeterminatezza delle funzioni.
La nascita di un museo non può essere quindi affidata
solo a una decisione “politica” che non abbia fissato a priori le funzioni della nuova istituzione, le necessità di conservazione delle collezioni, il ruolo culturale ed educativo; infine, non può crearsi un museo se non si sono poste le premesse per farlo, prima fra tutte l’elezione di uno staff culturale che affianchi lo staff tecnico nello studio e nell’esecuzione del progetto.
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tre le istituzioni culturali poste al primo piano sono soggette a rigide norme di sicurezza antincendio, gli esercizi commerciali sottostanti, in ragione delle piccole dimensioni, non
devono sottostare a norme così rigide, pur essendo collocati nel medesimo stabile e rappresentando quindi un analogo grado di rischio.
Sempre per quanto riguarda la sicurezza è infine necessario considerare la storia degli eventi verificatisi nell’area del
nuovo museo – terremoti, alluvioni, eccessive escursioni termiche, inquinamento ecc. – onde predisporre le contromisure necessarie già in fase di progettazione.
2. Fase di studio delle proposte e ipotesi iniziale
In questa fase la collaborazione fra museologo e museografo diviene essenziale. Il primo eseguirà il progetto museologico dell’esposizione, ipotizzando il percorso culturale, la successione degli argomenti, gli oggetti da esporre, sulla base della consistenza delle collezioni e della natura del messaggio culturale che il museo intende comunicare, e trasmetterà al secondo
la sua ipotesi di progetto espositivo, corredata di tutti i dati necessari legati alla fruizione (specifiche sull’illuminazione ecc.)
e alla conservazione (microclima ecc.). Il secondo effettuerà una
prima ipotesi di percorso espositivo corredata dei disegni necessari alla sua illustrazione. Assai utile per la progettazione del
percorso espositivo è la creazione di un modello virtuale tridimensionale degli spazi da allestire, che riporti tutti i vincoli.
L’ipotesi di progetto museografico dovrà tener conto non solo del progetto museologico ma anche dell’accessibilità, dello
passaggio del pubblico, delle norme di sicurezza, dei vincoli
cui ho già fatto cenno ecc. Le scelte progettuali inoltre dovranno
essere studiate tenendo conto dei costi, soprattutto per la gestione futura del museo, sia in denaro che in risorse umane.
3. Fase di verifica delle ipotesi
Questa fase ha la funzione di effettuare una verifica del gradimento da parte del committente per quanto riguarda le modalità espositive proposte e la forma museografica (percorsi, dislocazione dei servizi ecc.). Essa consiste nella presentazione delle ipotesi formulate con il museologo in veste grafica, utilizzando oltre ai disegni bidimensionali uno o più modelli tridimensionali (rendering) per la presentazione dei corpi espositivi, così da facilitare al committente la comprensione del risultato finale.
In questa fase il museografo dovrà fornire una valutazione del costo complessivo dell’allestimento, dando un’indicazione
di massima, per consentire al committente di verificare la fattibilità dell’operazione.
4. Fase di definizione del progetto
Verificato il gradimento del committente e accolte eventuali modifiche suggerite dallo stesso committente, il museografo procede alla definizione del percorso espositivo mediante
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la ricostruzione degli elementi scelti e il loro posizionamento
virtuale nel modello tridimensionale degli spazi reali per la ricostruzione delle viste più rappresentative dell’allestimento.
Procede inoltre alla stesura dei disegni tecnici con i particolari
costruttivi e dei capitolati dell’allestimento, per consentire l’effettuazione di una gara d’appalto per l’affidamento dei lavori di
realizzazione. Potrà inoltre collaborare all’individuazione delle
procedure e dei requisiti per l’impostazione della gara stessa.
In questa fase si configurerà ulteriormente l’importanza
della collaborazione fra il museologo e il museografo. Quest’ultimo,
sulla scorta della sua esperienza, dovrà provvedere a fornire al
museologo una valutazione dei rischi su eventuali fattori imprevisti atta a prevenire problemi nella gestione del cantiere.
La collaborazione poi potrà servire anche nel campo promozionale dell’iniziativa. In questa fase, infatti, le moderne tecniche di presentazione potranno consentire di realizzare a computer una presentazione dell’allestimento attraverso la creazione di un filmato che permetta una visita virtuale del museo. Questo risulta estremamente importante sia perché consente al committente di comprendere esattamente quale potrà essere il risultato
finale, sia perché costituisce un ottimo strumento promozionale per la ricerca di sponsor o per la presentazione alla stampa.
Quanto esposto relativamente alla progettazione, assume poi
maggiore importanza nel caso in cui il progetto riguardi la sicurezza di un museo ubicato in un edificio storico. In questo
caso la collaborazione fra il museologo e il tecnico risulta ancora più essenziale; infatti soprattutto in questo caso la base della sicurezza del museo viene garantita dalle conoscenze della
realtà dell’istituto che il direttore deve trasmettere al progettista
incaricato: profonda conoscenza della struttura del museo, delle sue attività, di problemi già noti, delle lavorazioni, delle modalità di svolgimento del lavoro delle varie sezioni. Tutti dati
che difficilmente sono conosciuti da un progettistra che non abbia esperienza di lavoro in questo tipo di istituzioni museali.
Per concludere ritengo necessario ribadire che è indispensabile che si favoriscano i contatti fra i tecnici e le direzioni dei musei, al fine di creare una serie di norme specifiche per la sicurezza nel settore museale.
Carlo Teruzzi è referente nazionale dell’International
Committee on Museum Security (ICMS) dell’ICOM.
1. Giovannoni G., 1934 - Les édifices anciens et les exigences de la muséographie moderne. Mouseion, 25, pp. 17-23. Paribeni R., 1934 - Adaptation
de monuments anciens et autres édifices à l’usage de musées. Atti del Congresso di Madrid, V, pp. 180-197.
2. Avviene non di rado che una scarsa conoscenza, se non una totale ignoranza delle leggi vigenti in termini di sicurezza dei musei, induca i responsabili degli uffici tecnici delle amministrazioni proprietarie che hanno giurisdizione
sui musei a vietare attività che la normativa ritiene invece del tutto lecite.
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Sulla lucertola e la sua coda
Riflessioni in margine alla coscienza lucida dell’ambiguità
Paolo Biscottini
La lettura del recente volume di Antonio Piva Il museo:
la coscienza lucida dell’ambiguità, pubblicato dalle Edizioni Lybra Immagine nel 2005, consente di estendere la riflessione sul museo molto al di là di quanto si sia abituati a farlo. La ricchezza degli interventi proposti dalle diverse personalità coinvolte dall’autore (in veste di regista/moderatore di una grande e articolata discussione intorno al tema),
coinvolge e appassiona sia per la molteplicità dei punti di
vista, che per l’estensione dello spazio geografico in cui si
calano, comprendendo anche quell’esperienza africana che Piva pone al termine
del libro, non già perché ultima in ordine di importanza
o perché in qualche modo
dotata di una sua particolare
autonomia, ma probabilmente
perché in essa si condensa, si
consuma e infine si disfa
l’esperienza precedente, dischiudendo orizzonti impensati alla cultura, al museo e
quindi all’uomo.
Chi ha avuto l’occasione
di lavorare con Antonio Piva
sa bene che nulla è affidato
al caso e che esiste un metodo di lavoro che, con garbo, egli impone. E questo filo di ferro lega fra loro le
esperienze e i luoghi diversi, riconducendo tutto al metodo Piva:
• lo spazio detta le regole;
• l’occhio insegna tutto;
• l’allestimento deve durare nel tempo, ma essere reversibile;
• la raffinatezza costa poco;
• la tenacia dell’ottimismo.
Nel volume i diversi interventi, apparentemente distanti fra
loro, sono in realtà tenuti insieme da questo filo robusto, che
Piva tira fra le varie esperienze museologiche e museografiche
che considera, articolando in modo interessante posizioni anche dissimili che generano un dibattito volutamente sempre aper-
to, perché l’esperienza non appaia mai conclusa, ma sempre
suscettibile di nuovi arricchimenti. Un libro non ideologico, dunque, e pur fortemente sostenuto da posizioni ferme, che valgono a chiarire la sostanza dei problemi del museo oggi.
Lo spazio detta le regole
Non si tratta di un’affermazione scontata, ma di dare
cittadinanza a un sistema di valori senza i quali non si riesce a definire né cosa sia un museo, né cosa sia un allestimento museografico.
Innanzi tutto va riconosciuto il valore dell’architettura e quindi dello spazio
architettonico. Che si tratti
di un palazzo antico, di un
convento medievale o anche di una costruzione moderna, si dovrà riconoscerne
le caratteristiche formologiche e storiche. A meno che
non si tratti di un’architettura priva di qualsiasi identità,
non dovrà essere stravolta, né
tanto meno ignorata. Il senso longitudinale o curvilineo dello spazio suggerisce
come muoversi in esso. Non
tenerne conto scatena confusione e genera equivoci. Al
museologo e al museografo
si richiede dunque la capacità di stabilire una relazione fra ciò che preesiste (lo
spazio architettonico) e ciò
che si vuol porre in esso
(l’opera da esporre). Il tema della relazione (inteso nel senso di una reciproca valorizzazione dell’opera e del suo ambiente/contesto) sostiene gran parte del dibattito che il libro di Piva suscita, sin dalle iniziali affermazioni di Franco Giorgetta a proposito del paesaggio, in cui si riconosce
una “ricchezza di elementi culturali [...] appartenenti alla
sua storia, intrecciata tra quella della Natura e quelle
dell’Uomo [...] sedimenti [...] di straordinario valore ed in-
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teresse, anche se [...] non sono asportabili, come i quadri
od altre opere [...] Non solo non sono mobili, ma se artificiosamente rimossi possono perdere il loro significato, visibile solo attraverso la complessa trama di rapporti che lega l’una all’altra le diverse parti [...]” (p. 30).
Un legame vincolante che la natura pone e impone. In
esso si rispecchiano le regole dettate dallo spazio anche
nel museo, luogo dunque di una relazione conoscitiva in
cui all’uomo sia consentita l’esperienza più intensa dell’arte, quella di una bellezza da scoprire fuori di sé, per poi
ritrovarla nell’intimo della propria coscienza. A questo pare alludere Ivana Iotta quando, parlando degli interventi
di Piva in Palazzo Affaitati a Cremona, evidenzia come “il
lavoro di creazione dello spazio attorno alle opere” determini
“una tripla relazione che unisce l’opera allo spazio architettonico e l’opera ancora con l’osservatore” proprio a partire dal “disegno dello spazio, delle sue coordinate [...]”(p.
49), per poter osservare e contemplare, come anche chi scrive ha modo di ricordare a proposito del Museo Diocesano di Milano (p. 73 e seguenti): “Certamente [...] la natura
conventuale dell’edificio ha suggerito la tipologia della
musealizzazione, dettandone le regole fondamentali, l’assialità dei percorsi lungo le navate longitudinali, l’illuminazione dall’alto e, nel complesso, il rispetto della geometria
spaziale esistente”. Il rispetto di queste regole non è semplice e impone scelte coraggiose, che possono anche correre il rischio dell’impopolarità. Oggi sembra prevalere la
concezione che sia l’opera a determinare il contesto spaziale, cosa peraltro molto diffusa anche in mostre temporanee collocate in spazi fortemente connotati architettonicamente (è il caso, per esemplificare, di Palazzo Reale a
Milano), mentre la lunga esperienza museografica di Antonio Piva dimostra come sia necessario tenere sempre presente la duplicità del problema e la sua difficile ambivalenza, nel rispetto di ciò che Giovanni Pinna chiama “i contenuti culturali dell’esposizione” e del “ruolo scientifico del
museo” (p. 81).
L’occhio insegna tutto
Le stesse regole che lo spazio impone sono percepite
dall’occhio ancor prima che da una planimetria. Un arco
a tutto sesto tende a dilatare il nostro sguardo, mentre un’ogiva lo sospinge in senso verticale. Una pavimentazione in
cotto suggerisce valori cromatici, che a loro volta condizionano l’illuminazione. La ricerca di un equilibrio formale si lega talmente allo sguardo che ogni decisione presa
ragionevolmente a tavolino può cadere alla prova dell’occhio; il che significa che la dimensione estetica non è
sganciabile né dallo studio dalla sintassi dello spazio, né
dalla percezione visiva, giacché a essa si affida anche quella del visitatore, cosa in sé assai complessa, come eviden-
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zia anche Gabriella Belli: “luce, rapporti cromatici, relazioni
di contiguità con le opere che sono collocate nelle aree limitrofe, ma anche lungo il percorso d’avvicinamento, viste e scorci da più punti di vista di osservazione sono tutte variabili di cui è necessario tenere conto per permettere non solo la migliore fruizione dell’opera ma soprattutto per indirizzare lo sguardo del visitatore verso quelle riflessioni critiche che aiuteranno il suo occhio e la sua sensibilità ad interpretare e ad esperire l’opera d’arte” (p. 56).
È nota, in questo senso, la strategia visiva che Antonio Piva applica alle sue realizzazioni museografiche, una strategia d’insieme fondata sulla focalizzazione di un punto da
cui parte il cono visivo, ma da cui sia possibile anche spostare lo sguardo altrove, in un gioco di rinvii che suscita
un affascinante dinamismo dell’occhio e della mente.
L’allestimento deve durare nel tempo, ma essere
reversibile
Il tema emerge in più punti del volume e del resto è
una costante preoccupazione di Antonio Piva. Da essa dipendono la scelta dei materiali, ma anche le caratteristiche
tecniche.
Si tratta di ammettere la reversibilità dell’allestimento e
la sua natura complementare alla fruizione dell’opera. Pur riconoscendo ad alcuni allestimenti museografici l’altissima capacità di valorizzare un’opera e nel contempo di esprimere
il senso del moderno (è il caso dell’allestimento quanto mai
felice della Pietà Rondinini a opera del BBPR), si dovrà tener conto del mutare dei tempi e quindi delle esigenze del
museo (si pensi in particolare alla sua crescita) e del suo pubblico, nonché di quelle dettate dall’introduzione di specifiche norme attinenti alla sicurezza, alla tutela ecc.
Su un tale concetto di flessibilità si sofferma anche Gemma Sena Chiesa, che non esita a definirla “uno degli attributi dello spazio museale contemporaneo cui è affidato lo
sviluppo futuro” (p. 41), mentre la Iotta chiede per il museo la possibilità del “ripensamento” (p. 47). Il che non significa denunciare una situazione d’instabilità del museo,
bensì di variabilità, e non soltanto per le ragioni testé addotte. Si pensi, per esempio, ai musei d’arte contemporanea e in particolare al caso emblematico del MOMA, dove si è introdotto il concetto di rotazione delle opere, secondo criteri molto simili a quelli delle esposizioni temporanee.
L’esposizione museale può anche essere articolata secondo percorsi in un certo senso autonomi, suscettibili non di
variazioni al loro interno, ma addirittura di sostituzioni. Difficilmente un grande museo potrà esporre integralmente il
proprio patrimonio o articolarlo in sezioni stabili. Si sta introducendo il concetto di un’esposizione per aree tematiche o cronologiche, dove il rapporto fra un’opera e l’altra
diventa vincolante in sé e nella visione d’insieme. Ciò vie-
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ne a garantire non solo la valorizzazione di tutto il patrimonio artistico del museo, ma anche un dinamismo interno a esso che non può non essere interpretato positivamente, sia dalla parte del pubblico che viene sollecitato a
rinnovare la propria visita al museo, sia dalla parte della
conservazione e del monitoraggio delle opere sia del loro
studio, continuamente aggiornato dalle molteplici necessità espositive.
Anche la museografia italiana, in genere piuttosto statica nelle sue soluzioni, dovrà tener conto di argomenti come
questi e quindi di una museologia disponibile a una “desacralizzazione” del museo a vantaggio di una ricca e articolata strategia di valorizzazione. E se non è auspicabile che
si giunga a scelte come quelle operate da numerosi musei
degli Stati Uniti, dove l’esposizione permanente è condizionata fortemente da quella temporanea, pure il concetto della flessibilità del museo dovrà essere introdotto con un certo coraggio anche in
Italia, se si vorrà invertire la tendenza che
vede il museo sempre più abbandonato
dal grande pubblico,
ma ancora immobile
nella sua concezione
templare.
tra l’interno e l’esterno del Museo, ma anche di quella relazione altrettanto importante con il resto della città, dove
di giorno e di notte si proiettano le ombre e le luci della
grande cupola” (pp. 59-60).
La raffinatezza si nutre di intelligenza e di sensibilità,
porta il segno della discrezione e in modo misterioso ricrea una relazione con lo spazio circostante, con la luce e
con le ombre. La raffinatezza è implicita all’arte, che difficilmente esiste o sopravvive senza la prima. Eppure costa
poco, anzi nulla. Che ci sia o non ci sia il budget è lo stesso. E pure fa la differenza.
La tenacia dell’ottimismo
Ci vuole coraggio per immaginare realtà museali nel Camerun. Ma ancor più ce ne vuole per decidere di realizzarle fra “i luoghi delle leggende, dei miti, della storia, della religiosità, della tradizione della comunità [...] luoghi di appartenenza e, contemporaneamente,
confini che si allargano per l’esperienza
dei visitatori” (p. 103).
È davvero interessante ragionare sul
museo come un luogo d’appartenenza
(recupero e memoria di un’identità), ma
La raffinatezza
anche come un concosta poco
fine fra la consapeE pure fa la difvolezza di un’identità
ferenza. Abbiamo a
e il mistero intrinseche fare con quanto
co a essa, una soglia
di meglio abbia profra la memoria del
dotto l’uomo nel tempassato e, tramite la
po, dobbiamo averne
certezza del presente,
cura e trattarlo con
l’aspirazione a un fumolta delicatezza e
turo, in una tensione
consapevolezza. Non
Una veduta del museo di Bandjoun, Camerun. (Foto Antonio Piva)
verso l’eternità che
è inutile, al proposiresta una delle corde vibranti del museo nel tempo.
to, rileggere quanto dice la Belli, parlando del museo di
In questo consiste l’ottimismo del museo, ma in partiBotta a Rovereto: “Rovereto è una graziosa cittadina, riccolare quello di Antonio Piva che nella coscienza lucida
ca di storia e di preziosi beni monumentali [...] Corso Betdell’ambiguità (tener viva la morte delle cose, conservare
tini, per fare un esempio, conserva ancora oggi tutta la bele nel contempo progettare il cambiamento) e nonostante
lezza dell’architettura originaria della fine del Settecento [...]
i continui intoppi del mestiere, come della vita, persiste a
L’inserimento del MART nel cuore di questa via ha richieporre, uno dopo l’altro, i mattoni del suo lavoro. C’è semsto l’intelligenza e la sensibilità di un grande architetto [...]
pre un altro giorno e, come mi disse un tempo ormai davnon sfugge il segno della mano di Botta, con quella spevero lontano, la lucertola perde la coda, ma poi ce la metciale monumentalità discreta del suo progettare e costruite tutta per farsela ricrescere.
re, che fa di questo edificio un luogo perfetto per una vera esperienza dell’arte e dell’architettura. Tutto ciò in moPaolo Biscottini è direttore del Museo Diocesano di Milano.
do misterioso ha ridisegnato gli equilibri di una relazione
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Ecomusei e sviluppo sostenibile
Elisabetta Fiore
scomparsa, ma soprattutto simboli di quell’intreccio, sagace
Il Parco Nazionale dell’Alta Murgia
ed equilibrato, tra natura, cultura e tecnica delle Murge. AlCon i suoi 68.083 ettari, estesi tra la costa adriatica e i rila varietà tipologica dei manufatti (per esempio poste, jazzi,
lievi lucani, il Parco Nazionale dell’Alta Murgia si pone come
masserie, trulli, pozzi e piscine, muretti a secco) fa riscontro
il primo parco rurale d’Italia1, ventitreesimo a livello nazionaun limitato numero di modalità costruttive (per lo più “a sacle e secondo a livello regionale, dopo il Parco Nazionale del
co” e “a secco”), riconducibili quasi esclusivamente a un soGargano, esteso su ben 121.118 ettari del promontorio foggialo materiale, la pietra calcarea4, che, in tal modo, caratterizno. La sua recente istituzione – con Decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 2004 – testimonia una nuova e crescente
za in maniera unica e univoca il territorio.
sensibilità da parte della collettività locale2, protesa alla rivitaNon meno importanti, ed espressioni anch’esse della cultura agricolo-pastorale, sono la lingua, le tradizioni folclorilizzazione di un territorio da sempre sviluppatosi su logiche di
stiche ed enogastronomiche tipiche (si pensi, per esempio,
insostenibilità (soprattutto ambientale), a scapito del suo ricco
al pane di Altamura di semola rie fecondo patrimonio culturale.
macinata di grano duro, all’olio
L’ossatura calcarea dell’Alta
d’oliva certificato dal marchio
Murgia, plasmata dalle millenarie
D.O.P. “Terra di Bari-Bitonto”, ai
forze dell’erosione, e i fenomeni
prodotti caseari a base di latte di
carsici a essa legati (scarsa idropecora; tutti prodotti rinomati
grafia superficiale, grotte, gravi
anche al di là dei confini protra le più profonde dell’Italia cenvinciali), senza dimenticare i sitro-meridionale, lame e doline,
ti paleontologici e archeologici,
tra cui si ricordi il Pulo di Altamura
di notevole interesse e in parte
e il Pulicchio di Gravina) confeancora da scoprire: tra le tante ecriscono al paesaggio un aspetto
cellenze, basti qui ricordare Caunico e omogeneo, a volte instel del Monte presso Andria (ogquietante e lunare ma di un raro
gi patrimonio UNESCO e tra i
e pittoresco fascino, immerso in
Una veduta di Castel del Monte presso Andria, in
più noti castelli federiciani) e,
silenzi apparentemente sconfinaPuglia. (Foto Elisabetta Fiore)
presso Altamura, le recenti scoti che nuclei abitati, per lo più comperte di Cava dei dinosauri (le cui circa 4000 impronte fossipatti e accentrati, hanno contribuito a preservare intatto.
lizzate potrebbero modificare la paleogeografia del CretaciLe caratteristiche geomorfologiche, climatiche e di utilizzo
co mediterraneo), della grotta di Lamalunga con l’Uomo di
antropico del territorio hanno favorito lo sviluppo di una veAltamura (uno scheletro, integro e in ottimo stato di consergetazione spontanea variegata e di notevole interesse3, tra gli
vazione, di un ominide collocabile tra le forme di Homo
ultimi esempi di pseudo-steppa mediterranea, e di un altrettanto
erectus e uomo di Neandertal, in una fase di passaggio stiricco e importante patrimonio faunistico che, tra le circa 88
mata a 250 mila anni fa), e l’area di Iesce (nota soprattutto
specie di uccelli nidificanti, annovera la più importante poper il casale fortificato con cripta affrescata nel XIV secolo).
polazione europea di falco grillaio (Falco naumanni), il
simbolo per eccellenza dell’area protetta.
Progetto per uno sviluppo integrale e sostenibile
Gli eccezionali valori naturalistici e ambientali appena deIl ruolo del parco5
scritti sono da percepirsi in strettissima connessione e mutua dipendenza con quelle dinamiche storiche e sociali a caPer l’insieme delle sue caratteristiche, l’Alta Murgia non
rattere agro-silvo-pastorale che, da sempre, permeano inpuò che connotarsi come parco rurale, teso non solo alla tudissolubilmente la cultura locale: ne sono emblematiche tetela vincolistica dell’ecosistema ambientale ma anche alla comstimonianze le architetture rurali sparse, non solo ultimi baprensione, alla salvaguardia e alla valorizzazione di una
luardi di una millenaria pratica agricola oggi quasi del tutto
unità territoriale ben più complessa, frutto di quei secolari e
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stronomico, culturale (festival, spettacoli, eventi culturareciproci adattamenti antropici/ambientali che, attraverso un
li, fiere ecc), educativo ecc.; per tipo di destinatari, che,
processo di progressiva stratificazione, hanno determinato l’idenoltre ai soli turisti occasionali della costa (ai quali si oftità unica e in continua evoluzione della collettività locale.
fre la possibilità di ampliare e integrare la propria vacanza),
Più in dettaglio, l’Istituzione Parco può e deve garantire
ingloberebbe anche i turisti del luogo, della provincia, delquanto specificato nel seguito.
la regione ecc.
1. Un indispensabile processo di riqualificazione agricola,
affidata soprattutto alle nuove frontiere del biologico e
Una proposta di ecomuseo
dell’allevamento zootecnico, nonché un piano di tutela,
La scommessa che si fa, quella cioè di uno sviluppo intebonifica e manutenzione del patrimonio culturale, cograle e compatibile del territorio e di una sua relativa trasforstantemente minacciato, purtroppo ancora a oggi, da femazione, deve essere di natura culturale prima ancora che economeni di degrado e attività equivoche quali lo spietranomico-sociale. Se il territorio, infatti, si definisce tramite aspetmento polverizzante, le cave estrattive, le discariche abuti che vanno oltre quelli strettamente geografici, politico-amsive, gli invasi artificiali ecc.
ministrativi o economici, incorporando anche altri elementi del
2. La sperimentazione di una nuova socialità che, attraverso
patrimonio culturale alla base dell’identità locale, si deduce coapprocci democratici e di tipo bottom up, richieda consenme l’identità locale stessa, soprattutto nell’era attuale della glosi, soprattutto da parte degli operatori agricoli6, e migliori
balizzazione, diventi una risorsa strategica e indispensabile
le interazioni socio-istituzionali locali, nello sforzo di inneper stimolare una rivitalizzazione sostenibile del territorio. In
scare un processo di ricomposizione politico-culturale,
quest’ottica, il Parco Nazionale dell’Alta Murgia e un suo ipoall’insegna della tutela ambientale e dello sviluppo di attitetico ecomuseo possono invità compatibili.
staurare un rapporto sinergico e
3. Lo sviluppo economico
proficuo di collaborazione, aperdell’area tramite: (a) attività
to all’innovazione7 e a beneficio
produttive agro-silvo-pastorali che siano innovative e comin primis della collettività locale,
patibili; il parco diventerebpoiché sono tasselli dinamici di
be tra l’altro un interlocutore,
un unico sistema, ampio e intepreferenziale e non privato, per
grato, che trova nel territorio il suo
l’inserimento di un paniere di
minimo comune denominatore.
prodotti tipici, materiali e imSe il parco, per la missione sopra
materiali, all’interno di un cirdelineata, si pone in una triplice
cuito più ampio e di grandi liveste quale infrastruttura di servelli; (b) la valorizzazione tuvizi, opportunità di lavoro per i
ristica delle risorse che, per
giovani, ma soprattutto luogo simJazzo Modesti. (Foto Mariano Fracchiolla, Archivio
un’area da poco diventata parbolico e ideale nel quale identidel Centro studi Murex)
co nazionale, deve essere neficare, ricostruire e valorizzare
cessariamente di qualità, sostenibile e non subita e dunque
l’identità locale, l’ecomuseo ne diviene un complemento fonben diversa dal turismo di massa prevalente nella regione,
damentale, poiché rappresenta memoria e racconto di quei vatipicamente costiero ed estivo; si tratta, in sostanza, di inlori e significati alla base della nostra matrice storico-culturale
nescare processi turistici di destagionalizzazione e delocae dunque dell’identità locale.
lizzazione capillare che, almeno sulla carta, presentano inL’ecomuseo è qui inteso quale processo, soggetto e fecoraggianti punti di forza (prossimità della costa; facilità di
nomeno dal triplice ruolo strategico.
accesso grazie a un discreto sistema di collegamenti; pre1. Ecomuseo come progetto culturale efficace e di un certo
senza di numerose strutture ricettive e di beni culturali, rispessore, fortemente radicato nel territorio che insegna a
levanti anche nei centri urbani limitrofi). A tal fine, si doleggere e capire, attraverso percorsi articolati per luoghi, itivrebbe elaborare un’offerta turistica il più possibile originale
nerari e sistemi, al fine non solo di recuperare, tutelare e
e diversificata, supportata da un’adeguata pianificazione
attribuire valore aggiunto al patrimonio ma soprattutto di
strategica (e di marketing) e in grado di elaborare itinerari
ricostruire e rafforzare il senso di identità e appartenenza
variegati anche al proprio interno: per tipo e quantità di espeterritoriale (che nel lungo periodo si traducono in una
rienze proposte (clustering), che, nel nostro caso, spaziamaggiore competitività territoriale). Il tutto presuppone
no dall’agriturismo al turismo naturalistico-sportivo (equiun’attività costante di formazione, studio, ricerca e divulgazione,
tazione, escursionismo, speleologia, cicloturismo ecc.), gasenza le quali si avrebbe un’istituzione del tutto sterile.
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2. Ecomuseo come fattore di sviluppo socio-economico del
sistema, derivato dalla valorizzazione turistica delle risorse e dalla messa in rete, anche telematica, delle dinamiche
culturali locali; non si tratta necessariamente di creare luoghi tutti espositivi, omogeneamente distribuiti nei 13 comuni
del parco, si tratta di elaborare un sistema di sensori variegati con i quali governare e operare sull’intero territorio
del parco nonché sviluppare e ampliare un’offerta di servizi vari che possano anche rimandare a un centro espositivo8. Indispensabile diviene il rafforzamento del sistema
d’informazione, attualmente alquanto deficitario, tramite la
creazione di una comunicazione di marca (creazione di un
logo o di un marchio di qualità per i vari prodotti del sistema quali le infrastrutture ricettive, le guide ecc.) supportata
da una pluralità di punti informativi, specializzati e non, nei
nuclei abitati e nell’area del parco.
3. Ecomuseo come sperimentazione di nuovi processi gestionali,
secondo dinamiche di tipo bottom up (sviluppo dal basso) e di compact planning (pianificazione cooperativa) che
rispecchino un sistema dal governo unico o quantomeno
caratterizzato da forti linee programmatiche comuni.
La rete si pone quale strumento tra i più idonei per un maggiore coinvolgimento attivo della popolazione locale, oltre che
come soggetto mediatore e sinergico delle varie agenzie promotrici dello sviluppo locale, sia pubbliche che private: gli enti locali e in primis l’ente parco, le associazioni agricole, i centri di ricerca specialistica e scientifica quali i musei, l’università,
le varie associazioni culturali e ambientaliste ecc. Queste ultime rappresentano un punto di riferimento importante al riguardo,
per l’avvio e il supporto al progetto: da anni, infatti, associazioni quali Torre di Nebbia, Murex e Terrae si occupano della conoscenza e della valorizzazione del territorio attraverso l’esplicazione di attività che spaziano dalla didattica ambientale con
relative visite guidate, alla progettazione e organizzazione di
eventi culturali e formativi (pubblicazioni editoriali, convegni,
corsi di formazione ecc.). Tra i numerosi progetti già avviati spicca la recente realizzazione di un centro didattico ambientale e
del relativo itinerario attrezzato tra Ruvo di Puglia e Altamura,
o un progetto, ancora in fase di realizzazione, di allestimento
ed esposizione permanente sul mondo contadino presso la Masseria San Magno di Ruvo di Puglia; esempi che, oltre a poter
fungere da sorta di “test” preliminare per tastare il terreno, dimostrano quanto quella delle associazioni locali sia una realtà
particolarmente viva e fertile che un “ecomuseo” potrebbe ulteriormente sviluppare, promuovere ma soprattutto coordinare in un’ottica strategica di alleanze per il territorio e il suo sviluppo integrale.
Nonostante la sua complessità e ambizione9, l’idea qui
brevemente configurata offre di sicuro notevoli opportunità di
tutela, conservazione e gestione di un patrimonio così identificato che si tratta, in conclusione, di connettere e valorizzare
10
come sfida “per una diversa percezione del territorio, il quale,
comunque andrà a finire, sarà il solo a poter testimoniare l’uso
che di esso gli uomini nel frattempo ne avranno saputo fare”10.
Colgo qui l’occasione per ringraziare il professor Saverio Pansini,
docente di Museologia presso l’Università di Bari, per aver seguito
e indirizzato la mia ricerca con preziosi consigli.
Elisabetta Fiore è laureata in Scienze dei Beni Culturali
presso l’Università di Bari.
1. Il parco interessa 13 comuni della provincia di Bari: Altamura, Andria, Bitonto, Cassano delle Murge, Corato, Gravina in Puglia, Grumo Appula, Minervino
Murge, Poggiorsini, Ruvo di Puglia, Santeramo in Colle, Spinazzola e Toritto.
2. Ulteriori segni tangibili sono, per esempio, il Parco regionale della Terra delle Gravine, istituito nel dicembre 2005 lungo l’arco jonico-tarantino
(Ginosa, Laterza, Castellaneta, Mottola, Massafra, Palagiano, Palagianello,
Statte, Crispiano, Martina Franca, Montemesola, Grottaglie, S.Marzano, Villa Castelli) e il progetto, ancora in fase di realizzazione, del Parco della Gravina di Gravina in Puglia e Bosco Difesa Grande nella Murgia barese.
3. Sono presenti circa 1500 specie vegetali di cui 1103 spontanee; secondo la Direttiva 92/43/CEE sono distinte essenzialmente due tipologie di
habitat: “Praterie su substrato calcareo (Festuco-Brometalia) con stupenda fioritura di orchidea” e i “Percorsi substeppici di graminacee e piante
annue (Thero-Brachypodietea)”.
4. Ciò grazie alla sua facile reperibilità nonché alle sue particolari caratteristiche di umidità, temperatura e ossigenazione che assicurano negli edifici un ottimale isolamento termico e nei muretti a secco la sopravvivenza di importanti microrganismi e insetti.
5. Si veda anche: Castorio P., Creanza A., Perrone N. (a cura di), Guida
al Parco nazionale dell’Alta Murgia. Natura e storia del primo Parco rurale d’Italia, Torre di Nebbia Edizioni, Altamura, 2005.
6. Pregiudizi, scetticismi e abitudini equivoche, ancora oggi non del tutto estirpate, hanno contribuito a radicare nell’opinione pubblica, e in particolar modo tra le categorie produttive, tra gli imprenditori e i cacciatori, un’immagine di parco alquanto negativa, intesa più come un limite che
come uno stimolo concreto allo sviluppo dell’area e delle sue attività; un’idea
che nei fatti ha rallentato notevolmente il lungo e travagliato iter istitutivo, durato nel complesso ben 14 anni circa.
7. Ciò nel rispetto dei secolari e sapienti equilibri che l’uomo ha saputo
costruire con il proprio ambiente ma al contempo evitando ogni difesa
nostalgica e senza speranza del passato.
8. Il centro può essere realizzato ex novo, recuperando possibilmente la
funzionalità di architetture tipiche e preesistenti (quali jazzi o masserie per
esempio), oppure può essere già esistente e dunque parte del sistema museale locale. Tale sistema è costituito dall’ABMC (Archivio Biblioteca Museo Civico) e dal Museo Archeologico Statale di Altamura; dal Museo Diocesano di Andria; dal Museo Diocesano e Museo Civico di Bitonto; dal
Museo della fondazione “Ettore Pomarici Santomasi”, dal Museo Civico Archeologico e Museo Capitolare d’Arte Sacra a Gravina in Puglia; dal Museo Nazionale Jatta di Ruvo di Puglia e infine dal Museo Archeologico “R.
de Cesare” di Spinazzola (attualmente non visitabile).
9. Fattori limitanti e non trascurabili sono la fase di start up nella quale si
trova il parco, il clima di scetticismo che permea ancora il territorio e in
particolare il settore agricolo, nonché il deficit strutturale-economico locale, un aspetto, quest’ultimo, comunque superabile grazie a una serie di
finanziamenti disponibili di carattere regionale, nazionale ed europeo.
10. Da: Castorio P., Creanza A., Perrone N., op. cit., pag. 202.
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La redenzione degli oggetti:
il Museo Mario Praz
Riccardo Rosati
le pietre di Roma siano “vive”, lo stesso dicasi per i suoi luo“L’umano è la traccia che l’uomo lascia nelle cose, è
ghi di cultura, i quali sono da considerarsi parti biologiche
l’opera, sia essa capolavoro illustre o prodotto anonimo
del territorio urbano che interagiscono per lo più in modo
d’un’epoca. È la disseminazione continua d’opere e oggetti
sincronico.
e segni che fa la civiltà, l’habitat della nostra specie, sua
Ciononostante, siamo spesso abbacinati dallo sfarzo di
seconda natura”. Queste sono le parole che Italo Calvino
collezioni imponenti come, per esempio, quelle dei musei
dedica a Mario Praz (1896-1982) nel suo scritto La redenzione
capitolini o vaticani. Il risultato di tale atteggiamento è la “redegli oggetti (1981). Conosciuto in Italia principalmente cotrocessione” di molti musei meno famosi nel dimenticatoio.
me padre della anglistica nostrana, Praz fu un attento colQuello che si potrebbe definire il “museo dietro casa” allezionista e uomo dalla leggendaria cultura, la quale spatro non è che un luogo della bellezza e della storia che fa
ziava dalla letteratura fino alla storia dell’arte. Il Profesparte integrante di un quartiere. Trattasi di collezioni piccosore – come veniva chiamato dagli amici – è stato sì un
le sì, ma uniche nel loro genere e quasi semteorico, ma anche un esteta del gusto otpre legate in modo indissolubile alla storia
tocentesco, nonché raffinato esperto di andella città. Va da sé che l’incontro con quetiquariato. Nel suddetto saggio di Calvino,
sti scrigni di storia e conoscenza può doritroviamo un chiaro apprezzamento dell’aunarci informazioni sul nostro abitato davvero
tore ligure per la “cultura dell’oggetto”, cosorprendenti.
sì ben rappresentata da Praz nei sui nuLa suggestiva collezione del Museo Mamerosi scritti. Calvino conviene con il
rio Praz, ospitata negli storici ambienti di PaProfessore nell’individuare un’anima tanlazzo Primoli, in Via Zanardelli, si attesta cogibile nelle cose, nelle quali non si ritrome una delle più curiose e interessanti cava solo la testimonianza di un’epoca, ma
se-museo, tipologia frequente nel Nord Euanche, e soprattutto nel nostro caso, la tracropa e, per quanto concerne l’Italia, anche
cia tangibile del gusto dell’uomo che quelin regioni come la Lombardia, ma rare nel
le stesse cose ha raccolto e collezionato
resto della Penisola.
con amore per tutta una vita. Ragion per
Il museo venne aperto al pubblico nel
cui la visita al Museo Mario Praz di Roma
giugno del 1995, in seguito alla donaziosi attesta come l’esplorazione di quella che
ne che lo stesso Praz fece allo Stato, che
fu la vita del collezionista, la quale vive
Un ambiente del museo, a
formalizzò l’acquisto dagli eredi dell’inteancora negli oggetti presenti nella sua
dimostrazione dell’eclettismo
ra collezione nel 1986. Attualmente il muraccolta.
di Praz collezionista. (Foto
seo dipende dalla Soprintendenza SpeIn Italia vi sono luoghi della Bellezza talMuseo Mario Praz)
ciale all’Arte Contemporanea della Gallevolta negletti dal vasto pubblico. Tale e tanria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La collezione acta è la qualità del panorama museale italiano che risulta quancoglie oltre mille e duecento opere ed è il risultato di sesto mai difficile conoscere tutti i musei del luogo in cui si visant’anni di appassionata ricerca da parte di Praz. L’edifive; l’impresa diventa quasi impossibile in una città come Rocio di Via Zanardelli ospita inoltre il Museo Napoleonico
ma, colma di collezioni storiche. Eppure nella Capitale ci soal piano terra e la ragguardevole biblioteca della Fondano dei piccoli musei che meriterebbero di essere conosciuzione Primoli al piano nobile, che, insieme alla casa-muti, giacché ogni museo riserva sempre una quantità sorseo, creano, così come era anche nell’intenzione di Praz,
prendente di informazioni. Si sposa bene con questa situaun centro di notevole interesse per gli studi d’arte, di stozione la riflessione che Praz dedicò a Piranesi: “Nel crudo di
ria e di letteratura del XIX secolo.
Roma le pietre vivono, per chi sappia vederle, di tale intenGli ambienti che ospitano la collezione Praz posseggosità da parer quasi allucinante”. Questo processo di persono lo stile di una dimora nobiliare del secolo XIX, arredata
nificazione della Città Eterna ci aiuta a comprendere come
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in tutti i suoi dettagli con mobili, dipinti, sculture, tappeti, tendaggi, lampadari, bronzi, cristalli, porcellane, miniature, argenti e marmi, che vanno principalmente dal XVIII secolo
fino a metà dell’Ottocento.
Praz si trasferì al terzo piano di Palazzo Primoli nel 1969,
quando lasciò la sua abitazione storica di Via Giulia 147,
all’interno di Palazzo Ricci, e che lui stesso definì “la casa
della vita”. La raccolta di Praz si era per l’appunto formata in questa abitazione, molto più ampia degli ambienti di
Palazzo Primoli. Praz dovette perciò imporsi una sorta di
horror vacui, sensazione che si ha tuttora visitando il museo, con dipinti fitti alle pareti, libri un po’ ovunque. Se
da un lato si percepisce la mancanza di spazi, dall’altro si
ha la piacevole sensazione di essersi intrufolati in una casa il cui padrone è andato via da poco; un’emozione difficile da provare nelle sale di un grande museo. Tuttavia,
anche se aveva già praticamente riempito ogni angolo della sua nuova abitazione, Praz riuscì lo stesso a incrementare di ben duecento pezzi la collezione nei tredici anni trascorsi in questa casa.
Acquistati su gran parte del mercato antiquario europeo,
gli arredi offrono una godibilissima panoramica di una “filosofia dell’arredamento” che spazia dal gusto neoclassico della fine del secolo XVIII, passando per lo Stile Impero, fino
alla più domestica maniera biedermeier che caratterizza la seconda metà dell’Ottocento.
Stanze per ricevere e camere da letto, biblioteche, studio e camera da pranzo si offrono una dopo l’altra al visitatore che vi viene accolto come in una dimora ancora abitata, con i fiori freschi nei vasi e i libri aperti sui tavoli. In
definitiva, un sentiero breve, seppur intenso, lungo la vita di uno tra i più grandi studiosi italiani del Novecento.
Qui più che altrove si rafforza l’idea di museo come “epifania del passato”, riportandoci alla mente le parole di un
altro amante dell’arte dell’Ottocento, John Ruskin, il quale ravvisava una vera e propria “personalità” negli edifici
storici: “We have two qualities of buildings [...], Strength and
Beauty” (noi troviamo due qualità negli edifici [...], Forza
e Bellezza).
Rispetto ad altre case-museo italiane ed europee, il
Museo Mario Praz rientra perfettamente nel parametro del
gusto del collezionista, sul quale si sono formate altre analoghe raccolte. Tuttavia, la sua specificità è piuttosto nel
mostrare una casa ricostruita idealmente come un’abitazione
del XIX secolo a opera di una persona vissuta nel XX, una
sorta di Recherche proustiana fatta con gli oggetti, piuttosto che con le parole; come ci suggerisce lo stesso studioso
nel testo autobiografico La casa della vita, dove egli fa notare come gli oggetti si sostituiscono progressivamente alle persone perché, a differenza di queste ultime: “gli oggetti non tradiscono mai”.
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Il percorso espositivo si snoda per nove ambienti. L’eccentricità della collezione rispecchia fedelmente quella di Praz,
studioso eclettico. La tipologia degli oggetti esposti è sorprendentemente varia sebbene sia in gran parte l’Ottocento, segnatamente col gusto neoclassico, il secolo meglio rappresentato, aspetto, quest’ultimo, che connota il Museo Mario Praz come un simbolo del gusto borghese italiano della
prima metà del XX secolo. I libri, che insieme ai mobili erano la grande passione del collezionista italiano, si trovano
un po’ dovunque, tanto che Praz si fece costruire nella galleria un ballatoio per ospitare la sua vasta biblioteca e che
ora invece accoglie il suo archivio.
Molto interessante è anche la collezione di papiers peints,
di manifattura francese, ospitata nella camera da letto, dove
troneggia un letto a baldacchino proveniente dagli arredi del
Castello di Fontainebleau. In questa stanza è sistemata inoltre una serie di ventagli, a conferma della versatilità del gusto del collezionista.
Sempre in una camera da letto, stavolta della figlia Lucia, la quale all’epoca non abitava più col padre, troviamo
una coppia di mobili biedermeier, insieme a una raccolta di
oggetti da casa di bambola e di giocattoli meccanici.
La camera da pranzo, di un acceso rosso pompeiano, la
troviamo arredata di semplici mobili inglesi, sormontati da
un bizzarro lampadario a forma di mongolfiera, probabilmente
uno degli oggetti più curiosi in mostra.
Infine, nello spazioso ingresso posteriore è collocata la
bella scultura Amore che spezza l’arco di Tito Angelici (18061878). Alle pareti della stanza è appeso un ritratto allegorico di Praz coronato di lauro che riporta la scritta: “Et in arcadia ego”.
Possiamo considerare il Museo Mario Praz una delle meraviglie della Roma moderna, esempio eccellente di abitazione
che si fonde con i libri che essa ha ispirato, facendo sì che
la storia della casa sia indissolubilmente legata alla vita del
suo abitatore. Nelle pagine dedicate alla sua abitazione (ricordiamo che si tratta di quella in Via Giulia 147), il tono di
Praz è quello di una guida, incredibilmente erudita, che tuttavia non cela l’anima di un saggista e memorialista della specie più felice: quella di Lamb, De Quincey, Pater. Verso le
ultime pagine del testo, come avviene entrando nelle ultime
stanze della casa, il lettore si aggirerà per questo “museo vivo” come in una foresta incantata, che un potente artificio
tiene divisa dalla vita immediata, ma proprio per catturare
così l’esistenza segreta delle immagini riflesse: illustri scrittori e personaggi della cultura europea del Novecento.
Il museo soffre purtroppo di poca visibilità, sebbene sia
collocato in una zona di transito strategica, vicino alla centralissima Piazza Navona. La direzione stessa ci ha confermato
che servirebbe una politica più dinamica per far conoscere
al pubblico questo scrigno colmo di oggetti rari, quanto ori-
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ginali. Si è verificato infatti che ogni volta che nei piccoli spazi del museo è stata allestita un’esposizione, reclamizzata su
vari settimanali e quotidiani e segnalata anche con apposite locandine distribuite in negozi e alberghi del quartiere, il
pubblico automaticamente è raddoppiato. Ultimamente per
far conoscere meglio il museo si è usufruito anche del servizio offerto dall’ATAC di Roma, comparendo con un piccolo spot sugli schermi televisivi proiettati negli autobus che
transitano per il centro. Ciononostante, l’incremento dei visitatori resta praticamente invariato, se la pubblicità si limita alla sola collezione permanente. Questo dato conferma quanto il pubblico sia sovente più attratto della mostra di grido
e di durata limitata, che va vista e “consumata” subito, piuttosto che dal visitare una collezione permanente; problema
questo comune anche ad altri e più grandi musei della città.
Certo una segnaletica più vistosa incoraggerebbe probabilmente la visita al museo, specialmente se si considera il
gran transito di turismo che ogni giorno va verso Piazza Navona e il centro, e che passa davanti all’ingresso di Via Zanardelli.
Il visitatore tipo del museo è per un buon cinquanta per
cento europeo, in virtù del fatto che Praz collezionista e i suoi
scritti sull’arredamento e sul neoclassicismo sono spesso più
noti all’estero che in Italia, dove è conosciuto più come anglista che come esteta e studioso del gusto e degli stili tra la
fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Avendo
il museo appena dieci anni di vita, non sono previsti grossi
interventi strutturali per il futuro, anche se sarebbe quanto
mai necessario trovare nuovi spazi per attività come le conferenze, molto utili per creare un necessario movimento culturale e accademico intorno alla collezione, e che mancano
in questa struttura. Tuttavia, si stanno progressivamente restaurando quei pochi pezzi, all’incirca il 5%, che non erano
in condizione di essere esposti dieci anni fa, e che ritroveranno la loro collocazione originaria all’interno delle sale del
museo a restauro ultimato.
Per quanto concerne le mostre, la politica è quella di
concentrarsi su piccole esposizioni molto mirate, che facciano conoscere al pubblico anche la collezione permanente. A tal proposito, di recente è stata allestita una mostra sui dipinti giovanili di Massimo d’Azeglio, con opere
in prestito da Torino. Altra iniziativa per far tornare coloro che hanno già visto la collezione permanente riguarda
l’esposizione degli acquarelli d’interno della collezione, presentati periodicamente nella saletta espositiva del museo.
Trattasi di trenta acquarelli d’interno, conservati nel Gabinetto
di Grafica. Questi vengono riproposti al pubblico secondo una tradizione ormai decennale, che alterna alle mostre realizzate in collaborazione con altre istituzioni, la presentazione di uno dei nuclei più godibili e carichi di suggestione dell’intero museo.
Per concludere, è utile ribadire come la visita al Museo Mario Praz, come accade spesso per le case-museo, non
rappresenta soltanto un momento culturale, poiché questa collezione perfora il semplice confine tra opera d’arte
e visitatore. Mentre si cammina attraverso le stanze silenziose e colme di oggetti un po’ bizzarri ospitati al terzo piano di Palazzo Primoli, si ha la possibilità di ripercorre la
vita di un uomo, come se si venisse catapultati dentro un
quadro – nel suo saggio Calvino parla in modo approfondito
della teoria di Praz che accosta l’arredamento al paesaggio. Il fascino di un Praz “schedatore universale”, che aveva così tanto colpito la curiosità di tipo archeologico di Calvino per gli oggetti visti come testimonianza del “fare” dell’uomo, passa proprio per la redenzione di quegli oggetti che
alcuni visitatori potrebbero troppo celermente liquidare come il risultato dell’eccentrico gusto di un sofisticato e colto signore. Purtuttavia, questa collezione ha un valore
specifico importante poiché in essa vivono ancora il gusto di un uomo e di un’epoca: “tra i tanti visitatori indifferenti o distratti o volgari, vi sarà l’anima sensitiva che,
sia pure per un momento si sentirà investita da quel calore che un tempo animò tutti i begli arredi”. L’anima materiale dell’uomo che Calvino intendeva salvare, e che si
trova per l’appunto negli oggetti che l’uomo stesso crea per
la sua civiltà, rivive anche nell’atto del visitatore che, passando in rassegna per esempio la collezione messa meticolosamente insieme da Praz, cerca di percepire l’afflato
tra gli oggetti e la casa che li ospita, in un gesto di autentica “redenzione” verso quegli stessi oggetti, non più semplicemente considerati mere opere d’antiquariato.
Un ringraziamento particolare per la preziosa collaborazione va a
Patrizia Rosazza, direttrice del Museo Mario Praz.
Riccardo Rosati è doctoral student in Museum Studies presso
l’Università di Leicester in Inghilterra.
Bibliografia
Calvino I., 1999 - La redenzione degli oggetti. In: Saggi, vol. I, a
cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano, pp. 519-524.
Calvino I., 1999 - Saggi, vol. I, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano, 1999.
Praz M. (a cura di) 2000 - Giovanni Battista Piranesi, Vedute di
Roma, Mondadori, Milano.
Praz M., 1995 - La casa della vita, Adelphi, Milano.
Praz M., 1993 - La filosofia dell’arredamento, TEA, Milano.
Praz M., 1990 - Gusto neoclassico, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.
Rosati R., 2005 - La visione nel Museo, Starrylink, Brescia.
Ruskin J., 2001 - The Stones of Venice, Penguin Books, Bath.
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L’archeologia industriale
del porto di Genova
Guido Rosato
La Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico Etnoantropologico (PSAE) della Liguria sta svolgendo, da alcuni anni, un’attività finalizzata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico industriale conservato
nel porto di Genova. Le motivazioni che hanno portato a
iniziare questo procedimento sono duplici. Da una parte
la consapevolezza dell’importanza della memoria storica dell’attività del porto, da percepire anche con la conservazione
e la valorizzazione dei reperti materiali mobili, di sua competenza. Dall’altra, l’altrettanto importante constatazione,
recepita attraverso le preliminari informazioni raccolte e i
risultati di sopralluoghi svolti, che tale patrimonio rischia
la completa sparizione, essendo, per varie ragioni che vanno dall’incuria agli interessi particolari, il più debole anello della catena che lega tutte le trasformazioni del porto,
sia quello recuperato e trasformato, il Porto Antico, sia quello commerciale e pienamente operativo.
La consapevolezza dell’importanza dei mezzi navali e
marittimi, che pure erano già potenzialmente compresi
nello spirito della legge del 1939, la 1089, è data, peraltro,
dal nuovo Codice dei Beni Culturali (D.Lgs. 41, 22 gennaio
2004) che inserisce esplicitamente fra i beni culturali “le navi e i mezzi galleggianti aventi interesse storico, artistico
o etnoantropologico” (Titolo I, Capo I, Art. 10, Comma 4,
i), oltre, come dai precedenti, i “mezzi di trasporto aventi
più di settantacinque anni [...]” e “i beni e gli strumenti di
interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi
più di cinquanta anni [...]” (Titolo I, Capo I, Art. 11, Comma 1, g e h).
Con queste premesse, la Soprintendenza ha iniziato la sua
opera ponendo l’attenzione su tre distinti oggetti che, per la
loro diversa visibilità, potevano rappresentare un primo significativo esempio di beni da tutelare.
Il primo è la gru galleggiante “Maestrale”, attualmente
di proprietà privata e ormeggiata a Calata Gadda, importante esempio di mezzo navale storico, costruita a Brema
nel 1915, ben conservata e tuttora operativa. Costruita interamente in acciaio chiodato, è un possente mezzo di sollevamento con un braccio che può raggiungere l’altezza di
ben ottantacinque metri, con una portata di 250 tonnellate. Le dimensioni sono tali che, così come a Brema, quando era chiamata “Il grande Enrico”, anche a Genova è diventata elemento significativo del panorama della città.
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Gli altri oggetti sono due gru, pure collocate a Calata Gadda, all’interno dell’area portuale storica ancora operativa.
Una ha movimento a mano, è probabilmente la più antica
oggi conservata nel porto, essendo databile all’inizio dell’ottocento, ed è di proprietà dell’Autorità Portuale di Genova.
L’altra, più recente, degli anni Venti del Novecento, di proprietà privata, ha forza motrice elettrica e rappresenta un documento interessante per l’evoluzione dei mezzi di sollevamento portuali. Pur essendo di diversa origine e tipologia,
per ambedue esisteva un potenziale pericolo di “sparizione”
data la loro collocazione in un’area soggetta, entro breve termine, a pesanti lavori di ristrutturazione. È previsto, infatti,
come noto, che parte delle aree entrino a far parte della zona urbana del Porto Antico, con relativa dismissione delle funzioni specificatamente portuali – oggi sottoposte all’Autorità
Portuale –, e altra parte sia destinata a opere infrastrutturali
a valenza urbana – tunnel sottomarino di attraversamento del
porto. In questo contesto il rischio è che questi piccoli mezzi siano prima smontati, perché considerati un inutile ingombro,
siano messi successivamente in qualche magazzino, per poi
scomparire definitivamente come ferrovecchio.
Su iniziativa della Soprintendenza PSAE, il Ministero per
i Beni e le Attività Culturali ha emesso la dichiarazione di interesse particolarmente importante dei tre beni, il cosiddetto vincolo. Tuttavia, l’apposizione del vincolo, atto già di per
sé importante per le restrizioni e prescrizioni che comporta
per il proprietario, sia esso pubblico o privato, non può bastare alla valorizzazione del bene. Né, tantomeno, è possibile, per ovvie ragioni economiche e gestionali, pensare a
un’acquisizione diretta dei beni da parte dello Stato. Per
questo, la Soprintendenza ritiene che solo la collaborazione
con tutti gli altri enti e le associazioni che, con vario titolo,
si occupano della gestione del porto e del patrimonio culturale della città, può portare alla loro rivitalizzazione e,
pertanto, a quella trasmissione e condivisione di conoscenza del “saper fare” che pare auspicata da tutti e della quale
anche questi oggetti sono parte importante.
Per quanto riguarda la gru galleggiante “Maestrale”, la Soprintendenza sta cercando, con tutti gli enti responsabili del
bacino portuale, di trovare una sistemazione, un ormeggio,
all’interno dell’area aperta al pubblico, per attivare tutte quelle attività, ovviamente compatibili con la sua tutela, che possano aiutare l’armatore del mezzo alla sua futura gestione.
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NUOVA
Nel percorso all’aperto – il cui allestimento non sarebbe
Il successo della manifestazione, allestita a bordo, in ocpoi di gran peso economico, trattandosi solo di pannelli dicasione della “VI settimana dei beni culturali”, dal 24 al 30
dattici – potrebbero essere compresi la visita al “Maestrale”,
maggio scorso, dal titolo “La gru galleggiante Maestrale. Una
ormeggiato a Santa Limbania, l’adiacente molo dei cereali,
testimonianza di archeologia industriale per la storia dei lada conservare con le sue attrezzature di carico, eventuali picvori marittimi”, visitata da ben tremila visitatori, nel breve pecoli galleggianti da ormeggiare in Darsena, la gru del “baciriodo di apertura, testimonia l’interesse che tali iniziative
netto” della Darsena stessa, oltre alle gru, già conservate, delpossono suscitare nel pubblico. La mostra, a totale carico dell’arla Marinetta e di Molo Vecchio e a quelle vincolate di Calamatore e organizzata da questa Soprintendenza, con la colta Gadda. A questi si possono aggiungere le piattaforme gilaborazione dell’associazione studentesca no profit “Nuova
revoli della ferrovia, conservate ancora presso il “Cembalo”,
Nipoti di Hudson”, ha visto la partecipazione, con rimarchevole
nonché una delle barche porta dei bacini di Molo Giano, una
sinergia d’intenti, di quasi tutti coloro che vivono e lavoravolta inventato il modo di collocarle
no per il porto, dall’Autorità Portuale
nel bacino portuale, date le loro
alla Capitaneria, da imprenditori e
grandi dimensioni. A proposito
società marittime ai lavoratori deldell’area dei bacini, presso il n. 2,
le banchine. Sono, questi, segnali
è a oggi presente un argano ad acimportanti di come la conservaqua, conservato con tutti i suoi
zione della memoria del lavoro
meccanismi. Uno strumento molportuale, se opportunamente stito importante perché testimonianmolata, possa riconquistare la sua
za dell’uso dell’acquedotto del porvisibilità, spesso offuscata da altri
to, in antico regime, come forza moimpegni e interessi. Analogo suctrice. Altri oggetti, reperti o mezzi
cesso ha avuto lo spettacolo Pargalleggianti potranno essere inditenze, del Teatro Cargo, che ha vividuati proprio dall’inventariaziosto, nel luglio scorso, il “Maestrane programmata per l’anno venturo.
le” usato come insolito e affascinante
Per quanto riguarda mezzi galpalcoscenico, facendolo diventaleggianti da ormeggiare, evenre, a sua volta, uno dei protagonitualmente, nella Darsena, la Sosti della messa in scena.
printendenza ha aperto un altro
Dopo questi primi risultati ragfronte di ricerca: quello relativo algiunti – e la strada per la completa
le imbarcazioni da lavoro ancora
valorizzazione del “Maestrale” è anesistenti in Liguria. Dopo la dicora lunga e piena d’insidie –, la
chiarazione di interesse particoSoprintendenza ha inserito nella
larmente importante del leudo riprogrammazione 2005 la richiesta
vano “Dominica Nina”, di prodi finanziamento per una ricoprietà privata, attualmente in regnizione e schedatura del patristauro presso i cantieri Sangermonio mobile di archeologia inmani di Lavagna, si sta studiando
dustriale, ancora esistente, del
Gru galleggiante “Maestrale”. (Foto Guido Rosato,
la possibilità di una approfondiporto. Finalità dell’operazione è la
Archivio PSAEL)
ta ricognizione sulla consistenza
valutazione della consistenza e
del patrimonio di tutte le tradizionali imbarcazioni in ledello stato dei beni, in base alla quale indirizzare ulteriogno, a vela latina. Anche in questo caso, sia per cooperari ed eventuali altri provvedimenti di tutela.
re all’individuazione dei beni, sia per verificare la possiUna proposta che si ritiene di avanzare, già da ora, in
bilità di accordi e convenzioni per l’ormeggio, con finalità
questa fase di prime ricognizioni, è l’impostazione di uno
didattiche, in Darsena, una volta che i beni sono stati instudio di fattibilità di un museo tecnico all’aperto delle tedividuati, è indispensabile l’apporto di tutte le competenstimonianze del lavoro marittimo ancora esistenti in porze esistenti sull’argomento.
to, all’interno di un percorso, guidato da pannelli didattici, che colleghi i reperti esistenti. Iniziativa che non solo
Guido Rosato è Architetto Direttore presso la Soprintendenza
potrebbe tranquillamente convivere con l’indispensabile e,
per il Patrimonio Storico Artistico Etnoantropologico della
finalmente costituito, Museo del Mare e della NavigazioLiguria.
ne, ma ne sarebbe un importante complemento.
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La didattica alla GNAM
negli anni di Palma Bucarelli
Laura Fanti
Grazie a una ricerca1 svolta nell’archivio bioiconografico della Galleria Nazionale d’Arte Moderna ho potuto analizzare l’intera documentazione relativa all’attività didattica e ho scelto di occuparmi di Palma Bucarelli perché il
suo lavoro è stato senza dubbio il più valido e originale
di tutti i sessant’anni documentati nell’archivio. Le attività
dei suoi successori hanno beneficiato delle sue iniziative
pionieristiche senza incontrare quella resistenza che ha caratterizzato la sua direzione.
La Bucarelli diresse la galleria in un momento molto particolare per i musei, periodo in cui si iniziava a discutere
sul loro ruolo educativo e sociale oltre a quello conservativo, tramite convegni e dibattiti. Molto importante il convegno di Perugia2 (1955), in collaborazione con l’Accademia Americana, che mise in evidenza la necessità di distinguere
il problema conservativo da quello didattico-promozionale del museo e con il quale in Italia si diffuse il neologismo “museologia”. Ricordo inoltre che nel 1956 si istituì la
“Settimana dei musei” (l’attuale “Settimana della cultura”).
Negli anni Sessanta il dibattito riguardava prevalentemente la funzione sociale del museo e la necessità di “usare” in senso didattico le collezioni. A tale proposito ricordo il convegno di Gardone Riviera3 (1963) che mostrò
l’urgenza di istituire servizi didattici presso soprintendenze e musei e di incrementare il rapporto tra essi e le scuole. Tuttavia solamente nel 1970 vennero istituite le sezioni didattiche nei musei, in base alla circolare n. 128 dell’on.
Ferrari Aggradi.
Oggi l’idea del museo vivo, aperto al dialogo e all’esterno, è un concetto acquisito ma non era affatto scontato negli anni in cui operò Palma Bucarelli, anni in cui difficilmente si pensava al museo come qualcosa di diverso da
un contenitore di opere d’arte.
Idea di museo
“Poiché la cultura è educazione, è chiaro che in tutti
i musei la finalità educativa deve aggiungersi alla finalità
scientifica, ed integrarla. In un museo d’arte moderna l’attività informativa e didattica si identifica con quella scientifica, anche, e soprattutto, sul piano metodologico, al
punto da potersi affermare che, in un paese culturalmente progredito, il museo d’arte moderna è parte costitutiva
e integrante del sistema dell’informazione e della cultura
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di massa. Data questa premessa, è nella logica delle cose
che il problema della funzione didattica del museo si sia
posto per il museo d’arte moderna prima che per quelli d’arte antica, e che la sua impostazione abbia assunto un carattere quasi paradigmatico”4.
Quando la Bucarelli ne assume la direzione, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna è il primo museo a riaprire
dopo la Liberazione, nell’autunno del 1944. La direttrice cura numerosi acquisti, sollecita donazioni, istituisce un gabinetto di restauro e organizza mostre, servendosi di opere in deposito e di prestiti per supplire alla mancanza di
fondi. Nel 1945 organizza una mostra sull’arte contemporanea inglese e, l’anno seguente, la prima “mostra didattica”, ossia di riproduzioni fotografiche di opere dell’arte europea del XIX e XX secolo, con commenti critici e tabelle
sinottiche. Queste mostre segnarono una svolta culturale
perché gli unici canali per conoscere l’arte straniera erano
la Biennale di Venezia, le mostre della Secessione Romana e le mostre nelle gallerie private. Nell’anno della controversa Quadriennale (1948) la galleria inizia a ospitare le
mostre dell’Art Club International, un’occasione unica per
vedere l’arte oscurata durante il ventennio fascista.
Solamente dopo aver sperimentato un’attività didattica
a vari livelli (“se l’attività didattica è utile al pubblico, è altrettanto utile e necessaria al museo, in quanto fornisce indicazioni preziose ai fini di una giusta metodologia degli
ordinamenti”5), la Bucarelli riordina le sale per gruppi di
artisti e singoli movimenti secondo un criterio cronologico, evidenziando la contemporaneità di una tendenza in
più artisti e la presenza di più tendenze in uno stesso artista.
Diversamente dal concetto attuale di didattica, che fa
pendant con “bambini”, “infanzia”, “laboratorio”, le iniziative della Bucarelli erano mirate alla “divulgazione”, alla “conoscenza”, alla “cultura”.
È soprattutto nell’ambito statale che l’attività di Palma
Bucarelli si rivela pionieristica, pur essendo citata in poche pubblicazioni, a volte superficialmente6. In Italia iniziative analoghe furono quelle del Museo della Scienza e
della Tecnica di Milano, dove si allestì una galleria storico-didattica e si tennero lezioni sperimentali e corsi di aggiornamento, quelle di Brera, grazie all’attività illuminata
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di Fernanda Wittgens, ma solo nell’ambito delle visite guidate, e, a Roma, in forma episodica, quelle del Museo Nazionale d’Arte Orientale e della Galleria Borghese, a cura
di Paola Della Pergola. Tutte attività successive e di ridotta capacità d’incidenza.
Ai fini di un’attività di promozione e comunicazione Palma Bucarelli istituì un ufficio stampa, comunicò attraverso locandine, radio, televisione, distribuzione di programmi nelle scuole, nelle università, ma anche a complessi industriali e ad aziende. Sulla scalinata della galleria collocò
un tabellone luminoso con caselle colorate che cambiavano
con il mutare della programmazione. Il tutto con estrema
fatica se pensiamo alla scarsezza di mezzi e di personale.
Aprì una biblioteca, un archivio storico e un archivio bioiconografico, raccolte speciali di riproduzioni e volumi illustrati. Fece stampare un Notiziario, un bollettino recante notizie su mostre, sulle attività didattiche e sulla crescita delle collezioni.
Per i contenuti della sua attività la Bucarelli aveva preso lo spunto dal MoMa – il primo museo a proporre mostre di arte moderna internazionale e a servirsi della didattica
per far conoscere le proprie collezioni – grazie all’aiuto di
Lionello Venturi, il quale aveva partecipato al progetto
della Direzione Generale dell’Educazione di New York per
avvicinare i musei alla scuola secondaria. E proprio Venturi collaborò strettamente con la Bucarelli fin dalla prima
“stagione didattica” del 1946/19477 con una conferenza sulla pittura moderna francese.
Tra le stagioni più interessanti – quelle di cui si ha documentazione, poiché esistono molte lacune – quella del
1955/1956, perché la Bucarelli vi presentò per la prima volta dei film d’arte e perché si bandì il primo Premio della
critica sull’attività didattica; e quella 1958/1959 per le proposte interdisciplinari. Tra il 1962 e il 1966 l’attività didattica venne sospesa per lavori di riordinamento della galleria e quando fu ripresa presentò novità importanti, come gli itinerari tematici, e l’“opera del giorno”: l’esposizione
di un singolo lavoro secondo una lettura diacronica e sincronica, una vera e propria contestualizzazione. La stagione
1968/1969 fu interessante per aver ospitato una performance
del Teatro Tricot e una ripresa televisiva, I bambini e il museo, evento avanguardistico poiché “ufficialmente” si parlerà di bambini al museo solo dalla seconda metà degli anni Settanta. L’ultima stagione didattica della Bucarelli fu quella del 1974/1975, anno di termine del suo mandato.
Le mostre didattiche
Come già accennato, consistendo in riproduzioni, le
mostre didattiche andavano oltre la concezione classica
dell’esporre. Accanto alle fotografie erano collocati pannel-
li didascalici che, con gli anni, si arricchirono di informazioni più dettagliate, citazioni critiche, dichiarazioni di poetica. Ricordo che persino il termine “didattica” era nuovo per
l’Italia e la decisione di allestire “mostre didattiche” ebbe risposte negative dalla stampa, soprattutto perché si riteneva
inopportuna l’educazione attraverso riproduzioni in una società nient’affatto allenata alla lettura dell’opera d’arte.
Tuttavia lo scopo della mostra didattica non era quello di educare all’immagine ma di trasmettere conoscenze
di storia dell’arte a chi ne era privo e di mettere a disposizione un manuale più stimolante per chi possedeva già
delle basi culturali. Le mostre servivano anche a colmare
le lacune della collezione del museo, soprattutto di arte straniera, e a preparare ai nuovi acquisti, come precisò la stessa Bucarelli nel catalogo della mostra di Gauguin del 1957.
Quindi, nell’organizzare una mostra didattica sull’Espressionismo la Bucarelli non si sarebbe limitata solo alla
Brücke e alla Neue Sachlichkeit, ma avrebbe aperto un
ventaglio illustrato dall’Art Nouveau, da Gauguin e da
Munch, che costituiscono le premesse di quei movimenti. La mostra didattica era dunque realizzata con un approccio
critico, e, in un certo senso, diventava ancor più utile di
molte esposizioni basate solamente sull’accumulo di grandi nomi, che non dialogano né tra di loro, né con il visitatore.
La prima mostra didattica viaggiò in tutta Italia per
cinque anni (1946-1951), secondo disposizioni ministeriali, e aveva come titolo “Mostra didattica itinerante di riproduzioni di pittura moderna”. Venturi collaborò all’organizzazione prestando le sue riproduzioni di ottima qualità – oltre agli originali, due Rouault, uno Chagall, un Marin e uno schizzo di Cézanne – e mise in campo pannelli
didascalici. Numerose erano le riproduzioni di opere di Renoir, Cézanne, Van Gogh, Bonnard, Matisse e Picasso, poche quelle di Degas, Monet, Manet, Sisley e Pissarro. Alcune riproduzioni avevano il passepartout ed erano appese
al muro, altre collocate in vetrine simili a quelle ancora in
uso oggi, con vetro sul piano orizzontale e su quello verticale.
Una parte della stampa recepì l’intento della Bucarelli, come Gino Visentini ne La Fiera Letteraria: “L’arte italiana vi è fin troppo abbondante [nelle gallerie italiane. N.d.A]
mentre quella straniera manca quasi del tutto. Ma anche
questo, in ogni modo, non rappresenta che un suffragio
del cattivo gusto e del cattivo criterio estetico che in quei
tempi avevano corso in Italia. Per esempio nelle nostre gallerie d’arte moderna manca la più piccola testimonianza che
in Europa è esistito l’impressionismo [...]. Insolita mostra,
che appunto perciò vuole avere soltanto un carattere didattico. Il suo intento modesto ma utile lo stesso, mi pare
raggiunto”8.
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Ai direttori dei musei che partecipavano all’iniziativa si
richiedeva una relazione in cui fossero indicati il numero
dei visitatori e delle copie vendute del catalogo, e la rassegna stampa, un vero e proprio monitoraggio sulla fortuna della mostra!
Da tali relazioni si evince la fortuna delle mostre in
termini di affluenza di pubblico, in particolare a Cagliari dove la mostra fu vista da 12.500 persone! In alcune
città si prese spunto dalla mostra per organizzare dibattiti e conferenze.
Le mostre successive si rivelarono di importanza secondaria rispetto alla prima, tranne alcune eccezioni, come quella su Van Gogh del 1952 e quella su Degas del
1955, arricchita da tre opere originali (Il ritratto della signorina Bellelli e due acqueforti9), al cui allestimento
contribuì Franco Minissi, progettando pannelli racchiusi
in supporti simili a lavagne e una vetrina contenente
pubblicazioni sull’artista. Negli anni Sessanta cambiò l’allestimento, in particolare nel 1966 nella mostra su Constantin Brancusi al posto delle vetrine furono messi in opera enormi pannelli mobili, mentre in quella sulla Pop Art
le riproduzioni furono appese in una struttura leggera, come per dare effetto di “quadro” a opere che di per sé “quadro” non vogliono essere.
Il Premio per la critica
Nel 1955 un anonimo donò un milione di lire da destinarsi a un “Premio per la critica sull’attività didattica” poiché riteneva che le ottime iniziative della Bucarelli non avevano avuto i meritati riconoscimenti dalla stampa.
Il concorso venne organizzato dall’AICA (Associazione
Internazione dei Critici d’Arte) e dalla GNAM, in giuria Lionello Venturi, Giuseppe Ungaretti e Giulio Carlo Argan. La
composizione della giuria suscitò aspre critiche visti i legami tra la Bucarelli, Argan e Venturi. Argan aveva effettivamente un peso notevole visto che scrisse una lettera invitando Palma Bucarelli a riaprire i termini del concorso:
“Cara Palma, ho letto e ti rimando gli scritti che partecipano
al Premio della Critica [sic]. I due saggi di Ponente sono
buoni e discreto l’articolo di Perrocco [sic]; mediocre Hodin; detestabile l’articolo di Genovali e insignificante quello della Sanna. Nessuno, comunque, mi sembra all’altezza
del maggior premio. Rinnovo perciò la mia proposta: riaprire i termini del concorso e considerare, insieme con questi ora presentati, gli scritti che usciranno sulla mostra di
Mondrian. Mi pare che non ci sia altra via di uscita. Molti
saluti cordiali. Argan”.
Anche se non si attese la mostra su Mondrian (dalla quale Argan si aspettava una critica nuova, “d’avanguardia”)
la lettera di Argan ebbe il suo peso poiché il premio venne assegnato a Nello Ponente10. L’articolo di Ponente de-
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dicato a Gino Rossi e pubblicato su La Biennale11 inseriva perfettamente l’artista nel suo contesto e dimostrava il
dualismo dell’artista, tra costruzione volumetrica dell’immagine
(vicina a Cézanne) e ampie campiture cromatiche. Quello
di Ponente fu un vero esame storico-critico, privo degli eccessi retorici dei suoi colleghi.
Nel 1958 fu organizzato il secondo e ultimo Premio per
la critica, di nuovo grazie alla donazione dell’anonimo e
con la collaborazione della GNAM e dell’AICA. In questo
caso ci troviamo davanti a una documentazione limitata,
non è conservato neppure un articolo ma soltanto qualche
autografo, come quello di Giacomo Debenedetti (membro
della giuria) che loda l’articolo di Calvesi, il quale risulterà
il vincitore. La giuria era composta da Palma Bucarelli, Giacomo Debenedetti e presieduta da Mario Salmi. Argan era
assente ma, una settimana prima, aveva inviato una lettera con il suo parere12 (forse come esponente dell’AICA) che
avrà peso nel giudizio finale. Non possiamo sapere se Debenedetti abbia letto la lettera di Argan ma è indubbio che
i loro pareri sono quasi sovrapponibili.
Le conferenze
Una delle prime iniziative della Bucarelli fu la programmazione di conferenze. Queste erano in linea con la
collezione della galleria e si alternavano tutte le domeniche alla proiezione di documentari d’arte. Furono una delle attività seguite con più interesse, probabilmente perché
gli argomenti erano di ampio respiro e perché la qualità
degli interventi era spesso molto alta. Inizialmente i temi
trattati erano aderenti alla programmazione didattica e costituivano dei cicli monografici, mentre negli anni Settanta si succedevano senza trait d’union.
Oltre al loro intrinseco valore critico, le conferenze portarono con sé dei veri e propri dibattiti, come nella stagione
1957/1958 dedicata all’astrattismo e inaugurata da un intervento di Lionello Venturi, cui seguì una polemica sul quotidiano La Giustizia che durò parecchi mesi13. La conferenza
di Venturi, “Introduzione all’arte astratta”, fu in più punti
un esempio di critica acuta, in cui l’astrattismo veniva riassorbito nella condizione storica in cui era nato: “essa [arte astratta N.d.A.] risponde ai bisogni della civiltà attuale”.
“Anzi che essere ermetica per clans [sic] riservati, l’arte astratta è quella che offre a tutti, qualunque sia la loro condizione sociale, il gusto delle forme e dei colori”.
All’intervento di Venturi ne seguirono molti altri. Tra i
più interessanti, quello di Rosario Assunto (“L’estetica
dell’Astrattismo”) e quello di Albino Galvano (“Le origini
storiche dell’astrattismo”) che sosteneva l’idea venturiana
dell’astrattismo come necessità storica. Contrari a Venturi
e, indirettamente, alla Bucarelli, molti critici che osteggiarono la mostra dei capolavori della collezione Guggenheim
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Altre conferenze interessanti furono quelle attorno al
dello stesso anno, tra cui Marcello Venturoli, e Franco Mietema dell’Informale (stimolate dalla mostra su Pollock, la
li, ma anche artisti; Guttuso, per esempio, scrisse un acprima in Europa), che dimostrano la ricerca della compoceso e lungo articolo su Rinascita intitolato La dittatura
nente sociale in questo fenomeno così “individualizzato”
dell’arte astratta. È su La giustizia che si sferrarono gli ate “psicanalizzato”.
tacchi più forti alla conferenza di Venturi, qui l’on. Luigi
Argan in una sua conferenza del 1960 su “I grandi proPreti scrisse una Lettera aperta a Lionello Venturi, conteblemi dell’arte contemporanea” dichiarò che “l’informale
stando l’universalità dell’astrattismo e ritenendolo incomdenuncia la condizione di angoscia dell’individuo-massa e
prensibile dal popolo. Sullo stesso giornale Venturi scrisafferma, a un tempo, l’insopprimibilità dell’esistenza indise due repliche, lamentando il provincialismo dell’Italia, che
viduale”, e rintracciò quindi nell’arte informale un’arte conon comprende artisti come Afro, Scialoja – che sono inmunicativa, che parla direttamente con segni universali, senvece molto ammirati all’estero – e osannando il successo
za l’artificio della rappresentazione.
della mostra dei capolavori del Guggenheim: “Forse il suo
Ritengo che, alla luce di quanto scritto, le conferenze orgiornale non ne ha parlato per timore che, visitando la moganizzate dalla Bucarelli siano state un momento molto imstra, il pubblico fosse deviato dal retto giudizio, come coportante per la criloro che vogliono
tica d’arte e per la dimantenere analfadattica, slegate da
beta il buon popoidee precostituite e
lo perché non si
penetranti nel vivo
guasti leggendo i
di una creatività ogni
giornali; ma essi
volta diversa, pernon appartengono
ché, per quanto sia
al socialismo”14.
stata accusata di fiAncora si dibatlo-astrattismo, in
teva sull’astrattismo,
realtà si occupò di
quando l’Informale
argomenti eterogee il New Dada eranei, dall’Impressiono ben presenti in
nismo al SimboliItalia: Burri aveva
smo, dai Macchiaioli
esposto alla Bienai Futuristi, da Pinale, Rauschenberg
casso a Pollock.
aveva presentato la
sua prima mostra
I documentari
europea alla Galled’arte
ria dell’Obelisco
Il documenta(1953), mentre Achilrio d’arte – ancor
le Perilli aveva scritPalma Bucarelli, a sinistra, si intrattiene con alcuni ospiti all’inaugurazione della
oggi poco conoto su Civiltà delle
stagione didattica 1956-1957. (Roma. Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemsciuto e divulgato –
macchine il primo
poranea. Su gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Archicostituiva all’eposaggio critico eurovio Bioiconografico, 51-M, UA n. 7 s.u. 2)
ca un ambito molpeo su Franz Kline.
to discusso perché il film non era considerato un valido mezIn archivio ho rintracciato molti interventi sul tema delzo di divulgazione scientifica e si riteneva che non avesle “arti applicate”, sul Liberty, sul Bauhaus e sull’architettura
se un suo intrinseco significato estetico. Tuttavia i critici più
razionalista; argomenti sentiti nella galleria, perché riilluminati hanno sottolineato il bisogno di una diffusione
condotti a un’arte non fine a se stessa ma riferita a un fidella cultura museale attraverso il mezzo filmico, tra essi
ne sociale. Indubbiamente Argan diede un contributo imper esempio Mario Verdone: “Il cinema può fornire il doportante in questa direzione, soprattutto per la concezione
cumento di un museo [...] il museo dovrebbe allestire pedemocratica del museo e un contributo diretto visto che
riodicamente – e molti lo fanno – proiezioni su opere d’arpartecipò a molte conferenze dal 1958 al 1970. In una delte, o su altri argomenti riguardanti l’uno o l’altro museo”15.
le più importanti, “Architettura moderna e le correnti non
figurative” (1958), riprese il concetto di una confluenza
Nel 1952 iniziarono le prime proiezioni alla GNAM: Van
dell’arte nella società.
Gogh, La rivoluzione del 1848, Toulouse-Lautrec e Leonardo
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di Emmer. L’anno seguente seguirono Le miserere di Rouault
dell’abate Morel, Arte romanica di Vittorio Marchi e Arte
contemporanea di William Riethof. Come per le altre iniziative didattiche, anche intorno ai film nacque un dibattito, stavolta sulle possibilità di interazione tra film e arti
figurative. A intervenire, tra gli altri, Corrado Maltese e Luigi Chiarini, il quale dimostrò la fragilità di certe obiezioni
dei critici e affermò quanto il film potesse esser utile ai fini didattici.
Molto ricca fu la programmazione di film nel 1954; in
Italia vi fu l’importante anteprima del Picasso di Luciano
Emmer, con commento di Guttuso. L’anno seguente la Bucarelli presentò il suo primo documentario, Scipione (che
riproporrà nel 1972 insieme ad altri due, Gino Rossi e Pittura italiana contemporanea)16. Questo film fu ben accolto
dalla critica, in particolare da Verdone, che di nuovo chiarì
la sua opinione sul potere comunicativo del mezzo visivo17.
È Verdone a fornirci informazioni sulla programmazione,
di cui abbiamo notizia solo dai ritagli stampa: Impressionisti francesi (regia di Emilio Lavagnino), La donna e la
luna (regia di Vladi Orengo) e Il Surrealismo e il sacro (di
Carlo ed Ennio Castelli Gattinara). Durante la stagione
1956/1957 vennero presentati Mystère Picasso di Clouzot
(già alla Biennale di Venezia) e il film di Norman MacLaren, A Chary tale (La fiaba di una sedia) nel quale è presentata la lotta tra un uomo e una sedia. Sempre nel 1957
venne proiettato un film su Mirò, in anteprima europea: Around
and around Mirò di Thomas Bouchard, insieme a un altro dello stesso autore, San Clemente de Tahull.
Conclusioni
Il lavoro di Palma Bucarelli ha contribuito alla nascita del
museo come spazio attivo e democratico e alla divulgazione della storia dell’arte contemporanea grazie a iniziative come le mostre didattiche, le conferenze e le proiezioni di documentari. Questo è stato possibile grazie alla sua capacità
di mediazione e a una politica di apertura totale.
Sarebbe auspicabile in un futuro ritornare a fare della
GNAM (e di ogni museo) un polo chiuso e aperto allo stesso tempo, un centro produttore di cultura in se stesso e di
se stesso, pronto a un continuo aggiornamento e a una sua
promozione all’esterno.
Laura Fanti è storica e critica d’arte indipendente, operatrice
didattica e studiosa di museologia e di arte dell’Ottocento
e del Novecento europeo.
20
1. Questo articolo è un estratto della mia tesi di specializzazione in Storia dell’Arte Contemporanea, L’attività didattica della Galleria Nazionale d’Arte Moderna durante la direzione di Palma Bucarelli, discussa
nell’Anno Accademico 2001-2002 all’Università degli Studi di Firenze.
2. Atti del I Convegno di Museologia, Perugia 18-20 marzo 1955, a cura del
Ministero della Pubblica Istruzione, Roma, 1956.
3. Atti del convegno Didattica dei musei e dei monumenti - Documento conclusivo del Convegno nazionale di studio (Gardone Riviera, 2-4
aprile 1963), Centro didattico nazionale per l’educazione artistica, Roma, 1965.
4. Palma Bucarelli, Funzione didattica del museo d’arte moderna, in:
Il museo come esperienza sociale, Atti del Convegno di studio sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, Roma 4-5-6 dicembre 1971,
De Luca editore, Roma, 1972, p. 85.
5. Ivi, pp. 85-86.
6. Per esempio nel testo di Maria Lisa Guarducci, Musei e didattica, esperienze e dibattiti in Italia dal dopoguerra ad oggi (Becocci editore, Firenze, 1982) che accenna rapidamente alla galleria; oppure in La didattica
museale d’Arte contemporanea di Giovanna Giaume (F.lli Palombi editore, Roma, 1991), che pure dedica alla GNAM un paragrafo (pp. 43-44) contenente più di un errore (come l’affermazione che la galleria “cura l’attività didattica da quasi vent’anni” quando si trattava all’epoca di più di quaranta!). Neanche Luisa Becherucci nel suo Lezioni di Museologia (a cura
di A. Boralevi e M. Pedone, Università Internazionale dell’Arte, Firenze,
1996) cita le esperienze all’avanguardia della Bucarelli ma parla solo di
quelle di Wittgens e di Della Pergola (p. 72). Cfr. inoltre C. Prete, Aperto
al pubblico, Edifir, Firenze, 1998, p. 21, dove la GNAM è citata solo per
un laboratorio svolto nel 1980 (“Le mani guardano”) senza il minimo cenno alle attività della Bucarelli.
7. Per un elenco di tutte le stagioni e attività si rimanda a Fonti per la storia della Attività didattica della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, catalogo della documentazione posseduta dall’Archivio Bioiconografico, a
cura di Laura Fanti e Claudia Palma, Roma, 2002.
8. In data 25 aprile 1946.
9. La prima prestata dall’ avv. Riccardo Gualino, le altre dalla Galleria
dell’Obelisco.
10. Per il testo integrale del responso della giuria rimando alla mia tesi di
specializzazione.
11. Anno VII, n. 27, marzo 1956, pp. 16-18.
12. Per il testo si veda la mia tesi di specializzazione.
13. La polemica ebbe un parallelo nella rivista Il Punto, che, tra gli altri
coinvolse Venturi, Argan, Guttuso, Ponente, Brandi.
14. La Giustizia, 29 dicembre 1957.
15. Mario Verdone, Il cinema e i musei. Realtà-Roma, 28 novembre 1960.
16. Sfortunatamente le mie ricerche relative a queste opere non hanno avuto esito positivo; né all’Istituto Luce, né alla Cineteca Rai, né alla Cineteca Nazionale SNC se ne ha traccia.
17. Selezione di documentari alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Generale consenso per questa iniziativa che si inserisce nel quadro delle manifestazioni culturali della Capitale. Bollettino dello Spettacolo,
17 novembre 1955.
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NUOVA
La catalogazione
dei beni culturali dell’Alto Adige
Alexandra Pan
Situazione di partenza
Quando, nel 1972, la competenza statale di musei, collezioni e oggetti artistici passò alla Provincia Autonoma di Bolzano, si crearono le premesse per una tutela e una cura efficaci dei beni culturali locali. Da allora, nell’ambito del suo mandato, la Provincia Autonoma di Bolzano si occupa direttamente della tutela dei beni culturali e museali.
Con i suoi oltre 70 musei, l’Alto Adige è caratterizzato da
un panorama museale estremamente ricco che si estende su
quasi tutte le zone della provincia. Questo variegato patrimonio culturale (un milione di oggetti circa) può essere suddiviso in quattro grossi comparti di contenuto: cultura (il più cospicuo), arte, scienze naturali e tecnica.
La situazione dei musei altoatesini e dei loro sistemi documentali è stata esaminata nel corso di un’analisi esaustiva
effettuata nel 2003. Dall’analisi è emerso che, attualmente, i
beni culturali del settore dei monumenti e musei sono archiviati in maniera eterogenea e molto spesso fanno affidamento su strutture che nel tempo si sono sviluppate in modo autonomo. Per la catalogazione, per esempio, vengono
utilizzati sistemi diversi (software, schede cartacee, registri
d’inventario, elenchi) e metodi diversi, con la conseguenza
che i dati non sono compatibili. Manca un sistema di ricerca dei beni culturali completo, rapido e di facile utilizzo. Pertanto, alcuni responsabili del settore dei beni culturali e museali hanno espresso il desiderio di introdurre un sistema di
catalogazione uniforme e standardizzato.
Contemporaneamente, tuttavia, sono emerse anche altre
esigenze. Soltanto la metà circa dei musei è dotata di attrezzature
informatiche. Mancano degli standard per la documentazione dei contenuti e delle attività nonché una rete a livello transregionale e internazionale. Per uno sviluppo
orientato al futuro del settore delle attività museali sono necessari dei principi e dei criteri che ottimizzino la gestione
dei musei altoatesini e che contribuiscano a valorizzare queste entità. La Provincia Autonoma di Bolzano riconosce la necessità di sostenere gli enti che provvedono alla tutela del
patrimonio culturale, i musei e le istituzioni ecclesiastiche.
Scopo del progetto è la conservazione del patrimonio culturale attraverso una registrazione e una catalogazione standardizzate dei beni culturali mobili e immobili dell’Alto Adige. Grazie alla creazione di un database dei beni culturali si
intende consentire l’accesso al patrimonio culturale locale. Nell’am-
bito di questo progetto si opererà nel rispetto dei requisiti minimi di legge elaborati dall’Istituto Centrale per il Catalogo e
la Documentazione (ICCD), del Ministero dei Beni e delle Attività culturali. Per poter intrattenere uno scambio a livello transregionale è assai importante garantire una compatibilità dal
punto di vista specialistico, linguistico e informatico. La presenza di etnie diverse in Alto Adige comporta la considerazione del bilinguismo come un elemento fondamentale. Il progetto dovrebbe inoltre supportare la qualificazione dei collaboratori museali, istruendoli nella conservazione e nell’utilizzo professionale dei beni museali. A tal fine nel 2005 è stata intrapresa una serie di iniziative: è stato istituito un Centro di servizi museali, è stato definito un programma di aggiornamento per la trasmissione dei principi di un’attività museale efficace e, non ultimo, sono stati messi a disposizione
mezzi tecnici come computer portatili e telecamere digitali.
Il progetto è diretto in primo luogo alle istituzioni e alle
persone che hanno il compito di tenere un inventario delle giacenze. La Provincia Autonoma di Bolzano ha assunto in questo ambito il ruolo di iniziatore e responsabile del progetto. I
musei dell’Alto Adige, pubblici (provinciali e civici), privati o
ecclesiastici, sono invece i partner che contribuiscono con le
loro competenze e conoscenze all’attuazione del progetto e che,
in ultimo, producono e utilizzano direttamente i dati. I collaboratori di 16 musei formano il cosiddetto “gruppo degli enti
partecipanti”. Il progetto è rivolto in secondo luogo anche agli
utenti esterni, con tre diversi livelli di accesso alle informazioni contenute nel sistema: la comunità scientifica e l’amministrazione
pubblica, il pubblico in generale e la comunità economica, i
musei e le collezioni, come si è detto poc’anzi.
Poiché il progetto prevede anche la creazione di una
banca dati centrale del settore dei musei e monumenti nonché il supporto di esperti per una catalogazione standardizzata e uniforme, sono stati esclusi per il momento gli
archivi e le biblioteche. La presenza di interfaccia pone tuttavia i presupposti per un collegamento anche con queste
entità in un secondo momento.
Organizzazione del progetto
Il committente è la Provincia Autonoma di Bolzano. Il
progetto è seguito dalle Ripartizioni “Cultura tedesca e famiglia” e “Beni culturali”, i cui responsabili sono membri
del comitato direttivo.
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NUOVA
In una fase accurata di pianificazione condotta nel 2003 il
progetto è stato strutturato in tappe e in pacchetti di lavoro.
Un programma delle attività descrive il progetto, iniziato a metà
febbraio del 2003 e destinato a terminare nel 2007.
Attività
Le sezioni seguenti descrivono l’iter di lavoro e raccolgono le esperienze dei singoli pacchetti e delle singole attività condotte a tappe successive a partire dal 2003.
Analisi della situazione di partenza
Un’analisi esaustiva della situazione di partenza dei musei e dei sistemi documentali dell’Alto Adige è stata condotta con l’ausilio di un questionario, al quale è stata allegata
una guida dettagliata per la compilazione.
L’analisi è stata condotta nel 2003 in due fasi. L’analisi
dei 16 musei principali ha portato alla luce modelli documentali diversi. Le differenze evidenziate tra i sistemi di catalogazione e i formati riguardavano soprattutto le strutture che nel tempo si sono sviluppate in modo autonomo. È
emerso dall’analisi che raramente venivano utilizzati vocabolari controllati e che, nel caso venissero utilizzati, si trattava di dati non compatibili tra gli enti.
Il risultato dell’analisi dei restanti 53 musei e collezioni
è analogo. Il materiale documentale, non omogeneo, dimostra chiaramente che gli istituti lavorano in maniera isolata,
facendo affidamento sulle proprie forze, e che la documentazione serve contemporaneamente a più scopi, vale a dire
come forma catalografica, per la verifica delle collocazioni,
per il controllo dei prestiti e come scheda informativa. La maggior parte dei documenti consiste di elenchi, piccoli cataloghi e inventari contenenti al massimo 500 voci. Solo il 50%
circa dei musei dispone di un PC.
Elaborazione del progetto di massima
Nella fase successiva (ottobre 2003 - marzo 2004) è stato formulato il progetto di massima, che conteneva un progetto unitario di catalogazione e che teneva conto delle esigenze emerse dall’analisi della situazione di partenza. Tali esigenze erano i requisiti minimi per la documentazione degli
oggetti e i relativi processi. Doveva essere rispettata soprattutto l’eterogeneità dei musei. A queste esigenze si sono aggiunti i requisiti per il software, elaborati sulla base degli standard internazionali, il catalogo dei criteri della CHIN (Canadian Heritage Information Network) e le raccomandazioni
dell’MDA (The Museums Documentation Association). Il catalogo dei criteri è stato discusso con i musei principali partecipanti al progetto e, da ultimo, confrontato con lo stato
dell’arte della tecnica nel settore delle tecnologie dell’informazione per i beni culturali (per esempio, ricerca distribuita sulla base dei campi dati Dublin Core).
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Il progetto di massima proponeva due diverse possibilità
di realizzazione tecnica: un sistema installato a livello locale con
i requisiti definiti nel progetto per software, campi dati, vocabolari controllati e scambio di dati; oppure un modello che prevedeva il ricorso a un provider esterno (application service provider), con la possibilità per i musei di accedere al sistema e
ai propri dati tramite Internet.
Una ricerca condotta contemporaneamente sui pacchetti di
software di catalogazione disponibili sul mercato, e comprensivi di una corrispondente offerta di servizi, ha consentito la
valutazione preventiva dei costi e degli investimenti.
Acquisizione del software di catalogazione
Dopo una fase intensiva di dibattito sull’eventualità o meno di sviluppare un software proprio a partire da programmi
open source, nell’agosto 2004 è stata presa la decisione di acquistare un software già presente sul mercato. Il catalogo dei
criteri del progetto di massima costituiva quindi il riferimento
principale della gara d’appalto che è stata pubblicata a livello
europeo nel maggio 2005. Dopo un’adeguata procedura di selezione a fine ottobre 2005 l’autorità di gara ha scelto il software. Nel 2006 il software selezionato viene installato negli enti
scelti per il collaudo e viene quindi utilizzato “sul campo”.
Si prevede di affidare a un partner tecnico il compito di
installare il sistema centrale, che prevede due livelli di realizzazione: da un lato, i requisiti per la creazione di un sistema di base per le strutture museali più piccole; dall’altro
lato, i criteri per un sistema di gestione delle collezioni in grado di rispondere alle esigenze dei musei provinciali. Tramite Internet ogni museo avrà accesso ai propri dati. Lo scambio di dati sarà possibile tramite un’interfaccia con i sistemi
che rimarranno in uso nei musei e che non verranno sostituiti dal nuovo sistema. Le informazioni relative agli oggetti
di tutti gli enti partecipanti verranno raccolte in un “catalogo virtuale” a livello di metadati Dublin Core (15 campi dati) e presentati in maniera standardizzata al pubblico.
Con riferimento alla rete dei musei è previsto fino a un milione di descrizioni di oggetti provenienti dai vari settori e dalle discipline più disparate, soprattutto nell’ambito di archeologia, arte, media, cultura e natura.
Digitalizzazione dei cataloghi cartacei
Un ulteriore sottoprogetto della fase preparatoria è la
digitalizzazione dei vecchi cataloghi. Questo pacchetto di
lavoro, concepito alla luce dei risultati dell’analisi della situazione attuale, è stato effettuato tra l’autunno 2003 e il gennaio 2005. L’ostacolo principale per la digitalizzazione era
la molteplicità dei formati. I cataloghi infatti erano disponibili in tutti i formati possibili, soprattutto sotto forma di
volumi rilegati (circa 9.800 pagine) o come fogli singoli, schede cartacee e progetti (in tutto 25.500 fogli).
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NUOVA
Il lavoro rispondeva a diversi scopi. In primo luogo, quello di preservare i “vecchi” cataloghi museali come un bene culturale e di renderne accessibili i contenuti. In secondo luogo,
quello di tutelare gli originali che ormai non devono più essere sfogliati e consultati di frequente. Infine, la creazione di una
base digitale per l’archiviazione degli oggetti più antichi, ancora non disponibili in formato elettronico. I documenti in formato
elettronico costituiscono il materiale di base per la Guida alle
collezioni, che è stata realizzata nella seconda metà del 2005.
Precatalogazione degli oggetti museali
Durante l’analisi della situazione iniziale erano soprattutto
i piccoli musei i principali interessati affinché l’inventariazione
sistematica degli oggetti museali iniziasse al più presto. Si chiedevano l’elaborazione e l’adozione di uno standard minimo
per la catalogazione unitaria dei beni culturali altoatesini attraverso lo sviluppo di una strumentazione adeguata che agevolasse l’inventariazione. Questo standard minimo consente un’identificazione chiara e la ricerca rapida degli oggetti.
Inoltre, permette perlomeno la documentazione dell’entrata
dell’oggetto e la determinazione del valore dell’oggetto.
Sul modello di linee guida nazionali e internazionali è
stato tracciato uno schema per l’inventariazione dei principali tipi di oggetti: per gli oggetti di storia della cultura in
generale, per i beni artistici, per i beni archeologici e di storia naturale, per le stampe, per i documenti archivistici e per
gli audiovisivi (film, fotografie, incisioni). È stata inoltre
creata una guida per l’elaborazione e la compilazione dei
campi dati; la sua applicazione pratica è stata illustrata nel
corso di un workshop a dicembre del 2003.
Creazione di vocabolari controllati
Per una descrizione standardizzata di contenuti degli oggetti e per fornire un supporto alla catalogazione tramite vocabolari è necessaria la produzione di vocabolari controllati che garantiscono
un accesso intersettoriale e standardizzato a tutti gli oggetti.
Per l’Alto Adige sono stati trattati soprattutto i seguenti
argomenti: toponimi, nomi di persone, materiale e tecnica,
descrizione dell’oggetto, iconografia, parole chiave, enti. La
base per ciascun vocabolario controllato è stata elaborata da
un gruppo di lavoro nominato appositamente. Dopo numerosi confronti e prove eseguiti mediante esempi concreti sono stati sottoposti a verifica elenchi provenienti dall’Alto
Adige, dal contesto regionale (Tirolo settentrionale, Baviera, Stiria), dall’Italia (ICCD) e da altri Paesi.
L’elaborazione dei file avviene all’interno del gruppo di
lavoro nel corso di incontri periodici e viene supportata da
una piattaforma di lavoro on line. Lo scopo è l’adeguamento dei vocabolari alle esigenze del contesto altoatesino, sulla base di vocabolari internazionali, e la loro traduzione in
tedesco o in italiano al fine di garantire il bilinguismo.
Istituzione di un centro di servizi museali
Un’ulteriore tappa del progetto, anticipata per motivi di
urgenza, è stata l’istituzione di un centro permanente che
potesse valorizzare a lungo termine le attività svolte fino a
quel momento. Era necessario, in particolare, un centro a
cui affidare l’assistenza e il coordinamento delle attività anche al termine del progetto stesso. Già alla fine del 2004,
nell’Ufficio Cultura della Ripartizione Cultura tedesca è stato costituito il “Centro di servizi museali”, divenuto operativo l’1 gennaio 2005. Oltre alle tematiche concernenti la catalogazione dei beni culturali, il nuovo centro è destinato
a diventare il principale partner di riferimento per tutte le
questioni relative al settore museale.
Creazione della banca dati degli oggetti museali
I cataloghi digitali e le scansioni dei cataloghi museali già
esistenti devono essere predisposti alle migrazioni nel software di catalogazione unitario. Questi lavori sono iniziati nella primavera 2005. Un primo obiettivo è stata la standardizzazione
dei dati digitali degli enti partecipanti. Il risultato è una banca
dati di oggetti che contiene in una struttura standardizzata tutte le “vecchie schede catalografiche” degli enti partecipanti e
che in una seconda fase (2006) accoglierà anche i dati dei musei partecipanti più piccoli.
In una prima fase sono stati analizzati struttura e contenuti dei dati. Dopo la definizione delle riproduzioni nel
catalogo con i campi dati è stata effettuata la programmazione del XSL Transformation. Il risultato è stato la creazione
di record digitali in XML adatti all’import nella banca dati
comune degli oggetti museali e pronti per un’ulteriore verifica manuale. La realizzazione della banca dati degli oggetti museali, la banca dati comune relazionale dei vecchi
dati, è iniziata nel primo semestre 2005.
In una seconda fase è stata eseguita una correzione manuale di errori di battitura e varianti grafiche nei campi dati principali e l’elaborazione di un vocabolario controllato sulla base del materiale esistente.
Sviluppo della Guida alle collezioni
La Guida ai musei dell’Alto Adige (www.provincia.bz.it/guida-musei) verrà integrata con una guida alle collezioni
dell’Alto Adige (la cosiddetta “Guida alle collezioni”) e con
un catalogo virtuale con tutte le informazioni riguardanti
gli oggetti museali, che i musei autorizzeranno alla pubblicazione.
In una prima fase è stata predisposta la “maschera di compilazione”, che consentirà ai collaboratori di trascrivere i
vecchi cataloghi (per esempio, i cataloghi manoscritti). In una
fase successiva i cataloghi delle collezioni di ogni museo verranno integrati nella Guida ai musei disponibile on line. La
Guida alle collezioni fa parte integrante, quindi, della Gui-
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NUOVA
da ai musei; grazie a essa gli utenti potranno farsi un’idea
dell’entità, dell’interdipendenza e dei dettagli di una collezione e potranno accedere ai relativi cataloghi. In quanto tale essa costituisce un primo passo verso la realizzazione di
un database degli oggetti museali, dove l’utente potrà avere accesso al livello più profondo di singolo oggetto.
net. Per regolare tutti questi servizi nonché la questione del
diritto d’autore, dei contratti con i nuovi partner e delle offerte in Internet è prevista la creazione di nuove disposizioni quadro giuridiche e organizzative o l’adeguamento delle
disposizioni esistenti. Tali condizioni vengono definite via via
con il progredire del progetto.
Prospettive
Nel 2006 il progetto prevede soprattutto l’implementazione
e il test del nuovo software. Parallelamente saranno elaborati i vocabolari controllati, e i record digitali eterogenei dei
musei restanti verranno predisposti secondo i campi dati già
definiti per il progetto. I dati armonizzati verranno quindi inseriti gradualmente nel nuovo software. I musei saranno sostenuti nella precatalogazione attraverso ulteriori corsi formativi
sulla registrazione dei dati e delle immagini, attraverso consulenze e l’aiuto da parte di gruppi di lavoro direttamente
sul posto. Si prevede anche di continuare la digitalizzazione dei cataloghi cartacei e la loro trascrizione.
Parallelamente all’implementazione del software di catalogazione sarà notevolmente ampliata la presentazione on
line dei musei
Scopo ultimo del progetto è la creazione di una banca
dati dei beni culturali come catalogo virtuale, che contenga
sia il database sia la guida ai musei e la guida alle collezioni. Dovranno inoltre essere forniti altri servizi importanti per
il settore museale come, per esempio, un calendario delle manifestazioni, un negozio on line di tutti i musei nonché un
info-point contenente le informazioni del Centro di servizi
museali, ai quali si potrà accedere tramite un portale Inter-
Alexandra Pan si occupa del settore Servizi museali dell’Ufficio
Cultura, Ripartizione Cultura tedesca e famiglia, presso la
Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige.
Pubblicazioni su Internet
CHIN (Canadian Heritage Information Network),
http://www.chin.gc.ca/English/Collections_Management/Software_Review/index.html
CHIN Data Dictionary, http://www.chin.gc.ca/
Dublin Core Metadata Initiative, http://www.dublincore.org/
ICOM - CIDOC Information Categories, http://www.willpowerinfo.myby.co.uk/cidoc/
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Istituto Centrale per il
Catalogo e la Documentazione (ICCD), 1992 - Strutturazione
dei dati delle schede di catalogo e precatalogo, Beni artistici e
storici, Schede OA - D - N, a cura di S. Papaldo, Roma,
http://www.iccd.beniculturali.it/standard/index.html
Pan A., 2001 - Guida ai musei dell’Alto Adige, http://www.provincia.bz.it/guida-musei
The Museum Documentation Association (MDA), 1997 - Spectrum,
The UK Museums Documentation Standard, Second Edition, Cambridge, http://www.mda.org.uk/
Piano delle attività 2003-2007
24
MU
NUOVA
Aree e parchi archeologici
in Trentino
Silvano Zamboni
ni che ricostruiscono il monumento nella sua integrità, utiI manuali di tecnica della ricerca e dello scavo archeolizzando i pezzi ritrovati, ma avendo cura di lasciare grezzi,
logico non sempre si spingono oltre la conclusione delle opeo appena sbozzati, i blocchi sostituiti” (Frédéric, p. 317).
razioni di scavo vero e proprio, del lavoro di studio e anaGiorgio Gualandi al proposito però sottolineava: “il rischio
lisi dei dati, della loro pubblicazione. Il destino dei luoghi
di cristallizzare l’edificio o il complesso in un momento preoggetto della ricerca, la loro fruizione pubblica, sembrano esciso, fisso della sua storia” e nell’ottica di poter esporre ansere materia di analisi privilegiata più che da parte del monche i reperti mobili presso i luoghi di rinvenimento, esigendo dell’archeologia, da parte di quello dell’architettura.
za profondamente sentita, mette in risalto l’importanza deA questo proposito, l’archeologo Philip Barker affronta
gli “antiquaria” realizzati in stretto rapporto topografico con
il tema secondo un approccio prossimo a quello dell’arle aree di scavo, e da non intendere
cheologia sperimentale piuttosto che
dunque come complessi secondari o
della fruizione e afferma – con un po’
accessori (Gualandi, pp. 79, 91). Nell’otdi ironia – “Il massimo che ci si aspettica del museo anche Giovanni Pinna
ta da chi ha condotto lo scavo è la pubafferma: “decontestualizzando gli ogblicazione dell’andamento dei muri e
getti, allontanandoli dall’ambiente oridella disposizione dei fori di pali che
ginario, e immettendoli in un amdelineano le piante di edifici” (Barker,
biente totalmente artefatto, [il museo]
p. 306).
ricrea situazioni che non sono aderenti
Eppure è sempre maggiore la rialla realtà nella quale l’oggetto è stachiesta della collettività (soprattutto
to pensato e per la quale è stato prodel cosiddetto turismo culturale e del
dotto” (Pinna, p. 25).
mondo della scuola) di poter fruire
Nel 1992 Franco Minissi affronta codei segni del passato, specialmente
sì la questione: “Mentre infatti tutta la
nel loro inserimento ambientale. Anparte del patrimonio archeologico che
che il sempre maggiore tecnicismo e
può definirsi mobile o che viene resa
il profondo dettaglio della ricerca artale, spesso contrariamente alla sua nacheologica, connaturati alla formaziotura (intonaci affrescati, mosaici pavine degli addetti ai lavori, spesso non
mentali, decorazioni applicate ecc.)
riescono a rendersi sufficientemente perviene trasferita in museo, quella parmeabili agli interessi del pubblico, con
te dei rinvenimenti, che per loro nail rischio di favorire, specialmente in
tura sono inamovibili, restano in sito
periodi di crisi economica, delle reaspogliati di tutto ciò che più o meno
zioni di rifiuto.
Il sito dell’età del Bronzo “al Colombo” nel
lecitamente è stato estratto da essi. La
Louis Frédéric nel proprio manuale
comune di Mori. (Foto Silvano Zamboni)
differenza sostanziale di tali due diversi
di scavo, del 1967, affrontò così il tedestini è costituita dal fatto che, mentre ciò che approda al
ma: “Terminato lo scavo, ultimati gli studi, bisogna occuparsi
museo può ricevere per la sua conservazione le massime cuda un lato di conservare gli oggetti raccolti, dall’altro di prore, il resto del complesso archeologico, destinato a rimaneteggere il monumento, e ricostruirlo se necessario. Gli archeologi
re nel terreno, può aspirare, nel caso più felice in cui il suo
sono stati a lungo divisi su questo argomento e non sono mai
grado di integrità o il suo ancora presente valore di immariusciti a mettersi d’accordo. Esistono i romantici che propendono
gine lo abbiano reputato idoneo ad essere definito monua lasciare le rovine nello stato in cui si trovano, ripulendole
mento, ad una modesta opera di manutenzione ordinaria, lisolamente. Ci sono coloro, e sono i più numerosi, che premitata spesso alle pulizie delle erbacce più alte. Se poi lo staferiscono restaurare e ricostruire i monumenti andati in roto di rudere è tale da aver perduto qualsiasi possibilità di rievina, ma solo con i pezzi esistenti. In fine vi sono i moder-
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NUOVA
l’obiettivo di “riportare il visitatore al centro” del momenvocare l’immagine e la ragione d’essere originarie, esso può
to espositivo (Maggi, p. 10).
al massimo ricevere una recinzione con paletti di legno e fiLa gestione, la manutenzione e la promozione delle aree
lo spinato, quando non corre il rischio di essere rinterrato di
archeologiche necessitano di risorse adeguate e costanti e in
nuovo, scomparendo alla vista di tutti, restando solo agli atmancanza di esse credo sia preferibile concentrarsi sull’aspetti degli specialisti di competenza” (Minissi, 1988, pp. 121-124;
to conservativo, interrando le strutture archeologiche indaMinissi, 1992, p. 35).
gate. Si eviterebbe così di esporle a un inevitabile degrado
La situazione illustrata è senz’altro attuale anche se, coe dunque a un’irreversibile perdita, oltre che a una disaffeme più avanti espresso, la soluzione di interrare i siti archeologici
zione generale.
non è necessariamente da censurare, specialmente per le aree
che rischiano di non essere mantenute in uno stato decoroIl caso trentino
so, sia sotto l’aspetto della conservazione sia sotto quello delIl confronto diretto con le province confinanti pone il Trenla fruizione e divulgazione. Minissi propone inoltre di reintino in una situazione discreta circa il numero e la qualità dell’oftegrare, dove possibile per mezzo delle opere di restauro e
ferta archeologica. Senza dubbio non dispone di aree modelle opere protettive dei siti, l’immagine originaria delle preenumentali ancora emergenti nel paesaggio urbano, come avsistenze, rievocando nel visitatore il significato delle struttuviene per esempio per le città di Brescia e di Verona o per
re antiche. Posizione questa che lo stesso autore riconosce
le grandi ville di età romana affacciate sul Lago di Garda. Non
essere giudicata “sacrilega” da molti esperti del settore, in paresiste nemmeno un
ticolar modo per
museo archeologiquanto riguarda la
co paragonabile con
scuola archeologica
quello di Bolzano,
italiana, non semche è stato costruipre così all’estero
to, e si è conqui– per esempio per
stato notorietà inla realtà tedesca si
ternazionale, grazie
veda Rieche, pp.
al clamore e all’in236-240; Schmidt.
teresse suscitati dal
Dunque le strutturitrovamento
re inamovibili vandell’uomo del Sino considerate sulmilaun, la mummia
lo stesso piano di
dei ghiacci risalenciò che può essere
te all’età del Rame.
conservato ed espoIl Trentino presto in museo, sesenta, in alternaticondo il principio di
va, una rete di siti
“sostituire al museo
visitabili medio-picinteso come luogo
Una delle tappe del percorso archeologico in Val di Cavedine.
coli che proponil museo inteso co(Foto Silvano Zamboni)
gono una panorame concetto per cui
mica completa dell’archeologia provinciale, con un arricse il reperto non può andare al museo il museo dovrà anchimento dell’offerta turistico-culturale del territorio. Atdare al reperto” (Minissi, 1992, p. 36).
tualmente se ne contano circa 20, tra più di settecento aree
D’altro lato offrire al pubblico in modo chiaramente legarcheologiche georeferenziate e inserite nei programmi di
gibile quanto riportato in luce, mantenendolo nel tempo in
pianificazione territoriale. Si tratta di parchi “in miniatura”
buone condizioni, presenta come noto delle grandi difficoltà
che intendono integrare gli aspetti archeologici con quelin particolare per quanto riguarda i siti e le strutture preistoriche.
li ambientali, attraverso la dotazione di sentieri di avviciIl valore del sito archeologico è direttamente legato alnamento con aree di sosta, strutture di arredo, segnaletila sua stessa esistenza, vale a dire alla sua conservazione
ca e di altri apparati didattici. Il tutto realizzato in genere
e possibilità di essere tramandato integro alle generazioni
con il ricorso a materiali tradizionali quali legno e pietra,
future, in quanto “memoria della comunità nazionale”. Alche permettono un inserimento dei manufatti nell’amtrettanto importante e indispensabile la pubblica fruizione
biente rurale e montano nel quale le aree sono situate.
e valorizzazione, che dovrebbe tradursi, per le aree arA loro volta le aree archeologiche nel centro storico di
cheologiche ma non solo, nell’apertura all’utenza con
26
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troiti economici diretti. La strada delle sponsorizzazioni, peTrento – due aperte al pubblico, dieci visitabili con accomraltro regolamentata e incoraggiata dal legislatore, al momento
pagnamento, su un totale di 22 (progetto: Tridentum, la città
non sembra poter avere una ricaduta apprezzabile in quesotterranea, www.trentinocultura.net/archeologia.asp.) –,
sto settore. La soluzione prospettata pare essere quella delnormalmente poste nel sottosuolo di edifici storici, testimola creazione di “sistemi di itinerari” (Musei locali e musealizzazione
niano con il monumento che le contiene l’evoluzione urbadelle aree archeologiche; Matteini; Francovich, Zifferero; Zifnistica della città e offrono un segno concreto della continuità
ferero, p. 68) integrati, in cui possano essere coinvolti beni
d’insediamento.
archeologici, beni ambientali, mondo rurale, offerte di proUn’attenzione particolare è rivolta al mondo della scuodotti tipici locali. La realizzazione nel territorio provinciale
la che sempre più privilegia un approccio diretto e concredi enti come gli Ecomusei e i Patti Territoriali nonché proto all’antichità, a sostegno e integrazione delle lezioni teoriposte concrete, come le strade del vino (in provincia, la Strache svolte in aula. Un’esperienza diretta in un sito archeoda del Vino e dei Sapori “della Vallagarina” e “dal Lago di
logico, opportunamente accompagnata da personale specializzato,
Garda alle Dolomiti di Brenta”), i sentieri etnografici (per esempuò rivelarsi per la classe un momento didattico di grande
pio il sentiero etnografico di Rio Caino: www.comune.cirilievo. Molto rimane ancora da fare, al contrario, per quanmego.tn.it), i percorsi enogastronomici (i percorsi proposti
to riguarda la completa accessibilità da parte di persone dinell’Atlante dei prodotti tradizionali trentini, www.trentisabili (sul tema si veda: www.progettarepertutti.org).
noagricoltura.it/Prodotti_tipici/), e le piste ciclabili, potrebLe risorse attraverso le quali viene finanziata la gestione
bero in questo sendelle aree archeoso risultare un utilogiche del territole strumento di piario provinciale fannificazione dell’ofno capo ai bilanci
ferta turistica culdella competente
turale.
Soprintendenza, del
Servizio provinciaConclusioni
le “Ripristino e VaIl particolare
lorizzazione Amesercizio della tubientale” e, in mitela da parte
sura limitata, di aldell’amministraziocune amministrane pubblica sul bezioni comunali.
ne archeologico trae
In definitiva la
origine dal riconosomma direttamenscimento dell’intete impegnata anresse pubblico, che
nualmente per cirtravalica quello prica 20 aree archeovato. La legge relogiche, esclusi i siIl sito dell’età del Ferro di Montesei di Serso nel comune di Pergine.
gola i principi di tuti del centro storico
(Foto Silvano Zamboni)
tela, conservazione,
di Trento, ammonfruizione e valorizzazione. I primi due permettono di manta a circa 170.000 Euro. In essa si possono considerare comtenere integro il bene e di tramandarlo alle future generazioni,
presi anche gli interventi saltuari su altri piccoli siti, ma sogli altri ne riconoscono il valore pubblico e il diritto, fatti salno escluse le risorse necessarie ai restauri e alle manutenvi gli altri principi, al godimento da parte della comunità inzioni straordinarie, alla promozione, allo studio e alla adetera. La fruizione pubblica è un aspetto dunque fondamenguata attività conoscitiva, che gravano su altri capitoli del bitale e solo il pericolo che la sua applicazione possa produrlancio della Soprintendenza, così come la quota parte delle
re danni o deteriorare il bene, sia esso un reperto mobile o
spese amministrative correnti dell’apparato provinciale che
un sito archeologico, ne può giustificare la deroga.
gestisce il tutto.
L’archeologo Redha Attoui sostiene: “Il parco va inteso
Da questa osservazione, seppur sommaria, delle necescome strumento di diffusione culturale, di tutela della stosità finanziarie indispensabili per un’adeguata conduzione delria, superando l’idea che lo riduce ad un giardino di rovile aree archeologiche visitabili, risulta evidente che le risorne; luogo di ricreazione fisica e mentale che marca il dise in campo non sono trascurabili, specialmente per un setstacco e, nello stesso tempo, la continuità tra il passato e
tore, come quello in causa, che non origina soddisfacenti in-
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il presente” (Attoui, p. 56). L’affermazione è senz’altro condivisibile. Se però al termine “rovine”, o “rudere” (cfr. il convegno e la mostra “Ruderismo: tra emozione e conservazione”),
togliamo il significato di “degrado – inevitabile perdita
dell’evidenza archeologica”, si potrebbe anche proporre
che il “giardino di rovine” non rappresenti di per sé un’immagine negativa. Si tratta certo di una visione romantica del
territorio oggi non più di moda, ma che potrebbe essere rivalutata o che comunque non sembra di per sé in contraddizione con la valenza scientifica di un sito. Tutto ciò
per dimostrare come l’idea di valorizzazione e fruizione di
un’area archeologica possa ancora essere aperta a molte interpretazioni e alla ricerca di nuove strade da percorrere.
La questione di un ritorno economico di parchi e aree
archeologiche rimane ancora irrisolta. Il problema, fonte
spesso di incomprensioni tra le amministrazioni locali e gli
organi di tutela, deve essere affrontato scoprendo formule
innovative. L’archeologo non può limitarsi a un’attività autoreferenziata o improntata unicamente al principio della intoccabilità: “perché oltre a sottrarre il patrimonio (siti, reperti)
alla comunità, privandola di una risorsa di sviluppo, contribuisce alla distruzione del bene, privandolo del suo territorio. Tale bene, per quanto “gelosamente custodito”, verserà
in uno stato di tristezza e di abbandono dovuto per di più
alla carenza delle risorse necessarie per la sua conservazione” (Attoui, p. 63).
Silvano Zamboni è archeologo presso la Soprintendenza per
i Beni Archeologici della Provincia autonoma di Trento e il
Castello del Buonconsiglio a Trento.
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Le aree archeologiche visitabili del Trentino
• Arco, Palazzo Municipale
• Bedollo, Passo del Redebus
• Castello di Fiemme, Dos Zelor
• Castello Tesino, Dosso di S.Ippolito
• Cavedine, passeggiata archeologica
• Cloz, necropoli romana
• Fai della Paganella, Dos Castel
• Fiavé, area palafitticola Carera e Dos Gustinaci
• Grigno, grotta di Ernesto
• Molina di Ledro, area palafitticola
• Mori, grotta del Colombo
• Nomi, loc. Bersaglio
• Pergine, Montesei di Serso
• Pieve di Bono, Chiesa di S. Giustina
• Riva del Garda, Monte S.Martino
• Trento, riparo Gaban
• Trento, Romagnano Loch
• Trento centro storico progetto “Tridentum. La città sotterranea”, Area del SASS; Basilica paleocristiana (Duomo); Porta Veronensis; Palazzo Balduini; Torre Mirana; Palazzo Crivelli; “Portela”; Palazzo Lodron.
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Dal museo al memoriale
Claudia Lamberti
Il Museo ebraico di Berlino
Negli ultimi anni Berlino ha conosciuto una fervente atIl primo museo ebraico di Berlino fu aperto nel 1933
tività architettonica, che ha prodotto edifici ministeriali e
sulla Oranienburgerstrasse, ma l’ascesa al potere di Hitler
amministrativi, necessari alla nuova capitale della Germane provocò la chiusura e la confisca dei beni da parte delnia riunificata, grandi sedi aziendali e numerose strutture
la Gestapo. Sinagoghe, luoghi di cultura ebraici e collezioni
culturali. I musei berlinesi vivono una stagione di nuovi alprivate subirono distruzioni, incendi, saccheggi e perdite
lestimenti e di creazione di sedi più ampie. Il progetto di
irreparabili nel periodo nazista, nel tentativo di annientaDaniel Libeskind per l’attuale Museo ebraico nacque prore completamente la memoria della comunità ebraica. Nel
prio come espansione del Museo di storia berlinese con un’ala
dopoguerra le testimonianze superstiti furono conservate
dedicata alla storia ebraica. Tuttavia, la drammaticità degli
in vari depositi in attesa della
eventi del periodo hitlericostruzione di un nuovo muriano e la persecuzione
seo ebraico o di nuovi musei
antisemita non potevano
per la storia della città nei quanon marcare fortemente
li potesse trovar spazio la vila concezione stessa
cenda ebraica. Negli anni Sesdell’edificio museale oltre
santa si decise di restaurare il
che segnare la collezione
settecentesco edificio della
ivi esposta, a volte lacunosa
Kollegienhaus sulla Lindenproprio per la distruzione
strasse a Kreuzberg, progettaperpetrata dai nazisti nei
to da Phillip Gerlach per l’imconfronti delle memorie
peratore Federico Guglielmo,
e dei cimeli ebraici. In
e bombardato dagli alleati duquesto articolo esaminerante la seconda guerra monremo quindi il Museo ebraidiale. In esso avrebbe dovuto
co di Berlino nella sua artrovar posto un museo della
chitettura e ne rileveremo
città. Nel 1971 in questo “Mui peculiari significati, tali da
Veduta del Museo ebraico di Berlino. (Foto Jens Ziehe,
seo di Berlino” fu realizzata
porre l’interrogativo se si
© Jewish Museum Berlin)
una grande mostra intitolata
tratti solo di un museo.
“Contributo e destino: 300 anni della Comunità ebraica a
Infine, passeremo a esaminare il vero e proprio memoriaBerlino, 1671-1971”. A seguito di ciò nell’amministraziole dell’Olocausto, inaugurato nel maggio 2005 dopo anni
ne cittadina si fece strada la volontà di dotare il museo di
di dibattiti politici e di selezioni architettoniche. Il progetun “dipartimento ebraico”, e si aprì un dibattito sulle reto di Peter Eisenman propone un percorso di riflessione
lazioni tra il museo di storia cittadina e le collezioni di stosul passato in cui è necessario un impegno attivo del viria ebraica. Infine, nel 1988, fu sancita la necessità di un
sitatore per comprenderne appieno le responsabilità: ci si
nuovo edificio per il dipartimento ebraico. Il concorso inchiede ancora, a pochi mesi dall’apertura al pubblico, se
ternazionale indetto in quell’anno recava il titolo “Estenun memoriale sia adeguato a esprimere il giudizio della stosione del Museo di Berlino con il dipartimento museale ebrairia su una tale ferita dell’umanità e se in particolare il meco” e la sede eletta per la realizzazione dei nuovi spazi fu
moriale berlinese riesca a onorare le vittime ebraiche e a
proprio quella della Lindenstrasse. I 165 concorrenti doesplicitare la condanna che i più recenti governi tedeschi
vevano perciò inserire, accanto a un edificio settecentesco
hanno formulato nei confronti della Germania hitleriana.
di prussiana eleganza e austerità, un nuovo grande museo
Si rileva quanto mai opportuna la scelta di contemperare
che consentisse l’esposizione permanente della colleziol’astrazione dell’architettura con la documentazione del
ne ebraica ed eventuali mostre temporanee, contributi dicentro informazioni sottostante.
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grati in tutto il mondo, i nomi delle cui sedi principali sono affrescati sul muro che conduce al giardino. Se il visitatore invece si avvia nella direzione della persecuzione,
trova dipinti sui muri i nomi dei campi di concentramento e giunge all’interno di una grande torre oscura, la cui
unica fonte di luce è una fessura irraggiungibile, dalla
quale giungono dall’esterno solo suoni attutiti, uno spazio
dal quale non si esce facilmente perché anche la porta di
accesso ti si chiude alle spalle: è la torre dell’Olocausto, e
L’architettura di Libeskind: museo o memoriale?
richiama forse le sensazioni di chi viaggiava nei treni merL’architettura pensata da Daniel Libeskind per il Museo
ci senza poter vedere l’esterno.
ebraico di Berlino portava il titolo progettuale “Between
La terza direttrice del museo è la “linea della continuità”,
the lines”, imponendo una lettura simbolica delle varie diovvero il percorso espositivo a carattere cronologico al quarettrici attorno alle quali lo aveva articolato. In pianta l’edile si giunge dal piano interrato, salendo una lunga scalificio di Libeskind è una linea spezzata, nella quale si sonata attraversata da incombenti travi oblique. La colleziono riconosciuti ora un lampo che squarcia la storia, ora una
ne si dipana tra ambienti ora illuminati da finestre a nastella di Davide esplosa, attraversata da un’ideale linea
stro modellate sulle lettere dell’alfabeto ebraico e poste in
retta di “vuoto”; dalle intersezioni si formano nel museo
posizioni non consuete, dalcinque grandi spazi vuoti,
le quali è arduo scorgere la
segno di una frattura o un’ascittà e avere un rapporto
senza nella storia ebraica, e
con essa, ora con pareti diin particolare dell’incolmabile
pinte di nero che segnalano
ferita lasciata dalla Shoah.
la presenza di un “vuoto”
Le forme del museo nascooltre il muro, la memoria di
no da una profonda riflesun’assenza.
sione dell’architetto, che atLa maggior parte degli
tinge a riferimenti storici delspazi vuoti è inaccessibile,
la vita culturale ebraica in
ma al piano terra si può speGermania, citando nella sua
rimentare il cosiddetto “vuodescrizione di questa artito di memoria”, ovvero uno
colazione di spazi le staziodi questi ampi volumi all’inni della Einbahnstrasse di
terno del quale camminare
Walter Benjamin, l’opera musu una distesa di dischi mesicale Mosè e Aronne di Artallici che emettono un suonold Schönberg, i luoghi di
L’intersezione tra il percorso dell’Olocausto e il percorso
no inquietante e richiamano
Berlino dove vissero emidell’Esilio, all’interno del Museo ebraico di Berlino.
nelle loro forme di volti umanenti personalità ebraiche,
(Foto Jens Ziehe, © Jewish Museum Berlin)
ni il ricordo degli ebrei di cui
gli elenchi delle vittime della persecuzione nazista ha tentato di oscurare per sempre
la persecuzione nazista. L’edificio mostra la precarietà delil volto e la memoria.
la vita ebraica a Berlino sia attraverso le parti dedicate all’espoUna costruzione così fortemente simbolica si colloca
sizione permanente, sia attraverso i due percorsi simboliai vertici dell’architettura contemporanea, ma pone il proci dell’Esilio e dell’Olocausto.
blema del rapporto tra funzione museale e memoriale di
Nel piano interrato infatti il visitatore – così come gli
questo edificio. La relazione edificio-collezione è uno dei
ebrei negli anni Trenta e Quaranta – si trova di fronte a un
temi maggiormente discussi dalla critica, poiché se il pribivio: se sceglie la strada dell’esilio si trova all’esterno in
mo sottolinea alcuni momenti drammatici della storia delun giardino simbolico composto di 49 pilastri di cemento
la comunità ebraica di Berlino, la seconda vuole documentarla
ripieni di terra di Berlino o Gerusalemme con olivi che non
per intero, come è evidente dal relativamente piccolo
assicurano nessuna pace, il piano di calpestio è infatti inspazio dedicato all’Olocausto. Proprio l’abbondanza di
clinato e composto di sassi rotondi sdrucciolevoli, così coevocazioni e significati commemorativi di questa architettura
me è stato irto di difficoltà il percorso che ha portato alla
comporta la difficoltà di inserirvi una collezione, al puncostituzione nel 1948 dello Stato di Israele, o quello che
to da aver portato qualcuno, al momento dell’inauguraha condotto alla ri-creazione di comunità ebraiche di emidattici, postazioni multimediali ecc. Il progetto vincitore,
quello di Daniel Libeskind, utilizza come luogo di servizi
(guardaroba, biglietterie, bookshop, ristorante) la palazzina settecentesca, per fare poi immergere il visitatore nel
percorso espositivo e nell’esperienza museale vera e propria, attraverso un collegamento sotterraneo con il nuovo edificio.
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struzione di un’architettura dedicata all’Olocausto pone è
proprio quello della difficoltà o forse impossibilità della rappresentazione di un evento di così grande portata tragica,
nonché il dubbio che un monumento, privo di connessioni
tra la persona dello spettatore e la storia che esso rappresenta e che danno alla memoria rivissuta tutto il suo potere, risulti inadatto a figurare un passato così recente, che
ha segnato milioni di persone e deve segnare profondamente coloro che verranno, affinché mai più si ripeta. A
qualunque progetto su questo tema si chiede di essere, più
che un “monumento”, un “memoriale”, nel senso di strumento di partecipazione e riflessione che renda consapevoli i visitatori, che li coinvolga nell’azione del ricordare,
che susciti in loro la meditazione personale e non solo un
ricordo di Stato.
Il governo del cancelliere Kohl ha coraggiosamente scelto di erigere un memoriale agli ebrei d’Europa uccisi dal
regime nazista, rileggendo
criticamente la storia del proprio Paese, verso la quale
l’opinione pubblica esprime
un complesso di atteggiamenti contrastanti, dalla rimozione al senso di colpa,
dall’indifferenza alla continuità attraverso movimenti
neo-nazisti. Nel 1994 fu varato un concorso internazionale, che vide oltre 500
partecipanti e una effimera
vincitrice, la berlinese ChriIl Memoriale agli ebrei
stine Jacob-Marcks al cui imd’Europa uccisi
menso progetto costituito
Nel 1988 un gruppo di inda un sepolcro, recante intellettuali riunito attorno alIl Memoriale agli ebrei d’Europa uccisi di Peter Eisenman.
cisi i nomi delle vittime e onola giornalista tedesca Lea
(Foto Federico Gavazzi)
rato da alcune pietre che si
Rosh ha dato vita a un’asvolevano provenienti da Israele, fu posto il veto del cansociazione per la creazione di un Memoriale agli ebrei d’Eucelliere, dopo aspre polemiche sull’appropriazione di noropa uccisi durante il Nazionalsocialismo. La comunità cimi, oggetti e usanze ebraiche. Una nuova selezione, nel 1998,
vile tedesca ha risposto a questa proposta con un intenpremiò la proposta di Peter Eisenman e Richard Serra, per
so dibattito, che ha coinvolto vari strati della società: pola quale furono chieste alcune modifiche che portarono al
litici, comuni cittadini, anziani testimoni in prima persoritiro del co-autore e all’approvazione del cosiddetto “Eina degli eventi bellici, giovani ai quali questa memoria dosenman II” nel giugno 1999.
vrà essere completamente consegnata, a mano a mano che
andrà estinguendosi la generazione protagonista di queL’architettura di Eisenman: astrazione o distrazione?
gli eventi.
Il progetto di Eisenman sfrutta l’immenso appezzaCostruire un monumento significa stabilire un luogo ufmento di terreno tra Behrenstrasse e Ebertstrasse messo a
ficiale attraverso il quale esprimere un tributo a eventi
disposizione dal Parlamento tedesco nel cuore di Berlino,
storici significativi, proporre all’attenzione di una nazione
vicino alla Porta di Brandeburgo e alle varie strutture gotemi e problemi del passato di cui si ritiene importante convernative, per realizzarvi un immenso campo di stele di ceservare memoria, spesso dando una versione dei fatti stamento. In ciò che fu, prima della guerra, il giardino minitica, storicizzata, impersonale. Il primo problema che la cozione dell’edificio nel 1999, a suggerire di lasciarlo completamente vuoto.
Alcuni museologi sostengono che lo spazio prevalga
troppo sul contenuto, ed è impossibile definire questo edificio semplicemente come museo, poiché esso attiva nel
visitatore processi emotivi paragonabili a quelli di una visita a un memoriale. Se la mostra permanente ivi esposta
dal 2001 si offre come “Due millenni di storia ebraica in
Germania”, l’edificio, con i suoi vuoti e i suoi percorsi tematici, porta a meditare soprattutto sulle tristi vicende del
periodo nazista. Si dovrà riconoscere perciò all’architettura
“memoriale” stessa di essere una importantissima parte del
“museo”, inteso sia come conoscenza che come “esperienza”
della storia della comunità ebraica, con i suoi drammi evocati proprio dagli spazi, quanto una mostra perfetta in un
contenitore “ininfluente” non avrebbe potuto fare.
L’apprezzamento della comunità ebraica internazionale per quest’opera ha portato a Libeskind l’affidamento
di numerosi progetti per musei riguardanti l’arte o la storia ebraica, tra cui emergono la Felix Nussbaum Haus
di Osnabrück (1995-1998),
il Dansk Jodisk Museum di
Copenhagen (2001-2004) e il
Contemporary Jewish Museum di prossima inaugurazione a San Francisco.
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steriale con la villa di Goebbels e che divenne negli anni
Sessanta una terra di nessuno in prossimità del “muro”, sorge ora una griglia di circa 2700 grandi parallelepipedi, posti a diversa altezza sul terreno in modo da creare l’impressione
di un campo di grano mosso dal vento.
Il visitatore che si avventura al suo interno è inghiottito e sommerso come da un’alta marea e, non riuscendo
a vederne l’uscita, può essere sopraffatto dal senso di
smarrimento, sconforto e angoscia, che l’architetto ha previsto per assimilare questa esperienza a quella dei milioni di ebrei sommersi e inghiottiti dalla barbarie nazista.
Eisenman ha imposto al Memoriale agli ebrei d’Europa uccisi una struttura regolare solo apparente, della quale ci si rende conto addentrandovisi: l’inclinazione, seppur
minima, di alcuni parallelepipedi o del piano di calpestio
è sufficiente a rompere l’ordine ed è percepita in maniera estremamente amplificata e straniante.
Tale spazio è percorribile liberamente, senza direzione predefinita, camminando su una serie di selciati di
pietra che nell’intenzione di Eisenman dovrebbero permettere
un’esperienza di immersione nella memoria mentre ci si
svuota da altri pensieri. Il visitatore, contemplando la
grandezza dell’orrore dell’Olocausto (sebbene Eisenman
non ammetta esplicitamente un’interpretazione dei pilastri
come sepolcri), compie un’esperienza attiva, il memoriale non offre una risposta statica ma un processo dinamico, non razionalizza e definisce la Shoah, ma tenta di renderne l’irrazionalità. È discutibile, però, se un’astrazione
di questo genere sia pienamente comprensibile a tutti e
se essa coinvolga davvero i tedeschi a riflettere sulle loro responsabilità in tale concreto evento storico. Un memoriale all’Olocausto, per di più in uno spazio che non
fu uno dei luoghi del terrore, non dovrebbe decontestualizzarne l’immagine al di là del bene e del male, rischiando
che il significante, a una lettura prettamente estetica, possa sovrastare il significato o perfino distrarre da esso. Se
la bellezza è una possibile e coraggiosa risposta all’orrore, è indispensabile anche una precisa e documentata
presentazione dei fatti e delle responsabilità. Per questo
è decisivo il ruolo del centro informazioni posto a livello
sotterraneo e strutturato come un piccolo museo storico
sul genocidio ebraico. Il designer della mostra permanente, Dagmar von Wilcken, ha utilizzato un’ulteriore griglia di stele per presentare in quattro sale le testimonianze delle vittime, i documenti, la collezione completa dei
nomi degli ebrei uccisi dal Nazismo (fornita dallo Yad Vashem) e le informazioni sui luoghi di persecuzione e commemorazione in tutta Europa. Dal 12 maggio 2005 è possibile per ciascuno confrontarsi con l’opera di Eisenman
per giudicarne la riuscita. Certamente l’impressione ricavata dalla visita del campo di stele è quanto mai sogget-
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tiva e influenzata sia dall’afflusso talvolta eccessivo di
pubblico, che può far venire meno le previste sensazioni
di raccoglimento, isolamento, silenzio, disagio emotivo, sia
dall’indeterminatezza dell’opera che ha lasciato spazio, nelle prime fasi di apertura ai visitatori, a comportamenti sconvenienti a chi fosse privo di un’adeguata preparazione. Sia
l’architetto che la comunità ebraica tedesca hanno comunque apprezzato il fatto che esso si riveli uno spazio
vivo, perfino un luogo di socialità, oltre che un cenotafio
o un sacrario. L’altissima intuizione di Eisenman della ripetizione ossessiva di una forma dominante, che evochi
il tema della ragione e dell’ordine che diventano follia quando assumono un valore al di là e al di sopra di quello della vita umana, i suoi meritori sforzi nell’edificazione di uno
spazio che riesce a dare forma efficace alla memoria, rendendola esperienza vissuta dai più sensibili, rischiano di
non essere facilmente colti dal grande pubblico, per cui
si è dimostrato importante coniugare la concettualità
dell’architettura alla funzione didattica del centro informazioni.
Claudia Lamberti è dottoranda in Storia dell’Arte e funzionario
del Sistema bibliotecario, archivistico e museale dell’Università
di Pisa.
Bibliografia
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Europas. Memorial to the murdered Jews of Europe. Nicolai,
Berlin.
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Siti Internet
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Memoriale agli Ebrei d’Europa uccisi di Berlino: www.stiftungdenkmal.de/dasdenkmal.
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La “schegnetta”, strumento per
la strategia didattica del museo
Laura Bergamino
Gli studi che riguardano il rapporto Scuola-Museo-Beni
Culturali si soffermano a considerare soprattutto le problematiche
connesse alla trasmissione delle informazioni, cioè dei contenuti strettamente disciplinari dei quali ogni specifica struttura museale si fa portatrice.
In effetti nella pratica le Sezioni didattiche dei musei ricorrono
a espedienti, strumenti, o strategie, tradizionali o innovativi, per
tentare di raggiungere la massima efficacia della loro azione,
non solo nei riguardi di un gruppo di ragazzi, ma anche di ogni
singolo ragazzo costituente quel gruppo, mantenendosi su
una sorta di doppio binario comunicazionale. L’azione della
didattica museale, inoltre, dovrebbe mirare a ottenere nello studente la piena comprensione immediata di quanto trasmesso,
ma anche la sua maggior persistenza nel tempo.
L’esperienza maturata negli anni al Museo Archeologico per
la Preistoria e Protostoria del Tigullio (MAPPT)1 sta evidenziando
con sempre maggiore perentorietà la necessità di intervenire su
un piano parallelo a quello strettamente contenutistico-disciplinare,
non meno ambizioso e impegnativo quanto a obiettivi: ci si prefigge di provocare nel ragazzo un atteggiamento2 psicologico
favorevole in modo che, a seguito di quanto vissuto nel museo, l’individuo non solo svolga con buona disposizione il lavoro proposto nell’occasione dal docente o dall’operatore della Sezione didattica, ma pure che, nell’età adulta, tenda a rapportarsi alla fruizione dei beni culturali in modo consapevole,
positivo e al riparo da fenomeni di consumismo culturale.
Se nel caso dei contenuti si parla di trasmissione, allorché ci si muove nel campo degli atteggiamenti appare più
appropriato parlare di induzione. In quest’ottica, peraltro, si
rivela inadeguato rivolgersi agli strumenti tradizionali della
comunicazione museale: l’esperienza cognitiva nel museo risulta di per sé piuttosto impegnativa per il ragazzo e può avere esiti addirittura controproducenti3; il ricorso da parte degli operatori museali alle armi della comunicazione persuasiva pare non sufficiente se non viene almeno sostenuto da
ciò che Gagné e Briggs chiamano “contingenza di rinforzo”:
si possono indurre e cambiare gli atteggiamenti facendo seguire una nuova abilità o nozione da apprendere da qualche attività gradita o gratificante4.
Uno dei tentativi più recenti della struttura museale chiavarese in tale direzione è stata l’introduzione dello strumento didattico delle “schegnette” (contrazione da “schede-vignette”),
proposto durante gli ultimi anni scolastici, per lo più all’in-
terno di progetti dedicati alle scuole primarie. La schegnetta
consiste in una illustrazione in cui compaiono singoli reperti o siti, oppure anche situazioni e scene articolate, in cui i
contenuti disciplinari presentati nel museo o a scuola secondo canoni e schemi comunicativi/educativi tradizionali vengono ripresi e rielaborati fino a ottenere un effetto di gioco,
meraviglia, ironia, scherzo. Per la costruzione delle schegnette vengono utilizzate preferibilmente fonti iconografiche
accessibili ai ragazzi (fotografie, o disegni di siti o reperti tratti da pubblicazioni scientifiche presenti a scuola o al museo);
in qualche caso si è fatto ricorso anche a disegni a mano libera eseguiti come esempio dalla scrivente.
Alla veridicità scientifica dell’immagine di base si applicano codici rappresentativi e comunicativi tra i più immediati
e vicini al mondo infantile, per esempio i fumetti e gli indovinelli. Per ragioni di praticità ci si è finora attenuti ai più diffusi formati cartacei (A4 o A3), di facile riproducibilità, plastificati per una migliore maneggevolezza.
Di frequente sono individuabili su pubblicazioni e periodici vignette che per lo più si rifanno a un’idea di preistoria
presente nell’immaginario collettivo; poche di esse si prestano a essere adoperate in ambiente educativo formale. Talvolta si tratta di elementi inseriti per rendere più accattivante
quanto presentato nelle pagine di un testo scientifico di tono
divulgativo. In tal caso, però, sono ridondanti e non è prevista un’interazione del lettore con l’autore della vignetta. Qualcosa del genere è stato di frequente utilizzato anche nei pannelli esplicativi delle sale del museo o di mostre.
La schegnetta è qualcosa di diverso: sia gli oggetti presentati sia le battute scherzose si riferiscono a reperti e concetti osservati direttamente nel museo e che sono parte di un percorso
conoscitivo definito e programmato. La consapevolezza della funzione didattica cui le schegnette sono destinate e il conseguente controllo formale e contenutistico cui sono soggette ne hanno appunto determinato l’originaria denominazione di “scheda”.
Le schegnette vengono presentate una prima volta durante
uno degli incontri al museo, ma è fondamentale che siano riproposte dal docente anche in classe, in quanto la loro principale funzione è di fornire occasione di dibattito con e tra i
ragazzi per svelare che cosa si celi attraverso la battuta di spirito, il reperto camuffato o l’indovinello presentati.
Quanto ai dettagli strettamente legati ai contenuti disciplinari, si può scegliere di conferire alla scheda diverse “sfu-
MU
33
NUOVA
mature di approfondimento”, a seconda del momento del percorso didattico in cui si colloca e delle finalità che si prefigge l’utilizzo di questo strumento: in alcuni casi, per esempio,
è stato sufficiente accennare appena a un particolare tipo di
paesaggio per rievocare informazioni trasmesse negli incontri al museo, in altri l’attenzione è stata spostata sul testo
del dialogo e/o sugli oggetti che compaiono.
La persistenza di quanto il ragazzo apprende è legata in
modo diretto alla possibilità di utilizzare le competenze conquistate per produrre un proprio contributo originale5. Una
volta chiari alla classe i criteri compositivi alla base dello strumento didattico costituito dalle schegnette, i ragazzi possono esser chiamati a idearne delle proprie, motivando opportunamente le scelte operate e magari utilizzando fotografie e/o
disegni da loro eseguiti direttamente sul sito o nel museo6:
gli autori avranno l’appagante sensazione di padroneggiare
a tal punto la materia da potersi permettere di scherzarvi su
consapevolmente, magari di tendere qualche trappola ai compagni che si sono applicati di meno o ai familiari poco esperti. A questo punto non solo viene messo in gioco il capitale
di nozioni specifiche acquisite dallo studente nel corso del
lavoro svolto con il museo ma si delinea anche un nuovo modo di rapportarsi con questo, confidenziale e del tutto individuale: la persona, e non più solo il gruppo-classe, deve compiere un utilizzo critico delle informazioni ricevute, è chiamata
a un nuovo senso di responsabilità nei confronti delle scelte
da operare (non è poi così facile far uso intelligente, creativo e valido dell’ironia o della comicità se le si applica a reperti preistorici...). Gli è data l’opportunità di scoprire che “[...]
andare al museo non vuol dire solo accettare informazioni passivamente ma anche poter dire la mia e creare qualcosa di
mio [...]”, come riferito nel corso di un incontro da un bimbo di IV primaria: il museo, quel museo, si rivela non un luogo chiuso al mondo e autoreferenziale, ma aperto a essere
usato in modi anche molto inconsueti e per costruire qualcosa di proprio, nei modi che più si preferiscono.
Benché sia da considerarsi ancora suscettibile di modifiche e adattamenti, lo strumento didattico della schegnetta
ha ricevuto finora una buona accoglienza nel corso delle visite al MAPPT; tuttavia, se da un lato gli studenti hanno mostrato di gradire molto le schegnette inventate dal museo, nel
caso dei docenti va rilevata una soltanto sporadica adesione al discorso nella sua potenziale articolazione, orientata a
ottenere creatività e originalità dai ragazzi: l’impegno della
sezione didattica per il futuro comprenderà senz’altro azioni di incoraggiamento in tal senso.
Inoltre, a parte alcuni casi fortunati, non si è ancora riusciti a mantenere un flusso stabile di comunicazione che consenta la verifica dei risultati dell’impegno della sezione didattica e di tutti gli attori del processo educativo una volta
adottate le schegnette all’interno di progetti conclusi o in cor-
34
so d’opera. In attesa di individuare più adeguati strumenti per
il monitoraggio dell’efficacia della comunicazione al pubblico del museo chiavarese nel suo insieme, poter almeno visionare i lavori prodotti dai ragazzi, scambiare opinioni con
i docenti, raccoglierne le critiche, costituirebbe una risorsa,
la cui rilevanza a quanto pare è ancora sottovalutata dagli
stessi insegnanti coordinatori dei vari progetti e dovrà essere più incisivamente sottolineata al momento dei futuri contatti preliminari tra museo e interessati.
Laura Bergamino opera all’interno della Sezione didattica
presso il Museo Archeologico per la Preistoria e Protostoria
del Tigullio di Chiavari.
1. Il MAPPT è ospitato nel seicentesco Palazzo Rocca a Chiavari (GE) dal
1985 ed è un ufficio della Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Liguria - Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il lavoro sviluppato
dagli archeologi, spesso anche grazie a segnalazioni di appassionati locali, ha restituito testimonianze significative della presenza umana sul territorio del Tigullio e delle zone limitrofe dal Paleolitico Medio (100.00030.000 anni fa) alla romanizzazione (II sec. a.C.). Se pur flagellato da alterne vicende, ogni anno il museo viene visitato da duemilacinquecentotremila persone. La Sezione didattica del museo svolge la propria attività
soprattutto nei riguardi del segmento di pubblico della scuola primaria e
secondaria di primo grado, ragazzi e docenti che hanno costituito negli
anni mediamente il 60% del totale delle presenze. Per maggiori informazioni sui materiali conservati nel MAPPT si veda la sezione Atlante Archeologico
del sito: www.archeologia.beniculturali.it/pages/atlante/S18.html.
2. Si veda Gagné R.M., Briggs L.J., Fondamenti di progettazione didattica, Torino, 1990, pp. 66-67 e 94-99; in particolare a p. 95 si trova la definizione di
“atteggiamento” come “[...] stato interno che condiziona la scelta di azione dell’individuo nei confronti di un certo oggetto, di una certa persona o evento”.
3. Per esempio, ho spesso notato il senso di smarrimento che incoglie coloro che sono chiamati a svolgere le “tradizionali”, famigerate relazioni imposte da alcuni irriducibili docenti a seguito della visita al museo.
4. Gagné R.M., Briggs L.J., op. cit., p. 97. Va letta sotto questa luce, per
esempio, la distribuzione di dolcetti di pasticceria ai bimbi di I e II classe primaria appena usciti da una lezione al MAPPT inserita nel programma didattico “W Otto Mappt!”, ideato e attuato dal museo negli ultimi nove anni con il fine di trasmettere contenuti ma soprattutto di indirizzare
l’atteggiamento dello studente nei confronti dei beni culturali del territorio in cui vive, a prescindere dalla tipologia di questi ultimi. Tale evento
costituisce legame con l’esperienza museale gratificante, concreto, immediato,
inaspettato e difficilmente dimenticabile.
5. È in atto al MAPPT una catalogazione a titolo sperimentale degli elaborati (disegni, CD rom, lavori in plastilina, questionari, relazioni, riproduzioni di reperti, giornalini...) eseguiti dai ragazzi in età scolare, consegnati a partire dall’anno di inaugurazione del museo (1985): il CED Catalogo
Elaborati Didattica MAPPT conta ormai quasi cinquecento opere. Si veda
Bergamino L., Prove per un catalogo degli elaborati consegnati dai ragazzi al museo. Un aiuto alla riflessione, in: Cordero M., Mano L.(a cura di),
Verso la terra dei sogni. Dal museo al territorio, Atti del Convegno 26 e 27/5/2001,
Quaderni Museo e Territorio n. 5, ottobre 2002, Cuneo 2002, pp. 57-71.
6. Si sottolinea il carattere di interdisciplinarità di tale lavoro, del tutto il
linea con le Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado.
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LIBRI
a cura di Giovanni Pinna
Recensioni
L’antiquaria settecentesca tra Napoli e Firenze. Felice
Maria Mastrilli e Gianstefano Remondini
di Salvatore Napolitano, Edifir, Firenze, 2005, 191 pagine,
18 euro
Allo scadere del 2005 la collana “Le Voci del Museo” si è
arricchita di un nuovo volume, opera di Salvatore Napolitano
che, come sua prima prova, ha affrontato un tema legato alla
sua città: la presenza a Nola di Felice Maria Mastrilli e di Gianstefano Remondini, due conoscitori di “cose antiche” il cui ruolo rilevante nell’ambito dell’antiquaria emerge anche grazie a
nuova documentazione reperita presso il Getty Research Institute’s
Special Collections and Visual Resources di Malibu.
Napolitano illustra la passione per l’etruscologia alimentata dai continui ritrovamenti nel territorio dell’antica Tuscia;
affronta la fortuna dell’arte vascolare a Napoli sulla scorta dell’interesse che suscitavano i vasi antichi della Magna Grecia da
parte dei collezionisti, come il fitto rapporto che intercorreva fra gli studiosi d’antiquaria fiorentini, romani e partenopei. Ancora prima della pubblicazione dei fondamentali studi sull’arte greca di Johann Joaquim Winckelmann, il dibattito sull’arte vascolare animava gli appassionati di antiquaria
e nuove considerazioni mettevano in luce l’iconografia dei
miti classici, il valore e il significato dell’arte della Magna Grecia. Al vivace mercato antiquario romano, meta di collezionisti residenti e stranieri, si affiancava quindi anche quello
napoletano dove era più facile reperire – seppure venduti a
prezzi decisamente altissimi – vasi antichi; mercato tenuto d’occhio dagli esperti d’arte, fra cui il fiorentino Anton Francesco Gori, il rinnovatore in Toscana degli studi etruschi.
Densi di novità sono i capitoli dedicati al Mastrilli e al Remondini, attraverso i quali si ricostruiscono gusti e interessi del
tempo. Fino a oggi del Mastrilli non si avevano notizie biografiche; fu un vero conoscitore di arte vascolare, tanto apprezzata da indurlo a mettere insieme una collezione, il famoso
Museo Nolano composto di circa mille vasi, ordinato a partire dal 1752 a Palazzo San Nicardo, “ammirato da tutti i forestieri che in Napoli capitano”. Con la morte del Mastrilli complesse vicende giudiziarie decretarono la dispersione della raccolta; inestimabili testimonianze del passato andarono così ad
alimentare il mercato antiquario e furono acquistate anche da
stranieri di passaggio che ne decretarono la diaspora.
Altrettanto dense sono le pagine riservate al genovese Remondini che troviamo a Napoli dove frequentava abitualmente gli ambienti accademici. Fu qui che conobbe il Mastrilli, con
il quale strinse un’amicizia che si rafforzò soprattutto negli anni del suo soggiorno a Nola, dove si era trasferito a seguito del
vescovo Trojano Caracciolo del Sole che promosse Della Nolana Ecclesia Storia, tre tomi pubblicati a Napoli dal 1747 al 1757.
Grazie alla sua frequentazione con il Mastrilli, il Remondini entrò in contatto con il fiorentino Gori, al quale si rivolgeva abitualmente per avere pareri sui marmi antichi e, più tardi, sul
Cippo avellano, reperto marmoreo ritrovato da tempo ma che,
fino ad allora, non aveva attirato l’attenzione di altri studiosi.
Il Remondini fu dunque un vero conoscitore d’antiquaria; nonostante ciò viene definito come un dilettante “che fra li suoi
più gravi studj frammischia volentieri per suo divertimento anche quelli del disegno, della pittura, dell’architettura”.
Lo studio del Napolitano, oltre a fare chiarezza su due conoscitori dimenticati, porta dunque nuovo materiale per la conoscenza del delicato passaggio dall’antiquaria all’archeologia.
Maria Maugeri
La collezione degli strumenti di fisiologia
a cura di Gigliola Terenna e Francesca Vannozzi, Nuova
Immagine, Siena, 2006, 124 pagine, 9 euro
Nono volume della serie promossa dall’Università di Siena per illustrare il suo ingente patrimonio scientifico. Il volume, dedicato alla collezione degli strumenti di fisiologia,
è il risultato di un lavoro non facile per la complessità della
collezione che appartiene a una disciplina essenzialmente sperimentale oltre che didattica, che si avvale di conoscenze che
spaziano dalla fisica alla matematica. Un interesse particolare della collezione risiede nel fatto che, per la caratteristica
sperimentale di tale disciplina, molti degli strumenti furono
realizzati direttamente all’interno del Gabinetto di Fisiologia
dell’ateneo, secondo le specifiche esigenze di sperimentazione
e di ricerca scientifica dei docenti.
Ricordi di un collezionista
di Giuseppe Panza, Jaca Book, Milano, 2006, 352 pagine,
38 euro
Collezionista d’arte contemporanea sin dalla fine degli anni Quaranta, Giuseppe Panza ha giocato un ruolo fondamentale
nella cultura artistica del suo tempo, introducendo in Europa, fra i primi, fenomeni come la Pop Art, il Minimalismo,
l’arte ambientale e l’arte concettuale.
La sua attività collezionistica è poi proseguita, con raro
rigore, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, ma è stata anche affiancata da una costante ricerca dei contesti più appropriati
in cui esibire le opere d’arte: parti coerenti dalla sua collezione sono così state esposte ed acquisite nelle raccolte di
grandi musei d’arte contemporanea, come il MOCA di Los
Angeles e il Guggenheim di Bilbao, ma hanno anche trovato collocazione in architetture storiche, come palazzi barocchi e dimore settecentesche, creando un felice e innovativo
dialogo fra contesto ambientale ed opere d’arte.
L’autobiografia attraversa decenni densi di avvenimenti
storici e profonde trasformazioni nella cultura artistica su entrambe le sponde dell’oceano. Dagli anni della formazione
LIBRI
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LIBRI
umana e intellettuale prima della seconda guerra mondiale
ai primi incontri con la cultura americana e con i nuovi protagonisti dell’Action Painting e della Pop Art, dal coinvolgimento con i movimenti d’avanguardia degli anni Sessanta e
Settanta alle più recenti frequentazioni di nuovi protagonisti della scena contemporanea, il racconto di Giuseppe Panza svela, lungo la vita della sua collezione e degli incontri
che l’hanno animata, un percorso di appassionata ricerca e
insieme di lucida analisi e scelte decise attraverso gli snodi
fondamentali dell’arte contemporanea.
dalla quarta di copertina
La visione del Museo
di Riccardo Rosati, Starrylink Editrice, Brescia 2005, 59
pagine, 8 euro
Questo saggio di Rosati, anglista e critico cinematografico,
crea un percorso nel luogo deposto alla conservazione della
memoria: il Museo. È un viaggio ricco di significati ed emozioni,
poiché il museo conserva sogni e paure, oggetti amati e ricordi,
che rivivono attraverso gli occhi del visitatore. Leggendo il saggio si procede alla visita di un Museo ideale, formato da tutti
i musei di Roma che l’autore conosce, specialmente quelli
“dietro casa”, che talvolta sanno schiudere tesori inaspettati ed
esaltanti. Il libro contiene anche una interessante serie di proposte per valorizzare il tesoro museale italiano.
Verso i Nuovi Uffizi. La galleria e la cultura del museo
dal dopoguerra a oggi
di Federica Chezzi, Edifir, Firenze 2006, 167 pagine, 18 euro
In un saggio pubblicato nel 1997 sulla rivista Kermes mi
sono occupata dell’allestimento delle Sale dei Primitivi agli
Uffizi curato nel 1956 da Carlo Scarpa, Giovanni Michelucci
e Ignazio Gardella – gli architetti più sensibili in quegli anni ai problemi dei musei –, allestimento originato dai danni
provocati dalla mine tedesche durante l’ultima guerra e fortemente voluto dall’allora direttore Roberto Salvini.
Lo stesso argomento è ripreso da Federica Chezzi nel suo
libro che illustra le vicende museografiche e museologiche della Galleria degli Uffizi dagli anni successivi alla fine della guerra fino al progetto che disegna il museo del futuro. Ad accompagnare
l’autrice in questo percorso sono stati due storici dell’arte: l’ex
direttore del museo, Luciano Berti, e l’attuale, Antonio Natali.
Il libro pone anche l’accento sull’operato dei direttori i quali, in collaborazione con gli architetti della Galleria Guido Morozzi, Nello Bemporad e Antonio Godoli, si sono adoperati per
rinnovare gli allestimenti e che hanno gettato le premesse per
la stesura del progetto “I Nuovi Uffizi”; pagine interessanti
queste, attraverso le quali si rivivono anche i momenti più difficili delle varie direzioni, come quelli affrontati dalla Petrioli
Tofani per far fronte agli ingenti danni provocati dall’attentato
di Via dei Georgofili nel 1993 ad alcuni ambienti della Galle-
36
ria e del Corridoio Vasariano. Direttori che, invece di dedicarsi soltanto agli aspetti storico-artistici, spesso devono misurarsi con le molteplici problematiche di quotidiana burocrazia e
di distratta politica dei beni culturali; coacervo di problemi pratici in grado di mettere a serio rischio tutto il sistema museale
del Paese: dalla cronica mancanza di risorse economiche, che
si traduce in perenne carenza di organico e quindi in una sorveglianza non sempre adeguata in tutte le sale, alla crescita esponenziale del numero di visitatori, che, solo nel primo semestre
del 2006, agli Uffizi è cresciuto del 30,5% rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente.
Una parte rilevante del libro della Chiezzi è dedicata al progetto “I Nuovi Uffizi”, avviato a seguito del trasferimento
dell’Archivio di Stato in altra sede. Nel 1995 l’allora ministro
Antonio Paolucci per uno studio di fattibilità istituì un’apposita Commissione di esperti che, dopo la conclusione del suo
lavoro nel dicembre del 1998, ha di fatto varato un grande cantiere che dovrebbe estendere l’area dagli attuali 7.000 a 30.000
mq, permettendo così l’esposizione di circa 2000 opere.
Il progetto, che avrebbe dovuto esser completato nel 2004,
com’è noto non è ancora concluso a causa di varie vicissitudini, fra cui la cronica carenza di risorse economiche e per
l’opposizione alla pensilina in acciaio e pietra serena della
nuova uscita dell’architetto Arata Isozaki, vincitore di un
concorso internazionale bandito dal Ministero dei Beni Culturali e dal Comune di Firenze. Questa soluzione, che secondo
gli amministratori locali consentirebbe la riqualificazione di
Piazza Castellani, ha innescato una serie di polemiche che,
in sintesi, si appuntano sul fatto che la pensilina monumentale potrebbe alterare la prospettiva d’insieme di uno spazio
urbano fortemente storicizzato.
Dalle pagine del libro della Chezzi non sapremo mai se
sarà costruita la pensilina – già bloccata agli inizi del 2005
dall’allora ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani ed
esclusa dai lavori appena riavviati – ma possiamo seguire,
invece, agevolmente i numerosi interventi di allestimento già
realizzati (come il ripristino delle Reali Poste e la ristrutturazione delle sale destinate alla Collezione Contini-Bonaccossi) e conoscere la nuova proposta per la Sala del Botticelli.
Nonostante questi interventi resta ancora molto da fare
per il completamento de “I Nuovi Uffizi” e solo da poco tempo è ripartito il nuovo cantiere, appaltato per circa 30 milioni di euro, con lavori che riguarderanno dapprima il braccio di ponente della Galleria e quindi la zona di Piazza del
Grano, che dovrebbe chiudersi nel 2010. Una notizia confortante questa che si assomma a quella che dal riordino generale sono stati esclusi i Corridoi, la Tribuna e le sale della Niobe e dell’Ermafrodito, e che saranno mantenute le Sale dei Primitivi, scegliendo così di storicizzare una esemplare realizzazione della museografia degli anni Cinquanta.
Maria Maugeri
LIBRI
LIBRI
Musei e beni culturali
Il titolo dà il tono generale di
questo singolarissimo libro: ricordi di un naturalista in cui la
storia personale si intreccia con
pungente nostalgia e umorismo
letterario alle vicende culturali
di una grande città.
Giovanni Pinna è stato direttore del Museo di Storia Naturale
di Milano dal 1981 al 1996 quando si dimise (inaspettatamente per
chi non lo conosceva), insofferente alla selva di ostacoli burocratico-amministrativi che si facevano sempre più assillanti in quegli anni. Si dimise da un lavoro che
lo appassionava, un lavoro che gli
aveva permesso di unire la tensione
della ricerca, al gusto della divulgazione e, infine, all’impegno di
guidare una grande istituzione italiana. Si dimise ponendo termine
a una ricca fase della sua vita professionale, pronto ad avviarne
un’altra con audacia e curiosità.
Questo libro va letto dunque
come un’avvincente umana avventura. Giovanni Pinna può trattenere ammirato su una sedia
chiunque parlando di tetrapodi, di
pedagogia museale, di traversate
nel deserto, di conversazioni con
grandi scienziati del Novecento o
di ricostruzioni di dinosauri.
Collana di Museologia
edita dall’Editoriale Jaca Book,
diretta da Giovanni Pinna
e pubblicata in collaborazione
con l’Associazione Italiana
di Studi Museologici
Animali impagliati
e altre memorie
di Giovanni Pinna,
Jaca Book, Milano, 2006,
239 pagine, 21 euro
LIBRI
Per chiunque intenda poi
avvicinarsi alla museologia, il
testo apparirà illuminante, capace
di accompagnare una riflessione pratica o teorica nel modo più
semplice ed efficace, quello del
racconto di un affabile e spiritoso esperto.
Questo terzo volume della
collana “Musei e beni culturali”
è infatti il resoconto di un’esperienza diretta di lavoro nel campo della museologia, che, seppure molto personale, illustra
assai bene quali sono i meccanismi che operano all’interno di
un museo complesso, le pratiche
di gestione e le interazioni fra le
diverse componenti tecniche e
culturali. Da questo punto di vista il libro è un trattato di pratica museologica che fornisce
indicazioni su come comprendere
e gestire un museo e su come
intervenire in tutti i campi di attività di questa delicata e fragile istituzione culturale: dalla gestione finanziaria all’organizzazione del personale, dalla ricerca scientifica alla conservazione
delle collezioni, dalla realizzazione
delle esposizioni permanenti
all’organizzazione delle attività
culturali.
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MESSAGGIO
PROMOZIONALE
Il Primo Master Itinerante
in Museografia
Pier Federico Caliari
Sulla base di una sempre più esigente e consapevole richiesta
di progettualità sostenibile all’interno dei processi di gestione
produttiva delle aree archeologiche, e a sostegno delle politiche di offerta culturale da parte degli enti preposti alla loro tutela, il Master Itinerante in “Museografia, Architettura e Archeologia, Progettazione Strategica e Gestione Innovativa delle Aree Archeologiche” è finalizzato alla creazione di competenze specifiche e interdisciplinari allo stesso tempo, tali da costruire le migliori condizioni per lo sviluppo di un rapporto operativo, analitico, progettuale e gestionale tra architetti e archeologi.
Organizzato dall’Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia,
dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, dal Comune di
Tivoli, in collaborazione con nove
università italiane e straniere, e con
il sostegno di Bernini Museum Workshop, il Master Itinerante ha la prerogativa di essere un’entità formativa,
una vera e propria scuola che si sposta sui territori dell’archeologia e si concretizza attraverso una serie di 10
workshop in situ articolati in attività
di progetto e di comunicazione frontale. I workshop, organizzati nei grandi luoghi dell’archeologia, da Roma
a Selinunte ad Alessandria d’Egitto, possono avere una durata di 5 o di 10
giorni consecutivi intervallati da periodi di studio individuale.
Nella tabella sono riassunte schematicamente le location e il calendario.
L’accesso al Master Itinerante è indicato per persone in possesso di Laurea Triennale e Magistrale
in Architettura, Ingegneria, Disegno Industriale, Lettere e Filosofia con indirizzo in Conservazione dei Beni Culturali, Storia
dell’Arte e Archeologia o diplomi equivalenti, e a studenti laureandi delle facoltà suddette. Possono essere presi in considerazione
anche titoli o lauree di diverso tipo e/o indirizzo purché venga mostrato un particolare interesse culturale-professionale in
merito alle materie trattate.
L’accesso è altresì possibile anche ai funzionari e dirigenti degli Enti Pubblici preposti alla conservazione e tute-
38
la dei Beni Culturali Archeologici (musei, aree e parchi archeologici ecc.) e a privati (Fondazioni, Associazioni Culturali, Onlus ecc.).
Obbiettivo del Master Itinerante è la formazione di una
figura professionale, riassumibile nella specificità disciplinare del museografo, proveniente, a livello di formazione tecnico-umanistica) dalle aree dell’architettura e dell’archeologia (architetto-archeologo, archeologo-architetto) Una figura, quindi, operativa nel settore dei Beni Culturali Archeologici, sia come consulente esterno, sia come figura strutturata con ruolo dirigenziale, all’interno
delle Istituzioni preposte alla tutela, con competenze progettuali, gestionali e di regia sviluppate sulla base dei propri percorsi culturali e
formativi di provenienza, e articolate sulla conoscenza delle nuove tecnologie applicate al settore.
In particolare, il Master è finalizzato a formare: professionisti museografi, personale di livello dirigenziale per Musei, Fondazioni, e altre Istituzioni operative nel settore
dei Beni Culturali Archeologici, figure imprenditoriali operative nella
gestione dei processi di valorizzazione dei Beni Culturali Archeologici, registi multimediali per la produzione e diffusione di formats per la
comunicazione integrata dei Beni
Culturali Archeologici.
Per ulteriori informazioni è possibile visionare il bando completo
accedendo al sito web www.premiopiranesi.net, oppure contattando il Coordinatore del Master, al numero 335.5475910, oppure al numero 02.87395433
Pier Federico Caliari è architetto, docente di Museografia presso
la I Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Dal 2000 è
responsabile della Bernini Museums Workshop.
Bernini Spa ha sede in via Milano 8, 20020 Ceriano Laghetto
(Milano). Tel 02.96469293. Fax 02.96469646. E-mail [email protected].
EVENTI
Marsala: la città nel museo
e della condivisione dedicato alla sua identità storica attraverso
la documentazione dello sviluppo urbanistico e rurale.
La memoria
Un luogo capace, cioè, di offrire una rappresentazione delFra la fine del Seicento e il Settecento, Marsala mutò rala complessa identità storica e sociale della città attraverso un
dicalmente la sua fisionomia da città costiera a città di terra
percorso espositivo che contempli contesto cronologico e paalla quale furono aggiunti bastioni poderosi e torri d’avvistamento
trimonio culturale da tutelare e da vivere nel tempo.
prossime al mare di cui permane qualche esempio spesso
in stato di incuria. Contemporaneamente fu elevato un coLa realtà museale odierna di Marsala
spicuo numero di palazzi gentilizi e si ebbe una fioritura di
Queste a oggi le strutture museali locali:
edifici religiosi fra cui emerge il Collegio dei Gesuiti, progettato
da Giuseppe Valeriani, consiliarius aedilicius soprintenden• Museo degli Arazzi;
te alle opere edificatorie promosse dai seguaci di Sant’Igna• Museo Civico con annessa sezione garibaldina;
zio di Loyola, inviato da Roma, che pure avviò la costruzio• Museo archeologico Baglio Anselmi;
ne della chiesa annessa, testimonianza rappresentativa dell’edi• Pinacoteca civica presso l’Ente Mostra di Pittura Contemlizia della Controriforma in Sicilia.
poranea “Città di Marsala”;
L’Ottocento è segnato a Marsala dal passaggio dei Mille di
• Museo della civiltà contadina Baglio Biesina;
Garibaldi e dall’espansione economica promossa dall’im• Enomuseum.
prenditoria inglese grazie alla viticoltura impiantata in grande
Il Museo degli Arazzi compete alla Diocesi di Mazara del
scala che comportò sostanziali modifiche nell’ambito urbano
Vallo ed è, per volontà testamentaria, ospitato all’interno di
e rurale: nacquero infatti i prilocali appartenenti all’Ammimi stabilimenti vinicoli lungo
nistrazione della Curia.
l’area costiera e, nell’entroterra,
Inaugurato nel dicembre
i bagli, nuclei abitativi e manidel 1984, il museo espone otto
fatturieri, destinati alla raccolta
arazzi fiamminghi di ottima fatdelle uve, caratterizzanti ancotura del XVI secolo che Monsira oggi il territorio suburbano.
gnor Antonio Lombardo nel
Nel Novecento Marsala
1589 donò alla Chiesa Madre delha conosciuto un’ulteriore
la città.
espansione urbanistica che
Il Museo Civico e la relaticomprende la realizzazione di
va sezione garibaldina sono
un teatro di grandi dimensioentrambi di competenza del
ni nell’area archeologica, l’ImComune. Essi sono ospitati
pero, e il padiglione dell’aeall’interno del Complesso Moronautica militare progettato
numentale di San Pietro. Al piada Pier Luigi Nervi realizzato
no terra del convento vi sono
alle porte dello Stagnone, che
quattro sale che raccolgono
Lezione di archeologia al Museo archeologico regionale
costituisce un unicum, per
materiali di diversa provenienBaglio Anselmi di Marsala. (Foto Francesca Pellegrino)
qualità progettuale dei mateza, archeologica e folclorica,
riali e ricerca formale, nel panorama dell’edilizia della priassemblati, oggi, senza un rigoroso indirizzo museologico.
ma metà del XX secolo in Sicilia.
La sezione garibaldina presenta cimeli storici, divise e
Nel 1943 un bombardamento ha sventrato il centro storidocumenti raccolti in memoria degli eventi risorgimentali
co della città e ha comportato la successiva riarticolazione del
accaduti in città.
suo asse socio-urbano, la perdita di materiali architettonici anIl Museo Archeologico Baglio Anselmi, è noto, prioritatichi significativi e qualche intervento di edilizia di basso imriamente, per il relitto della nave punica in esso custodito, ripatto con il contesto.
trovato nel 1971 nel tratto di mare al largo dell’Isola Lunga,
Il terremoto del Belice del 1968 ha implicato trasformazioni
all’imboccatura nord della Laguna dello Stagnone di Marsala.
ulteriori al contesto urbanistico della città tutt’oggi in mutazione.
Baglio Anselmi è museo regionale e la sua manutenzione
e funzionamento dipendono dalla Soprintendenza ai Beni culEsigenze della memoria
turali di Trapani.
Marsala, alla luce del suo complesso vissuto e delle coIl Complesso del Carmine – convento e chiesa – sede di
stanti mutazioni delle coordinate cittadine, monumentali e sorappresentanza del Comune, ospita, quale sede provvisoria,
ciali, necessita oggi di uno spazio della memoria, della riflessione
la Pinacoteca Civica “Francesco Pizzo” di Marsala. La pinacoteca,
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lano, 2005). Tutto ciò dovrebbe avvenire attraverso la riinaugurata nel 1988, conferita in uso all’Ente Mostra di Pitflessione collettiva su alcuni aspetti.
tura Contemporanea “Città di Marsala”, conta oggi oltre cir1. Marsala non è documentata oggi quale organismo civico
ca settecentocinquanta opere di artisti di fama nazionale e innel tempo: sussiste una contestualizzazione archeologica
ternazionale di diversa estrazione qualitativa.
museografica all’interno del Baglio Anselmi ma null’altro
Ultimi spazi espositivi presenti nel territorio di Marsala soche consenta una lettura scientifica del territorio sotto il
no il Baglio Biesina e l’Enomuseum, a conduzione privata. L’Enoprofilo topografico e sociale.
museum ha allestito all’interno di un’azienda agricola una ri2. Il patrimonio architettonico di Marsala è sottoposto alla
costruzione di ambienti contadini; Baglio Biesina, espone, intirannia dell’usura ed è pochissimo documentato; la città
vece, una raccolta di materiale utilizzato nel ciclo produttivo del
e il suo territorio sono costantemente in mutazione sotto
vino, dagli attrezzi agricoli agli arnesi per costruire le botti.
il profilo urbanistico, la loro identità è pertanto messa in
L’offerta espositiva, sembra, dunque, dalla documentazione
discussione e necessita di punti di riferimento formali e
presa in esame, piuttosto varia e tematicamente articolata, sepcontenutistici dialettici.
pure poco indirizzata a un rapporto dialettico con l’utenza.
3. Il contesto naturalistico e la morfologia territoriale non soQuesti musei contano un numero medio-basso di freno documentati in chiave didascalica e divulgativa in alquentatori a eccezione del Baglio Anselmi, meta privilegiata
cun contesto pubblico in città.
di scolaresche e gruppi turistici, po4. Nessun museo della città prevede
chissimo frequentata, però, dai residenti.
allo stato attuale momenti d’inteManca, sostanzialmente, in città angrazione e scambio fra cittadini e
cora oggi un luogo-testimonianza
istituzioni, al di fuori della pinacomplessivo del grosso patrimonio
coteca, attraverso l’attività proculturale della comunità, così come
mossa dall’Ente Mostra.
emerso, nel profilo storico e sociale
5. È proficuo riflettere sulla necesdi Marsala, adeguatamente rappresità di salvaguardare anche l’eresentato destinato al rafforzamento
dità culturale rurale, cioè la didell’identità locale.
versità del patrimonio identificaLa risposta a questa assenza potivo locale deperibile, e protrebbe essere costituita dalla progetmuovere l’articolazione espotazione di un “museo della città”: un
nenziale dell’area territoriale, nelnetwork culturale, idoneo a ottimizla sua identità di regione perifezare le risorse professionali ed ecorica d’Europa.
nomiche già capitalizzate e avviare un
Francesca Pellegrino
laboratorio di ricerca, conoscenza e
tutela dei contenuti sociali, storici,
monumentali, materiali e immateriaAppunti di viaggio: il museo di
li del distretto da convertire in dialoSalina
go con l’utenza.
Il curatore-custode del museo di Salina.
Con vera sorpresa, durante una giInterpretare un’identità territoriata all’isola di Salina nelle Eolie, ri(Foto Carlo Teruzzi)
le di una comunità comporta inevitacercando una antica salina, oggi non
bilmente leggerne la sua dimensione in oscillazione fra propiù esistente, ho scoperto il museo civico di Santa Marina.
pria fenomenologia storica, saperi collettivi e particolari, moIn una tipica casa eoliana, originariamente sede del frantoio
numentalità e cultura materiale, aspirazione al centralismo e
pubblico, è stato ricostruito un museo a metà fra l’antropoloall’autonomismo al contempo, e impone una rilettura dinamica,
gico e l’ecomuseo, che presenta le attività e la storia di Salina.
costante e flessibile del territorio e non una cristallizzazione
La visita è stata possibile, anche se fuori orario, per la grandegli spazi della città, una sua musealizzazione.
de disponibilità di un volontario locale che per passione, culSu un tessuto monumentale come il nostro, direbbe Saltura e preparazione non aveva nulla da invidiare a un cicevatore Settis, è doveroso costruire un sistema di relazioni,
rone professionista.
a cominciare dalla ricerca sul campo e dalla necessaria, caLa conservazione della struttura, ordinata e ben allestita
pillare informazione ai cittadini, che faccia risorgere nelpur nella massima semplicità, per quanto narratoci è resa posle coscienze la consapevolezza della nostra storia e valosibile grazie al mecenatismo dei sovrani Alberto e Paola del
ri simbolici a essa collegati (si veda: Settis S., Battaglie senBelgio, assidui anche come vigile presenza.
za eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Electa, MiCarlo Teruzzi
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