terrorismo online - Domenico Tosini, Ph.D.
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online Internet e violenza politica nel XXI secolo di Domenico Tosini Internet al servizio delle organizzazioni armate L’invenzione e la diffusione di Internet stanno trasformando profondamente le relazioni sociali, le modalità comunicative e le organizzazioni della nostra società. La struttura dei processi comunicativi che si realizzano in Internet assume, senza precedenti, una forma allo stesso tempo non gerarchica e difficilmente censurabile, anonima e interattiva, sincrona e svincolata dallo spazio. Se, da una parte, ciò libera potenzialità comunicative e strumentali inaudite – ad esempio, per l’economia, la scienza e la medicina (si pensi alla completa informatizzazione e all’accesso via Internet dei dati relativi ai donatori di midollo osseo su scala mondiale) – dall’altra, fornisce ai movimenti sociali (Diani 2000) e in particolare alle organizzazioni terroristiche, un insieme di risorse prontamente e abilmente sfruttate per la loro lotta (Atwan 2008; Hoffman 2006, cap. 7; Rutigliano 2005; Yehoshua 2007). In questo articolo, discuteremo alcuni tra gli impieghi più ricorrenti di Internet da parte delle organizzazioni armate. Distingueremo tra un impiego di tipo comunicativo e uno di tipo strumentale (Weimann 2006; 2008). Per cogliere il significato del primo, dovremo mettere anzitutto a fuoco le specificità dell’uso terroristico della violenza. Un attentato è, per definizione, un’azione intrapresa per generare, tramite l’uccisione o il ferimento di civili, uno stato di terrore e uno sconvolgimento diretti a condizionare le scelte politiche della comunità alla quale appartengono le vittime immediate della violenza. Ciò implica che per il terrorismo la pubblicità della violenza costituisce una risorsa cruciale. Una risorsa che Internet offre in modo innovativo e quasi senza limiti. Nello stesso tempo, la Equilibri / a. XII, n. 2, agosto 2008 193 La società immediata Terrorismo rappresentazione della violenza e la diffusione della propria ideologia attraverso la rete servono alle organizzazioni terroristiche per influenzare almeno altre due audience: da un lato, la comunità della quale pretendono di rappresentare gli interessi e dalla quale dipende il sostegno alla lotta armata; dall’altro, i potenziali militanti da reclutare nelle proprie fila. In aggiunta all’uso comunicativo di Internet, ne esiste un altro di tipo strumentale. Anche in questo caso, la rete è in grado di ampliare in modo inaudito l’efficienza organizzativa dei gruppi terroristici mettendo a loro disposizione nuove modalità di trasmissione delle informazioni sul nemico, di coordinamento tra i propri membri, di reperimento di finanziamenti e di reclutamento dei militanti. Da questi due tipi di impiego ne va infine distinto un terzo, noto come cyber-terrorismo, col quale si deve intendere non la semplice violazione di un qualche sistema informatico, ma propriamente la circostanza in cui Internet e i computer possono essere usati direttamente come un’arma per colpire il nemico – ad esempio, manipolando un sistema di controllo dei trasporti allo scopo di causare incidenti. Al momento non esiste tra gli studiosi un consenso sulla rilevanza e la dimensione del cyber-terrorismo (per una discussione, vedi Verton 2003). Secondo alcuni esperti, si tratta, a ben vedere, di un uso tanto esagerato dai media e dai governi, quanto praticato con scarso successo dalle organizzazioni terroristiche, almeno fino a oggi (Weimann 2006). A causa della mancanza, da parte di chi scrive, di adeguate conoscenze tecniche e di dati precisi sul fenomeno, il cyber-terrorismo non verrà qui analizzato. Elementi militari e comunicativi della violenza terroristica 194 Secondo la nota formulazione di Brian Jenkins, «Il terrorismo è teatro» (Jenkins 1976, p. 4). C’è indubbiamente molta verità in questa affermazione. Decenni di studi hanno abbondantemente documentato che il terrorismo è una forma di lotta politica molto specifica, che certi attori intraprendono principalmente per ragioni diverse dall’efficienza «militare» della violenza da loro impiegata (Schmid e Jongman 1988). I gruppi terroristici considerano senza dubbio anche questo aspetto della violenza. Negli studi sugli attacchi suicidi, per esempio, il ricorso a questa tattica è stato spiegato rilevando il fatto che, rispetto ad altre azioni – come, ad esempio, un normale confronto armato o il semplice posizionamento di esplosivi – l’attentato suicida offre almeno cinque vantaggi «tecnici» quando si tratta di colpire direttamente un nemico superiore dal punto di vista militare: 1) la possibilità di accedere con facilità (grazie al camuffamento dell’attentatore) a luoghi sorvegliati e, per questo, difficili da colpire tramite un attacco «convenzionale»; 2) la capacità di modificare la direzione dell’attentatore a seconda della posizione del bersaglio (in questo senso, l’attentatore suicida è la vera «arma intelligente»); 3) l’impossibilità, per il nemico, di ottenere informazioni dagli attentatori, con l’eccezione dei casi in cui falliscono e sono catturati; 4) l’abbattimento dei costi di addestramento, se si pensa che, in alcuni casi, bastano poche ore per fornire le istruzioni necessarie all’esecuzione della missione; 5) la possibilità d’infliggere un danno relativamente grande al nemico usando il minor numero possibile di militanti, in confronto al rischio di un alto numero di perdite associato alle «tradizionali» tattiche della guerriglia (Hoffman 2003; Pape 2005; Tosini 2007a; 2007b; 2008). Tuttavia, il terrorismo, proprio come indica la parola stessa, è una strategia intrapresa anche e soprattutto contando sull’impatto psicologico, cioè sul terrore, che ogni singolo attentato può generare nella popolazione tra la quale i terroristi selezionano le vittime immediate della violenza. Nell’Iraq che segue la caduta di Saddam Hussein, per esempio, una parte della guerriglia sunnita, in particolare l’organizzazione di Al-Qaeda in Iraq e il gruppo di Ansar Al-Sunnah, ha lanciato una serie di attacchi suicidi – secondo i dati a mia disposizione, 759 episodi per un totale di 8.080 morti da marzo 2003 a settembre 2007 (Tosini 2008; cfr. Tosini 2006; 2007a; 2007b) – principalmente contro i civili sciiti e la nuova polizia irachena (composta soprattutto da sciiti): Hafez (2007) ne ha stimato una percentuale, rispettivamente del 44% e del 23%. Gli sciiti, come i curdi, sono stati bersagliati per varie ragioni: per l’accrescimento del loro potere a scapito dei sunniti, umiliati ed esclusi dalle posizioni chiave del nuovo regime in seguito ad alcuni provvedimenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti (Hashim 2006; Cordesman 2008); per il conseguente 195 sostegno offerto dagli sciiti e dai curdi alla presenza americana (Tosini 2007a); ma anche per motivi religiosi, dipendenti dall’antica divisione tra l’Islam sciita e sunnita (Nasr 2006). In questo contesto, le azioni contro gli sciiti sono state usate come uno strumento per: creare uno scenario di terrore e di insicurezza in grado di delegittimare l’autorità americana e il nuovo governo iracheno e di determinarne il fallimento; esercitare un effetto di deterrenza sugli sciiti affinché rinuncino a collaborare con le forze d’occupazione; indurre gli sciiti a reagire con rappresaglie contro la comunità sunnita, nel tentativo di scatenare una guerra civile nella quale i sunniti possano sostenere le organizzazioni armate sunnite per difendersi dagli sciiti (Cordesman 2008; Hafez 2007; Tosini 2008; cfr. Kalyvas 2004; 2006). Se questi sono gli obiettivi dei terroristi, il quesito fondamentale (anche per la nostra discussione degli aspetti psicologici del terrorismo) è chiedersi quale sia la razionalità che ha indotto i gruppi armati iracheni a privilegiare gli attacchi suicidi contro i civili sciiti e le nuove forze dell’ordine. Perché proprio questa e non altre non solo tattiche? La spiegazione non va cercata nei vantaggi «tecnici» cui si è fatto precedentemente riferimento. Quando si tratta di colpire civili inermi l’efficienza militare del terrorismo suicida non è più la ragione principale del suo impiego. A differenza dei bersagli sorvegliati e armati (hard targets), per i quali sono certamente necessari gli accorgimenti «tecnici» offerti dall’attacco suicida, un mercato, un assembramento di persone in una piazza o un funerale sono tutti bersagli facili (soft targets), per i quali sono più che sufficienti altre modalità di attacco. La spiegazione del perché si ricorra ugualmente alle missioni suicide va pertanto cercata in un calcolo psicologico compiuto dalle organizzazioni terroristiche. È a questo che dedichiamo il prossimo paragrafo. Impieghi comunicativi di Internet: guerra psicologica e propaganda online 196 La violenza terroristica è principalmente guidata da una logica comunicativa. La scelta di certe tattiche piuttosto che altre è basata sull’opportunità d’innescare specifiche reazioni emotive. Dovrebbe allora essere evidente almeno una delle ragioni per le quali i gruppi armati sono attratti dall’impiego dei mezzi di comunicazione come Internet: la pubblicità della loro violenza come cassa di risonanza dello stato di terrore al quale mirano le loro azioni. In questo senso, l’uso congiunto di tattiche terroristiche particolarmente radicali (come gli attacchi suicidi), da un lato, e di un sistema di comunicazione in grado di diffondere le informazioni rapidamente e in modo esteso, dall’altro, costituiscono una combinazione ottimale per qualsiasi gruppo terroristico. Non è un caso che in Iraq si sia assistito alla più intensa campagna militare di attacchi suicidi e, nello stesso tempo, a una parallela campagna mediatica attraverso Internet riguardante tanto l’esecuzione degli attentati quanto certi elementi simbolici diretti a condizionare la percezione di varie audience. Consideriamo, anzitutto, quella costituita dai nemici dei gruppi terroristici. Il nostro interrogativo riguarda le ragioni che possono avere spinto certi gruppi come Al-Qaeda in Iraq a usare con un’inaudita intensità gli attacchi suicidi contro i civili. In primo luogo, il fatto di mandare in missione individui in grado di camuffarsi tra la folla e disposti a sacrificare la propria vita rappresenta un mezzo che i terroristi usano per veicolare specifici messaggi rivolti alle forze di occupazione e alla comunità delle vittime (in particolare, gli sciiti), e precisamente per segnalare l’imprevedibilità degli attacchi, la determinazione dei propri militanti e la propensione a innalzare a livelli inimmaginabili la violenza delle loro azioni (Hafez 2007; Hoffman e McCormick 2004). In altri termini, l’impiego simultaneo di repertori altamente violenti e di una strategia comunicativa diretta a diffondere quanto più possibile l’immagine degli attentatori e gli effetti della loro violenza si spiega con l’obiettivo di generare, nei propri nemici, la percezione di un movimento politico particolarmente temibile e, proprio per questo, di provocarne una reazione violenta e repressiva contro la comunità della quale i terroristi si considerano i rappresentanti. Esattamente come è avvenuto in Iraq, allorché gli attacchi contro gli sciiti hanno spinto le loro milizie a compiere rappresaglie contro i sunniti – una condizione appositamente ricercata da AlQaeda in Iraq per fomentare ulteriormente l’odio contro gli sciiti e per reclutare nuovi militanti tra la comunità sunnita (Cordesman 2008; Hashim 2006). La stessa logica comunicativa può essere colta, seppur in misura 197 variabile da caso a caso, anche in altri episodi come, per esempio, gli attacchi di New York e Washington DC dell’11 settembre 2001, di Madrid dell’11 marzo 2004 e di Londra del 7 luglio 2005. In generale, quindi, le migliaia di siti web oggi presenti tra i movimenti islamisti offrono anzitutto uno strumento estremamente più potente dei tradizionali mezzi di comunicazione di massa per amplificare la rappresentazione della violenza e per trasmettere l’immagine di una minaccia nascosta e incontrollabile. A questo obiettivo, contribuiscono di regola le numerose dichiarazioni rilasciate dai leader dei gruppi armati e dagli attentatori, nelle quali vengono «spiegate» al nemico le «ragioni» degli attentati e in cui vengono costantemente reiterate le minacce di nuovi attacchi enfatizzando, nello stesso tempo, la determinazione e l’impegno dei militanti. Ne è un esempio il messaggio finale di Shehzad Tanweer – uno dei quattro attentatori di Londra 2005 – pensato come parte di un video trasmesso l’8 luglio 2006 dal sito Tajdeed.net.tc in relazione agli attentati dell’anno precedente. In un brano del messaggio, si legge: Ciò a cui avete assistito ora [gli attentati del 7 luglio 2005] è solo l’inizio di una serie di attacchi, i quali, se Dio vorrà, s’intensificheranno e continueranno finché non ritirerete le vostre truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq, finché non interromperete tutti i finanziamenti e il sostegno militare offerto agli Stati Uniti e a Israele e finché non libererete tutti i prigionieri musulmani da Belmarsh e dagli altri campi di concentramento. Se non seguirete queste richieste, sappiate che questa guerra non si fermerà e che noi siamo pronti a dare la nostra vita, ancora per centinaia di volte, per la causa dell’Islam. Voi non potrete mai vivere in pace finché i nostri bambini in Palestina, le nostre madri e le nostre sorelle in Kashmir e in nostri fratelli in Afghanistan e in Iraq non vivranno in pace (Al-Qaeda Film 2006). Questo video può considerarsi, per molti aspetti, tipico di una più ampia strategia comunicativa seguita da Al-Qaeda e da altri gruppi armati. Vi si trovano esemplificate alcune tra le più importanti tecniche adottate dai gruppi terroristici. Difatti, la dichiarazione appena citata è abilmente combinata con una serie di elementi 198 simbolici e propagandistici. Tra i quali: alcuni filmati tratti dai media occidentali, nei quali sono visibili gli effetti degli attacchi di Londra 2005, ma anche alcune immagini delle Twin Towers colpite dagli aerei dell’11 settembre; varie scene di un (presunto) addestramento seguito dagli attentatori di Londra 2005 in una base di Al-Qaeda; un discorso in arabo di Ayman Al-Zawahiri con sottotitoli in inglese, nel quale è enfatizzato l’alto valore religioso delle azioni compiute da Shehzad Tanweer e dagli altri ragazzi di Londra 2005, il loro coraggio e il loro status di martiri; infine, un messaggio in lingua inglese tenuto da un altro esponente di AlQaeda, Adam Gadahn (cittadino americano convertito all’Islam radicale), nel quale sono presentate in modo articolato le «ragioni» politiche e religiose delle azioni dei seguaci di Bin Laden. Già questo video rende evidente che l’audience della comunicazione jihadista non comprende solo le vittime e i nemici. A questi vanno aggiunti, da una parte, la più ampia comunità dei cui interessi i terroristi si ritengono difensori e, dall’altra, i militanti effettivi e potenziali (Cook e Allison 2007). Le immagini degli attentati di Londra 2005, allo stesso modo delle numerose azioni compiute dalla guerriglia irachena e afghana filmate e fatte circolare in Internet, servono a produrre nei propri simpatizzanti la convinzione che quelli di Al-Qaeda siano uomini dotati di grande coraggio, disposizione al sacrificio, identificazione con la causa politica e religiosa della propria comunità e di un’incrollabile volontà a battersi per i suoi interessi e i suoi bisogni. Il successo di questa propaganda è chiaramente importante per ogni organizzazione armata, nella misura in cui una crescente simpatia e un più solido sostegno sono il presupposto per una maggiore collaborazione in termini di finanziamenti, nascondigli, varie forme di assistenza e, ultimo ma non meno importante, di nuovi militanti (inclusi gli attentatori suicidi). Questo effetto sulla percezione dei simpatizzanti e dei potenziali militanti viene perseguito facendo leva normalmente su tre modalità comunicative: 1) la diffusione via Internet di un’ampia varietà di materiale utile a legittimare la lotta armata condotta dai terroristi – come, per esempio, la circolazione delle fonti consi- 199 derate sacre, dei riferimenti dottrinali più antichi e autorevoli e delle fatawa dei più importanti esponenti dei movimenti islamisti a sostegno della concezione armata del jihad; 2) la rappresentazione dei propri nemici come esseri particolarmente crudeli, quasi del tutto privi di tratti umani, e l’enfasi sull’assenza d’innocenza delle vittime degli attentati – tutto ciò allo scopo di generare un distacco morale (moral disengagement) nei confronti della sofferenza causata dalla violenza terroristica; 3) la produzione di un complesso di discorsi, simboli e rituali, regolarmente disseminati in Internet sotto forma di testi e di video, abilmente sfruttati per celebrare il suicidio come martirio, l’assassinio come eroismo e il massacro di civili come il più alto servizio offerto alla causa politica e religiosa della propria comunità, con l’effetto alquanto probabile di rinforzare le motivazioni di certi individui a diventare attentatori suicidi – e questo proprio in virtù del prestigio e dell’innalzamento di status promessi dalla comunicazione di questi messaggi. Impieghi strumentali di Internet: la metamorfosi organizzativa del terrorismo 200 Parallelamente a un impiego tipicamente comunicativo e propagandistico di Internet, se ne può distinguere un altro (per quanto inevitabilmente intrecciato col primo) di tipo strumentale. Ne sono esempi tre usi di carattere strettamente logistico: 1) la raccolta di finanziamenti; 2) l’uso di Internet per ottenere dati (completamente accessibili a chiunque) utili alla pianificazione degli attentati, come, per esempio, quelli relativi alla rete dei trasporti pubblici; 3) il passaggio di informazioni (mediante vari stratagemmi adottati per criptarne il contenuto) usate per il coordinamento delle operazioni di pianificazione ed esecuzione degli attentati; 4) la diffusione di veri e propri manuali per l’assemblaggio di esplosivi – come quello prodotto e messo in rete da militanti di Al-Qaeda, noto come AlBattar. A questi vanno aggiunti altri usi, specificamente connessi al processo di radicalizzazione e reclutamento, tra i quali: la trasmissione e diffusione di testi, video, discorsi ecc., usati da certi leader per la propaganda; varie forme d’interazione e scambio tra i simpatizzanti – ad esempio, tramite e-mail, forum, o chat room – grazie alle quali diviene possibile reperire o condividere il materiale usato per propria «formazione» ideologica (ma anche contribuire attivamente alla sua creazione o alla sua manipolazione); specifiche modalità di contatto diretto con potenziali militanti del tutto simili alle tecniche di marketing adottate dalle imprese – consistenti nel monitorare coloro che più frequentemente visitano le pagine web, i forum e le chat room dei gruppi jihadisti, e nel «catturare» certe informazioni sul loro conto, usate, in un secondo momento, per inviare loro apposito materiale utile a incentivare il loro reclutamento o a conseguire altre forme di collaborazione o sostegno (ad esempio, di tipo finanziario) (Weimann 2006, cap. 4). In relazione a questi impieghi strumentali di Internet, ci sono due conseguenze che meritano un esame approfondito, prestando particolare attenzione alla «miscela esplosiva» generata dalla combinazione degli usi relativi alla radicalizzazione e al reclutamento, da una parte, con quelli comunicativi e simbolici menzionati nel precedente paragrafo, dall’altra. La prima conseguenza riguarda il processo di riproduzione culturale di ciò che si può indicare con l’espressione cultura del martirio – vale a dire l’insieme delle credenze e dei simboli che legittimano e incoraggiano il reclutamento di attentatori nelle campagne suicide condotte dalle organizzazioni jihadiste. Come già accennato, sappiamo che molti di questi gruppi armati elaborano un’apposita rappresentazione testuale e iconografica diretta all’esaltazione dei propri militanti impegnati nelle missioni suicide, per questo raffigurati come eroi. Ne è un esempio (tra i numerosi reperibili in Internet) il portale Alqassam.ps delle Brigate Ezzedeen Al-Qassam (braccio armato di Hamas), nel quale è accessibile una sezione speciale dedicata ai «martiri» della «resistenza» palestinese (inclusi alcuni attentatori suicidi), come tali lodati e venerati per il proprio sacrificio e il proprio coraggio. Al-Qaeda in Iraq fornisce un altro esempio significativo. Numerose operazioni compiute da questa e altre organizzazioni appartenenti alla guerriglia sunnita sono state accompagnate – facendo tesoro dell’esperienza di precedenti gruppi come Hezbollah e le formazioni palestinesi – dalla preparazione di video nei quali gli attentatori, a volte situati in una scenografia costellata da simboli politici e religiosi (e talvolta canti), sono soliti esprimere con determinazione, fino a ostentare 201 la propria gioia, le «ragioni nobili» del loro gesto. Tra le più frequenti: la difesa delle popolazioni umiliate e perseguitate dalle forze di occupazione; la lotta per la religione islamica contro la crociata condotta dagli Stati Uniti e dai loro alleati; la chiamata al jihad e al martirio in nome di Dio. Si tratta di video normalmente rielaborati e montati combinandoli con musiche suggestive e con filmati riguardanti la fase di preparazione delle autobombe e la fase dell’esecuzione dell’attentato. Questa struttura è ben esemplificata da un video, intitolato Il convoglio dei martiri, diffuso in Internet da Al-Qaeda in Iraq verso la fine del 2006 (Kohlmann 2007). In alcuni casi, a questo materiale, sono associate delle schede biografiche – potremmo dire «agiografiche» – nelle quali i militanti morti nelle missioni suicide vengono onorati narrando episodi della loro vita particolarmente edificanti e sottolineando il grande contributo delle loro azioni alla causa politica e religiosa. Per esempio, in un brano della biografia di un attentatore noto come Abu Tariq Al-Tunisi (pubblicata nel marzo 2007 come parte di una serie di biografie dal titolo I martiri illustri di Al-Qaeda, compilate da una sorta di «ufficio stampa» di Al-Qaeda in Iraq, Al-Furqan) si legge: Egli era impaziente d’incontrare Dio, pregava continuamente per questo e affinché ciò si compisse al termine del venerdì. Per caso, gli americani occuparono una casa, parcheggiando in prossimità di questa quindici veicoli Humvee la mattina del venerdì. I fratelli iniziarono allora a preparare un veicolo per l’attacco, e Abu Tariq venne scelto per eseguire l’attacco. Si avvicinò al bersaglio prima del tramonto del venerdì. Egli corse verso Dio e guidò nella direzione dei suoi nemici, colpendo il suo bersaglio e uccidendo molti di loro, mentre altri fuggivano maledicendo i giorni passati in cui arrivarono in questo maledetto Paese, come dicono loro (Al-Furgan 2007). Quest’operazione propagandistica condotta da AlQaeda ha lo scopo d’incidere quanto più possibile sulla rappresentazione delle proprie azioni. La distribuzione on-line di questo materiale serve a suscitare, tra i simpatizzanti della guerriglia sunnita, la percezione degli attacchi suicidi e dei loro esecutori come atti virtuosi e come uomini caduti per un fine nobile e, soprattutto, 202 a creare in certi giovani recettivi a queste rappresentazioni l’aspirazione a prendere attivamente parte a simili operazioni con la convinzione di agire conformemente a un dovere morale e religioso (Hegghammer 2007; Tosini 2007a; 2007b; 2008). La seconda conseguenza da tenere presente ha a che vedere specificamente con la struttura organizzativa di Al-Qaeda. Accanto (e spesso come alternativa) ai tradizionali processi di reclutamento e radicalizzazione se ne sviluppano oggi altri più innovativi, dipendenti dalla malleabilità degli strumenti informatici. La costituzione di cellule terroristiche, come, per esempio, quella degli attentati di New York e Washington DC del 2001 e di Londra del 2005, ha normalmente alla base cruciali processi d’interazione diretta tra coloro che ne diventeranno i membri e tra questi e certi leader del movimento jihadista. Il processo di radicalizzazione degli attentatori comincia in molti casi con attività del tutto innocue, come, per esempio, la frequentazione di centri ricreativi o sportivi, dalla quale nascono i primi legami di amicizia (tra i futuri esponenti della cellula). Se a questo primo stadio segue, come è di fatto accaduto per certe formazioni, la partecipazione a ritrovi religiosi dove vengono tenuti discorsi da parte di predicatori estremisti – come, per esempio, la moschea di Finsbury Park di Londra – è possibile che la radicalizzazione superi un punto di non ritorno, che diventa tanto più probabile quanto più l’esposizione a questo indottrinamento è per così dire «catalizzata» dall’intensificarsi di un rapporto di reciproca fedeltà interno al gruppo e dall’isolamento rispetto alla società circostante (Sageman 2004; 2008; vedi anche Della Porta 1995). Oggi, tuttavia, i processi d’interazione mediati da Internet – ad esempio, i forum dei gruppi jihadisti e le chat room come Muntada Al-Ansar e Al-Ekhlaas – stanno probabilmente producendo una forma di reclutamento alternativa a quella innescata dai rapporti face-toface. La natura altamente interattiva dei nuovi canali comunicativi usati in Internet rischia di esercitare un influsso importante per l’instaurazione di quei legami di appartenenza e di coinvolgimento emotivo che sono il presupposto dei processi di radicalizzazione (Kohlmann 2008; Yehoshua 2007). 203 Nello stesso tempo, se, da una parte, l’antiterrorismo rende più difficile rispetto al passato raggiungere i campi gestiti dall’organizzazione centrale di Al-Qaeda (come avveniva negli anni ’80 e ’90 in Afghanistan), nei quali potersi addestrare e poter stabilire legami coi leader più importanti e coi «commilitoni», dall’altra, Internet permette in una certa misura di superare questo ostacolo mettendo comunque a disposizione l’essenziale della dottrina, le informazioni tecniche per la preparazione delle bombe e una forma virtuale di quello spirito di corpo condiviso con gli altri membri del movimento. Insomma, un vero e proprio cyber-jihad (Atwan 2008, cap. 4), in grado di favorire ovunque e in modo difficilmente arginabile la «germinazione» di cellule terroristiche e di gruppi estremisti, proprio come accade per la diffusione in rete dei virus informatici. Fuor di metafora, ci troviamo oggi di fronte alla possibilità di uno sviluppo imprevedibile di tante piccole formazioni armate anche in assenza di un’organizzazione concreta e chiaramente strutturata, dotata di un centro di comando, di proprie basi di addestramento e di quei contatti diretti tra i leader e i seguaci utili all’esecuzione dei comandi (Kirby 2007). Quello nei confronti dei leader del nucleo centrale di Al-Qaeda si trasforma così in un riferimento ideologico dal quale trarre ispirazione per le proprie azioni, come è probabilmente avvenuto per più recenti episodi come gli attentati sventati a Londra nell’agosto 2006 e quello fallito a Glasgow nel giugno 2007. In definitiva, la tradizionale configurazione gerarchica di Al-Qaeda, a causa delle potenzialità comunicative e strumentali offerte da Internet, sta subendo una metamorfosi nella direzione di un network altamente dinamico, costituito da un insieme di cellule connesse tra loro in modo non rigido e prive di un vero e proprio vertice (Knorr-Cetina 2005; Vidino 2006) – in altre parole, un movimento globale diffuso o, per usare una recente formulazione, un jihad senza leader (leaderless jihad), ma per questo non meno pericoloso (Sageman 2008). 204 Al-Furgan (2007), Al-Qaeda’s Distinguished Martyr # 29: Abu Tariq Al-Tunisi, in «Globalterroralert.com», 10 marzo (http://www.globalterroralert.com/pdf/0407/ iraqmartyr0407-2.pdf). Al-Qaeda Film (2006), Al-Qaeda Film on the First Anniversary of the London Bombings, in «MEMRI TV», 8 luglio (http://www.memritv.org/clip/en/1186.htm). Atwan A.B. (2008), The Secret History of Al-Qaeda, Berkeley and Los Angeles, University of California Press. 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