extravagantes - Ordine Avvocati Roma

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EXTRAVAGANTES
SCONTRO FINALE
Mentre sta per andare alle stampe il nuovo numero del nostro Notiziario, ci giunge
notizia della barbara uccisione di un giornalista italiano in terra irachena.
Vogliamo, per un attimo, mettere da parte le esternazioni di dolore, le manifestazioni di sdegno, gli anatemi, per fare alcune osservazioni.
L’Occidente si trova di fronte a una drammatica realtà, difficile da fronteggiare.
E’ del tutto utopistica la aspirazione di molti cattolici, animati dalla solita buona
volontà, di trovare una linea di intesa con i musulmani, nel segno del riconoscimento
di un unico Dio.
La professione di fede dei musulmani – cioè la “sciahãda” (che vuol dire
“testimonianza”) - prevede cinque pilastri che sono la preghiera, l’elemosina, il
digiuno nel mese di Ramadam (il nono mese dell’anno lunare), il pellegrinaggio e la
guerra santa.
Ogni giorno, per cinque volte, dall’alto del minareto il muazzin invita alla
preghiera i credenti, proclamando che “non vi è altro Dio se non Allah e Maometto
è il suo inviato in terra”.
Tutti questi precetti, ovviamente, sono prescritti dal Corano e li riscontriamo anche
nelle “sure” medinesi ma il maggiore dei doveri è quello di adorare Allah come unico
e vero Dio, creatore dell’Universo.
E’ questo un principio che non ammette la benchè minima deroga. Si legge nel
Corano (29,7): “Noi raccomandammo all’uomo la pietà verso i genitori ma se essi
dovessero importunarti e chiederti di associare a Me quello che non sai, non devi
ubbidire ad alcuno dei due. A me sarà il vostro ritorno”.
Dopo secoli di quiescienza e di paziente attesa di tempi propizi, la espressa
dichiarazione di guerra nei confronti degli infedeli e quindi degli occidentali, la
cosiddetta “Guerra Santa” di cui al predetto quinto pilastro, non consente alcuna
eccezione, se non l’annientamento totale degli “infedeli”.
Del resto, Maometto così esortava i suoi seguaci: “Voi che avete creduto,
combattete per la nostra religione perché possiate essere felici” (Corano 5,39).
Non si illuda quindi il resto del mondo, che ha anche le sue responsabilità per la
preoccupante situazione che si è venuta a determinare.
Ci si chiede: quali sono le prospettive?
Innanzitutto, bisogna totalmente cambiare il nostro presuntuoso modo di vedere,
basato esclusivamente sul profitto, spesso ipocritamente camuffato da prospettazioni
umanitarie.
Secondo alcuni esperti del settore, i giacimenti di petrolio in Irak sarebbero più
consistenti di quelli di altri paesi arabi.
E’ probabile che se in Irak vi fossero stati giacimenti di acqua minerale (di cui noi
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abbondiamo), gli appetiti esterni e anche quelli interni di questo martoriato paese
asiatico, avrebbero avuto altra consistenza.
Probabilmente, quando la civiltà occidentale potrà ususfruire di altre fonti energetiche (ad esempio perfezionando e addomesticando l’energia atomica), i motivi di
contrasto tra le due civiltà verranno nuovamente relegati nell’ambito delle infruttuose
e secolari dispute religiose.
Resterebbero vive le lotte per la supremazia politica, per la conquista del potere e
gli scontri ideologici tra Sciiti e Sunniti che sulle rive dell’Eufrate o del Tigri
costituiscono il retaggio di antiche diatribe.
Addolora però, in questo triste momento storico, il messaggio della sofferenza e
il sacrificio di tante vittime innocenti, vero olocausto di un deprecabile fanatismo.
Ancora un filo di speranza ci induce a credere che tra le rigogliose oasi di Medina
compaia un nuovo Legato (come del resto i musulmani consideravano Mosè e Isaia,
oltre a Loth e Giona), perché porti il seme dell’amore e della tolleranza e annunzi a
tutte le genti l’avvento di una nuova era.
Giovanni Cipollone
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LA PRIMA DONNA AVVOCATO
Scorrendo le ultime pagine del nostro notiziario, quelle relative alle iscrizioni, sono
rimasta colpita dal numero di colleghe che, di anno in anno, incrementano il nostro Albo
e che ormai supera -tra i nuovi iscritti– quello dei colleghi maschi.
Eppure l’affermazione delle donne, nella professione forense, non è stata affatto facile.
E’ riprova di ciò l’esperienza, che oggi appare assolutamente irragionevole, vissuta a suo
tempo da Lidia POET. Ella si laureò in giurisprudenza nel 1881, all’età di 26 anni, presso
l’Università di Torino. L’evento suscitò grande clamore tanto che venne enfatizzato su un
giornale dell’epoca «LA DONNA» che mise in luce la grande forza dimostrata dalla neo
laureata nella lotta per l’affermazione del sesso femminile in campo culturale e scientifico
fino ad allora esclusivamente riservato agli uomini.
Dopo la laurea Lidia POET svolse per due anni la pratica forense, indispensabile per il
superamento degli esami da procuratore legale. Appena superato l’esame chiese l’iscrizione
nell’Albo degli Avvocati e Procuratori Legali e la sua domanda fu accolta il 9 agosto 1883.
Ma il Pubblico Ministero impugnò il provvedimento d’iscrizione e la Corte di Appello di
Torino la revocò. La Collega ricorse in Cassazione ma il ricorso venne rigettato.
Le motivazioni di entrambe le decisioni facevano leva su leggi non scritte come il diritto
comune e la legge naturale. Si disse, per esempio, che a causa del ciclo mestruale, le donne
non avrebbero avuto, almeno per una settimana al mese, l’equilibrio necessario per
affrontare le questioni che venivano loro sottoposte. Oggi una tale affermazione ci fa
sorridere, ma non dimentichiamo che pregiudizi di tal fatta hanno avuto fine solo
abbondantemente dopo la metà del 20° secolo.
Si sostenne inoltre che le donne, non avendo gli stessi diritti degli uomini ed essendo
sottoposte alla volontà del marito che dovevano seguire in ogni spostamento, non potevano
essere affidabili e potevano risultare pregiudizievoli per il cliente che avrebbe avuto un
difensore privo di tutte le facoltà giuridiche.
Lidia POET, che fu molto attiva anche nel movimento internazionale delle donne, riuscì
finalmente ad iscriversi nell’Albo degli Avvocati di Torino solo nel 1920, all’età di
sessantacinque anni, dopo che era entrata in vigore una legge (17 luglio 1919 n.1176) che
permetteva alle donne l’accesso ad alcuni Uffici Pubblici.
Riteniamoci fortunate, grazie a colleghe forti e determinate come Lidia POET e molte
altre che ci hanno preceduto, abbiamo fatto molta strada anche se, ancora oggi, alcuni nostri
colleghi dell’altro sesso –peraltro destinati a rimanere in minoranza– tentano di pestarci i
piedi.
Livia Rossi
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PHILOGELOS
Un’eloquenza paralizzante
Erano più di due ore che un loquace interlocutore, senza un attimo di riposo, esponeva le
sue idee ad Aristotele.
Alla fine disse: “Non ti meravigli, Maestro, di tanta mia eloquenza?”.
“Di una cosa mi meraviglio – rispose Aristotele – che abbia avuto orecchie per sentirti, pur
avendo rapidi piedi per fuggire da te”.
Attendibilità testimoniale: incertezza probatoria
Catone l’Uticense, celebre per la sua integrità morale, veniva spesso citato dai romani come
esempio da seguire.
Nel corso di un processo un avvocato, difendendo il suo ocliente contro il quale come prova
d’accusa vi era la deposizione di un solo testimone, esclamò: “Non si può condannare un
cittadino avendo un solo testimone a carico, anche se quest’ultimo sia Catone!”.
Piccole porzioni di divinità
L’Imperatore Augusto propose al Senato romano di consentire ai residenti delle provincie
che non godevano della cittadinanza romana, di onorare e venerare un qualche dio minore che
simboleggiasse Roma.
A tale proposta Mecenate intervenne dicendo: “Diamo loro un dio che sappia proteggerli
a dovere e quindi diamo loro Augusto in persona”.
Augusto, a tale proposta, apparve un po’ titubante ma, dopo qualche riflessione, la ritenne
meritevole di approvazione, ricordando che era usanza di alcuni popoli orientali di tributare
onori divini ai loro monarchi ma che sarebbe stato assurdo pretendere che le città di provincia
adorassero tutti i seicento senatori romani, mentre appariva più opportuno che adorassero il
capo del Senato e cioè Augusto medesimo.
Così i senatori, lusingati di rappresentare ciascuno la seicentesima parte della divinità,
approvarono all’unanimità la proposta di Mecenate.
Il vero senso della libertà
Dopo la vittoria di Cesare, sui pompeiani, Catone deciso a darsi la morte, pregò i suoi più
cari amici di portargli una spada.
Essi, con vibranti esortazioni e anche con lamenti, cercarono di dissuaderlo ma Catone
disse loro che sarebbe stato disposto a cambiare idea se avessero dimostrato non essere
indegno di un uomo chiedere la vita al proprio nemico.
Nessuno seppe rispondergli e Catone avuta la spada, nel contemplarla, esclamò: “Ora mi
sento padrone di me” e si trafisse.
a cura di Giovanni Cipollone
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