I laureati: problema per il Paese, o risorsa da

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I laureati: problema per il Paese, o risorsa da
I laureati: problema per il Paese, o risorsa
da valorizzare?
di Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea
Allarme sulla condizione occupazionale dei laureati. Sono legittimi gli
allarmi sulla condizione occupazionale dei laureati. Ma occorre evitare il rischio di
scambiare le cause con gli effetti, alimentando così l’idea che i laureati siano un
problema per il Paese. Alcuni pensano, infatti, che l’Italia abbia troppi laureati e
per di più mal assortiti. Alla base di questa conclusione vi sarebbe soprattutto un
sistema universitario che si ostina a sfornare lavoratori non richiesti dal mercato
e, solo in seconda battuta, un sistema produttivo arretrato che non assorbe
laureati. Ma le cose stanno proprio cosi? E’ evidente che la risposta a questo
interrogativo ha ricadute importanti, tanto più in prossimità della conclusione
dell’anno scolastico, sulle scelte delle famiglie circa la prosecuzione degli studi
all’università per i propri figli, ma sopratutto sulle decisioni circa le risorse
pubbliche da destinare all’istruzione universitaria e alla formazione.
Confronti
internazionali:
riduzione
della
spesa
per
l’istruzione
universitaria e per la ricerca, riduzione del numero di laureati. Il nostro
Paese, a partire da una spesa per l’istruzione e la ricerca universitaria
decisamente inferiore alla media OCSE ed europea, negli ultimi anni è stato tra i
pochi ad averla ulteriormente ridotta in misura sensibile. Eppure in Italia, nel
2011, la percentuale di laureati di 30-34 anni sul complesso della popolazione è
pari al 20,3%; una quota ancora molto distante dagli obiettivi europei fissati per
il 2020 (40%) e dalla media UE (34,6%). Questa collocazione internazionale
scadente, purtroppo, si ritrova non solo nella documentazione sulle risorse
(pubbliche e private) destinate all’istruzione universitaria ma anche in quelle
(pubbliche e private) riservate alla ricerca, ove tutti gli indicatori ci vedono in
fondo alle classifiche.
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Aumenta la disoccupazione dei laureati...ma meno che per altri. Per alcuni
commentatori, i giovani laureati italiani (25-34 anni) sarebbero sfavoriti in
termini di opportunità occupazionali avendo fatto registrare, tra il 2008 e il 2012,
un incremento del tasso di disoccupazione del 46%. Si tratta di un dato
allarmante, certamente; ma occorre non dimenticarsi però di segnalare che: a.
tra i giovani diplomati della medesima fascia di età, nello stesso periodo, la
disoccupazione è aumentata dell’85%; b. per il complesso dei 25-34enni la
disoccupazione è cresciuta del 69%. Né si deve dimenticare che prendendo in
esame l’intero arco della vita lavorativa, pur con le difficoltà iniziali di
inserimento, la laurea ha garantito finora migliori esiti occupazionali rispetto al
diploma di scuola secondaria superiore (oltre 12 punti percentuali), migliori
retribuzioni (+50 per cento), e maggiore corrispondenza tra competenze
richieste e quelle possedute nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative
(vedi indagini AlmaLaurea).
Alta la quota di lavoratori con al massimo la licenza media. Un confronto
che rivela che il ritardo del Paese va ben oltre la capacità di assorbimento dei
laureati. Fra gli occupati non sono solo i laureati ad essere poco presenti: lo sono
infatti anche i diplomati, mentre risulta elevata la quota di lavoratori in possesso
al massimo della sola licenza media. Una presenza, quest’ultima, che in Italia
raggiunge il 35,8%, contro una media EU27 del 22% e che in Germania scende
addirittura al 13,5%.
Scarsa solarizzazione dei manager. Questi ritardi nei livelli di scolarizzazione
coinvolgono il settore sia privato (soprattutto) sia pubblico e si riflettono
significativamente sui livelli di istruzione della classe manageriale e dirigente
italiana. I dati Eurostat segnalano che nel 2010 ben il 37% degli occupati italiani
classificati come “manager” aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo,
contro il 19% della media europea (a 15 paesi); in Germania, con un peso del
settore manifatturiero simile al nostro, la consistenza dei manager con livello di
studi analogo arriva appena al 7%. La struttura occupazionale italiana va
ricondotta soprattutto al modello di specializzazione produttiva del Paese e ai
tratti tipici del nostro tessuto imprenditoriale (nanismo aziendale, prevalenza di
una gestione familiare, ecc.). Tutto ciò si riflette negativamente sulla domanda di
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capitale umano espressa dal sistema produttivo e sulla sua capacità di
valorizzarlo. A questo si aggiunge l’arretratezza della PA e il suo minore
assorbimento di laureati dovuto al blocco delle assunzioni.
Nuove generazioni e difficoltà per un’occupazione coerente con gli studi
universitari. I limiti evidenziati dal sistema produttivo italiano nella capacità di
assorbire
laureati
sarebbero
ulteriormente
dimostrati
dalla
stima
della
disponibilità di “lavori da laureato” nel Paese, proposta in un recente comunicato
stampa dell’Istituto Cattaneo. Al di là della perplessità su alcune scelte di natura
metodologica, è discutibile desumere dal confronto tra lavoratori giovani e
anziani che le nuove generazioni trovano oggi più difficilmente un’occupazione
coerente col titolo universitario posseduto. Soprattutto in un contesto quale
quello italiano, caratterizzato da tempi lunghi di inserimento e di stabilizzazione
occupazionale, è evidente che i lavoratori anziani hanno goduto di un intervallo
temporale più ampio per inserirsi nel mercato del lavoro. Anche l’indagine sui
bilanci delle famiglie della Banca d’Italia evidenzia che la coerenza complessiva
tra competenze possedute dai laureati e richieste dal mondo del lavoro cresce
sensibilmente nell’arco della vita lavorativa, sino a superare quella dei diplomati.
Potenziamento degli studi tecnico-scientifici? La tentazione nella quale
molti rischiano di cadere è quella di concludere che, poiché il sistema Paese non
è nelle condizioni di valorizzare la conoscenza, occorre ridimensionare l’offerta di
formazione più elevata, limitandosi a qualche aggiustamento nella distribuzione
dei laureati e dei diplomati tra i diversi indirizzi di studio, a favore di quelli
tecnico-scientifici. Si tratta di una prospettiva verso la quale ci stiamo muovendo
da alcuni anni e che rischierebbe di condannarci a un inesorabile allontanamento
dal gruppo dei Paesi più avanzati. E non si tratta di una questione relegata al
solo sistema produttivo. I benefici dell’istruzione riguardano diversi ambiti e
aspetti della vita individuale e collettiva, con importanti implicazioni per
l’efficienza complessiva del Paese e per il livello e la composizione della spesa
pubblica. E’ infatti dimostrato che più elevati livelli di istruzione si accompagnano
a migliori condizioni di salute, a più elevati livelli di soddisfazione, a una
maggiore partecipazione democratica e a una riduzione dei comportamenti
socialmente devianti.
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Ridimensionamento degli studi universitari per le donne? Paradossalmente
la scelta di allineare l’offerta di laureati alla richiesta odierna delle imprese
dovrebbe tradursi, alla luce della minore presenza femminile nel mondo del
lavoro
italiano
(soprattutto
nei
ruoli
manageriali
e
dirigenziali),
nel
ridimensionamento della partecipazione femminile agli studi universitari. Un
controsenso, evidentemente, specie se si considera che, a parità di condizioni, le
donne presentano migliori performance rispetto ai loro colleghi. Solo perché il
mercato si comporta in un certo modo non significa che quel modo sia né
efficiente, né equo.
Contrazione
dei
percorsi
di
studio
“deboli”.
Vengono
sempre
più
frequentemente evidenziate scelte di percorsi di studio fortemente condizionate
da opzioni autoreferenziali del sistema universitario italiano. Se si solleva lo
sguardo al di là delle Alpi tutto ciò non trova riscontro. Ad esempio, gli
immatricolati nei percorsi delle scienze umane e dell’educazione, frequentemente
presi ad esempio come percorsi di studio “deboli” sotto il profilo occupazionale,
nel 2010 costituivano il 19% del complesso degli immatricolati in Italia; ma nei
paesi dell’OCSE erano il 21% ed in Germania il 23%. Dunque le scelte dei giovani
italiani, così come le proposte di studio delle università, non si discostano da
quelle dei paesi più avanzati.
Carenza di ingegneri informatici o scarsa retribuzione? Nell’ambito del
dibattito sul presunto disallineamento fra offerta e domanda di laureati,
particolare rilievo ha assunto la questione della mancanza di laureati dei percorsi
tecnico-scientifici, come ad esempio di ingegneri ad indirizzo informatico. Anche
in questo caso gli indizi indiretti non danno sostegno alla tesi che si tratti di una
patologia del sistema formativo. In primo luogo, un eccesso strutturale di
domanda di ingegneri informatici si dovrebbe tradurre in un aumento delle loro
retribuzioni medie, fatto che non si riscontra nei dati, che semmai indicano il
contrario: tra il 2008 e il 2012, ad un anno dalla laurea, le retribuzioni reali
registrate dalle indagini AlmaLaurea per questo gruppo di laureati si sono ridotte
del 9%. In secondo luogo, la stessa indagine mostra che, a tre anni dalla laurea,
la quota di laureati del 2009 occupati all’estero è decisamente più elevata per gli
ingegneri informatici (10,8%) rispetto al complesso degli ingegneri (6,6%) e al
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complesso dei laureati (4,5%). Non c’è da meravigliarsi di ciò, in quanto, per un
ingegnere informatico, lavorare all’estero consente di guadagnare, a tre anni
dalla laurea, quasi il doppio che in Italia! Per quale motivo le imprese che sono
alla ricerca di ingegneri informatici, per attirarli ed evitare che emigrino (o per
attirarli dall’estero come fanno le imprese tedesche o francesi), non offrono loro
retribuzioni più elevate, fatto che potrebbe anche indurre una quota più elevata
di immatricolati a scegliere quel percorso di studi? Per quali motivi, a differenza
degli altri Paesi avanzati, il nostro è un esportatore netto di laureati e un
importatore netto di lavoratori poco qualificati? E’ quindi ragionevole ipotizzare
che la presenza di figure professionali di difficile reperimento sia il frutto
dell’interazione tra diversi fattori (difficoltà a valorizzare il laureato, scarsa
informazione, vischiosità dei mercati del lavoro, elevati costi della mobilità
geografica, canali e strumenti di reclutamento del personale poco efficienti). E’
proprio a partire dal riconoscimento di questi problemi che il Consorzio
AlmaLaurea compie annualmente le proprie indagini e ha realizzato (dal 1994) la
banca dati dei curricula dei laureati che raccoglie attualmente oltre 1.740.000 cv.
Potenziare l’orientamento nelle scelte di formazione. Puntare a innalzare la
soglia educazionale degli italiani richiede un migliore orientamento delle scelte di
formazione anche verso indirizzi di studio più funzionali alla crescita del Paese,
che si potenzino a tutti i livelli le esperienze di studio/lavoro (stage in aziende
efficienti), che si migliori l’efficacia interna ed esterna del sistema universitario e
che si rafforzi il sistema e l’accesso alla formazione professionale, promuovendo
la qualità dell’esistente e ampliando l’offerta di corsi post secondari. Si tratta di
strategie che concorrono allo stesso obiettivo e che, però, dovrebbero essere
sostenute con adeguate risorse, in linea con quelli che sono gli standard
internazionali. Per quanto riguarda l’università, secondo i dati OCSE, nel 2009,
quindi addirittura prima degli ultimi tagli, la spesa per laureato, a parità di potere
d’acquisto, era pari a circa la metà di quella tedesca! E’ necessario che il Paese
sia consapevole di ciò e che le famiglie, in particolare, non siano indotte da
messaggi parziali a effettuare scelte che sarebbero controproducenti per loro
stesse, per i loro figli e per il Paese.
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