Capitolo 1 La responsabilità internazionale

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Capitolo 1 La responsabilità internazionale
Edizioni Simone - Vol. 46/8 Compendio di Diritto Internazionale
Parte terzaResponsabilità e risoluzione delle controversie
Capitolo 1La responsabilità
internazionale dello Stato
Sommario1. Nozione e tentativi di codificazione della materia. - 2. Quadro generale
delle condizioni e degli effetti dell’illecito internazionale. - 3. L’elemento
soggettivo dell’illecito. - 4. L’elemento oggettivo dell’illecito. - 5. La responsabilità per fatti leciti. - 6. Elementi controversi dell’illecito: la colpa e
il danno. - 7. Circostanze che escludono l’illiceità del comportamento. - 8.
Le conseguenze dell’illecito. - 9. La determinazione dello status di «Stato
leso». - 10. La violazione di norme imperative di diritto internazionale.
1.Nozione e tentativi di codificazione della materia
La responsabilità internazionale discende da un comportamento di uno o più organi
di uno Stato che configura un illecito internazionale.
Fin dagli inizi del XX secolo la dottrina ha approfonditamente analizzato la materia, e vari tentativi di codificazione sono stati promossi da organizzazioni scientifiche private (come l’Institut
de Droit International) e internazionali (la Società delle Nazioni) senza, però, raggiungere mai
risultati rilevanti.
La Commissione di Diritto Internazionale (CDI) ha incluso nella sua agenda l’obiettivo di codificare
le norme consuetudinarie sulla responsabilità dello Stato sin dalla sua prima sessione, nel 1949.
Nel 1996 il testo completo è stato approvato in prima lettura e trasmesso al Segretario Generale
delle Nazioni Unite per essere esaminato dagli Stati, che hanno sollevato commenti e osservazioni.
Il Progetto di trattato sulla responsabilità internazionale degli Stati trasmesso al
Segretariato delle N.U. del 1996 è stato riesaminato dalla CDI nel 1997 alla luce delle
proposte giunte dai vari Paesi e dell’evoluzione della giurisprudenza e della dottrina,
per essere poi finalmente adottato nella seduta del 3 agosto 2001. Esso costituisce in
molti punti un’opera finalizzata allo sviluppo progressivo del diritto internazionale,
più che di codificazione tout court.
Le difficoltà che hanno accompagnato l’approvazione di tale lavoro testimoniano
l’aspetto «delicato» della materia, a causa della sua incidenza sulla sovranità dei
singoli Stati che, mutatis mutandis, potrebbe estendersi alla sfera d’azione anche delle
organizzazioni internazionali.
È stato così che nel 2011 la CDI ha anche approvato definitivamente un Progetto
analogo per le organizzazioni internazionali che — come nota CONFORTI — si
conforma per la maggior parte alle regole già codificate per gli Stati.
Punto centrale del documento è la relazione tra la responsabilità dell’organizzazione e
quella dei suoi membri in quanto gli stessi (ex art. 62) sono spesso considerati responsabili solo a titolo sussidiario se hanno accettato tale responsabilità.
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Si noti al riguardo che l’art. 335 del TFUE limita tale responsabilità alla sola Unione
europea.
Il Progetto di trattato sulla responsabilità internazionale degli Stati
Il testo del 2001 presenta diverse modifiche rispetto a quello del 1996 ed è strutturato in quattro parti:
— la prima dà una definizione di atto internazionalmente illecito e racchiude gli elementi fondamentali della materia (artt. 1-27);
— la seconda tratta del contenuto della responsabilità internazionale dello Stato ed espone
sostanzialmente le conseguenze derivanti dalla violazione di norme del diritto internazionale
(artt. 28-41);
— la terza riguarda l’attuazione della responsabilità internazionale dello Stato e concerne la
posizione dello Stato leso, nonché il suo diritto a porre in essere eventuali contromisure (artt.
42-54);
— la quarta contiene disposizioni generali sull’applicazione delle norme contenute nel Progetto
(artt. 55-59).
2.Quadro generale delle condizioni e degli effetti dell’illecito internazionale
La commissione di un illecito internazionale, come detto, costituisce il presupposto
(ma non l’unico) perché scatti la «responsabilità internazionale».
Le condizioni perché si verifichi la «responsabilità internazionale» sono:
1. un comportamento di uno o più organi statali, compresi tutti coloro che partecipano
all’esercizio del potere di governo (cd. elemento soggettivo dell’illecito).
Si discute se sia ipotizzabile una responsabilità di uno Stato per atti compiuti da privati: si pensi
ad atti di terrorismo o di violazioni compiute da multinazionali. La dottrina (CONFORTI) parla,
a tal proposito, di «tendenza» non ancora consolidata e ammette la responsabilità dello Stato
solo per culpa in vigilando, ossia nel non aver adottato le misure necessarie ad evitare un
fatto (cd. illecito omissivo);
2. l’antigiuridicità del comportamento dell’organo statale (cd. elemento oggettivo
dell’illecito). Si tratta, in sostanza, della violazione di una norma di diritto internazionale che imponeva un obbligo e da cui discende un danno, materiale o morale.
In tal senso, l’art. 1 (Parte Prima del Progetto), evidenzia che «ogni atto internazionalmente illecito di uno Stato comporta la responsabilità internazionale di tale Stato»,
intendendosi per atti illeciti azioni positive, omissioni e astensioni degli organi
dello Stato.
Giurisprudenza
Il principio codificato dall’art. 1 ha già trovato applicazione in numerose occasioni.
Nel caso Rainbow Warrior (sent. arbitrale 30 aprile 1990, Nuova Zelanda c. Francia), ad
esempio, il Tribunale arbitrale investito della controversia stabilì che «ogni violazione da parte
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di uno Stato di un’obbligazione, di qualsiasi origine, fa sorgere la responsabilità dello Stato».
Conseguentemente, come sostenuto dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel
caso Fosfati in Marocco (eccezioni preliminari), se uno Stato si rende autore di un illecito
internazionale nei confronti di un altro «la sua responsabilità internazionale è immediatamente
stabilita nei rapporti tra i due Stati» (14 giugno 1938, Italia c. Francia).
Il successivo art. 2 precisa che «si ha un fatto illecito internazionale quando vi è un
comportamento consistente in un’azione o omissione attribuibile allo Stato secondo il
diritto internazionale e tale comportamento costituisce una violazione di un obbligo
internazionale dello Stato».
Gli effetti della responsabilità internazionale (v. par. 8) riguardano:
— la soddisfazione: cioè un vantaggio innanzitutto morale riconosciuto al danneggiato
a titolo di responsabilità;
— la riparazione: che può consistere sia nel ristabilire la situazione anteriore (restitutio
in integrum) che nel versamento di una indennità (cd. riparazione per equivalenza);
Tale riparazione può essere negoziata sia attraverso un regolamento amichevole
che con vero e proprio accordo di indennizzo per sanare il pregiudizio arrecato al
danneggiato.
La responsabilità degli Stati per atti privati
Può aversi tale forma di responsabilità solo per fatti omissivi, lo Stato cioè risponde degli illeciti
intenzionali dei privato solo a titolo di culpa in vigilando.
È il caso del terrorismo e la violazione di diritti umani da parte di società o multinazionali che siano
comunque reiterati e non occasionali.
Trattasi — come nota CONFORTI — di una «tendenza» che non può ancora ritenersi consolidata né
in un principio della C.I. né una regola consuetudinaria.
3.L’elemento soggettivo dell’illecito
A) Il comportamento attribuibile allo Stato
Elemento soggettivo dell’illecito è il comportamento che «può essere attribuito allo
Stato alla stregua del diritto internazionale» (art. 2 del Progetto).
Da ciò si evince, come anche ribadito all’art. 3, che il comportamento può essere qualificato come illecito solo in base al diritto internazionale, non rilevando, in materia,
le norme di diritto interno.
L’art. 4 specifica che tale definizione va riferita al comportamento di un qualsiasi
organo dello Stato che rivesta tale qualifica secondo il diritto interno dello Stato
stesso.
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B) Nozione di organo dello Stato
Per «organo dello Stato» deve intendersi in senso ampio ogni organo che eserciti
funzioni legislative, esecutive, giudiziarie o di natura diversa, qualunque sia la sua
posizione nell’organizzazione dello Stato e quale che sia il suo carattere di organo del
governo centrale o di un ente territoriale dello Stato.
Il criterio per una corretta definizione, dunque, è l’esercizio effettivo di funzioni pubbliche, che consente di attribuire ad uno Stato anche violazioni compiute da organi messi
a sua disposizione da uno Stato straniero (art. 6).
A tal proposito, nel caso Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, la
Corte Internazionale di Giustizia ammise la responsabilità degli Stati Uniti per aver pianificato e
sostenuto le operazioni dei Contras (le forze che si opponevano al governo del Nicaragua), ma
ritenne che non tutte le azioni da questi commesse potessero essere attribuite agli Stati Uniti, in
mancanza di prove sull’esistenza di un controllo effettivo su di essi da parte americana (sent. 27
giugno 1986, Nicaragua c. Stati Uniti).
C) I problemi relativi all’individuazione dell’elemento soggettivo
Esistono casi particolari in cui la determinazione dell’elemento soggettivo necessita di
ulteriori specificazioni, vale a dire quando il comportamento illecito è posto in essere:
— da privati. Il diritto internazionale considera lo Stato, e non l’individuo, soggetto
dotato di personalità internazionale; ciò esclude che la condotta dei privati possa
essere considerata come imputabile allo Stato, salvo i casi in cui, ex art. 11 del
Progetto, si dimostri che lo Stato non ha esercitato la dovuta diligenza al fine di
prevenire e reprimere tali atti (per cui si profila una responsabilità di tipo omissivo).
Emblematico è il caso del personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran
del 1979, preso in ostaggio da alcuni studenti islamici iraniani che avevano occupato i locali
dell’ambasciata statunitense. La Corte Internazionale di Giustizia, adita dagli USA, distinse
due momenti della vicenda: in una prima fase allo Stato iraniano non poteva essere attribuito
il comportamento degli studenti, che avevano agito senza ricevere ordini dal governo, ma solo
la responsabilità per non aver adottato tutte le misure adeguate a proteggere i locali dell’ambasciata; in una seconda fase, in cui le autorità iraniane approvarono l’occupazione, le azioni
degli studenti assunsero la natura di atti imputabili allo Stato, in quanto gli autori dell’invasioni
si erano trasformati in agenti di fatto di quest’ultimo (sent. 24 maggio 1980, Stati Uniti c. Iran);
— da privati in qualità di agenti di fatto (gruppi di volontari, militanti, formazioni
paramilitari). Ai sensi dell’art. 8, le azioni e omissioni di tali soggetti saranno imputabili allo Stato se poste in essere «secondo le istruzioni o sotto la diretta direzione
o controllo» di quest’ultimo;
— da organi statali che abusano del potere loro conferito (ipotesi di eccesso
di potere). Se un organo compie un fatto illecito contravvenendo alle istruzioni
ricevute, o al di fuori della sfera di sua competenza (in altre parole, agendo ultra
vires), in base all’art. 7 del Progetto sussiste, comunque, la responsabilità dello
Stato, purché la condotta di tale organo sia posta in essere mediante mezzi e poteri
propri della funzione pubblica.
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Alcuni autori non concordano con il dettato dell’art. 7, ritenendo che l’unico illecito dello Stato
consisterebbe nella violazione dell’obbligo di diligenza per non aver predisposto adeguate
misure di prevenzione. Altri (tra cui, recentemente, anche CONFORTI), la soluzione codificata
troverebbe ormai riscontro nella prassi, in particolare nella giurisprudenza della Commissione
e della Corte europea dei diritti dell’uomo;
— da movimenti insurrezionali. L’art. 10 dispone che «il comportamento di un movimento insurrezionale che diventa il nuovo governo di uno Stato sarà considerato
come atto di tale Stato secondo il diritto internazionale». Ne deriva che nel corso
dell’insurrezione, o se questa non ha successo, i danni provocati a beni e persone
dai ribelli non sono imputabili allo Stato (che può avvalersi della giustificante costituita dallo stato maggiore); se, al contrario, i ribelli conquistano il potere, il nuovo
governo da essi creato sarà responsabile sia delle azioni proprie, che di quelle del
governo predecessore (nell’ultimo caso sulla base del principio di continuità dello
Stato) non giustificate dal diritto internazionale umanitario e dal diritto dei conflitti
armati non internazionali;
— con la partecipazione di uno Stato straniero al fatto internazionalmente illecito (in altre parole, con la sua complicità). In tal caso, occorre stabilire se può
configurarsi una responsabilità in capo ad un soggetto per fatti commessi da altri:
ai sensi del Progetto, uno Stato è da ritenersi internazionalmente responsabile se
fornisce consapevolmente assistenza (diretta o indiretta) ad un altro nel commettere
l’illecito, o esercita un controllo su di esso (artt. 16 e 17) e, a maggior ragione, se
esercita una vera e propria forma di coazione, che non consente allo Stato coartato
di opporsi alla violazione dell’obbligo internazionale (art. 18).
Nelle ipotesi di cui agli artt. 16 e 17, la responsabilità internazionale sorge sia in capo allo Stato
autore del fatto, sia in capo allo Stato che fornisce aiuto o esercita un potere di direzione e
controllo: trattasi, dunque, di una concomitanza di soggetti responsabili.
Nel caso contemplato dall’art. 18, invece, lo Stato coartato, pur avendo materialmente agito
in violazione dell’obbligo internazionale, non ha avuto alcuna libertà di agire diversamente, e
può dunque invocare la forza maggiore come causa di esclusione della sua responsabilità;
unico responsabile sarà, pertanto, lo Stato coartante.
4.L’elemento oggettivo dell’illecito
A) Definizione di fatto illecito
Come risulta dall’art. 12 del Progetto, l’elemento oggettivo è dato dal contrasto tra
il comportamento tenuto in concreto dallo Stato e quello richiesto da una norma
di diritto internazionale.
L’illecito sussiste a prescindere dalla minore o maggiore importanza dell’obbligo violato
per la Comunità internazionale e dalla fonte da cui esso deriva.
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Giurisprudenza
Come ha evidenziato la Corte Internazionale di Giustizia nel caso Gabcikovo-Nagymaros, «è
(principio) ben stabilito che quando uno Stato ha commesso un atto internazionalmente illecito, la
sua responsabilità è suscettibile di essere implicata qualunque sia la natura dell’obbligazione
che non ha rispettato» (sent. 25 settembre 1997, caso Ungheria c. Slovacchia).
Nel testo del Progetto approvato nel 2001, inoltre, la CDI ha evitato di riprendere la
distinzione, contenuta nell’art. 19 della versione risalente al 1996, tra crimini internazionali (intesi come gravi violazioni di obblighi essenziali per la salvaguardia di interessi
fondamentali della comunità internazionale) e delitti internazionali (definizione riferita
a tutti gli altri casi di fatto illecito).
B) I diversi tipi di illecito
In base alla natura o struttura dell’illecito si distingue tra:
— fatto illecito omissivo, quando la norma prescriveva un comportamento che lo
Stato non ha posto in essere, o commissivo, se era vietata dalla regola l’adozione
di un comportamento che lo Stato, invece, ha tenuto.
Un caso di illecito omissivo, ad esempio, è quello riconducibile alla Repubblica di Serbia e
Montenegro che, con sent. 26 febbraio 2007, fu ritenuta responsabile dalla Corte Internazionale di Giustizia non degli atti di genocidio commessi in territorio bosniaco da gruppi militari e
paramilitari serbo-bosniaci, ma del fatto di aver violato l’obbligo di prevenzione e repressione
di tali atti sancito dalla Convenzione ONU sul genocidio all’art. 1;
— illecito di condotta, se la norma violata imponeva un determinato comportamento,
o di risultato, se lo Stato aveva il solo obbligo di raggiungere il fine stabilito dalla
norma, essendo libero nella scelta dei mezzi per conseguirlo.
Un’ulteriore classificazione attiene al momento (tempus commissi delicti) in cui l’illecito
è stato commesso. L’art. 13 del Progetto fa riferimento alla regola del tempus regit actum,
secondo cui l’obbligo internazionale deve sussistere in capo allo Stato nel momento in
cui quest’ultimo pone in essere il comportamento che si intende qualificare come illecito.
L’illecito viene poi definito (artt. 14 e 15):
— istantaneo (ad es. l’abbattimento di un aereo straniero), se il tempus commissi delicti si
esaurisce nel momento in cui il fatto si verifica (anche se i suoi effetti si prolungano);
— di durata, o continuo, se il tempus copre tutta la durata dell’illecito;
— composito, se compiuto mediante una successione di azioni e omissioni le une
collegate alle altre (ad es. il diniego di giustizia).
Giurisprudenza
Come emerge dalla pronuncia del Tribunale arbitrale nel caso Rainbow Warrior (cit.), tale
classificazione si rivela di notevole importanza; essa, infatti, «ha conseguenze pratiche, poiché
la serietà della violazione e la sua durata nel tempo non può non avere un peso considerevole
sulla determinazione di una riparazione che sia adeguata per una violazione che presenta
queste due caratteristiche».
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5.La responsabilità per fatti leciti
Si discute in dottrina l’ipotesi di configurare a carico dello Stato una responsabilità
per fatti che, pur non essendo vietati dal diritto internazionale, producono o
possono provocare danni a terzi, con particolare riferimento alle attività particolarmente pericolose e inquinanti ad opera di centrali nucleari, industrie chimiche etc. e,
più in generale, a quelle rischiose sia per la sicurezza delle persone che per l’integrità
ambientale poste in essere per trarne vantaggi economici.
Gli autori anglosassoni parlano in tal caso di liability, distinguendola dalla responsability che contraddistingue, invece, la responsabilità derivante da atto illecito.
In relazione a tali attività, ci si chiede se lo Stato, pur essendo libero di svolgere, o far
svolgere, qualsiasi attività negli spazi su cui esercita la propria sovranità, non debba
rispondere per eventuali danni che si ripercuotono su Stati terzi. Numerose, in tal
senso, sono le Convenzioni che si occupano del risarcimento dei danni prodotti da
attività pericolose: tuttavia, fatta eccezione per la Convenzione sulla responsabilità in
tema di lanci spaziali, non fanno riferimento alla responsabilità internazionale ma a
quella di diritto interno; si limitano, infatti, ad imporre agli Stati contraenti, l’obbligo
di predisporre, al loro interno, sistemi adeguati di responsabilità civile o penale.
Dottrina
Secondo GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES, «la tendenza evolutiva del diritto internazionale in
questa materia sembra ormai dimostrare l’avvenuta formazione di una regola generale che
pone a carico degli Stati l’obbligo di evitare danni o rischi derivanti dalle attività in questione».
Per CONFORTI, invece, se si escludono le norme di natura convenzionale, non esiste nel
diritto internazionale una responsabilità così «sofisticata» come quella derivante da fatto lecito.
Nonostante tali divergenze, la dottrina concorda nell’individuare come soluzioni all’assenza
di una disciplina internazionale il ricorso a princìpi di prevenzione e cooperazione interstatale
e la predisposizione di fondi internazionali cui si possa ricorrere per risarcire danni eventualmente provocati.
6.Elementi controversi dell’illecito: la colpa e il danno
A) La colpa
La dottrina internazionalistica discute se, al fine della qualificazione di una condotta
come internazionalmente illecita, sia necessario aggiungere, accanto agli elementi
oggettivo e soggettivo menzionati dal Progetto, anche un terzo elemento: la colpa.
La tesi prevalente esclude la necessità di un terzo requisito, sottolineando che, nel
momento in cui si stabilisce un legame tra il comportamento dell’organo (elemento
soggettivo) e l’antigiuridicità di tale comportamento (elemento oggettivo), lo Stato
deve ritenersi responsabile, a prescindere da qualsiasi elemento colposo.
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La colpa, infatti, dovrebbe configurarsi come elemento soggettivo-psicologico
dell’individuo-organo che pone in essere l’illecito ma, come evidenziato da TANZI,
non potrebbe per questo rilevare sul piano internazionale perché spesso «l’organo
interno (infrange) un obbligo internazionale nel rispetto del diritto interno, senza
quindi avere l’atteggiamento psicologico di chi è consapevole di adottare un comportamento illecito».
Alcuni autori (FUMAGALLI), al contrario, sottolineano che sebbene il Progetto non
menzioni la colpa tra gli elementi costitutivi dell’illecito, quest’ultima riveste, comunque, un certo rilievo.
Secondo tale impostazione, tra le circostanze che escludono l’illiceità di un comportamento rientra
l’ipotesi di inadempimento per impossibilità di osservare una regola di diritto internazionale; ciò
equivale a riconoscere allo Stato la possibilità di essere esente da responsabilità a condizione
che sia in grado di provare l’assenza di colpa.
B) Il danno
Per quanto riguarda il danno, il Progetto non lo menziona tra gli elementi costitutivi
dell’illecito, per definire il quale basterebbe provare che uno Stato abbia violato un
diritto soggettivo di un altro.
Ne deriva che la responsabilità sussiste anche quando il comportamento antigiuridico
non ha causato alcun pregiudizio morale (danno arrecato all’onore dello Stato) o materiale (danno di tipo economico e patrimoniale agli interessi di uno Stato).
A dimostrazione di ciò, nel corso della stesura del Progetto la Commissione di Diritto
Internazionale ha fatto riferimento a quelle norme internazionali che impongono agli
Stati di adottare determinati comportamenti nei confronti dei propri cittadini (ad es.
le norme in materia di tutela dei diritti umani). Una loro eventuale violazione farebbe
sorgere la responsabilità internazionale dello Stato che ne è autore a prescindere dall’aver
cagionato o meno danni ad altri Stati.
TANZI ritiene, inoltre, che «subordinare l’esistenza di un illecito internazionale al
fatto che la violazione di un obbligo comporti un danno autonomo rispetto alla violazione stessa, significherebbe, in molti casi, vanificare l’efficacia di regole importanti
di diritto internazionale».
Secondo l’impostazione seguita dalla CDI, il danno morale o materiale può venire in rilievo solo
quando occorre determinare le modalità e l’entità della riparazione.
7.Circostanze che escludono l’illiceità del comportamento
A) Generalità
Il Capitolo V, Parte Prima del Progetto sulla responsabilità degli Stati tratta agli artt.
20 e ss. delle circostanze per le quali va negata l’illiceità del comportamento, vale
a dire di quelle circostanze che, se sussistono, escludono la responsabilità dello
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Stato facendo venir meno l’elemento oggettivo della stessa, ossia l’antigiuridicità del
comportamento.
Il testo del Progetto prevede le seguenti ipotesi:
— il consenso dello Stato leso (art. 20);
— la forza maggiore (art. 23);
— l’estremo pericolo (o distress, art. 24);
— lo stato di necessità (art. 25);
— la legittima difesa (art. 21);
— le contromisure (art. 22).
Occorre, tuttavia, precisare che la sussistenza di una di tali circostanze:
— non implica, di per sé, l’estinzione dell’obbligo internazionale violato (art. 27, lett.
a) del Progetto), ma solo l’esclusione di una responsabilità;
— non esclude l’eventuale sussistenza di un obbligo di reintegrazione patrimoniale
(indennizzo) per il danno comunque causato;
— può non essere sufficiente a giustificare l’inadempimento di un obbligo se questo
deriva da una norma imperativa di diritto internazionale (art. 26).
B) Il consenso preventivo dello Stato leso
Ai sensi dell’art. 20, «il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione
da parte di un altro Stato di un dato atto esclude l’illiceità di tale atto nei rapporti
tra i due Stati nella misura in cui l’atto resti nei limiti del consenso». Il testo della
Commissione richiede, dunque, che il consenso debba essere:
— attribuibile allo Stato leso;
— valido ai sensi del diritto internazionale (non viziato da errore, violenza, dolo etc.);
— chiaro (anche se implicitamente dato);
— preventivo. Se giunge dopo la commissione dell’atto illecito va esclusa la responsabilità dello Stato autore della violazione – cd. waiver – ma non l’illiceità dell’atto
stesso.
Il consenso intervenuto successivamente deve essere inteso come rinuncia dello Stato leso ad
invocare la responsabilità internazionale del soggetto che ha commesso la violazione o, detto
altrimenti, come assunzione di un atteggiamento di acquiescenza che indebolisce direttamente
l’efficacia della norma violata (TANZI).
L’unica eccezione all’esclusione dell’illiceità è costituita dalla violazione di una
norma di jus cogens.
Alla luce di tali requisiti, devono ritenersi viziati sia i consensi dati ex post dal governo cecoslovacco
e da quello afghano all’intervento delle truppe sovietiche sul proprio territorio (rispettivamente nel
1968 e nel 1969), sia il consenso all’invasione militare di Grenada da parte delle truppe statunitensi
nel 1983, perché giunto da un governo privo del carattere di effettività.
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Dottrina
La dottrina appare divisa circa la natura giuridica del consenso:
— alcuni autori (SALMON) sostengono che sia qualificabile come un accordo, spesso tacito,
tra le parti;
— altri (CONFORTI) che si tratti, invece, di un atto unilaterale dello Stato che ha subìto consensualmente la violazione. Detta interpretazione dovrebbe imporsi alla luce del fatto che
se il consenso fosse il frutto di un accordo, non avrebbe senso parlare di esso come di
un’autonoma causa di esclusione dell’illecito.
Nella prassi internazionale i casi più frequenti sono quelli in cui uno Stato dà il proprio consenso
all’intervento armato o allo stazionamento di truppe, sul suo territorio, da parte di un altro Stato
o delle Nazioni Unite.
C) La forza maggiore
L’art. 23 stabilisce che va esclusa l’illiceità del comportamento di uno Stato se si
verifica una forza irresistibile o un avvenimento imprevedibile, non controllabile
dallo Stato (cd. forza maggiore), che ha reso materialmente impossibile l’esecuzione
di un obbligo internazionale da questi assunto. È, però, necessario dimostrare l’esistenza di una relazione di causa ed effetto tra l’evento sopravvenuto e la violazione
dell’obbligo e la completa estraneità dello Stato autore della violazione, che con la
propria condotta non deve aver contribuito, neanche indirettamente o per negligenza,
a produrre la circostanza in esame.
Il ricorrere di una forza maggiore non esclude l’illiceità di un comportamento se uno
Stato si è assunto il rischio che l’evento imprevedibile si verificasse o, parimenti,
l’obbligo di impedirne il verificarsi.
Come rilevato da TANZI la formulazione dell’art. 23 lascia intendere che, per poter essere invocata, la forza maggiore deve incidere «in termini assoluti, di impossibilità all’adempimento, e
non in termini relativi, di maggiore onerosità dell’adempimento medesimo rispetto al momento
dell’assunzione dell’obbligo».
Giurisprudenza
I requisiti sopra citati, necessari affinché la forza maggiore possa operare come causa di
esclusione di un illecito, sono stati ribaditi dal Tribunale arbitrale investito della controversia
tra Francia e Nuova Zelanda nel caso Rainbow Warrior (sent. 30 aprile 1990), in cui la Nuova
Zelanda contestava la decisione del governo francese di rimpatriare «per ragioni mediche urgenti» un proprio agente, il maggiore Mafart, da una base militare francese installata sull’isola
neozelandese di Hao in cui era recluso, senza il consenso del governo neozelandese; per la
Francia, le ragioni mediche costituivano un’ipotesi di forza maggiore.
Il Tribunale respingeva la pretesa francese; citando i lavori della CDI, esso sosteneva che la
forza maggiore «è generalmente invocata per giustificare una condotta involontaria, o almeno
non intenzionale» e si riferisce ad «una forza irresistibile o ad un evento imprevisto» che non
lascia alcuna via d’uscita allo Stato rendendogli materialmente impossibile agire in conformità
ai propri obblighi. L’impossibilità deve essere assoluta e materiale, mentre non concreta un’ipotesi di forza maggiore l’esistenza di «circostanze che rendono l’adempimento (dell’obbligo) più
difficile o più oneroso».
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Come sopra ricordato, inoltre, l’illiceità di un comportamento non può essere esclusa se la
situazione di forza maggiore è conseguenza della condotta dello Stato che la invoca: nella pronuncia del 4 marzo 1991 relativa al caso Libyan Arab Foreign Investment Company (LAFICO)
c. Repubblica del Burundi, ad esempio, il Tribunale arbitrale cui fu sottoposta la questione
ritenne inapplicabile il principio di forza maggiore dal momento che «la pretesa impossibilità
non è il risultato di una forza irresistibile o di un evento esterno imprevisto, sottratto al controllo
del Burundi. Infatti, l’impossibilità è il risultato di una decisione unilaterale di quello Stato».
D)L’estremo pericolo
L’estremo pericolo, o distress (art. 24), è definibile come la situazione in cui si trova un
individuo-organo dello Stato, costretto a compiere un atto internazionalmente illecito per
salvare la vita propria o di persone a lui affidate da un pericolo grave e imminente.
In tal caso la violazione di una norma internazionale è compiuta volontariamente, ma
solo in quanto considerata un male minore rispetto alla perdita di vite umane.
Non va, peraltro, dimenticato che l’esimente in questione non può essere invocato
laddove il pericolo sia stato in tutto o in parte prodotto dallo Stato agente, ovvero nel
caso in cui lo stesso abbia tenuto una condotta idonea a determinare un pericolo uguale
o più grave (art. 24, par. 2).
Secondo la CDI, costituisce un esempio di estremo pericolo l’ingresso non autorizzato di aeromobili nel territorio di uno Stato straniero per salvare la vita dei passeggeri.
Nel 1946, ad esempio, in seguito ad un incidente diplomatico causato da voli non autorizzati di
aerei militari statunitensi sopra i cieli della Jugoslavia, i due Paesi stabilirono che solo situazioni
di emergenza in cui la vita dell’equipaggio fosse stata in pericolo avrebbero reso ammissibili tali
voli senza il preventivo consenso dello Stato avente giurisdizione sullo spazio aereo interessato.
Un altro caso tipico è costituito dall’ingresso non autorizzato di una nave militare in un porto
straniero a causa di una tempesta (come accaduto nel caso Creole).
E) Lo stato di necessità
La figura dello stato di necessità ripresa dal Progetto all’art. 25 configura, anch’essa,
una situazione di pericolo grave e imminente, in cui è, però, lo Stato (non l’individuoorgano) a vedersi costretto a violare un obbligo internazionalmente assunto.
Dottrina
Parte della dottrina (TREVES), peraltro, esprime delle riserve sulla effettiva configurabilità dello
stato di necessità quale autonoma causa di esclusione dell’illiceità, ritenendo più corretto ricondurre tale fattispecie alle figure della forza maggiore, del caso fortuito e dell’estremo pericolo.
Per CONFORTI la necessità dovrebbe essere riferita solo all’individuo-organo per difendere la
propria vita o quella di individui a lui affidati (qualificandosi, dunque, come estremo pericolo),
non allo Stato per la difesa dei suoi interessi, quand’anche vitali. Se ricondotta ad un preteso
«diritto di conservazione» dello Stato, infatti, la necessità finirebbe col giustificare abusi e
fenomeni di conquista, espansione territoriale etc.
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
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Parte terza Responsabilità internazionale dello Stato e risoluzione delle controversie
Lo stato di necessità costituisce una causa di esclusione della responsabilità internazionale solo in presenza di circostanze ben definite:
— quando è l’esclusivo e unico mezzo a disposizione dello Stato per salvaguardare un
interesse essenziale di fronte ad un pericolo grave e imminente;
— quando non compromette seriamente un interesse essenziale dello Stato o degli
Stati rispetto ai quali sussiste l’obbligo, o della Comunità internazionale nel suo
complesso.
Dall’esame di queste due condizioni si evince che lo stato di necessità non può essere
invocato se lo Stato disponeva di altri mezzi per salvaguardare quell’interesse, anche
se più dispendiosi.
Come ben risulta dalla formulazione dell’art. 25 («la necessità non può essere invocata
da uno Stato come causa di esclusione dell’illiceità … a meno che… » non ricorrano
le due condizioni sopra elencate), la regola generale è quella della non invocabilità,
salvo il ricorso di circostanze che lo giustifichino.
Il par. 2 dell’art. 25, inoltre, elenca due casi nei quali la necessità non può essere invocata da uno Stato quale causa di esclusione di illiceità:
— se è lo stesso obbligo internazionale a escludere tale possibilità;
— se lo Stato ha contribuito, con il suo comportamento alla situazione di necessità.
La Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza del 25 settembre 1997 relativa alla controversia
tra Ungheria e Slovacchia sul progetto Gabcíkovo-Nagymaros, ha affermato che lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità non può essere ammesso se non a titolo eccezionale.
F) La legittima difesa
La legittima difesa (art. 21, anche prevista dall’art. 51 della Carta ONU) è la fattispecie che autorizza l’uso della forza da parte dello Stato che ha subìto un attacco
armato. La dottrina è unanime nel ritenere che tale misura rivesta esclusivamente
carattere difensivo e non afflittivo, e la distingue dallo stato di necessità in quanto
diretta contro uno Stato che, avendo commesso un illecito internazionale, ha suscitato
la reazione di un altro.
La legittima difesa, al pari delle contromisure, rientra nella più generale fattispecie
dell’autotutela, ossia in quel complesso di azioni vòlte a reprimere un illecito che, per
questa loro funzione, perdono il carattere dell’antigiuridicità anche quando si traducono
in violazioni del diritto internazionale (CONFORTI, TANZI).
L’art. 21 del Progetto intende per legittima difesa ogni misura «presa in conformità
con la Carta delle Nazioni Unite»; da ciò discende che essa deve essere:
— proporzionale all’afflizione (in tal senso la sentenza della Corte Internazionale di
Giustizia del 1986 nel caso tra Nicaragua e Stati Uniti);
— necessaria (ossia rispondere ad un attacco in corso e non a una mera minaccia);
— secondo alcuni autori (in tal senso GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES), immediata.
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Capitolo 1 La responsabilità internazionale dello Stato
 167
Tale requisito non è unanimemente accolto, in quanto allo Stato attaccato potrebbe
occorrere tempo per organizzare la controffensiva.
Prassi internazionale
In astratto la legittima difesa costituisce una regola imprescindibile del diritto internazionale, a carattere
consuetudinario; il ricorso ad essa, tuttavia, può trasformarsi in un abuso nei confronti della sovranità
territoriale di altri Stati, come mostra la realtà fattuale delle relazioni interstatuali.
Un diritto naturale di legittima difesa è stato, ad esempio, invocato:
— nel 1976 da Israele, per giustificare l’irruzione in territorio ugandese, senza alcuna autorizzazione,
di truppe israeliane al fine di liberare gli ostaggi tenuti prigionieri da un gruppo palestinese;
— nel 1981, ancora da Israele, a giustificazione del bombardamento aereo del reattore atomico
iracheno Osiraq. Il Consiglio di Sicurezza condannava tale iniziativa con la ris. n. 487/81, definendola quale vero e proprio «attacco militare»;
— nel 1986 dagli Stati Uniti, a giustificazione del bombardamento di alcune città libiche;
— nuovamente dagli Stati Uniti, nel 2001, per legittimare gli attacchi armati contro l’Afghanistan
diretti a distruggere le basi dell’organizzazione terroristica Al Qaeda dopo la strage dell’11
settembre 2001.
In relazione all’ultimo caso è opportuno rilevare che, alla luce dei limiti di proporzionalità, necessità
e immediatezza prima citati, la legittimità della guerra «preventiva» in Afghanistan (v. amplius Parte
Quarta, Cap. 3) dovrebbe essere negata.
In un quadro caratterizzato da sempre più frequenti abusi nel ricorso alla legittima
difesa appare oltremodo importante l’analisi che la Corte Internazionale di Giustizia
ha dato del concetto in esame.
Nella sentenza del 1986 sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il
Nicaragua, la Corte ha specificato che il diritto alla legittima difesa:
— fa parte delle norme di diritto consuetudinario;
— può, in concreto, estendersi oltre le condizioni previste dall’art. 51 dello Statuto
ONU, ma pur sempre nel rispetto di determinati requisiti;
— deve essere esercitato adottando misure che rispondano in modo proporzionato ad
un attacco armato già sferrato.
La nozione di attacco armato, inoltre, ricomprende l’azione di bande armate attraverso
frontiere internazionali e l’invio di bande armate sul territorio di uno Stato straniero (nel
secondo caso, purché l’operazione condotta equivalga ad un ipotetico attacco armato
da parte di forze regolari), che devono essere effettivi, documentabili e imputabili allo
Stato contro cui si reagisce.
Viceversa, non costituisce attacco armato l’assistenza ai ribelli nel corso di una guerra
civile.
G)Le contromisure
La contromisura, anche detta rappresaglia, viene definita all’art. 22 del Progetto come
l’adozione di un comportamento illecito, ma giustificato dall’aver subìto da parte
di un altro Stato il mancato rispetto di un obbligo internazionale.
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Parte terza Responsabilità internazionale dello Stato e risoluzione delle controversie
Il termine «contromisura» è ormai quasi unanimemente preferito a quello tradizionale
di «rappresaglia» in quanto descrive una condotta non caratterizzata da alcun elemento
di natura afflittiva, mirante a realizzare la cessazione dell’illecito e a reintegrare l’ordine
giuridico violato (CONFORTI).
La previsione del ricorso a tale strumento può rinvenirsi nell’art. 60 della Convenzione
di Vienna sul diritto dei trattati, che autorizza la sospensione temporanea di un accordo
nei confronti dello Stato venuto meno ai propri obblighi (in virtù del principio inadimplenti non est adimplendum).
Poiché spesso sono state commesse azioni illecite ben più gravi rispetto al (vero o
presunto) danno ricevuto, il Progetto di articoli limita la facoltà di ricorrere a contromisure nel Capitolo II della Parte Terza, imponendo:
— il divieto di porre in essere contromisure che presuppongono l’uso della forza, già
sancito dallo Statuto delle Nazioni Unite;
— l’obbligo di adottare contromisure esclusivamente nei confronti dello Stato che ha
commesso l’illecito internazionale;
— la reversibilità degli effetti prodotti dalle contromisure, nel senso che esse, avendo
lo scopo di reintegrare l’ordine giuridico violato, devono terminare nel momento in
cui lo Stato offensore pone fine all’illecito, consentendo il ripristino delle normali
relazioni internazionali;
— la proporzionalità delle contromisure;
Nel 1985 Israele effettuò un bombardamento alla periferia di Tunisi, dove aveva sede il quartier
generale dell’OLP. La contromisura, qualificata dal governo israeliano come reazione legittima
ad atti di terrorismo di cui Tunisi risultava indirettamente responsabile (per aver accolto l’OLP
sul proprio territorio) fu condannata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con ris. n. 573-1985:
in quanto sproporzionata e attuata «in violazione flagrante della Carta delle Nazioni Unite,
del diritto e delle norme di condotta internazionale», essa costituiva un’aggressione armata
da cui derivava un obbligo di riparazione in favore della Tunisia;
— il divieto di violare norme imperative del diritto internazionale, in particolare quelle
in materia di tutela dei diritti umani e quelle di carattere umanitario che vietano
rappresaglie.
Diversa dalla contromisura è la ritorsione, che implica l’adozione, da parte di uno
Stato, di un atto inamichevole, ma lecito, come l’attenuazione o la rottura della
collaborazione economica.
Altre disposizioni del Progetto di articoli mirano a tenere aperto ogni utile canale di collegamento
tra lo Stato che ha commesso l’illecito e lo Stato leso, onde tentare di comporre la controversia in
modo pacifico ed evitare il ricorso a contromisure.
A tal fine è previsto che lo Stato leso debba preventivamente intimare allo Stato offensore l’obbligo
di porre fine all’illecito ed eventualmente avvertirlo della decisione di adottare contromisure, offrendosi comunque di negoziare altre possibili soluzioni. Sempre in quest’ottica, le sanzioni adottate
devono essere sospese se il caso è oggetto di valutazione da parte di un tribunale internazionale,
e non possono essere rivolte contro il personale diplomatico e consolare (compresi i relativi beni
e archivi) dello Stato offensore.
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Capitolo 1 La responsabilità internazionale dello Stato
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La contromisura può essere vietata da un sistema istituito convenzionalmente tra gli
Stati di un’organizzazione internazionale, in cui il rispetto delle obbligazioni non è
impostato su un regime di proporzione tra il «dare» e l’«avere» (sinallagmatico). CONFORTI sostiene che ogni comunità ristretta di Stati impone a ciascuno di essi l’obbligo
di non adottare misure di autotutela in virtù dei principi di solidarietà e collaborazione.
H)Altre circostanze escludenti l’illiceità
Parte della dottrina include tra le circostanze escludenti l’illiceità di una condotta
internazionale anche:
— la reciprocità, intesa come l’applicazione a beneficio di Stati, organi e cittadini
stranieri di un determinato trattamento, a condizione che il medesimo trattamento
sia attribuito allo Stato accordante, ai suoi organi e cittadini (CONFORTI). Essa
costituisce, indirettamente, un meccanismo automatico di adozione di una contromisura, oltre a rivestire carattere preventivo;
— il rispetto dei princìpi fondamentali della Costituzione dello Stato, altrimenti
definibili come ordine pubblico internazionale interno, la cui rilevanza nel sistema
costituzionale di uno Stato sarebbe tale da imporre la disapplicazione di norme
internazionali pattizie. In tal senso vanno lette le numerose sentenze emesse sia
dalla Corte costituzionale italiana sia da altre Corti supreme in tema, ad esempio,
di estradizione per reati punibili all’estero con la pena di morte.
L’esigenza di rispettare tali princìpi si scontra, in realtà, con l’irrilevanza del diritto interno per il
diritto internazionale (art. 3 della Prima Parte del Progetto e art. 27 della Convenzione di Vienna
del 1969 sul diritto dei trattati: le disposizioni in essi contenute escludono che il diritto interno
possa influire, rispettivamente, sull’illiceità internazionale e sull’inosservanza di norme pattizie).
Dottrina
Per CONFORTI la tesi che consentirebbe ad uno Stato di invocare i propri principi costituzionali
come causa escludente l’illiceità di un comportamento non sembra confermata né dal Progetto,
né dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, che all’art. 27 impone di non
violare norme pattizie in virtù di norme interne.
L’Autore, d’altro canto, la ritiene «non del tutto azzardata», come dimostrato dal fatto che, nel caso
delle sentenze emesse dal giudice costituzionale italiano, non vi sono state successive proteste
significative da parte di altri Stati, e auspica un’inversione di tendenza «alla luce di una moderna e
realistica visione del diritto internazionale che contemperi i valori internazionalistici con quelli interni».
8.Le conseguenze dell’illecito
A) Generalità
La commissione di un illecito internazionale consiste nella violazione di una norma
giuridica internazionale, detta «norma di primo grado», la quale fa sorgere una norma
di secondo grado che produce obblighi a carico dello Stato inottemperante e diritti a
carico dello Stato leso.
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Parte terza Responsabilità internazionale dello Stato e risoluzione delle controversie
Gli obblighi, che costituiscono le conseguenze dell’illecito, sono stati codificati nella
Parte Seconda del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale dello Stato
(artt. 28-41), e consistono:
— nella cessazione dell’illecito;
— nella riparazione, sottoforma di restitutio in integrum, soddisfazione, risarcimento
monetario e/o riparazione per equivalente;
— nel ricorso a contromisure da parte dello Stato leso (v. par. 7 lett. G).
B) Gli atteggiamenti degli Stati responsabili
Nel D.I. manca — al contrario che nel diritto interno — una giurisdizione obbligatoria
per cui eventuali comportamenti illeciti — quando non tocchino la pace e la sicurezza
internazionale — devono tener conto di una serie di parametri che sono spontaneamente
autoregolamentati e mitigati dall’unilateralismo e la discrezionalità dei singoli Stati.
Tali parametri per TANZI sono:
— buona fede;
— ragionevolezza;
— autocontenimento automatico attraverso il quale lo Stato «contravventore» si rende
conto che gli argomenti giuridici — a fondamento delle proprie pretese — non
possono essere ragionevolmente confutati e, pertanto, valuta il più idoneo comportamento da tenere di fronte all’illecito.
C) La cessazione dell’illecito
L’obbligo di cessazione dell’illecito è prescritto in ogni caso di illecito continuato,
ossia quando l’esistenza di una situazione illecita non si esaurisce in un’azione puntuale
ma si perpetua nel tempo.
Ai sensi dell’art. 30 del Progetto, però, la conclusione del comportamento omissivo o
commissivo contrario al diritto internazionale non costituisce una forma di riparazione
che estingue la responsabilità dello Stato, bensì un adempimento tardivo e parziale
della norma internazionale primaria precedentemente violata.
L’obbligo così delineato non va, pertanto, confuso con la restituzione in forma specifica, che si applica a tutti i tipi di illecito (non solo a quelli a carattere continuo) e non
comporta un mero obbligo di sospendere la condotta illecita, bensì il ristabilimento
della situazione che sarebbe esistita in assenza della violazione.
Dottrina
CONFORTI sostiene che la cessazione e la cancellazione degli effetti dell’illecito costituiscono
due aspetti della restitutio in integrum (si pensi al caso della liberazione di ostaggi), che discende direttamente dalla violazione della norma primaria e non costituisce un obbligo nuovo. Per
LEANZA-CARACCIOLO è preferibile tenere distinte le due ipotesi di cessazione e riparazione
in virtù del fatto che, come affermato anche dalla CDI nel Commentario al Progetto, solo la
seconda è sottoposta al limite di proporzionalità.
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Capitolo 1 La responsabilità internazionale dello Stato
 171
D)La riparazione
La riparazione costituisce una forma di risarcimento dei danni materiali e morali
nei confronti dello Stato offeso, ed è suscettibile di concretizzarsi in forme diverse
in base al tipo di illecito commesso (art. 34 del Progetto): la restitutio in integrum, la
soddisfazione e il risarcimento monetario.
La restitutio in integrum, anche detta restituzione in forma specifica o riparazione integrale, costituisce la forma principale, e implica l’obbligo per lo Stato autore
dell’illecito «di cancellare tutte le conseguenze del fatto illecito e ristabilire lo stato
di cose che sarebbe verosimilmente esistito, se il suddetto fatto non fosse stato commesso» (Corte Permanente di Giustizia internazionale, sentenza del 1928 sull’affare
dell’Officina di Chorzòv, e art. 35 Progetto della CDI).
Affinché lo Stato leso possa esigerla, è necessario che la riparazione sia materialmente
possibile, non comporti la violazione di una norma di jus cogens, non sia eccessivamente
onerosa per lo Stato autore dell’illecito e non risulti sproporzionata rispetto ai benefici
che potrebbero derivare dalla scelta di uno strumento diverso, come il risarcimento
monetario.
La soddisfazione, invece, consiste nella riparazione del pregiudizio morale arrecato
dall’illecito e prescinde dalla corresponsione del risarcimento dei danni (CONFORTI).
Il Progetto, all’art. 37, indica a titolo esemplificativo alcune forme di soddisfazione:
il riconoscimento formale di aver commesso l’illecito, le scuse fornite da un organo
ufficiale, l’espressione del proprio rincrescimento, l’omaggio alla bandiera dello Stato
leso etc.
Il risarcimento monetario, infine, si concretizza nella corresponsione di una determinata somma, allo Stato leso, a titolo di indennizzo. Viene versato sia a titolo di
riparazione per equivalente, vale a dire pagando una somma di denaro pari al valore
che avrebbe avuto le reintegrazione dello status quo ante, sia a titolo di riparazione
dei danni provocati, in aggiunta alla somma precedente o in via autonoma. L’art. 36
del Progetto della CDI sancisce l’obbligo di risarcimento sia per il danno emergente
che per il lucro cessante.
Per la determinazione della somma dovuta è opportuno precisare che:
— nel caso di violazioni concernenti norme internazionali poste a tutela delle persone e dei beni
degli stranieri, l’ammontare del danno risarcibile deve essere commisurato a quello realmente
arrecato allo Stato leso;
— è da considerare risarcibile in generale il solo danno diretto, che sia cioè collegato da un nesso
di causalità ininterrotto al fatto illecito;
— alla somma da versare allo Stato leso vanno aggiunti gli interessi legali;
— la valutazione deve avvenire nel rispetto del principio di equivalenza, per cui la riparazione
non può essere né inferiore, né superiore al pregiudizio arrecato.
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Parte terza Responsabilità internazionale dello Stato e risoluzione delle controversie
Giurisprudenza
Numerosi sono i casi che possono essere citati in merito agli obblighi di restitutio in integrum,
soddisfazione e risarcimento monetario.
In relazione alla restitutio in integrum, nel parere consultivo reso il 9 luglio 2004 sulla costruzione di un Muro di separazione nei Territori palestinesi la Corte Internazionale di Giustizia,
dopo aver reputato illecito il comportamento di Israele, precisò che lo Stato ebraico avesse
«l’obbligo di restituire tutti i beni immobili illecitamente confiscati a qualunque persona fisica
o giuridica ai fini della costruzione del muro nei territori palestinesi occupati. Nel caso in cui
tale restituzione si dimostrasse materialmente impossibile, Israele ha l’obbligo di compensare
i soggetti danneggiati».
Nel caso Rainbow Warrior, in cui la Francia aveva violato l’accordo concluso con la Nuova
Zelanda di confinare per tre anni nell’isola di Hoa due agenti francesi sabotatori della nave
appartenente all’organizzazione ambientalista Greenpeace (facendoli rimpatriare prima della
data convenuta per ragioni mediche urgenti), il Tribunale arbitrale impose al governo francese
(sent. 30 aprile 1990) due modalità di soddisfazione: la pubblicazione di una dichiarazione
solenne con cui ammettere la violazione dei propri obblighi internazionali e il versamento di
una somma di denaro in un fondo volto alla promozione di relazioni più stretta tra i cittadini
francesi e quelli neozelandesi.
L’obbligo di risarcimento dei danni arrecati da un’azione violenta a beni, mezzi e organi di uno
Stato straniero, infine, fu espresso da una sentenza della CIG il 9 aprile 1949 relativa all’affare
del Canale di Corfù, con cui le autorità albanesi, responsabili di aver prodotto gravi danni a navi
inglesi transitanti nel Canale, furono condannate al pagamento di una somma di denaro adeguata
alla copertura delle spese sostenute per la riparazione e la sostituzione delle navi danneggiate.
9.La determinazione dello status di «Stato leso»
Si definisce «leso» in un suo diritto soggettivo lo Stato che ha subìto un pregiudizio,
materiale e non, dalla violazione di un obbligo primario da parte di un altro Stato.
La nozione di «Stato leso» è di estrema importanza, dal momento che quest’ultimo
costituisce l’unico soggetto legittimato a reagire, ossia a porre in essere contromisure,
pretendere la cessazione dell’illecito e far valere tutte le conseguenze riconducibili ad
un illecito internazionale.
L’art. 42 del Progetto, a riguardo, stabilisce che:
— se l’illecito consiste nella violazione di norme istitutive di rapporti basati sulla reciprocità, è da ritenersi leso lo Stato titolare del diritto soggettivo corrispondente
all’obbligo violato;
— se le norme violate pongono obblighi solidali, è leso lo Stato in ordine al quale la
violazione ha una particolare incidenza;
— infine, nel caso di cd. obblighi integrali, può considerarsi lesa l’intera Comunità
internazionale.
Dal dettato normativo, pertanto, si evince che la facoltà di invocare la responsabilità
internazionale di uno Stato che ha commesso un illecito può essere attribuita, a determinate condizioni, anche a quegli Stati che non hanno subìto direttamente il danno.
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Capitolo 1 La responsabilità internazionale dello Stato
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Ai sensi dell’art. 48, è lecito ammettere tali soggetti:
— se l’obbligo violato è dovuto nei confronti di un gruppo di Stati ed è posto a tutela di interessi collettivi del gruppo. Trattasi di obblighi discendenti da fonti sia consuetudinarie, sia
convenzionali (ad es. la tutela ambientale di una determinata area);
— se l’obbligo violato è dovuto nei confronti dell’intera Comunità internazionale. Tale obbligo
deriva, pertanto, da norme imperative di diritto internazionale che trovano applicazione erga
omnes.
Le azioni adottabili da uno Stato non direttamente leso sono indicate all’art. 48, par. 2,
e consistono nella richiesta di cessazione dell’illecito, con eventuale garanzia di non
ripetizione, e nella richiesta di riparazione a favore dello Stato leso o dei beneficiari
dell’obbligo violato.
10.La violazione di norme imperative di diritto internazionale
Il riconoscimento dell’esistenza di obblighi erga omnes a fronte di norme di jus cogens
induce a ritenere che esistano diversi livelli di gravità di un illecito internazionale. Per
tale ragione, agli artt. 41 e 42 del Progetto sulla responsabilità internazionale dello Stato
sono state inserite disposizioni applicabili a violazioni gravi e sistematiche di obblighi
scaturenti da norme imperative del diritto internazionale.
Per «norma imperativa» la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati intende, all’art. 53, «una
norma accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come
norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un’altra
norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere».
Il Progetto non individua in concreto le fattispecie rientranti nello jus cogens, sebbene
il Commentario redatto dalla Commissione di Diritto Internazionale, alla luce della
giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia e di alcuni atti internazionali,
le identifichi con:
— il divieto di commettere atti di aggressione o genocidio;
— l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali dell’uomo (con particolare riferimento
al divieto di ogni forma di schiavitù alla discriminazione razziale);
— il divieto di uso della forza;
— il rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli.
Ai sensi dell’art. 41, la violazione di tali norme da parte di uno Stato comporta a carico
degli altri:
— l’obbligo di cooperare per far cessare immediatamente l’illecito, avvalendosi di
tutti i mezzi leciti a disposizione;
— l’obbligo di non riconoscere come legittima qualunque situazione determinatasi
in seguito alla commissione dell’illecito;
— il divieto di fornire aiuto o assistenza nel perpetuare la situazione determinata dal
comportamento illecito.
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Parte terza Responsabilità internazionale dello Stato e risoluzione delle controversie
Giurisprudenza
Nel parere consultivo reso il 9 luglio 2004 circa il Muro di separazione nei Territori palestinesi, la Corte Internazionale di Giustizia è stata particolarmente chiara sull’argomento. Dopo
aver constatato che alcuni degli obblighi violati dallo Stato israeliano avevano efficacia erga
omnes (nello specifico, il rispetto del principio di autodeterminazione dello Stato palestinese
e del diritto internazionale umanitario), la Corte concludeva affermando che «data la natura e
l’importanza di tali obblighi, tutti gli Stati sono tenuti a non riconoscere la situazione illecita…
e ad impegnarsi per far cessare qualunque impedimento al diritto di autodeterminazione del
popolo palestinese».
Questionario
1. Da cosa è determinata la responsabilità internazionale di un soggetto di diritto
internazionale? (par. 1)
2. Quali sono gli elementi costitutivi di un illecito internazionale? (parr. 2-5)
3. Come si distinguono gli illeciti internazionali in base alla loro natura o struttura? (par. 4)
4. È prevista nel diritto internazionale una responsabilità per fatti leciti? (par. 6)
5. La colpa e danno sono requisiti necessari alla qualificazione di una condotta come
illecito internazionale? (par. 7)
6. Quali sono le circostanze che escludono l’illiceità di un comportamento? (par. 8)
7. Quali obblighi derivano dalla commissione di un illecito internazionale? (par. 9)
8. Quali obblighi derivano dalla violazione di norme di jus cogens? (par. 11)