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L’ambiguità della bruttezza nel pensiero estetico di
Rosenkranz
Maria Luisa Bonometti
Sommario
Muovendo da una collocazione di Rosenkranz all’interno del contesto filosofico d’appartenenza (hegeliano e post-hegeliano in primis) il saggio vuole dimostrare come la principale categoria di
lettura dell’Estetica del brutto sia l’ambivalenza, attraverso l’annotazione di una serie di apparenti contraddizioni che si possono
riunire entro tre ambiti; l’attrazione/repulsione nei confronti del
brutto, il rapporto dell’autore con il pensiero settecentesco, e la
sua rielaborazione del pensiero hegeliano.
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
Un indice dell’incompletezza e della lacunosità
della nostra filosofia dell’arte e del gusto è il fatto
che a tutt’oggi non esiste un solo tentativo considerevole di fondare una teoria del brutto. Eppure
il brutto e il bello sono correlati inseparabili.1
uesto scrive Schlegel nel 1795, e Rosenkranz sembra proprio accogliere il suo appello2 quando, nel 1853, consegna alle stampe la sua
Estetica del brutto, candidandosi come primo autore a dedicare a
questo tema un’ampia trattazione sistematica3 : trattazione che non si esaurisce nell’enunciazione teorica di principi astratti, ma che si configura come
una vera e propria fenomenologia del brutto, costellata di esempi tratti dagli
ambiti più diversi (fisico, naturale, sociale, morale) e soprattutto dall’arte
e dalla letteratura contemporanea, di cui Rosenkranz si mostra un attento, anche se decisamente critico, conoscitore. Ritorneremo più avanti sulla
compresenza di questi diversi approcci, sistematico e descrittivo, così come
approfondiremo la concezione del brutto che emerge dalle pagine della sua
Estetica – la quale si configura come descrizione di un percorso dialettico
concludentesi con la riconciliazione della bruttezza nel bello grazie alla mediazione del comico – il suo inserirsi nella riflessione precedente sul tema,
e le novità apportate a tale “tradizione”4 o, al contrario, i “debiti” a essa
dovuti.
Q
1
F. Schlegel, Sullo studio della poesia greca, a cura di A. Lavagetto, con un saggio di
G. Baioni, Guida, Napoli 1988, p. 132.
2
Abbiamo qui utilizzato il termine “sembrare” non a caso: se infatti Rosenkranz attribuisce a Lessing e al suo Laocoonte il merito di aver dato inizio alle prime analisi tematiche
sul brutto, egli nella sua Estetica tralascia completamente di citare lo Studio della poesia
greca e il suo autore, che viene ricordato in un’unica occasione come traduttore della saga
di Merlino di Robert de Borron (XXIII sec.); cfr. K. Rosenkranz, Estetica del brutto, a
cura di S. Barbera, presentazione di E. Franzini, appendice bibliografica di P. Giordanetti,
Aesthetica, Palermo 2004, p. 237).
3
Per amor di completezza, o per un eccesso di pignoleria, potremmo citare come antecedente un breve e misconosciuto trattatello settecentesco sul brutto, a opera di William
Hay: Deformity: an essay (1754), in cui si cerca di dimostrare, rovesciando la convenzione classica del kalos kai agathos, che la bruttezza si possa accompagnare alla bontà e la
malvagità a una bella costituzione fisica.
4
Anche se, in realtà, non esiste in senso lato una “tradizione” nella riflessione sul brutto:
riflessione che non presenta nelle varie epoche alcuna linearità, in quanto questo tema non
solo è stato escluso dal dominio dell’estetica fino al XVIII secolo (con le illustri eccezioni
di Aristotele e della poetica barocca del mirabile), ma è spesso stato liquidato come “mera
negazione del bello” e dunque non indagato nelle sue caratteristiche specifiche; in sintesi
potremmo comunque individuare tre orientamenti fondamentali nella riflessione sul concetto di bruttezza: la negazione del suo valore estetico e ontologico nell’identificazione con
il male (la posizione d’ascendenza platonico-agostiniana caratteristica, con significative
oscillazioni, di antichità, medioevo ed età rinascimentale), una sua ammissione nella pratica artistica che non trova però pieno riscontro nell’analisi teorica (il tardo-Cinquecento
e il Barocco) e infine la sua parziale giustificazione come elemento necessario alla realizzazione di effetti “positivi”, nel tragico e nel comico, che s’accompagna a una visione
critica dell’arte moderna non più interpretabile attraverso la categoria del bello (Lessing
e il pensiero ottocentesco).
2
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Figura emblematica del Centro nella consueta divisione della scuola hegeliana in una Destra e Sinistra, divisione fatta per la prima volta da Strauss
e poi approfondita da Michelet5 , Rosenkranz si fa portavoce di una posizione
“moderata”, che, con le parole di Franzini, «non eccede né nella scolastica
hegeliana né negli eccessi politici e ideologici dei giovani hegeliani»6 ; ed è
proprio nell’ambito della riflessione estetica sviluppatasi in quest’orizzonte di
pensiero7 che il discorso sul brutto, sollevato dalla sua abituale genericità,
diventa parte integrante della meditazione estetica, intesa come autentica
indagine filosofica sull’essenza della bellezza.
È certamente Hegel dunque a rappresentare il punto d’avvio di una riflessione sulla bruttezza artistica che non è più concepita come il contrario
della bellezza, ma come una delle tante forme che l’arte moderna può e deve
assumere; e rivolgendoci in modo più specifico all’Estetica del brutto, non
possiamo non citare l’influenza della riflessione di Kant sul sublime e sul
limite di rappresentabilità di ciò che è brutto, che magistralmente emerge
5
Distinzione che si trova in D. F. Strauss, Streitschriften zur Verteidigung meiner
Schrift über das Leben Jesu [Polemiche in difesa del mio scritto sulla vita di Gesù], III, Tubinga 1838 e L. Michelet, Geschichte der letztzen Systeme der Philosophie in Deutschland
[Storia degli ultimi sistemi filosofici in Germania], parte II, Berlino 1838.
6
E. Franzini, “Presentazione” in K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 8; a riprova
di ciò potremmo citare un passo della prima monografia rosenkranziana dedicata a Hegel,
del 1844, in cui il pensatore osserva criticamente il panorama filosofico a lui contemporaneo; il nostro, dopo una stoccata a quei giovani hegeliani che pretendono di portare a
compimento la filosofia del maestro (Feuerbach, Marx, Ruge), riserva accesi strali a quanti,
«con una gloria fittizia da loro stessi fabbricata per mezzo di effimere lodi giornalistiche»,
improvvisano riforme e rivoluzioni della filosofia. Cfr. K. Rosenkranz, Georg Wilhelm
Friedrich Hegel’s Leben, Duncker und Humblot, Berlin 1844 (tr. it. di R. Bodei, Firenze
1966), in K. Löwith, Da Hegel a Nietzche, Einaudi, Torino 19491 , p. 92.
7
Il post-hegelianesimo, appunto, per un maggior inquadramento del quale rimandiamo
a F. Iannelli, “Hegel e gli hegeliani sul brutto: una ricezione contemporanea”, in Materiali di estetica, 2004, n.10; G. Oldrini, L’estetica di Hegel e le sue conseguenze, Laterza,
Roma-Bari 1994; M. Ravera, Estetica post-hegeliana, Mursia, Milano 1978; G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, Il tripode, Napoli 1995; e non avendo in questa sede la possibilità
di soffermarci oltre sui vari “discepoli” di Hegel impegnati nella riflessione estetica sul
concetto di brutto, ci limiteremo a indicarne le principali opere, che hanno preceduto
e in parte ispirato la trattazione di Rosenkranz: K. Fischer, Diotima oder die Idee des
Schönen, Pforzheim 1849 (non esiste traduzione italiana); A. Ruge, Neue Vorschule der
Ästhetik. Das Komische mit einen Komischen Anhange, [Nuova propedeutica all’estetica.
Il comico con un’appendice comica], Halle 1837; non esiste traduzione italiana integrale
dell’opera, ma alcuni suoi brani sono stati tradotti da Andrea Pinotti e commentati da
Gabriele Scaramuzza in G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, cit.; F. T. Vischer, Über das
Erhabene und das Komische. Ein Beitrag zur Philosophie des Schönen, Stuttgart 1837 (
Il sublime e il comico. Un contributo alla filosofia del bello, a cura di E. Tavani, Aesthetica, Palermo 2000) le cui tesi saranno poi riprese in Id., Ästhetik oder Wissenschaft des
Schönen, Stuttgart 1846-1858, 5 voll., di cui non esiste traduzione italiana; C. H. Weisse,
System der Ästhetik als Wissenschaft von der Idee der Schönheit [Sistema di estetica come
scienza dell’idea del bello], Leipzig 1830; anche in questo caso, come per Ruge, non esiste traduzione italiana integrale dell’opera, anche se alcune sue parti sono state tradotte
da Andrea Pinotti e commentate da Gabriele Scaramuzza in G. Scaramuzza, Il brutto
nell’arte, cit. .
3
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nelle pagine della Critica del giudizio e dell’Antropologia pragmatica; e soprattutto, lo scritto kantiano sulla concezione di grandezza negativa8 , fonte
d’ispirazione dichiarata nella composizione dell’opera del nostro.
Kant, Hegel e l’orizzonte post-hegeliano non sono tuttavia le uniche chiavi di lettura per interpretare il pensiero estetico del nostro; un pensiero che
spesso non viene teorizzato esplicitamente ma che si deve ricostruire attraverso degli accenni e delle allusioni significative disseminate nel corso del
testo; e che presenta in più punti una forte influenza dell’estetica settecentesca, a dimostrare un lato “classicista” della filosofia di Rosenkranz svolto
attraverso il riferimento ad autori quali Batteux, Lessing e Baumgarten, e a
temi propri della riflessione del tempo.
Da questo pur brevissimo quadro introduttivo possiamo tuttavia già notar emergere quella che secondo la nostra interpretazione è la cifra principale
del pensiero di Rosenkranz: l’ambivalenza, intesa come oscillazione tra posizioni e riferimenti contrapposti nella ricomposizione di un nucleo teorico
unitario, e che acquista senso positivo nell’indicare l’irriducibilità del filosofo
a una tradizione univoca e a un orizzonte di riflessione già acquisito, per cui
non è possibile comprendere la sua opera senza un confronto diretto con la
“materia viva” delle sua pagine e i numerosissimi riferimenti, esplicitati o
meno, che da esse si sviluppano.
Nel corso dell’Estetica del brutto molteplici sono le istanze ambivalenti
che si presentano al lettore, e che vedremo potersi riassumere in tre macrocategorie; tuttavia, come appena accennato, è già possibile individuarne il
primo ambito soltanto soffermandosi a ricostruire la “mappa” degli autori e
dei temi che hanno influenzato il nostro nella stesura della sua opera, caratterizzata dall’oscillazione tra l’adesione alla filosofia hegeliana, spesso solo
integrata come “struttura formale” di un pensiero che viene poi sviluppato
in modo autonomo, e la vicinanza alla riflessione estetica settecentesca.
Se è vero che già a partire dal Settecento la letteratura s’avvia a illustrare
la bruttezza della nuova civiltà industriale, tuttavia di questa realtà sociale
e artistica ci si rende teoricamente consapevoli solamente nel momento in
cui essa incontra lo sguardo di una filosofia della storia “forte” come quella
hegeliana, in cui il pensiero razionale deve giustificare la realtà anche laddove si presenti ingiustificabile; per cui possiamo affermare che le indagini
hegeliane e post-hegeliane sul brutto siano da interpretarsi in primo luogo
come una “giustificazione teorica” di eventi reali: giustificazione in cui assume una valenza fondamentale il ruolo del negativo, che per Hegel costituisce
il “momento vitale” e fondante del processo dialettico, pur nel suo successivo
8
Si tratta di Vesuch, den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen, [1763] (“Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative”,
in Scritti precritici, tr. di P. Carabellese, a cura di A. Pupi, con introduzione di R.
Assunto, Laterza, Roma-Bari 1982), su cui ha opportunamente portato l’attenzione H.
Funk, Ästhetik des Häßlichen. Beiträge zum Verständnis negativer Ausdrucksformen im
19. Jahrhundert, Berlin 1973, in G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, cit., p. 125.
4
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risolversi e annullarsi nel «per sè» o sintesi; e in questo senso analogo è il
ruolo del brutto nei confronti del bello nella trattazione di Rosenkranz (e,
più in generale nel pensiero estetico post-hegeliano).
Al brutto, infatti, viene rivendicato un certo spazio, variabile a seconda
delle arti, a patto però ch’esso sia reso funzionale a esiti “belli” o comunque
inscrivibili nelle consuete categorie estetiche (il sublime, il tragico, o, nel
nostro caso, il comico); e caratteristico a questo riguardo è l’opera di Lessing,
notevole influenza nella trattazione rosenkranziana, per il quale la presenza
del brutto in arte è sì giustificata, ma entro certi limiti: esso può infatti
essere rappresentato, ma soltanto in poesia, e purchè si riveli un elemento
utile a creare effetti comici o tragici, in quanto essa, arte temporale, permette
di mitigare l’impatto della bruttezza nel suo svolgersi in parti successive.
Procedimento, come visto, impensabile per la pittura: arte spaziale, oltre che
arte bella, essa non può rappresentare il brutto nel suo esprimersi attraverso
segni naturali e non arbitrari.
Rosenkranz mostra di conoscere molto bene l’opera di Lessing9 , che cita
più volte nell’Estetica del brutto: e tuttavia egli non si trova a condividere i
presupposti del filosofo che pur così importante è stato per la riflessione sul
brutto, e, soprattutto, spesso mostra una comprensione poco adeguata del
suo pensiero:
È noto che Lessing, nel Laocoonte, ha cercato di determinare i confini della pittura e della poesia. [. . . ] In tale ricerca, dalla sezione 23
alla 25, Lessing ha escluso il brutto dalla pittura, rivendicandolo alla
poesia. Ma è un errore [. . . ]. Lessing distingue a questo punto una
bruttezza innocua per il ridicolo e una bruttezza nociva per l’orrido, e
osserva che nella pittura la prima impressione del ridicolo e dell’orrido
si dissolve presto e ciò che rimane è solo lo sgradevole e l’informe. Ma
nel condurre la dimostrazione prende i materiali sempre e soltanto dalle
opere della poesia, non della pittura e perciò – come vedremo più a fondo nella parte successiva della nostra indagine trattando del concetto
di nauseante10 – ha confinato la pittura in limiti troppo angusti.11
9
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 271. «A ben vedere anche qui [riguardo
alla nozione per cui il brutto è riconosciuto come momento integrativo dell’estetica], come
in molte altre cose, il precursore vero e proprio è stato Lessing, nel Laocoonte, dove si
tratta (capitoli XXIII-XXV) del brutto e del nauseante».
10
Cfr. ibid., pp. 203-209. Nel paragrafo dedicato al nauseante pur non citando espressamente Lessing, Rosenkranz nega implicitamente la posizione per cui alla pittura non sia
lecito rappresentare il brutto, riportando una nutrita serie di esempi corredati da osservazioni teoriche. Anzitutto, egli nota «che da questo punto di vista l’olfatto abbia una
preminenza sensitiva, è cosa certa»: motivo per cui l’arte può permettersi qualche prudente
escursione entro soggetti che nella realtà sarebbero bollati come ripugnanti. Seguono altre
esemplificazioni tratte dalla poesia come dalla pittura, a negare ancora implicitamente il
paradigma lessinghiano, e infine c’imbattiamo in un caso particolare di rappresentazione del nauseante, tratto dalla pittura vascolare greca, che ci mostra addirittura come la
pittura possa raffigurare ciò che spesso in poesia è stato narrato con esiti inammissibili.
11
Ibid., p. 117.
5
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Contrariamente a quanto potrebbe apparire a un primo approccio, la
differenza tra i due autori non si situa tanto nelle posizioni opposte riguardo
alla possibilità di rappresentazione del brutto (per Lessing lecita soltanto
alla poesia, per Rosenkranz a qualsiasi arte), ma trova la sua radice più
profonda in due diverse concezioni del rapporto tra le arti.
Il nucleo teorico del discorso di Lessing infatti mira a mettere in rilievo
la loro differenza proprio per meglio comprenderne la specificità espressiva;
egli vuole cioè evidenziare come la pluricategorialità dell’artistico sia irriducibile a qualsiasi principio unitario: di conseguenza, l’analisi lessinghiana
non può accettare la teoria delle arti sorelle, dell’ut pictura poiësis di oraziana ascendenza che considera la pittura come poesia muta, e la poesia come
pittura parlante12 ; essa deve bensì volgersi verso il riconoscimento della peculiarità di questi due modi di far arte, e il gruppo scultoreo del Laocoonte
si configura come perfetta occasione per sviluppare tale riflessione: poichè
l’atteggiamento che in tale rappresentazione il sacerdote assume è molto distante da quello descritto nei versi di Virgilio13 , a dimostrazione del fatto che
uno stesso oggetto di narrazione deve essere affrontato con mezzi differenti
perché diverse sono le possibilità espressive e rappresentative dell’arte14 .
Tale impostazione si riflette immediatamente già nella Prefazione dell’opera in questione: nelle prime pagine della sua trattazione, infatti, Lessing ricapitola le tre figure tipiche della «nuova scienza» estetica: quella
dell’«amatore», emblema del “pensiero ingenuo”, che riconosce la somiglianza tra le arti attraverso il suo «fine sentimento»; quella del «filosofo», che
cerca di ricondurre tutte le manifestazioni artistiche e il piacere che esse ci
procurano a un’unica sorgente e a regole unitarie; e infine la figura con cui
egli s’identifica, quella del «critico», di colui che, «meditando sul valore e
sulla distribuzione di tali regole generali»15 , sviluppa le sue considerazioni a
partire «dalla corretta applicazione del caso singolo», ovvero concentrandosi sull’osservazione diretta di una precisa opera (dunque muovendo da una
prospettiva, per così dire, “fenomenica”) per poi sottolineare in senso più
generale le differenze e le peculiarità delle diverse forme d’arte.
Ed è proprio tale questione, cioè l’individuazione della peculiarità di ogni
forma d’arte, a essere per noi motivo di grandissimo interesse, ancor più che
l’affermazione lessinghiana della supremazia della poesia sulla pittura: poiché tale individuazione ci permette di illustrare la posizione di Rosenkranz
all’interno di una precisa tradizione sviluppatasi nell’estetica del Settecento,
inaugurata da Batteux con le sue Belle arti ricondotte ad un unico principio,
12
Secondo il famoso detto attribuito da Plutarco a Simonide di Ceo: cfr. R. W. Lee, Ut
pictura poieis. La teoria umanistica della pittura, Sansoni, Firenze 1974, pp. 3-4 .
13
Virgilio Publio Marone, Eneide, a cura di L. Canali, Fondazione Valla, Mondadori,
Farigliano (CN) 1978-1983, libro II, vv. 199-227.
14
G. E. Lessing, Laocoonte, ovvero, dei confini tra pittura e poesia, a cura di M. Cometa,
Aesthetica, Palermo 2003, pp. 23-24, 31-32).
15
Ibid., p. 21.
6
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e che lo stesso Lessing aveva esemplificato nella Prefazione appena citata al
Laocoonte nella figura del «filosofo».
Il concetto stesso di «belle arti» è figlio della querelle des Anciens et des
Moderns e del suo padre fondatore Charles Perrault, che in uno scritto del
1690, il Cabinet des Beaux-Arts, ne elenca ben otto, cioè l’eloquenza, la poesia, la musica, l’architettura, la pittura, la scultura, l’ottica e la meccanica.
Sarà poi Batteux ad approfondire tale questione in un’opera fondamentale
per l’estetica settecentesca, Le Belle Arti ricondotte ad un unico principio,
pubblicata nel 1746. Batteux, come del resto ci suggerisce il titolo stesso
della sua opera, intende trovare un principio comune a tutte le arti, che possa spiegarne sia la produzione sia la ricezione, e che permetta di andare al
di là di una trattatistica d’arte che ormai si è ridotta a un semplice insieme
di regole.
Anzitutto Batteux enumera tra le belle arti cinque “discipline”: musica,
poesia, pittura, scultura e danza (a cui vanno ad aggiungersi architettura ed
eloquenza). La distinzione tra le arti di tipo classicistico, che prende spunto
da Platone e Aristotele, si basa sul loro rapporto mimetico con la realtà; e
l’imitazione è il principio a partire dal quale si svolge anche la trattazione
di Batteux: imitazione che se sì costituisce il carattere comune delle «belle
arti», si configura d’altra parte come pretesto per introdurre la categoria
estetica dell’«espressione»: il principio di “unione” che sottintende ogni arte
è infatti individuato nel genio-gusto16 che opera sulla natura imitandone la
bellezza attraverso l’arte. Il punto di partenza, come conviene a un pensatore
che non vuole spezzare del tutto le modalità classiciste, è ancora la natura,
che costituisce il centro di ogni processo artistico-produttivo: essa infatti
è l’oggetto di tutte le arti, ed è considerata da Batteux come un insieme
ordinato di parti, un kosmos, le cui leggi regolano sia il genio che il giudizio
di gusto: per cui l’imitazione si configura inoltre come momento in cui l’uomo
trasferisce nella propria attività le leggi della natura.
Tuttavia, non dobbiamo farci “ingannare” da quest’impalcatura classicistica: perché secondo Batteux la natura, non essendo in sé perfetta, deve
essere idealmente superata: è pur vero che la perfezione degli oggetti imitati
dipende solo dalla somiglianza con la realtà, ma il genio «non deve imitare
la natura come essa è»: guidato dal gusto, deve piuttosto renderla «come
dovrebbe essere concepita mediante lo spirito», «scegliendo gli oggetti e i
tratti [. . . ] con tutta la perfezione di cui sono suscettibili». Insomma, non
vi è fedeltà assoluta alla natura, ma una sua “selezione” idealizzatrice17 : per
cui la bella natura si configura come un’espressione artistica, «un’emozione
16
Nel pensiero del nostro genio e gusto sono strettamente legati, anche se il gusto sembra
essere prioritario nei confronti del genio, in quanto esso “guida” l’uomo non solo nell’ambito
delle belle arti, ma nelle molteplici modalità dell’esperienza, come rapporto primo con la
realtà che ci circonda: cfr. C. Batteux, Le belle arti ricondotte ad un unico principio, a
cura di E. Migliorini, Aesthetica, Palermo 2002, pp. 47-49, 50-51, 65-69.
17
Ibid., p. 39.
7
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oggettiva prodotta dal lavoro congiunto del genio e del gusto»18 : non a caso, è proprio a partire da Batteux che l’espressione si configura come quella
specifica comunicazione tra soggetto e oggetto che caratterizza il mondo
dell’arte19 .
Rivolgiamoci ora di nuovo alla citazione tratta dall’Estetica del brutto da cui si è potuto aprire quest’orizzonte di analisi: abbiamo visto che
Rosenkranz rimprovera a Lessing di confinare la pittura in limiti troppo
angusti, in virtù della sua impossibilità di rappresentare il brutto, derivata
dall’“handicap”di essere arte che opera essenzialmente nello spazio. Tuttavia, al di là di questa “schermaglia”, egli sembra non aver colto il nucleo
essenziale della teoria di Lessing: ovvero, l’esigenza di sottolineare la differenza tra le varie arti per affermare come la pluricategorialità dell’artistico
sia irriducibile a qualsiasi principio unitario, opponendosi alla linea di pensiero di cui Batteux è paradigmatico esponente, e a cui Rosenkranz sembra
in qualche modo rifarsi. E per confermare questa interpretazione è sufficiente proseguire nella lettura dell’Estetica del brutto, precisamente dal punto
dal quale abbiamo interrotto la precedente citazione:
Tra le arti appare un’interna connessione, che ci rappresenta il passaggio immanente dell’una nell’altra. Nel suo organismo più nobile,
la colonna, l’architettura annuncia già la statua, ma non perciò, tuttavia, la colonna è una statua. Nel rilievo la scultura annuncia già
la pittura, ma il rilievo in quanto tale non ha ancora alcun principio
pittorico [. . . ]. La pittura già esprime il calore della vita individuale con una forza tale che solo per caso sembra che manchi il suono
[. . . ]. Solo la musica descrive con i suoi suoni i nostri sentimenti. Il
simbolismo della sua onda melodica tocca la nostra sensibilità, ma
quanto più ci tocca nell’intimo, dalla sua mistica profondità aspiriamo
alla poesia, per giungere alla chiarezza nel carattere determinato della
rappresentazione e della parola.20
Rosenkranz non specifica quale sia il principio unificatore delle diverse
arti, bensì si limita a constatarne l’intima connessione, tornando quindi a
una posizione più vicina al pensiero di Batteux che era stato messo in discussione dall’opera di Lessing21 . Vediamo descritto in quest’ultimo passo
18
E. Franzini, L’estetica del Settecento, Il Mulino, Bologna 1995, p. 132.
Come del resto si evince in particolar modo dalla sua trattazione della danza e della
musica, discipline per la cui definizione la nozione di imitazione non è più sufficiente, in
quanto la loro espressività non imita dei dati naturali concreti, ma sentimenti e passioni,
ovvero quegli elementi che rappresentano la naturalità espressiva dell’uomo, che «sono la
natura in noi». Cfr. C. Batteux, Le belle arti ricondotte ad un unico principio, cit., p.
110.
20
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 117-118.
21
Da Lessing e da Goethe, che nella Introduzione ai Propilei esprime una posizione molto
vicina all’autore del Laocoonte e dunque contrapposta a Rosenkranz, sebbene quest’ultimo
non faccia mai esplicita menzione dell’opera in questione: cfr. J. W. Goethe, “Introduzione
ai Propilei”, in Scritti sull’arte e sulla letteratura, a cura di S. Zecchi, tr. it. di P. Necchi
e M. Ophälders, Universale Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 97.
19
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una sorta di sistema “progressivo” delle arti, che trapassano l’una nell’altra,
contenendo in sé, per così dire, il “seme” della disciplina che occupa il posto successivo nella gerarchia: che così si configura, in ordine “crescente” in
quanto a perfezione: architettura, scultura, pittura, musica e poesia: esse
hanno uguale legittimità, continua Rosenkranz, e dispute sulla superiorità di
questa o quell’arte si rivelano inutili, in quanto «la coordinazione non andrà
mai a scapito della subordinazione. [. . . ] Ognuna di queste arti può raggiungere, all’interno della sua specificità di materiale e forma, l’assolutezza.
[. . . ] Quando dunque indichiamo – e siamo costretti a farlo – un’ arte o
un genere artistico come inferiore o più imperfetto, [. . . ] lo diciamo solo in
senso relativo»22 .
Se quindi in un certo senso Rosenkranz si volge alla meditazione di Batteux riconoscendo una «fratellanza» tra le arti, tuttavia egli inserisce questo
schema in una cornice teorica più ampia, che richiama la dialettica hegeliana:
affermata l’uguale legittimità di ogni arte, e avendo specificato che ogni giudizio di valore comparativo tra di esse è soltanto relativo, egli asserisce che in
base alla sua natura, ogni arte ha contenuto, estensione e modalità diverse,
oltre a un differente modo di realizzare il bello, per cui possiamo concepire
le varie arti come una via verso la liberazione estetica dello spirito che si
realizza compiutamente nella poesia23 . Nel sistema rosenkranziano la successione delle arti s’accompagna a un parallelo incremento nella possibilità
di esprimere l’essenza dello spirito: la libertà. Libertà che si configura come
«autodeterminazione della necessità» e che quindi costituisce il contenuto
ideale del bello24 , ma che si traduce contemporaneamente in una maggiore
probabilità di cadere nel brutto, che tocca infatti il suo apice nell’arte più
libera e più complessa, la poesia25 .
Non è difficile leggere in questi ultimi passi un tentativo di riferirsi al
sistema hegeliano delle arti; che tuttavia si presenta in Rosenkranz in una
forma semplificata e, per così dire, “di facciata”.
All’interno del cosmo spirituale, l’arte per Hegel esprime la verità nella
forma dell’immediatezza sensibile, differenziandosi dalla religione e dalla filosofia per il modo in cui porta a conoscenza il comune oggetto dell’Assoluto26 .
L’opera d’arte in Hegel è infatti quell’unico ente che esibisce sensibilmente, come propria essenza, la verità e l’assoluto. Vero e bello, d’altronde, in
quanto idee, sono per il filosofo equivalenti: la bellezza deve essere vera in
se stessa, ma, più precisamente, la verità si distingue a sua volta da essa
nel suo esistere soltanto nell’idea universale della sua esistenza sensibile ed
22
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 38-39.
Cfr. ibid., pp. 38, 57.
24
Ibid., p. 64.
25
Ibid., pp. 58-59.
26
Cfr. G. W. F. Hegel, Ästhetik, Vorwort, in Id., Arte e morte dell’arte: percorso
nelle lezioni di Estetica, a cura di P. Gambazzi e G. Scaramuzza, tr. it. di G. F. Frigo,
Mondadori, Milano 2000, p. 103.
23
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esteriore27 . Tuttavia, l’idea deve realizzarsi anche esteriormente e oggettivamente, per cui il vero in quanto fenomeno esteriore si configura anche
come bello: il quale si determina perciò «come l’apparire sensibile dell’idea».
L’arte per il filosofo è dunque intrinsecamente legata alla bellezza, e il suo
sviluppo si snoda entro due orientamenti, ovvero le forme particolari in cui
essa s’articola (arte simbolica, classica, romantica) e il sistema delle singole
arti (architettura, scultura, pittura, musica e poesia).
Tralasciando la storia del bello artistico nelle sue tre modalità di rapporto tra l’idea e la sua configurazione sensibile, dobbiamo qui concentrarci
sul sistema delle singole arti, che possiamo immediatamente notare essere stato ripreso senza alcuna modifica da Rosenkranz. Il loro sviluppo è
strettamente correlato in Hegel allo svolgimento delle varie forme d’arte, secondo un’articolazione che rinvia nuovamente all’organizzazione sistematica
del pensiero del filosofo: così l’architettura costituisce l’arte che per eccellenza riguarda il periodo simbolico, la scultura il periodo classico, la musica e
la poesia il periodo romantico. Naturalmente, ciascuna di queste discipline
è presente in ogni fase dello sviluppo artistico, ma realizza, per così dire,
la “pienezza” della sua attitudine in uno stadio preciso dello svolgimento
spirituale dell’universo estetico.
Due sono i criteri utilizzati da Hegel per la determinazione del sistema
delle arti e del loro reciproco rapporto; innanzitutto, un criterio basato su
di una “fenomenologia della sensibilità” che distingue i sensi teoretici (vista e udito, cui s’aggiunge la rappresentazione sensibile del ricordo resa viva
dall’intuizione) da quelli pratici (tatto, gusto e odorato) i quali «consumano»
il loro oggetto e non lo lasciano sussistere nella sua autonomia, mostrandosi
poco adatti a essere «organi per la comprensione di opere d’arte»; da cui
consegue che: «questo triplice modo di comprensione dà all’arte la nota suddivisione in arti figurative, le quali elaborano visibilmente il loro contenuto
in forme e colori esteriori, oggettivi; secondariamente, nell’arte dei suoni, la
musica, e in terzo luogo, nella poesia, che come arte della parola impiega
il suono come solo come segno per rivolgersi, mediante questo, all’intimo
dell’intuizione, del sentimento e della rappresentazione spirituali»28 .
27
Ibid., p. 109: «Vera è infatti l’idea com’essa è in quanto idea secondo il suo in sé e il
suo principio universale, ed è pensata in quanto tale. Quindi, esiste per il pensiero, non
la sua esistenza sensibile ed esteriore, ma, in questa, soltanto l’idea universale».
28
Ibid., pp. 271-272; si noti poi la ripresa della Critica del giudizio che qui Hegel mette
in atto: lo stesso Kant infatti pone tre specie d’arti belle: arti della parola (eloquenza e
poesia), arti figurative (plastica, pittura e giardinaggio) e arti del gioco della sensazione
(musica e colorito). Nella gerarchia, il «primo posto» è assegnato alla poesia, seguita dalla
musica o dalla pittura, a seconda che si guardi rispettivamente all’attrattiva o «alla coltura
che le belle arti portano all’animo». Hegel dunque riprende da Kant sia questa suddivisione che il primato della poesia: ma tale concordanza, in realtà, non è che concordanza
estrinseca, anche perché i contesti nei quali i due autori si muovono sono notevolmente
diversi: Hegel infatti “libera” la scoperta dell’autonomia dell’arte elaborandola in una sistematica molto moderna nel totale divorzio dall’artigianato e nell’esclusione degli «ibridi»
e delle «arti imperfette» come il giardinaggio e la danza, al contrario essenziali all’ambito
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Il secondo criterio si fonda invece sul principio concettuale del rapporto
tra forma generale e arti singole, in quanto «l’oggettività esteriore, in cui
passano queste forme grazie a un materiale sensibile, e perciò particolare,
fa sì che queste forme [d’arte generali] liberamente si frantumino in determinati modi della loro realizzazione, nelle arti particolari, in quanto ogni
forma trova il suo carattere determinato anche in un determinato materiale
esteriore e la sua adeguata realizzazione nel modo di rappresentazione»29 .
E nella corrispondenza tra forme generali e materiali sensibili, la massa pesante dell’architettura coincide con il simbolico; il marmo e i materiali della
scultura per il classico; il colore e la luce della pittura, il suono della musica e le parole della poesia per il romantico30 , in un ordine gerarchico che
trova appunto il suo gradino più alto nell’arte poetica, caratterizzata da
un’universalità dovuta al suo sottrarsi alla dimensione “corporea” e consistente nel poter plasmare in ogni forma ogni contenuto: poiché «il suo
autentico materiale resta la fantasia stessa, questo fondamento generale di
tutte le forme d’arti particolari e di tutte le singole arti».
Come abbiamo già avuto modo di osservare, anche per quanto riguarda il sistema delle singole arti Rosenkranz sembra riprendere la riflessione
hegeliana solo a un livello “superficiale”, semplificando la complessa trama dialettica del suo maestro: la successione delle discipline artistiche è sì
mantenuta, così come il primato della poesia, ma la struttura generale del
suo discorso è decisamente meno elaborata e meno solida che la rigorosa
costruzione hegeliana.
Rosenkranz definisce il legame tra le varie arti come una via verso la «liberazione estetica dello spirito» che si realizza compiutamente nella poesia,
l’arte più libera e, di conseguenza, maggiormente predisposta alla possibilità
di cadere nel brutto: ma se in Hegel la superiorità della poesia è giustificata in virtù della sua universalità espressiva, derivante dal suo sottrarsi
alla materialità, in Rosenkranz non appaiono ulteriori chiarimenti di tale
affermazione, come se implicito fosse il richiamo alla più ampia trattazione hegeliana; infatti, possiamo leggere una brevissima descrizione dei vari
gradi della liberazione dello Spirito attraverso i «materiali in cui il bello si
realizza»31 che cita diversi elementi evidentemente estratti dall’Estetica hesettecentesco in cui Kant si muove ancora.
29
Ibid., pp. 273-274.
30
Cfr. ibid., p. 275. Ciò non toglie che esistano però delle “deviazioni” a questo
schema: «In verità le arti particolari hanno sconfinato al di qua e al di là del loro ambito
anche in altre forme artistiche, per cui noi abbiamo potuto parlare tanto di architettura
classica e architettura romantica, di scultura simbolica e scultura cristiana e abbiamo
dovuto accennare anche alla pittura e alla musica classica; questi sconfinamenti, invece di
pervenire all’autentica vetta, erano, in parte, solo tentativi preparatori di cominciamenti
subordinati o mostravano un iniziale superamento di un’arte, nel quale questa assumeva
un contenuto e un modo di trattazione del materiale, il cui sviluppo completo e tipico era
permesso solo a un’ulteriore arte».
31
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 57.
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geliana e che forse avrebbe meritato da parte di Rosenkranz una maggiore
elaborazione: non solo il lessico è infatti ripreso pedissequamente dal maestro, ma possiamo rilevare, oltre all’accenno alla questione della libertà, il
riferimento al tema appena trattato della corrispondenza tra la materialità
e le diverse forme d’arte, con la conseguente suddivisione delle discipline
artistiche in arti figurative, musica e poesia: anch’essa quasi copiata di pari
passo dalle pagine dell’Estetica hegeliana. Riferimenti solo abbozzati, tuttavia, che non presentano nell’Estetica del brutto alcun approfondimento:
non c’è in Rosenkranz l’indicazione dei due criteri sui quali Hegel basa la
sua sistematica delle singole arti, né la relazione tra queste ultime e i vari
stadi dello sviluppo-artistico; la teoria dei sensi sviluppata dal maestro non
si riverbera che in brevissime osservazioni32 ; il primato della poesia e il suo
carattere “immateriale” sembrano essere considerati come nozioni scontate
e in definitiva le poche pagine dedicate ai rapporti tra le discipline artistiche non servono che da catalogo per illustrare le differenti possibilità di
rappresentazione del brutto.
Dunque, nonostante l’impalcatura hegeliana, l’impostazione di Rosenkranz sembra in ultima analisi essere maggiormente debitrice, almeno per
quanto riguarda il sistema delle belle arti, al più classico approccio di Batteux di un principio unificatore di ogni arte, che si traduce, nel nostro, in
un generico rimando allo Spirito; come del resto s’evince anche rispetto a
un’altra, fondamentale questione: la concezione dell’arte come imitazione.
Abbiamo già avuto modo di osservare che nonostante Batteux ponga
l’imitazione come unico tratto comune delle varie discipline artistiche, tuttavia la mimesis si configura nella sua opera come espediente per introdurre la
nuova categoria estetica dell’espressione; e non è difficile osservare l’influenza
del pensatore francese nel momento in cui Rosenkranz afferma che «spetta
all’arte realizzare la bellezza a cui la natura ispira, ma che spesso la sua
esistenza nello spazio e nel tempo le rende impossibile: l’ideale della forma
naturale. Ma per rendere possibile la verità ideale delle forme naturali bisogna studiare scrupolosamente la natura empirica, come fanno del resto tutti
i veri artisti: solo i falsi idealisti se ne vergognano»33 .
Si può facilmente notare una ripresa quasi letterale della teoria estetica
di Batteux, a indicare ancora una volta la qualità essenzialmente ambivalente del pensiero di Rosenkranz, sospeso tra istanze settecentesche e l’adesione
32
Rosenkranz accenna solo marginalmente alla distinzione hegeliana dei sensi in «teoretici» e «pratici» [«Qui però possiamo prendere in considerazione, tra le arti, solo quelle che
operano come libero fine a se stesse e come fine teoretico per i sensi dell’occhio e dell’udito.
Le altre arti, dedicate al servizio dei sensi pratici del tatto, del gusto e dell’olfatto restano
escluse»] (ibid., p. 34), ma in alcuni luoghi mostra chiaramente di considerare i sensi pratici come i più predisposti a cogliere la bruttezza (ibid., p. 204). Del resto, sin dall’epoca
di Pitagora, tra i sensi che trasmettono l’esperienza del bello la preferenza viene di norma
accordata alla vista e all’udito; cfr. la sintesi di R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino,
Bologna 2008.
33
Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 62.
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all’orizzonte hegeliano e post-hegeliano; come ne Le Belle Arti ricondotte ad
un unico principio, anche per il filosofo tedesco la nozione aristotelica di arte
come imitazione non si deve ridurre a un mero copiare «gli oggetti empirici»; la natura, in Rosenkranz come in Batteux, è concepita come organismo
“perfettibile” che dev’essere elevato alla sua “statura” ideale (quale può essere concepita solo dallo spirito umano) attraverso l’“interpretazione” del
genio, tesa a selezionarne gli aspetti migliori: tale interpretazione, tuttavia,
deve saldamente essere ancorata all’osservazione empirica, come sottolinea
insistentemente Rosenkranz, testimoniando così il suo radicamento a una
concezione “concreta”, fenomenica, dell’estetica.
Ma ciò che in questo caso c’interessa sottolineare non è tanto la più volte citata adesione alla poetica batteuxiana, quanto la sorprendente distanza
dal pensiero estetico di Hegel e dalla sua feroce polemica contro l’arte come imitazione della natura esteriore: è vero che Rosenkranz riconosce esser
compito dell’artista il dover far emergere la «forma ideale» della natura, che
dev’essere condotta, nella sua imitazione, a un grado di bellezza e perfezione
concepibile soltanto dallo spirito: ma il punto di partenza di tale operazione è sempre l’osservazione e lo studio della natura empirica: al contrario
dell’estetica di Hegel, che, sostenendo la superiorità del bello artistico sul
bello naturale, rivolge delle pesantissime critiche al concetto di arte come
mimesis.
Se per Rosenkranz l’arte bella ha il merito di poter migliorare la natura
esprimendo la sua forma ideale, al contrario per il maestro l’arte in quanto
imitazione non può che soffrire di un “complesso di inferiorità” nei confronti
della natura: i suoi mezzi espressivi sono infatti limitati rispetto alla realtà,
così come limitati sono i risultati prodotti dalla mimesis, che si esauriscono in
un diletto che scivola rapidamente nel tedio o in una semplice manifestazione
di «destrezza» equivalente «all’abilità di colui che aveva imparato a lanciare
senza sbagliare delle lenticchie in una piccola fessura»34 . In sintesi, per Hegel
la bellezza non è un dato naturale da imitare né un dono divino, ma una
produzione umana che risponde a un autentico bisogno dell’uomo: quello
di crearsi cioè, anche esteriormente, un mondo in cui raddoppiarsi e in cui
riconoscersi appieno così da superare la precarietà e l’angoscia dell’esistere
finito verso una forma di realtà più alta. Un’arte concepita come imitazione,
in questo contesto, non solo non permette alla «duplicazione» dello spirito
dell’uomo di compiersi, ma soprattutto conduce al rischio di una sorta di
“relativismo” estetico, in quanto «il principio dell’imitazione è del tutto
formale, se esso è posto come fine, [tanto che] viene a scomparirvi il bello
oggettivo stesso. Infatti non si tratta più di vedere come sia fatto ciò che
deve essere imitato, ma solo del fatto che esso venga imitato esattamente»35 .
34
Cfr. G. W. F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano
1963, pag. 54.
35
Ibid.
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Nell’Estetica del brutto non c’è alcun accenno a questi temi, né si cerca di
problematizzare ulteriormente l’orizzonte di analisi aperto da Hegel; e Rosenkranz mostra implicitamente di non condividere la posizione del maestro
anche nel riferirsi alla questione del brutto naturale, presupposto fondamentale in Hegel per la critica alla concezione classicistica dell’arte come
imitazione.
La tesi hegeliana vuole essere una precisa presa di posizione contro
l’estetica settecentesca, nel suo rivolgersi essenzialmente all’effetto suscitato dall’opera d’arte sull’animo del fruitore – e intende invece concentrarsi
sull’arte in quanto manifestazione dell’Idea e orizzonte della manifestazione del vero in forma sensibile. Nella concezione hegeliana l’arte abbandona
una dimensione soltanto naturale della bellezza per addentrarsi nell’ambito
dell’elaborazione spirituale: per cui il bello artistico si configura come superiore al bello naturale, a causa della mancata presenza in quest’ultimo
dell’elaborazione spirituale, del travaglio negativo che è intima testimonianza della verità: il vero nella prospettiva hegeliana ha un carattere processuale
e storico, in quanto non riguarda soltanto la singola opera e il suo realizzarsi, ma l’intero svolgimento del divenire artistico, delle sue figure e dei suoi
generi, nel disporsi in una forma sensibile; un vero essenzialmente correlato
all’artistico, che non è invece presente nell’orizzonte naturale:
Con questo termine [estetica] noi escludiamo subito il bello naturale
[. . . ]. Il bello artistico sta più in alto della natura [. . . ]. Infatti la
bellezza artistica è la bellezza generata e rigenerata dallo spirito, e, di
quanto lo spirito e le sue produzioni stanno più in alto della natura e
dei suoi fenomeni, di tanto il bello artistico è superiore alla bellezza
della natura. [. . . ]. La superiorità dello spirito e della sua bellezza
artistica di fronte alla natura non è però soltanto relativa, ma lo spirito
solo è il vero, quel che tutto in sé abbraccia, così che ogni bello è
veramente bello, solo in quanto partecipe di questa superiorità e da
questa prodotto.36
Al contrario, per Rosenkranz è fondamentalmente impossibile affrontare la questione dell’inferiorità del bello naturale e della sua mancanza di
un’elaborazione spirituale (e quindi, della manifestazione del vero): perché egli non confronta bellezza artistica e bellezza naturale37 , ma si limita
ad asserire una «neutralità» del naturale (inorganico) rispetto alla categoria estetica del bello38 : è infatti inesatto e improprio, secondo Rosenkranz,
parlare di una bruttezza come di una bellezza naturale, qualunque cosa si
intenda con queste espressioni: bellezza e bruttezza, in natura, sono sempre
36
Ibid., pp. 6-7.
Anche se certamente la neutralità del naturale rispetto a ogni categorizzazione estetica avrà come conseguenza l’ovvia collocazione della bellezza – e della bruttezza, per
opposizione – nell’orizzonte artistico, concezione perfettamente in linea con il pensiero
hegeliano.
38
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 39.
37
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del tutto casuali, e la bellezza non è mai compiutamente realizzata, ma sempre imperfetta: sarebbe anzi più corretto dire che in sé la natura, in tutti
i suoi aspetti, non è né bella né brutta, e che solo l’immaginazione umana
proietta su di essa giudizi di tal genere.
Se poi leggiamo nell’Estetica hegeliana che «a nessuno è ancora venuto in mente di mettere in rilievo il punto di vista della bellezza delle cose
naturali e fare una scienza, una esposizione sistematica di questa bellezza. Sentiamo di essere, con la bellezza naturale, troppo nell’indeterminato
senza criterio, e l’intraprendere tale classificazione offrirebbe perciò troppo
scarso interesse»39 , assistiamo invece in Rosenkranz proprio al tentativo di
“sistematizzare” i diversi gradi di bellezza (e di bruttezza) della natura organica che contraddice esplicitamente i dettami hegeliani nell’indicazione di
un’«estetica della natura»: poiché se sì per il nostro la natura inorganica
trova la sua principale determinazione nel casuale, non si può dire lo stesso
per la natura organica, la quale ha invece un «determinato carattere estetico» in virtù dell’isolamento che «costituisce il principio di esistenza della
forma», rendendola un «individuo reale»40 .
Rosenkranz si dimostra molto più attento di Hegel alle manifestazioni
del mondo naturale – anche in questo senso si può leggere la definizione di
Henckmann di «sistema linneano del brutto»41 – e nella distinzione tra natura inorganica (neutrale rispetto alle categorie estetiche) e organica (sulla
quale si può invece “innestare” un’«estetica della natura»), egli trova un
efficace espediente per ricalcare da una parte la visione del maestro, e per
ribadire invece dall’altra, citando addirittura un’«estetica del bello di natura»42 , la dignità estetica del mondo naturale; che si può notare nel corso
dell’intera opera nei frequenti esempi tratti appunto dall’ambito animale e
vegetale43 e nell’ottima conoscenza che Rosenkranz mostra di possedere dei
principali trattati dell’epoca riguardanti la botanica e la zoologia44 .
E proprio l’attenzione “fenomenologica” che Rosenkranz riserva alle manifestazioni estetiche ci permette di affrontare il suo legame con un altro
fondamentale autore della riflessione settecentesca, ovvero Baumgarten, e di
introdurre la seconda categoria entro cui classificare le ambivalenze presenti
nell’Estetica del brutto: ovvero l’atteggiamento di fronte alla bruttezza, da
39
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 7.
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 40.
41
W. Henckmann, “Vorwort”, in K. Rosenkranz, Ästhetik des Häßlichen, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1973, pag. XVII.
42
Del resto, a eccezione del solo Ruge, l’intero ambito del post-hegelianesimo si è dimostrato poco fedele alle “direttive” del maestro: cfr. F. Iannelli, Hegel e gli hegeliani sul
brutto: una ricezione contemporanea, cit. .
43
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 40, 41, 103, 132, 185, solo per citare
alcuni esempi tra le innumerevoli esemplificazioni in cui possiamo imbatterci nel corso
dell’intera opera.
44
Ibid., p. 272 (note 12, 13, 15) e p. 273 (note 16 e 18), quest’ultime con il riferimento
a un’«estetica delle piante» e a un «estetica degli animali».
40
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cui Rosenkranz si sente attratto e contemporaneamente ripugnato, e che trova nella sua vastissima illustrazione in esempi concreti quell’“autonomia”e
quella rilevanza che le sembra negata sul piano teorico dall’affermazione del
suo costituirsi come momento dialettico tra il bello e il comico.
Se infatti la stesura dell’Estetica del brutto si è conclusa nell’arco di sette
mesi, essa si basa tuttavia su oltre un decennio dedicato allo studio e alla
raccolta di materiale: un vero e proprio immergersi nell’“inferno estetico”,
spesso contemporaneo, che probabilmente spinge lo stesso Rosenkranz a rendersi conto della “dicotomia” tra l’enorme rilevanza fattuale che il brutto si
trova ad acquisire, grazie all’estensivo apparato di esempi dell’opera, e il suo
poco adeguato riconoscimento teorico; non a caso, il nostro sente più volte
la necessità di giustificare il suo modus operandi: poiché infatti ci troviamo di fronte a un soggetto poco trattato e «appartenente all’intuizione»,
l’esempio, arma sì esplicativa ma “a doppio taglio”45 , diventa tuttavia fondamentale per determinare la definizione astratta del brutto: segno questo
di un’ambivalenza che il filosofo non riesce a conciliare tra un livello teoretico
e un livello esplicativo, e che sicuramente costituisce uno dei tratti fondamentali, se non il tratto fondamentale, della sua Estetica. Ambivalenza che
spinge poi Rosenkranz a “correggersi” parzialmente nella sua Prefazione, in
cui leggiamo che «nel corso della trattazione, una volta mi sono scusato in
certo qual modo, di pensare così spesso per esempi. Ma mi accorgo che non
ne avrei avuto affatto bisogno: tutti i teorici dell’estetica procedono in questo modo, anche Winckelmann, Lessing, Kant, Jean Paul, Hegel, Vischer, e
lo stesso Schiller, che raccomanda un uso contenuto dell’esempio. Del resto,
non ho usato che un po’ più della metà del materiale accumulato a tale scopo
in una serie di anni».
Seppur nell’elenco di autori che «procedono per esempi» Rosenkranz
non ne faccia esplicita menzione, tuttavia non è possibile ignorare la sua
sostanziale coincidenza di vedute con un fondamentale pensatore settecentesco: Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), che nelle Riflessioni sulla
poesia definisce l’esempio come «la rappresentazione del più determinato addotta per chiarire la rappresentazione del meno determinato», aggiungendo
dunque che: «pertanto troverà che la nostra definizione è feconda chi cercherà di risolvere il problema di come con una costruzione si deve dare ad altri
un esempio o chi avrà riflettuto sulle parole autorevolissime del pio Spener,
quando afferma: «La matematica, con la sua certezza e con la saldezza delle
dimostrazioni offre a tutte le altre scienze un esempio, che, per quanto è
possibile, esse debbono imitare».»46 .
45
«Con l’esempio però si corre un nuovo pericolo: in quanto caso particolare, l’esempio
limita l’universalità e del vero e rischia di mescolare il casuale col necessario. Perciò
Schiller dice giustamente che un autore interessato al rigore scientifico, proprio per questo
si servirà molto malvolentieri e con parsimonia di esempi». (ibid., p. 131).
46
A. G. Baumgarten, Riflessioni sulla poesia, a cura di P. Pimpinella e S. Tedesco,
Aesthetica, Palermo 1999, p. 45. Egli prosegue poi nella sua dissertazione sul valore
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Il riferimento a Baumgarten è basilare al fine di notare legame di Rosenkranz con una precisa concezione dell’estetica connessa alla sensazione.
Proprio nelle Riflessioni sulla poesia da cui abbiamo tratto il passo appena
citato egli infatti propone la prima definizione teorica di estetica:
Poiché la psicologia mette a disposizione principi certi, non dubitiamo
che si possa dare una scienza che guidi la facoltà conoscitiva inferiore
ossia la scienza della conoscenza sensibili in senso lato. Poiché esiste
la definizione, si può facilmente escogitare il termine così definito; già i
filosofi greci e i padri della Chiesa hanno sempre distinto accuratamente tra gli aistheta e i noeta e pare abbastanza chiaro che gli aistheta
per essi non equivalgono alle sole cose sensibili, giacchè anche le cose
percepite come assenti (dunque le immagini) meritano questo nome.
Siano dunque i noeta da conoscere con la facoltà superiore oggetto
della logica; siano gli aistheta oggetto della episteme aisthetike, ossia
dell’Estetica.47
La sensibilità è in Baumgarten centro unificatore dell’estetica: la quale,
secondo la sua prospettiva, ha un preciso dominio specifico: l’essere cioè
«conoscenza chiara e confusa»: un’affermazione che si ricollega al pensiero di
Leibniz (1646-1716), nella sistematizzazione del suo allievo Christian Wolff,
e alla sua definizione di conoscenza chiara e confusa, ovvero di quel grado
di conoscenza sufficiente alla necessità della vita quotidiana, che permette
di orientarsi nella comune esperienza, ma che tuttavia non è in grado di
cogliere in modo preciso i propri elementi48 .
Baumgarten riprende quindi la nozione di conoscenza chiara e confusa elevandola ad ambito specifico di una disciplina, l’estetica, in grado di
dell’esempio rifacendosi allo stesso Leibniz: «Le rappresentazioni confuse degli esempi
sono rappresentazioni estensivamente più chiare di quelle per la cui chiarificazione essi
sono addotti, perciò più poetiche, e tra gli esempi quelli particolari sono certamente i
migliori. Questo ha visto il famoso Leibniz, quando nel suo eccellente libro, dove prese
la difesa alla causa di Dio, dice: «Le but principale de la Poésie doit être d’enseigner la
prudence et la vertu par des exemples». (ibid., pp. 45-46).
47
Ibid., p. 71.
48
Riprendendo la nozione cartesiana per cui l’unica possibilità di conoscenza non illusoria si trova nell’appoggiarsi esclusivamente alle idee «chiare e distinte», che si presentano
con estrema evidenza alla nostra mente, e che non possono derivare dall’esperienza, Leibniz cerca di riabilitare, per così dire, l’“oscurità”. Nelle Meditazioni sulla conoscenza, la
verità, le idee, del 1684, egli infatti distingue, in ordine graduale, una conoscenza oscura
e una conoscenza chiara. La conoscenza chiara a sua volta può essere confusa o distinta; e quest’ultima si suddivide ulteriormente in conoscenza inadeguata o adeguata. La
conoscenza chiara, distinta e adeguata rappresenta per Leibniz la perfezione, un’idea i
cui elementi sono conosciuti singolarmente e in modo estremamente preciso, avvicinabile
dall’uomo solo nelle scienza matematiche; la conoscenza chiara, distinta e inadeguata è il
livello solitamente raggiunto dall’uomo; la conoscenza chiara e distinta nasce da un’analisi
precisa degli elementi che la costituiscono; della conoscenza chiara e confusa abbiamo già
detto; e infine abbiamo il gradino più basso di questa “scala”, la conoscenza oscura, che
non permette di riconoscere appieno l’oggetto della rappresentazione.
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abbracciare la varietà e la molteplicità dell’esperienza, strettamente collegata alla realtà quale ci si offre nell’orizzonte del sensibile e non ordinata
da principi di carattere razionale, di cui anzi essa, «gnoseologia inferiore»,
costituisce il fondamento. È all’interno di questa concezione che si radica
l’importanza dell’utilizzo metodologico dell’esempio, ed è quindi a una precisa tradizione settecentesca che Rosenkranz si rifà implicitamente nel suo
sottolineare il valore delle esemplificazioni.
Ma la teoria rosenkranziana dell’esempio rimanda a un ulteriore ambito
di pensiero; e al proposito, nel suo saggio Estetica del bello ed estetica del
brutto49 Vittorio Stella ci offre un’interessante interpretazione della scelta
di Rosenkranz di affrontare una vera e propria fenomenologia del brutto riferendosi alla nozione hegeliana del valore fondativo che nell’arte compete
al contenuto; poiché essa infatti non ha altro compito che tradurre in forma
sensibile «il suo contenuto», ovvero l’Idea, una filosofia dell’arte secondo Hegel non può che essere analisi e studio delle sue determinazioni storiche: una
prospettiva secondo Stella adottata anche da Rosenkranz, e, del resto, dagli altri pensatori ascritti all’orizzonte post-hegeliano che di estetica si sono
occupati: Weisse, Vischer, Ruge e Kuno Fischer. Tale prospettiva permetterebbe sul piano teorico la giustificazione dell’approccio “descrittivo” alla
materia presente nell’Estetica del brutto: approccio che non casualmente si
appoggia su solide constatazioni storiche, di modo che la trattazione viene
così impressa di una motivazione qualitativa decisamente “empirica”.
Dai contenuti prescelti tuttavia non deriva soltanto l’ambivalenza assegnata al concetto di brutto: il loro riflesso infatti si ritrova anche nella
compresenza di due diversi approcci, sistematico e descrittivo, al brutto, in
modo da formare un’unità che comprende un ambito empirico, ovvero gli
esempi di cui Rosenkranz si serve così spesso per illustrare le sue tesi, un
ambito sistematico, ovvero la griglia di categorie entro cui le varie forme
della bruttezza sono classificate, e un ambito descrittivo-assiologico, costituito dai giudizi di valore e dalla personale interpretazione data dall’autore
ai contenuti trattati.
Leggiamo al proposito una missiva inviata dal nostro al Varnhagen, nel
1837 (che dunque testimonia come l’idea di ordinare in tal modo le categorie
estetiche era sorta in Rosenkranz molto tempo prima dell’effettiva stesura
dell’opera che stiamo analizzando):
Sono in possesso di uno sviluppo che è così rigorosamente dialettico
che io stesso ne sono stupito. Si tratta di uno sviluppo del brutto nel
comico, in cui ho dimostrato in maniera stringente che il concetto di
caricatura costituisce il passaggio dal brutto al comico.50
49
V. Stella, “Estetica del bello ed estetica del brutto”, in La disarmonia prestabilita,
“Aesthetica preprint”, 1985, n.10.
50
“Karl Rosenkranz an Karl August Varnhagen von Ense”, in Briefwechsel zwischen
Karl Rosenkranz und Varnhagen von Ense, edito presso Arthur Warda, Königsberg 1926,
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«Sviluppo» che non è soltanto una modalità di esposizione: ma che appunto vuole sottolineare, ancora una volta, come il brutto sia un momento
della realizzazione dell’ Idea estetica; anche se, in realtà, non siamo proprio
di fronte a un’esposizione «così rigorosamente dialettica», seppur, certamente, non si può negare che la trattazione si dispieghi in un “ritmo ternario” di
tipica ascendenza hegeliana, che appare immediatamente evidente soltanto
consultando l’indice dell’Estetica del brutto. Non dobbiamo tuttavia farci
ingannare da tale apparato sistematico: a un’analisi più attenta infatti esso
appare come una “struttura” formale ed estrinseca che, convivendo con una
seconda modalità d’approccio alla materia, di tipo empirico-descrittivo, trae
da quest’ultima la sua linfa vitale evitando di trasformarsi in una sterile schematizzazione teorica: la ricchezza di esempi che fa da sfondo all’Estetica del
brutto, esempi spesso tratti dall’arte contemporanea, permette che il discorso non si esaurisca nella semplice enunciazione di principi, ma che anzi certe
restrizioni teoriche siano poi superate nell’indagine empirica riconoscendo
al brutto un rilievo, uno “spazio”, che l’impalcatura dialettica sembrerebbe
sottrargli.
Tale “duplicità” di approccio, come già accennato, si può inserire all’interno
della seconda categoria di ambivalenze che si può ritrovare nell’Estetica del
brutto, riguardanti l’atteggiamento di Rosenkranz nei confronti della materia trattata; verso il negativo, scrive il nostro nella sua autobiografia, al
contrario di Hegel egli ha sempre provato una vera e propria attrazione,
addirittura «una predisposizione psichica», che lo portava a essere «affascinato dalle malformazioni e dalle anomalie del gabinetto di scienze naturali
della sua città natale»51 . Nella già citata lettera al Varnhagen egli poi si
riferisce alla sua «inclinazione a studiare il negativo in tutte le sue forme»
e dichiara che l’Estetica del brutto sarà «solo il primo di una serie di lavori
che penetreranno molto più a fondo nell’inferno nell’esistenza»52 .
Abbiamo già visto nell’interpretazione di Stella il rimando alla nozione
hegeliana del contenuto come fondamento di valore della rappresentazione
artistica; che ci ha permesso di “giustificare” la duplicità dell’approccio di
p. 59, cit. in R. Bodei, “Presentazione”, in K. Rosenkranz, Estetica del brutto, a cura di
R. Bodei, tr. it. di S. Barbera, Aesthetica, Palermo 1994, p. 16.
51
H. Funk, Ästhetik des Häßlichen. Beiträge zum Verständnis negativer Ausdrucksformen im 19. Jahrhundert, in G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, cit., p. 125; curiosamente,
l’attrazione di Rosenkranz nei confronti del negativo si può accumunare a ciò che egli
stesso condanna come il «piacere patologico» che la sua epoca ricerca ansiosamente nelle
manifestazioni più sordide della bruttezza e della corruzione; cfr. K. Rosenkranz, Estetica
del brutto, cit., p. 59. A ulteriore riprova della duplicità insita nell’Estetica del brutto,
dobbiamo inoltre aggiungere che di fronte alle manifestazioni della bruttezza è tuttavia
possibile provare un «piacere sano» che nasce «quando il brutto si giustifica come necessità
relativa nella totalità di un’opera d’arte e viene superato dall’effetto contrario del bello».
(ibid., p. 76).
52
Karl Rosenkranz an Karl August Varnhagen von Ense, in G. Scaramuzza, Il brutto
nell’arte, cit., p. 127.
19
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
Rosenkranz al brutto, da interpretare come riflesso di una concezione ambivalente rispetto al concetto di bruttezza, che ora è necessario approfondire.
Diverse sono le fonti che hanno ispirato il percorso filosofico del nostro, come abbiamo già notato, e l’influenza di altri pensatori si nota ovviamente anche nella sua definizione del brutto: che se sicuramente risente
dell’impostazione dialettica della filosofia hegeliana, è parimenti stata condizionata da uno scritto giovanile di Kant sul concetto delle grandezze negative, in cui il negativo non è concepito come mera mancanza ma come
l’opposto positivo, dotato di qualità proprie, di ciò che nega.
Applicando alla psicologia il concetto delle grandezze negative caratteristico della matematica, Kant afferma che il dispiacere non è semplicemente
la negazione logica del piacere, ma è in se stesso un dato positivo, l’opposto
dotato di una sua realtà empirica: una determinazione concettuale che si può
individuare anche all’ambito estetico, nel breve accenno alla «bellezza negativa»53 . E tra i «molti filosofi» che secondo Kant hanno trascurato la nozione
di grandezza negativa, sicuramente non possiamo annoverare Rosenkranz,
il quale fa tesoro dell’indicazione kantiana nella sua concezione “relativa”
del brutto, che pur configurandosi come rovesciamento del bello non ha una
natura soltanto privativa ma rivendica una sua peculiare positività.
Cominciamo dunque ad analizzare più da vicino le considerazioni sul
tema dell’Estetica del brutto:
Estetica del brutto suonerà, a taluno, un po’ come “ferro ligneo”, perché il brutto è il contrario del bello. Solo che il brutto è inseparabile
dal concetto di bello: quest’ultimo lo contiene costantemente nel suo
sviluppo come quell’errore in sé in cui si può cadere con un troppo o un
poco, spesso esigui. [. . . ] Non è difficile capire che il brutto, in quanto
concetto relativo, è comprensibile solo in rapporto a un altro concetto
[. . . ] Se non ci fosse il bello, il brutto non ci sarebbe affatto, perché
esiste solo come negazione di quello. Il bello è l’idea divina originaria e
il brutto, sua negazione, ha, appunto in quanto tale, un’esistenza solo
secondaria.54
Se la nostra analisi si concludesse con questo passo, saremmo giocoforza vincolati a condividere la valutazione di Raulet nella sua Prefazione
all’edizione francese dell’Estetica del brutto: muovendo dalla definizione rosenkranziana del «bello come idea divina originaria» in cui egli sostiene che
«l’Estetica di Rosenkranz si poggia su una base concettuale neo-platonica
e cristiana, quasi plotiniana: l’idea è la fonte della bellezza, la materia è il
53
«Ne risulta che il dispiacere non è mera assenza di piacere, bensì una causa positiva che
annulla in tutto o in parte il piacere che deriva da un’altra causa, e perciò lo chiamo piacere
negativo. [. . . ] Per queste ragioni si può chiamare l’avversione un desiderio negativo, l’odio
un amore negativo, la bruttezza una bellezza negativa, il biasimo una lode negativa ecc.».
(I. Kant, Versuch, den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen, tr.
it. cit.).
54
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 34-35.
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regno del male e dell’informe. L’ampiezza della fenomenologia delle manifestazioni della bruttezza dispiega tutta la misura di questo dualismo che
non può essere superato a meno che l’anima non si sottragga al regno della materialità, e si dubiti che lo schema dialettico possa mantenere le sue
promesse»55 .
Al di là delle osservazioni sul legame tra la bruttezza e il male morale, e riguardo al quale le valutazioni di Raulet sono certamente precise, ci
sembra per lo meno discutibile definire come «platonica» la prospettiva rosenkranziana: è sì vero che nel passo appena citato il brutto viene definito
come negativo del bello, «idea divina originaria», nonché suo presupposto
positivo, il che potrebbe riportarci alla prospettiva di derivazione platonica
per la quale il brutto si configura come totale opposizione della bellezza: ma
è doveroso sottolineare che per il filosofo antico il brutto si deve completamente esiliare non solo dall’ambito artistico, ma anche dallo stesso orizzonte
del reale, in quanto «non-essere» in contrapposizione all’idea del Bello in sé,
coincidente con la pienezza dell’ Essere e del Vero; una cornice insomma che
poco ha in comune con il “sostrato”, settecentesco da una parte, hegeliano
dell’altra, che invece caratterizza Rosenkranz.
Altri due elementi inoltre ci suggeriscono di considerare come parzialmente inesatta la posizione di Raulet: il riferimento rosenkranziano all’«idea
divina originaria», espressione ripresa da Weisse – che dunque ci riporta al
contesto hegeliano e più precisamente al tema del bello come apparire sensibile dell’idea – e il riferimento al già citato scritto di Kant sulle grandezze
negative, che ci permette di osservare da un nuovo punto di vista la nozione
del brutto come «opposizione e negazione del bello».
L’idea del negativo in generale nella sua pura astrazione non ha alcuna
forma sensibile. Ciò che non può manifestarsi sensibilmente neppure
può diventare oggetto estetico. [. . . ] Il bello è l’idea così come trova
effettuazione nell’elemento del sensibile, come libero configurarsi di una
totalità armonica. In quanto negazione del bello, anche il brutto ne
condivide l’elemento sensibile e quindi non può avere accesso in una
regione che è solo ideale, in cui l’essere esiste solo come concetto ma
la cui realtà, come realtà che adempie alle condizioni dello spazio e del
tempo, ancora è esclusa.56
Appare evidente in questo passaggio che la negatività estetica del brutto non può sicuramente essere assimilata a una concezione di derivazione
platonica: la bruttezza è sì legata al male morale, è sì l’opposizione della
bellezza, ma all’interno di un contesto più ampio e complesso, che rimanda
a una serie di riferimenti “esterni” e che non può essere ridotto all’ adesione
alla riflessione platonica sulla negazione del bello, di cui francamente non
troviamo tracce rilevanti nell’Estetica del brutto.
55
G. Raulet, “Préface”, in K. Rosenkranz, Esthéthique du laid, tr. francese di S. Muller,
Circé, Parigi 2004, pp. 14-15.
56
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 37.
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Abbiamo poi accennato a dei «riferimenti esterni» che emergono dalle
parole di Rosenkranz: in quale senso? Ciò che vogliamo intendere è che la
trattazione rosenkranziana si collega a dei temi fondamentali della riflessione di altri autori, che ci sono di grandissimo aiuto per meglio comprendere
e inquadrare la prospettiva del nostro, attraverso delle allusioni più o meno
implicite che spesso non sono ulteriormente approfondite, quasi a voler indicare il loro “status” di principi basilari ormai “interiorizzati” e accolti nel
proprio pensiero. Ed è questo appunto il caso della definizione del bello come
dell’«ideale della forma sensibile», una definizione ripresa dall’Estetica hegeliana e che costituisce un esempio, privo in questo caso di ogni ambiguità,
del radicamento di Rosenkranz nella filosofia di Hegel.
L’apparenza del bello artistico per Hegel è la trasfigurazione del sensibile
immediato in un sensibile «spiritualizzato» ed elevato a essere manifestazione e fenomeno della verità. L’arte dunque «libera entro la sfera sensibile,
al contempo, dalla potenza della sensibilità»57 , è un itinerario del sensibile
e solo secondariamente sensuale. Il problema della verità, dunque, si pone
nell’ambito dell’apparire: è infatti soltanto nella dimensione dell’apparire
che la realtà può essere sua manifestazione, e in tale dimensione è appunto
l’opera d’arte a costituirsi come il fenomeno del vero. L’arte, come ente
reale e concreto, si autonomizza dal reale riducendolo ad apparenza della
verità, nella coincidenza tra l’affacciarsi del sensibile e quello della bellezza:
è quindi la sua stessa essenza a determinare l’apparenza come unico modo
d’essere in cui, nel sensibile, può farsi luce la verità. L’apparire dell’opera
d’arte ha dunque il significato del fainesthai greco: il bello è come in Platone un’eccedenza sia nei confronti del sensibile che dell’intelligibile, delle
Idee e della verità: nel Fedro la bellezza è inoltre l’unica Idea che possa manifestarsi sensibilmente, nell’atto di apparire che coincide con il risplendere
(fainomai, appunto): essa, come abbiamo visto, è intrinsecamente legata a
Eros, e può dunque essere colta e amata dagli uomini in modo immediato,
per un privilegio che non è concesso ad altra Idea.
In questo senso forse si può parlare di «derivazione platonica» del pensiero di Rosenkranz come fa Raulet: ma egli non a questo tema si riferisce nella
sua analisi, e del resto la sua affermazione appare tuttora poco prudente: si
può certo notare che l’Estetica del brutto è erede di una concezione del bello,
quella hegeliana, che riprende un’apertura del pensiero ch’era stata inaugurata dal filosofo greco, ma in questo caso si tratta di un platonismo, per così
dire, “spurio”, che si presenta come una premessa la quale tuttavia viene
rovesciata nella svalutazione hegeliana del bello naturale e nell’inserimento
della manifestazione della verità dell’arte; arte che da Platone, ricordiamo,
viene giudicata negativamente come «mimesi di un simulacro»58 e ispiratrice
57
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 60.
Plat., Resp., 598b, tr. it. di F. Sartori, in Id., Opere complete, a cura di G.
Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1993.
58
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
di poco edificanti passioni.
E il riferimento al pensiero hegeliano è fondamentale per la definizione rosenkranziana del concetto di brutto nel suo inserirsi in una cornice
dialettica: la bruttezza è termine medio tra il bello e il comico, e la sua
“riconciliazione” con la bellezza attraverso la mediazione della caricatura
solleva il fondamentale problema della possibilità, o meno, della redenzione
del brutto.
Tuttavia, è proprio l’elaborazione della forte influenza del pensiero hegeliano, come abbiamo in parte già notato, a costituire il terzo ambito di ambivalenza caratterizzante l’Estetica del brutto; Rosenkranz si accosta sovente
alla riflessione del maestro semplificando spesso le sue intuizioni e non problematizzandole ulteriormente, ma anzi utilizzandole come “sostrato” ben
acquisito per sviluppare posizioni spesso opposte alla filosofia hegeliana: come nel caso emblematico della trattazione della bruttezza naturale e nei
temi, ch’ora ci apprestiamo a sviluppare, della considerazione della possibilità di redenzione del brutto, della questione della rappresentabilità artistica
del male, della dialettica, della libertà e del concetto di divenire.
Anzitutto, il brutto è per il nostro autore concetto relativo, che deve
la sua esistenza al presupposto positivo della bellezza e che tuttavia, «dal
punto di vista empirico è ciò che è grazie a se stesso»; «il brutto è il pericolo
che lo [il bello] minaccia internamente, la contraddizione che per sua natura
ha in se stesso»; definizione che non può non rimandarci al contesto filosofico
hegeliano.
Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche Hegel elabora il concetto di finito come luogo della contraddizione: nel senso che le cose finite hanno sì come
caratteristica fondamentale di «essere», ma un essere i cui tratti principali
sono dati dal tempo e dal divenire, per cui «l’ora della loro nascita è l’ora
della loro morte»: il che comporta come elemento peculiare della finitezza
delle cose il non essere «veramente quali si mostrano immediatamente».
Il finito dunque non è il vero reale, o meglio lo è solo nell’«inquietudine»
che lo spinge oltre se stesso: poiché soltanto come momento della totalità
e della totalizzazione, il finito lascia trasparire una realtà in senso più elevato, una realtà che invece caratterizza in modo proprio l’infinito, il vero
essere, su cui si fonda l’affermazione hegeliana del carattere posto e mediato
della finitezza. Immerse nel tempo, tutte le cose finite sono in se stesse contraddittorie, in quanto in esse giace la spinta verso il loro stesso tramonto
nel costituirsi quali momenti della totalità: e questo «tramonto» non è che
l’Aufhebung, il superamento, un sottrarre che innalza e invera a un livello
più alto, e sulla cui base lo spirito si riconcilia con il mondo – e nella storia
– riconoscendosi in esso come compiuta attuazione della razionalità59 .
59
Si tratta del cammino attraverso il quale lo Spirito Assoluto si riconcilia con se stesso
descritto nelle sue varie tappe nella Fenomenologia dello Spirito; cfr. G. W. F. Hegel,
Fenomenologia dello Spirito, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000.
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Su questa base teorica si fonda la precisazione di Rosenkranz per cui il
brutto non si configura essenzialmente quale essere: ma quale divenire60 .
Indagando il concetto di bellezza, Hegel ci fornisce delle indicazioni preziose per cogliere il suo complesso disegno teorico, per cui l’Idea, ovvero
la bellezza, deriva dal congiungersi della realtà con il concetto, secondo una
forma paradigmatica che resterà tale per tutta la strutturazione delle lezioni
di estetica: l’idea si configura cioè sempre in una forma determinata, dunque come ideale61 : essa infatti ha natura processuale e solo nel suo percorso
acquisisce la concretezza che le compete. Il carattere dialettico del divenire del concetto si definisce in relazione alla singola opera nelle categorie di
universale, particolare e singolare, e in relazione alla storia dell’universo artistico nella tre forme d’arte simbolica, classica e romantica. Nell’itinerario
della singola opera assistiamo quindi al trascorrere dall’universalità astratta alla “particolarizzazione”, la quale viene a sua volta superata, in quanto
negazione dell’universale, nel momento della singolarità, in cui quest’ultimo
si rapporta a se stesso nell’alterità, assumendo l’aspetto di una totalità sia
soggettiva che oggettiva.
Di conseguenza, l’opera è in quanto anzitutto diviene, elaborando il sensibile e sollevandolo dalla sua accidentalità per giungere infine all’individualità
vivente, espressione autentica dell’autonomia dello spirituale62 .
Nella sua caratterizzazione del brutto come divenire, al solito Rosenkranz
non si concentra sulla cornice più ampia in cui è inserito lo sviluppo di ogni
questione – in questo caso la definizione del bello e dell’opera d’arte nella
sua peculiarità – in Hegel, e si limita invece a riprendere l’intuizione del
maestro applicandola a quella categoria estetica che si configura ancora come
l’opposto della bellezza: la bruttezza, appunto, che non è qualcosa d’inerte o
passivo, ma una potenza in divenire, la quale tanto più è sottomessa, quanto
più contribuisce alla realizzazione del bello: che a sua volta, sottolinea Bodei,
«cessa di avere una natura statica, di essere un’idea eterna e immutabile
alla quale l’arte deve semplicemente adeguarsi. Esso rappresenta piuttosto
il trionfo dell’ordine sul disordine, la vittoria della forma su quanto è amorfo,
asimmetrico, disarmonico, scorretto, sfigurato, ripugnante o nauseante»63 .
Il tema del divenire si ricollega nell’orizzonte hegeliano alla nozione di
dialettica e alla trattazione della libertà; che ritroviamo sì ripresi in Rosenkranz, ma secondo la sua consueta modalità “di facciata”; anche in riferimento al conseguente e fondamentale problema della possibilità, o meno,
della redenzione della bruttezza (e del male).
«All’interno del brutto l’illibertà costituirà in modo conseguente il principio da cui prende le mosse la caratteristica estetica, o piuttosto inestetica,
individuale. [. . . ] Il male è l’eticamente brutto, che avrà come conseguenza
60
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 39, 125.
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 123.
62
Ibid., pp. 178, 179.
63
R. Bodei, “Presentazione”, in K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 17-18.
61
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
anche il brutto estetico»64 . Nella sua trattazione dell’illibertà come nucleo
essenziale del brutto, Rosenkranz si muove tra l’adesione e il riferimento
“fugace” a tematiche d’ascendenza hegeliana e lo sviluppo di una personale
riflessione che, al contrario, da Hegel prende le distanze: se infatti la libertà viene frettolosamente liquidata come autodeterminazione del soggetto
nel processo dialettico per cui l’organismo può esprimere attraverso di sé
lo spirito65 , trattando della suddivisione del concetto di brutto Rosenkranz
ci offre un’ulteriore definizione che certamente può essere molto utile per
capire l’orizzonte teorico su cui la sua concezione si fonda: precisando che
non s’addentrerà in dibattiti più complessi sulla questione, egli afferma che
«il concetto della libertà non è pensabile senza quello di necessità, giacchè
il contenuto dell’autodeterminazione, che ne è la forma, sta nella natura del
soggetto individuale che si determina»66 . Se vogliamo quindi rivolgerci a
una prospettiva esclusivamente estetica, continua il nostro, ne risulterà che
la libertà, in quanto necessità che si autodetermina, costituisce il contenuto
ideale del bello.
Non possiamo tuttavia comprendere appieno la definizione di Rosenkranz
senza addentrarci nella determinazione hegeliana della libertà in rapporto
all’orizzonte artistico; e se tale questione è affrontata da Hegel in modo
decisamente più approfondito, in riferimento alla sua concezione dell’arte
come modalità di manifestazione dello Spirito Assoluto, tuttavia l’allievo
riprende la conclusione del maestro (la libertà come fondazione estetica),
inserendola in un contesto certo più “classicista”, nel porre come presupposto
dell’estetica (che si configura come filosofia del bello) la libertà.
Per determinare il carattere specifico dell’arte come bisogno dell’uomo,
leggiamo nell’Estetica hegeliana, dobbiamo necessariamente chiederci in che
modo si rapporti l’assoluto dell’arte con la finitezza «della vita naturale».
Poiché «laddove c’è finitezza, là scoppiano sempre di nuovo l’opposizione e
la contraddizione e l’appagamento non va mai oltre il relativo»67 , l’uomo è
spinto a ricercare una verità più alta in cui riconoscersi, una verità in cui
possano conciliarsi i conflitti e le lacerazioni del finito (soggettivo e oggettivo,
libertà e necessità, spirito e natura, sapere e oggetto, interno ed esterno).
In quanto lo Spirito Assoluto è la potenza che pone come relative queste
opposizioni nel suo inserirle «nell’armonia e unità che è verità» l’arte, manifestazione sensibile dello Spirito, può portare al superamento della finitezza,
liberando la vita dell’uomo «dalle determinazioni e limitazioni dell’essere
determinato contingente»: non attraverso la cancellazione dell’opposizione
e della lacerazione, bensì nell’inveramento del loro contenuto al di là del
dualismo; per cui essa si configura come la «vita rappresentata come libera64
Ibid., p. 65.
Ibid., p. 64.
66
Ibid.
67
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 100.
65
25
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
ta»68 . Rosenkranz riprende evidentemente nella sua definizione la nozione
hegeliana di libertà; ma se il suo maestro affronta questo tema in relazione
alla concezione di un’arte che soddisfa l’aspirazione dell’uomo a trascendere la finitezza, l’autore dell’Estetica del brutto, ancora legato a una visione
classicistica dell’universo artistico, sceglie di ignorare queste implicazioni,
collegando la libertà alla fondazione della bellezza69 , in un orizzonte etico in
cui il bello si identifica con il bene e il brutto con il male morale: e in questa
operazione egli anzi si colloca in sostanziale divario con il suo maestro, in
una prospettiva del resto comune a tutto il pensiero estetico post-hegeliano.
Che il brutto non possa essere semplicemente la veste esteriore del male
è conclusione a cui Hegel giunge a partire dalla celeberrima riflessione sulla
rappresentazione della divinità nel Cristianesimo: la natura umana e divina di Gesù non può assolutamente essere colta attraverso la raffigurazione
ideale usata per le divinità greche, in quanto costituirebbe un’insuperabile
contraddizione tentare di esprimere in modo armonico il dolore e la gravità
che accompagnano il drammatico vissuto del Cristo crocifisso; e nel momento in cui appare il dolore, anche il brutto fa il suo ingresso nell’arte per
conferire un’espressione estetica adeguata alla sofferenza70 . Se Rosenkranz
s’inserisce dunque di diritto entro la galassia post-hegeliana nella tendenza
ad accostare il male al brutto, e se limitatamente a questo aspetto possiamo in parte condividere l’accusa di «platonismo estetico» che gli rivolge
Raulet71 , con le dovute chiarificazioni prima specificate, tuttavia ci sembra
ingiusto nei confronti della peculiarità dell’opera ridurre il giudizio di Rosenkranz sul brutto a una valutazione esclusivamente etica. Fermo restando che
non è nostra intenzione negare il legame che attraverso il tema dell’illibertà
si instaura tra la bruttezza e il male, la caratterizzazione rosenkranziana del
brutto rimanda a una molteplicità di temi e riferimenti che non ci permette
di identificare tale relazione come univoca determinazione della bruttezza –
cosa del resto esplicitamente affermata dal nostro72 . Il male, dunque, è sì
legato al brutto in quanto negazione della libertà assoluta che fonda il bello,
ma come sua manifestazione più radicale; assistiamo perciò a un parziale
riavvicinamento all’orizzonte hegeliano nel riconoscimento che non tutte le
declinazioni della bruttezza s’identificano necessariamente con la negatività
etica: riconoscimento che emerge in particolare nella trattazione del bello
spirituale73 , che permette di “giustificare” la bruttezza di Cristo (e di non
cadere in contraddizione con Hegel), per cui un riferimento, più che nel
platonismo, si potrebbe forse trovare nella “duplicità” della concezione me68
G. W. F. Hegel, Arte e morte dell’arte: percorso nelle lezioni di estetica, cit., pp.
90-93.
69
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 46-47.
70
G. W. F. Hegel, Arte e morte dell’arte: percorso nelle lezioni di estetica, cit., p. 209.
71
G. Raulet, “Préface”, in K. Rosenkranz, Esthéthique du laid, cit. .
72
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 210.
73
Ibid., pp. 45-46.
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
dievale sul tema: divisa tra la negatività estetica ed etica di una bruttezza
considerata come espressione del male e la rivalutazione del brutto nel suo
esprimere la nuova visione cristiana della bellezza appartenente all’orizzonte
spirituale.
Ed è infine il problema della (possibile) redentività estetica del male
a concludere il nostro breve itinerario nei meandri dell’Estetica del brutto;
ponendosi come ulteriore esempio della categoria dell’ambivalenza secondo
la quale a nostro avviso si deve interpretare l’opera di Rosenkranz.
La riconciliazione del brutto nell’unità della bellezza si realizza attraverso il comico, come già abbiamo accennato, in una concezione comune a
tutte le dissertazioni estetiche post-hegeliane; e Rosenkranz affronta specificamente questa categoria estetica nell’ultimo paragrafo della sua opera74 ,
anche se aveva già mostrato nel corso della trattazione come ogni determinazione del brutto potesse essere volta in ridicolo. Non vogliamo approfondire
ulteriormente le caratteristiche e la genesi della caricatura che, seppur di
notevole interesse, s’innestano in modo solo marginale nella nostra riflessione; nel suo essere elemento di mediazione dialettica tra il brutto e il bello,
il comico tuttavia solleva una questione decisamente complessa: è dunque
sempre possibile per Rosenkranz una “redenzione” del brutto? Una redenzione che andrebbe a negare dunque anche quegli aspetti tragici e terribili
che accompagnano le manifestazioni più spregevoli della bruttezza (nel suo
legame con il male morale)?
La questione che qui sorge riguarda in ultima analisi la negatività pura
e la sua possibilità di trasfigurazione: che secondo Hegel è irrappresentabile
proprio nell’inattuabilità di un suo riscatto; se infatti il brutto è ammesso
nella rappresentazione artistica solo a patto che venga reso funzionale a
valori positivi sul piano etico, tuttavia vi sono realtà che l’arte in generale
mal tollera, come «le torture, le atrocità inaudite [. . . ] esteriorità in se
stesse brutte, ripugnanti, repellenti, la cui distanza dalla bellezza è troppo
grande perché possano essere scelte a oggetto di un’arte sana»75 . Come
sintetizza Scaramuzza, «brutto è dunque nell’ottica di Hegel non solo il non
riuscito, lo scorretto o l’incompiuto formalmente; ma anche tutto un mondo
di negatività per lui non riscattabile sul piano dell’arte, magari rimossa,
comunque ai suoi occhi non riscattata: una realtà fisica o morale, stilistica
o tematica, in eccesso o in difetto di equilibrata consistenza significativa»76 .
Il male nella sua pienezza, espresso dalla figura del diavolo, è infatti per
Hegel non rappresentabile, ed è proprio su questo punto che Rosenkranz si
contrappone al maestro: dopo aver citato il passo specifico dell’Estetica in
cui è trattato il tema in questione77 , egli elabora la sua posizione attraverso
74
Ibid., pp. 243-244, 245, 263.
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 612.
76
G. Scaramuzza, L’estetica e il brutto, Centro Stampa, Padova 1986, p. 75.
77
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 249, cit. in K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit.,
p. 227.
75
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un serrato commento al testo hegeliano:
Ora, Hegel dice, e non senza cautela: il diavolo per sé è una figura
malvagia, esteticamente rappresentabile, inutilizzabile. Ma il diavolo
per sé è come dire diavolo da solo, avulso dal contesto complessivo
del mondo, soggetto isolato dall’arte. Contro questo non vi è nulla da
obbiettare. Abbiamo già discusso nella prefazione il fatto che il male
e il brutto possono essere pensati solo come momenti che scompaiono
nella totalità del grande ordinamento divino del mondo. Ma entro
in tale condizione il diabolico è anche così assolutamente inestetico?
[. . . ] Il risolversi del diabolico nel comico è già presente nella sua
contraddizione originaria.78
Potrebbe dunque sembrare che Rosenkranz ammetta nella rappresentazione artistica anche il male, il brutto nella sua forma più “completa”,
consentendo attraverso la figura del comico «una sorta di “teodicea estetica”. Se la cornice dialettica della sua opera potrebbe effettivamente confermare una prospettiva del genere, nel suo risolvere ogni determinazione
della bruttezza nel ridicolo, tuttavia ancora una volta dobbiamo notare
un’“incongruenza”tra il rigoroso impianto teorico dell’Estetica del brutto e
le istanze che emergono invece dallo sviluppo concreto della materia: per
cui nel corso della sua trattazione egli s’avvicina alla posizione di Hegel
nell’individuare delle realtà che non possono essere riscattate nel ridicolo o
nella caricatura. Nota infatti Bodei: «l’atteggiamento teorico di Rosenkranz
è però più complesso di quanto appaia e, per certi versi, anche più paradossale. Nel suo progressivo allontanarsi dalla dialettica verso il metodo genetico,
egli cerca sì di attenuare il ruolo logico della contraddizione e del negativo,
ma ciò dipende anche dal fatto che [. . . ] considera la negatività del mondo,
brutto e male compresi, come qualcosa che è sempre meno “dialettizzabile”
e conciliabile anche dal pensiero»79 . La sistematizzazione teorica in questo
caso non riesce infatti a cogliere e a esprimere in pieno la molteplicità e la
complessità del reale, nel quale esistono “zone d’ombra” inconciliabili con
la trasfigurazione in un valore positivo, e di conseguenza irrappresentabili dall’arte. Rosenkranz si concentra in particolare sull’efferatezza, in un
esempio tratto dal paragrafo sulla caricatura, e sulla sfera dell’oscenità sessuale, ch’egli condanna con notevole enfasi nella sezione dedicata al rozzo80 :
e se certo i toni di Rosenkranz sono certamente meno “solenni” di quelli del
maestro nel negare la “convenienza” artistica di alcuni soggetti, tuttavia è
innegabile lo scarto tra la sua impostazione teorica e la materia “viva” della
fenomenologia del brutto ch’egli crea nelle sue pagine.
Uno scarto che dunque rende impossibile comprendere l’Estetica del brutto senza un confronto diretto con le sue pagine, con gli innumerevoli rife78
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., pp. 228, 241.
R. Bodei, “Presentazione”, in K. Rosenkranz, Estetica del brutto, cit., p. 16.
80
Ibid., p. 208, 244.
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
rimenti che Rosenkranz dissemina nel testo, spesso senza alcuna esplicitazione, con le numerosissime ambivalenze, qui sintetizzate solo in parte, che
ci riportano al loro riflettersi nella stessa ambivalenza della materia trattata: il brutto: che spesso esiliato dall’orizzonte estetico e ontologico dalla
riflessione filosofica, si trova quindi a reclamare un’autonomia categoriale
pur nel suo oscillare tra utilizzazioni diverse, descrittive da un lato e valutative dall’altro81 ; perché se esso da un lato esprime un giudizio negativo,
dall’altro reclama per sé una qualche positività nel descrivere un ambito
dell’esperienza estetica che può volgersi, o “redimersi”, a più felici esiti; come
del resto lo stesso Rosenkranz ci esemplifica nel suo riconciliare la bruttezza
nelle braccia del bello attraverso il comico, nella figura della caricatura.
81
Cfr. G. Scaramuzza, L’estetica e il brutto, cit.
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