madri con un salario basso conviene tornare a lavorare?

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madri con un salario basso conviene tornare a lavorare?
Alle madri con un salario basso conviene
tornare a lavorare? Una domanda da 500
euro al mese (e molto di più)
scritto da Barbara Ganz il 19 Ottobre 2016
Mi conviene tornare al lavoro dopo la maternità? Se ci metto le spese di trasporto, il costo di una
babysitter, e poi magari del nido privato perché non c’è altro posto, la fatica di tornare a casa e trovare tutto
da fare, quasi quasi non conviene. Questo è un argomento ricorrente, nei luoghi – anche virtuali, ad esempio
i forum – dove le donne, neo mamme, si trovano a discutere.
“Alle madri con bassi salari non conviene lavorare” – Questa affermazione (noi, nel titolo, l’abbiamo usata
aggiungendo un punto di domanda) – compare nello studio “Famiglia, lavoro, gender gap: come le madri
lavoratrici conciliano i tempi” realizzata dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro e pubblicata in
occasione del Festival del Lavoro 2016 a Roma, alla fine di giugno.
Un (altro) fattore che incide quasi esclusivamente sul tasso d’occupazione femminile è il costo del
lavoro domestico e per la cura dei figli, svolto gratuitamente dalle madri, che dovrebbe invece essere
pagato nel caso la donna decidesse di lavorare: infatti, le donne che si aspettano di guadagnare uno
stipendio più alto delle spese che dovrebbero sostenere per i servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura
dei familiari sono potenzialmente più propense a lavorare, viceversa alle madri meno istruite e con minori
qualifiche professionali, che hanno un’aspettativa salariale più bassa, non conviene lavorare dal momento
che il costo dei servizi sostitutivi rischia di essere più alto del salario che possono guadagnare, a
meno di disporre di una rete familiare di care giver.
Nel grafico: Tasso d’occupazione delle madri (25-49 anni) con figli conviventi per presenza di figli minori,
sesso e titolo di studio – Anno 2015 (valori percentuali e in punti percentuali)
Il costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei bambini, in assenza di nonni o di altri
familiari, è pari a circa 500 euro al mese. Questa tesi è confermata dall’analisi del tasso d’occupazione
femminile per titolo di studio: cresce con l’aumento del livello d’istruzione, dal momento che è molto
probabile che a titoli di studio più alti corrispondono anche salari più elevati, che consentono di pagare più
agevolmente i servizi di cura dei bambini. Infatti, il tasso di occupazione di una madre con al massimo la
licenza media diminuisce in modo drammatico dal 45% nel caso la lavoratrice abbia un figlio al 36,7%
con la nascita del secondo figlio, al 26,4% con il terzo figlio e al 18,6% con quattro o più figli. Anche per le
madri diplomate il tasso di occupazione diminuisce drasticamente dal 64,6% (1 figlio) al 43,2% (4 figli e
più).
Per le laureate la nascita di uno o tre figli determina il fenomeno contrario perché aumenta il tasso di
occupazione dal 79,8% all’81%, probabilmente perché aumenta il bisogno di un reddito da lavoro per far
fronte all’incremento significativo delle spese per mantenere i figli, a fronte dell’aspettativa di una
retribuzione elevata che copre queste spese. Solo con 4 figli e oltre diminuisce leggermente il tasso di
occupazione delle laureate. La differenza tra il tasso di occupazione delle donne con al massimo la licenza
media e di quello delle laureate raddoppia, come è del resto atteso, con l’aumento del numero dei figli e
delle spese per i l loro mantenimento, da 34,9 a 54,6 punti percentuali.
Il nostro rapporto – spiega Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti
del Lavoro e del Comitato unitario delle Professioni – mette in evidenza come in Italia i genitori che
lavorano pagano il prezzo più alto per conciliare vita famigliare e lavoro. In presenza di salari bassi,
soprattutto per le madri, è quasi più conveniente non lavorare. Questa scelta incide fortemente
sul tasso degli inattivi, ovvero quei soggetti che non lavorano e non cercano nemmeno un lavoro. In Italia
circa il 35,6% delle mamme con figli minori sono inattive. Molte di queste non cercano lavoro per poter
accudire i figli, perché nella zona in cui vivono i servizi di supporto alla famiglia, compresi quelli a
pagamento come baby-sitter e assistenti per anziani sono assenti, inadeguati o troppo costosi. Nella fascia
di età che va dai 25 ai 54 anni ci sono 1,6 milioni di mamme occupate con un lavoro part time. Di queste,
quasi il 44% ha scelto il tempo parziale per prendersi cura dei figli. Tutte queste percentuali denotano la
scarsa capacità del nostro Paese di rispondere in modo concreto al problema dell’occupazione femminile e
della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Siamo, infatti, il fanalino di coda nelle graduatorie europee
sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro.
È prioritario, di conseguenza, ridurre il costo dei servizi di cura per l’infanzia attraverso agevolazioni fiscali e
soprattutto con misure più ampie come quelle di welfare aziendale che prevedano la partecipazione ai costi
da parte delle imprese, rivolte innanzi tutto alle fasce di lavoratori con più bassi livelli d’istruzione e quindi di
reddito.
Nel grafico: Madri inattive (25-49 anni) con figli conviventi che non cercano lavoro per l’inadeguatezza dei
servizi di cura per la famiglia o per altri motivi per ripartizione geografica – Anno 2015 (composizione
percentuale)
Ma è sufficiente?
In realtà i dati mostrano che solo 21 madri su 100 non lavorano e non cercano lavoro a causa
dell’inadeguatezza dei servizi di cura dei bambini e degli anziani non autosufficienti. Delle circa 900
mila madri che sono inattive perché devono prendersi cura dei figli o di persone non autosufficienti, solo il
21% dichiara che non ha cercato lavoro perché nella zona in cui vive i servizi di supporto alla famiglia,
compresi quelli a pagamento (baby-sitter e assistenti per anziani), sono assenti, inadeguati o troppo costosi
e il 79% afferma che non ha cercato lavoro per altri motivi.
Di conseguenza, “solo” circa 190 mila madri inattive potrebbero rientrare nel mercato del lavoro se i
servizi per l’infanzia fossero più diffusi e meno costosi.
La scelta di non cercare un’occupazione da parte della grande maggioranza delle madri è volontaria,
anche se in alcuni casi si viene condizionati da stereotipi di genere e da motivi culturali. Il
lavoro ha un forte valore sociale, ma immaginandolo all’interno di una scala dei valori, viene superato
dalla maternità. Molte donne, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, rinunciano al lavoro per
diventare mamme. Le motivazioni possono essere quelle che abbiamo visto finora, cioè servizi di cura per
l’infanzia inadeguati, ma da alcuni studi è emerso che la decisione di non lavorare derivi anche
dalla convinzione che la qualità dell’assistenza che una madre può dedicare ai figli non è
comparabile con quella di un asilo o di una babysitter o, addirittura, dal confinamento del ruolo
delle donne fra le mura domestiche. Queste convinzioni incidono fortemente sulla scelta di non lavorare. Se
a queste aggiungiamo, poi, l’insufficiente capacità d’intermediazione dei servizi pubblici e privati del
lavoro, le differenze salariali di genere che vedono le retribuzioni delle madri inferiori di un terzo rispetto a
quelle dei padri e lo scoraggiamento, si ottiene un quadro chiaro delle motivazioni che inducono a
rinunciare al lavoro. Ma non dobbiamo dimenticare che rinunciare al lavoro significa anche
rinunciare alle relazioni sociali, all’indipendenza e alla dignità, ma anche mettere in
difficoltà la famiglia stessa. In questo senso diventa anche importante investire nella formazione. Un
dato interessante emerso dal nostro rapporto è quello che vede i genitori che hanno fatto figli negli ultimi
due anni più istruiti e maggiormente occupati. Il 40% di questi esercita professioni altamente qualificate e
per questo meglio retribuite.
Del resto, anche nel resto dell’Unione europea il 50% dei bambini sotto i tre anni è assistito dai genitori, e
solo il 28% è affidato agli asili nido. L’influenza di motivi culturali nella decisione di non lavorare in
presenza di figli dei figli emerge anche dall’analisi delle risposte delle donne per cittadinanza: il 77%
delle madri italiane dichiara che non ha cercato lavoro per altri motivi, diversi da quelli dell’inadeguatezza dei
servizi di cura per l’infanzia e le persone non autosufficienti, ma una percentuale maggiore di 7 punti
percentuali si registra tra madri immigrate extracomunitarie (84%) e, in misura minore, tra le straniere
comunitarie (81%).
Dunque, come prendere una decisione? Aggiungendo elementi per così dire “immateriali”, ma da tenere
presenti.
1. L’infanzia non dura per sempre: quando il bambino va all’asilo e ancor più a scuola il tempo per
lavorare fuori casa c’è. Può convenire mantenere il posto di lavoro anche se per un anno si va quasi
in pari con le spese, perché rientrare è più difficile
2. Il lavoro non è solo questione di stipendio: permette di confrontarsi con altre persone fuori casa,
di mantenere relazioni sociali e di evitare il rischio di isolamento
3. Autonomia: viene spontaneo incrociare le dita e sperare che vada tutto sempre bene, ma anche
solo un divorzio può mandare in crisi il bilancio familiare, per non parlare di un
licenziamento, una cassa integrazione, l’apparecchio e gli occhiali per il figlio che cresce.
Le caratteristiche della famiglia italiana di oggi sono profondamente cambiate. Il nucleo familiare classico,
costituito generalmente da una coppia con figli, è in diminuzione mentre aumenta in maniera consistente il
numero delle persone sole (+37%): 1 famiglia su 3 oggi è composta da un genitore single. Questo
nuovo modello familiare comporta dei profondi mutamenti demografici e sociali come l’invecchiamento
della popolazione, l’aumento delle separazioni e dei divorzi e la crescita sostenuta di cittadini stranieri che
vivono in famiglie prevalentemente unipersonali come assistenti o badanti. Ma al tempo stesso comporta
delle esigenze personali che possono essere soddisfatte solo da un sistema di welfare aziendale che
riconosca in modo gratuito i servizi necessari. Gli interventi a sostegno delle famiglie, introdotti dal
Legislatore, possono essere d’aiuto. La Legge di Stabilità ha, ad esempio, riconfermato il bonus bebè per le
neo mamme, per i genitori adottivi e affidatari per gli anni 2016 e 2017. Si tratta di un contributo mensile
di 80 euro che raddoppia per chi ha un reddito ISEE fino a 7.000 euro. Un’altra novità, che potrebbe essere
inserita nella prossima Legge di Stabilità, è il bonus bebè fino al 5° anno di età del figlio ed un possibile
raddoppio dell’assegno di natalità del 2017 per il primo e secondo figlio. Questi interventi, uniti a quelli
riguardanti le politiche attive del lavoro, vanno nella direzione giusta, ma non sono sufficienti se le donne
continuano ad essere più penalizzate rispetto agli uomini per il lavoro che svolgono o per il
luogo in cui vivono.