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A proposito di Unificazione
COME TENERE ASSIEME L’ITALIA DELLE DIVERSITÀ
Viste le polemiche e i, non casuali, ritardi nei preparativi per la celebrazione del 150°
anniversario dell’Unità del nostro paese, ecco alcune puntigliose e dettagliate note di
carattere storico per rammentare che il solo beneficiario della nascita della nazione nel
1861 è stato il Nord, assai più del Centro, e l’unica vittima in termini economici, finanziari
e culturali, è stato il Mezzogiorno. Questo per rispondere alle dissennate campagne della
Lega di Bossi contro “Roma ladrona” e il Sud parassita, miranti in sostanza a indebolire, se
non a rompere il tessuto politico unitario e solidale della penisola.
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di Ignazio Delogu
Bisogna aver fatto il militare – la naja – per sapere come si parlavano i giovani italiani nei primi venti
anni successivi alla Liberazione e alla nascita della Repubblica. Uso il verbo al passato perché non so
come si parlino, se si parlano, i giovani italiani del primo decennio del XXI secolo.
Allora si parlavano in mille modi, meno che nell’italiano ufficiale, quello introdotto nell’età delle
Signorie, dei Principati, delle Corti e del potere temporale dei Papi, come strumento per sfuggire al
controllo popolare della politica che ha nella lingua, cioè nella comunicazione, lo strumento essenziale di
governo dei Governanti ai danni dei Governati.
Ci parlavamo, perché c’ero anch’io fra le centinaia di migliaia di burbe di quegli anni finali della leva
obbligatoria, nella incompiuta - perché consapevolmente impedita e stroncata – koiné in progress più o
meno nel XVI secolo. Dopo di che la lingua, da vivo e vitale strumento di comunicazione che era stato,
divenne per certi aspetti “sudario di morte”, come lamentato dai “privados” delle Cancellerie degli Stati
peninsulari.
E ci comprendevamo, coscritti di ogni Regione della Penisola e delle Isole. Sardi, persino, che pure
faticavano ad adeguarsi a quella koiné, loro titolari di un’altra lingua romanza, il sardo appunto, scritto e
parlato e quindi attestato nei Condaghes o Cartolari delle Abbazie benedettine dei secoli dal XII, almeno,
al XIV, ben prima, dunque, degli scarsi e scarni e balbettanti documenti del volgare italico, tanto
decantati, del tipo Sao ke kelle terre ke ki kontene...
Si chiamavano: Casetta, valdostano, Megale, calabrese, Cannavacciuolo e D’Amore, napoletani, Salierno,
lucano, Casamassima e Lavermicoca, pugliesi, Zarfatti e Accame, romani, Leone, abruzzese, Boni e Tani,
toscani, Rossi, genovese, Barsanti, mantovano, Carolis, veneto, Barone, liutaio catanese, Asproni e Zizi,
sardi.
Ci parlavamo e ci comprendevamo anche con sottufficiali e ufficiali, che peraltro parlavano una sorta di
gergo tributario, certo, della lingua ufficiale del potere e del comando, ma più propriamente collegati e
dipendenti – giocoforza, se volevano essere intesi e ubbiditi – dalla immatura e incompiuta koiné usata
dalla truppa.
Nelle squallide e spesso immonde, oltre che torride o gelide camerate dei Reggimenti in prevalenza
dislocati al Nord – e il dato non va trascurato, a proposito di sfruttamento del Nord da parte di una Roma
ladrona che restituiva ad abundantiam con una mano – il troppo, rispetto al poco o niente che prendeva
con l’altra! – ci parlavamo, dandoci a vicenda dei polentoni e dei terroni, in spirito e con volontà di unità
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reale, per via dei rapporti umani sinceri e strettissimi che si stabilivano proprio in virtù di quella sincera,
convinta e persuasiva capacità di comunicazione che la koiné in uso non solo permetteva, ma favoriva.
Al di fuori di ogni retorica, compresa quella del comando, una unità del Paese, incompiuta ancora quanto
si vuole, si rendeva manifesta. E proprio sul terreno della lingua, della comunicazione. Come testimoniano
le tenaci relazioni di confidenza e di amicizia che resistevano, e non solo nel ricordo, alla separazione
imposta dall’atteso e sospirato, ma anche malinconico e spesso accorato congedo assoluto e permanente,
che ci rimandava tutti a casa.
Eppure sapevamo poco o niente gli uni degli altri. Chi, infatti, conosceva qualcosa in più delle Italie pur
esistenti e irrinunciabili, di quel poco, quasi niente, che la scuola “italiana” insegnava?
Apprendevamo proprio in quelle camerate, o nelle tende delle manovre estive o invernali, o nei turni di
guardia, le diversità, le differenze, le diseguaglianze spesso mortificanti e avvilenti.
Non è, questo, un inno alla vita militare. Tutt’altro! Nessuna nostalgia, nessun rimpianto. Ci mancherebbe!
Ma il bisogno di riflettere su menzogne, idiozie, banalità ciniche e frutto di proterva e insanabile
ignoranza, sia di nordici che di sudici. Tanto più necessaria alla vigilia del 150° anniversario
dell’Unificazione, che può e dovrebbe essere l’occasione per lasciarsi alle spalle quel mare di ovvietà e di
luoghi comuni che formano oggetto di discussione – a un livello desolante di improvvisazione e di
incultura – da parte di politici cinici e ignoranti.
E nell’assenza squallida, opportunistica e autoreferenziale nella sua impotenza, dei cosiddetti
“intellettuali”, impegnati – loro, scrittori, signori e maestri della lingua! – a portare a casa riconoscimenti,
premi e milioni, contratti con case editrici signore di un mercato truccato dal monopolio e dalla prepotenza
– e indifferenti rispetto al problema fondante, almeno quanto quello economico, dell’unità del Paese.
Dello Stato repubblicano, intendo. Strumento irrinunciabile del perfezionamento dell’unificazione, fino ad
ora incompiuta e, anzi, ostacolata dal centralismo burocratico monarchico e, in qualche misura, anche
repubblicano..
Se è vero, come viene riconosciuto dai più attenti e onesti osservatori della società italiana (fra i pochi, se
non l’unico, Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera di domenica 9 agosto), che nella prima
Repubblica i partiti di massa, e il PCI fra i primi, seppero assolvere largamente alla loro missione
unificatrice, portando alla cultura e in, primo luogo, al superamento dell’analfabetismo – non solo politico,
indotto dal ventennio fascista di soppressione delle libertà, ma quello reale, certificabile e certificato – le
masse contadine e operaie e larghi strati di piccola e media borghesia dell’intero Paese.
Oggi si assiste, al contrario, alla ripresa di un’attività politica tendente in maniera cinica e irresponsabile,
non solo a mettere in discussione, per negarlo, il livello di unificazione raggiunto con tanta difficoltà e
attraverso prove terribili e sanguinose, ma a negarne la necessità e l’urgenza, di fronte al livello di
globalità raggiunto dall’economia e dalla civiltà nel suo complesso, con l’argomento menzognero e
meschino di un preteso sfruttamento del Nord – dell’inesistente, oggi e sempre, Padania, delle traveggole
bossiane – a vantaggio del Mezzogiorno.
Con un ribaltamento clamoroso della verità storica, che conosce un’unica vittima, in termini economici,
finanziari e culturali: il Mezzogiorno, come testimonia l’esistenza di un’ancora irrisolta Questione
Meridionale.
Che l’Unificazione abbia avuto un solo beneficiario, il Nord, assai più del Centro, del Paese, è una verità
storica che non ha bisogno di essere dimostrata.
Basti pensare a ciò che ha significato, in termini economici, la dislocazione prevalentemente al Nord,
dell’intero apparato militare dello Stato, attraverso il concentramento, nel corso di più di un secolo, dei
diversi Corpi d’Armata, a organico pieno o quasi, di fronte a una sua presenza poco più che simbolica al
Centro e al Sud.
Al Nord, da Ovest ad Est, in corrispondenza dei “sacri confini della Patria”, erano normalmente
concentrati i Reggimenti di Fanteria, cioè la maggioranza delle truppe. Gli Alpini, in primo luogo;
l’Artiglieria, con le diverse specialità: ippotrainata, da fortezza, da campagna, pesante campale; la
Marina coi suoi cantieri navali a Monfalcone e non solo, gli Incursori a La Spezia, i Lagunari a Venezia;
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la Guardia di Finanza alle frontiere. E inoltre gli Squadroni di cavalleria, immancabilmente in Piemonte,
con migliaia di quadrupedi, carriaggi, depositi di vettovaglie e di munizioni, officine di riparazione e di
manutenzione di armi, munizioni e immobili, intendenze, ospedali e quant’altro, che necessitavano della
presenza di una più che consistente burocrazia militare, e comportavano spese e ruberie da parte di
“furieri” specializzati in sottrazioni e abusi di ogni genere.
Si pensi, oltre che al soldo delle centinaia di migliaia di coscritti, agli stipendi di sottufficiali e ufficiali e
degli impiegati civili – non solo quelli dei Distretti militari presenti anche nel Mezzogiorno e nelle Isole, il
più delle volte secondo criteri clientelari e elettorali, che rappresentavano un enorme flusso permanente di
danaro contante che andava ad ingrossare redditi molto spesso già cospicui di cittadine dotate di
agricoltura avanzata e di industrializzazione consistente.
E che dire delle somme imponenti che i militari di leva spendevano di tasca propria, in aggiunta al soldo,
nell’acquisto anche solo di decine di migliaia di cartoline postali e illustrate, di buste e carta da lettere, di
penne e matite, di francobolli per l’irrinunciabile corrispondenza con le famiglie?
E quelle, non meno imponenti, per la pulizia personale (lame da barba, rasoi, sapone), taglio dei capelli,
docce, decoro della divisa, normalmente impossibile da indossare senza aggiustamenti che solo in misura
assolutamente insignificante venivano eseguiti dalle “sartorie reggimentali”?
Alle quali sono da aggiungere le somme inviate dalle famiglie, destinate ad integrare il rancio,
insufficiente e spesso immangiabile, e gli scarsi divertimenti, le sigarette soprattutto, il cinema e il casino,
assiduamente consigliato dai Comandi.
Ogni “libera uscita” rappresentava una formidabile iniezione di liquidità in cittadine già di per sé
economicamente floride, come Casale Monferrato, Alessandria, Treviso, Sacile, Pordenone, Vittorio
Veneto, Trieste e tante altre, tutte al Nord Ovest e al Nord Est!
E si pensi, ancora, a ciò che significava sul piano della spesa, provvedere all’acquisto sul mercato locale,
delle derrate per il rancio e per le mense ben più ricche di ufficiali e sottufficiali. O quelle destinate alla
manutenzione del casermaggio e del vestiario. Non so che regolamento o capitolato, prevedeva non meno
di dodici rattoppi per paio di scarpe di ogni militare di leva! E posso testimoniare che le furerie non si
facevano scrupolo di registrarli tutti in bilancio, anche quelli impossibili da operare per evidente mancanza
di spazio.
Ho voluto fornire un dettagliato, ancorché incompleto, quadro delle ruberie di Roma ladrona ai danni del
Nord vittima dell’Unificazione, tacendo su ciò che ha significato per il progresso economico e sociale di
quelle regioni, la dislocazione al Nord della stragrande maggioranza delle industrie belliche, la continua
manutenzione e il rinnovamento del parco automobilistico, che ha visto beneficiaria in primo luogo la
FIAT, e di conseguenza la classe operaia torinese, oltre che le decine di migliaia di maestranze edili
impiegate nella costruzione di opere militari, come il Vallo Alpino del Littorio, inutile opera di difesa della
frontiera occidentale da una inesistente minaccia francese, imposta da potenti interessi finanziari e
industriali collusi con l’irresponsabile politica guerrafondaia e imperialista del governo fascista.
Per non dire delle migliaia di artigiani impiegati nella costruzione e nel rinnovamento degli indispensabili
arredi e finiture di stalle, depositi e divise di un esercito che finì per contare otto milioni di baionette!
Altre rapine, ai danni ovviamente del Nord, potrebbero essere documentate. Compresa quella delle vite
umane sottratte alle Regioni contadine del Mezzogiorno, come la storiografia delle due guerre mondiali e
delle sciagurate imprese coloniali e la partecipazione alla guerra civile di Spagna, ha inconfutabilmente
dimostrato.
Ancora oggi, a distanza di numerose decine di anni, è impossibile conoscere con certezza quante centinaia
di migliaia di giovani, prevalentemente meridionali, costretti a marcire nelle trincee o a combattere a
giornata, come amaramente dicevano i braccianti del mio paese in Sardegna, siano morti in quelle inutili
stragi. Morto in Libia è sinonimo, ancora oggi, di disperso, scomparso nel nulla. E si calcolano a migliaia!
O bisognerà ricordare ai lumbard e soci le disastrose conseguenze della guerra doganale con la Francia,
risoltasi in un drastico e rapido impoverimento del Mezzogiorno e delle Isole a tutto vantaggio delle più
favorite regioni del Centro e del Nord e causa non ultima dell’imponente fenomeno dell’emigrazione
transoceanica che privò soprattutto il Sud e le Isole delle loro migliori energie fisiche e intellettuali?
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Come reagire alla dissennata campagna lanciata dalla Lega Nord, complice gran parte del PDL
berlusconiano, contro il necessario completamento dell’Unificazione? Non certo con quella parvenza di
federalismo chiamato fiscale, perché se ne comprenda senza infingimenti la finalità bottegaia, ma
rilanciando quella Repubblica delle Autonomie prevista dalla Costituzione della Repubblica, fondata su un
reale e agile bicameralismo con l’istituzione, al posto del Senato, della Camera delle Regioni, l’abolizione
delle Province, il potenziamento delle autonomie comunali e regionali.
Evitando di scadere nel folklore localistico o patriottardo, difendendo un peraltro intangibile Tricolore
repubblicano, o accettando becere pretese di esami di dialettologia ad uso di insegnanti elementari e medi,
E introducendo, invece, fra le materie curricolari delle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento delle
lingue storiche riconosciute, previsto nella Costituzione e sancito dalla Legge 482 del 1999, tutta ancora
da attuare, e imponendo l’istituzione nelle Università, al posto di tante altre superflue, di Cattedre di
Storia, Lingua e Cultura delle Regioni d’Italia, come materia fondamentale.
E quanto all’insegnamento e, meglio ancora, alla pratica dei dialetti – che nessuno può pensare di imporre
per legge! – nella scuola primaria e secondaria, perché il tanto decantato patriottismo leghista, ridotto a
reperto archeologico, non spinge i giovani a dedicarsi all’insegnamento, anziché preferire i più lucrosi e
gratificanti, anche se meno colti, mestieri prodotti dall’industrializzazione, dal progresso tecnologico e dal
terziario?
Ciò accade ancora oggi nel Sud e sicuramente in Sardegna, dove in centinaia di scuole elementari si
insegna e si pratica il sardo orale e scritto, con risultati insperati ma effettivi anche a livello di riequilibrio
psicologico degli scolari, derivante dal ritrovato equilibrio identitario.
Qualcosa di simile, del resto, accade già in molte scuole del Piemonte, a rimarcare non l’avanguardismo
ma l’arretratezza della Lega Nord..
È fin troppo noto, d’altronde, che nelle Università sarde esistono non solo cattedre di Storia della
Sardegna, dalla Preistoria alla Storia della Sardegna fenicia, punica e romana e via di seguito, fino ai
giorni nostri, ma anche di Archeologia, di Epigrafia, di Linguistica sarda e di Filologia e di Letteratura
sarda e che anche le cattedre di Storia dell’Arte mettono in primo piano lo studio dell’arte medievale e
moderna, e di quella contemporanea, dell’Isola, con risultati di grande rilievo scientifico, riconosciuti a
livello nazionale e internazionale.
E perché, anziché alimentare polemiche e piagnistei, le regioni del Nord non istituiscono “sportelli
linguistici”, simili a quelli da decenni esistenti in Catalogna, in Sardegna e altrove, ad uso di quanti
volessero servirsi del dialetto a livello di impresa o anche per scopi letterari?
Quanti baldi leghisti anziché dedicare le loro epiche veglie notturne alle ronde, si applicano alla
produzione letteraria, che pure conta poeti di eccellenza come Loi, in Lombardia, Zanzotto, in Veneto e
Zanier, in Friuli, per non citarne che alcuni? Quante riviste ed emittenti radio e televisive usano il dialetto,
come fanno le numerosissime esistenti in Sardegna e in altre regioni del Sud?
(Queste cose anche il prof. Panebianco dovrebbe saperle. Perché allora parlare di “ricetta sbagliata” a
proposito dell’Autonomia concessa (!) alla Sardegna, all’indomani della seconda guerra mondiale, come
fa su Il Corriere della Sera di lunedì 17 agosto?).
Questo e non le chiacchiere bossiane, può costituire un proficuo terreno di confronto fra i patrioti delle
tante, diverse e irrinunciabili Italie. Questo è il terreno della costruzione di un’Unificazione reale, alla
quale ciascuna comunità linguistica e culturale contribuisca col suo patrimonio, irrinunciabile ripeto, e
non seminando disfattismo e divisione, pur di far trionfare un miope egoismo già sconfitto dalla storia del
presente e del futuro.
E quanto alla bandiera, non è già una realtà che accanto al Tricolore sventolino quelle dell’Unione
Europea e delle Regioni? È sufficiente alzare la testa, anziché bovinamente ruminare immotivati rancori e
minacciare antistoriche secessioni ad uso di incolti bauscia, peggio se di origine meridionale.
L’Italia ha bisogno di unità attorno alla Costituzione repubblicana, evitando confusioni frutto di ignoranza
e di miopia, fra Stato e Nazione. Unità nello Stato pluriregionale o, se si vuole, plurinazionale – nessuna
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paura delle parole! – come accade già negli Stati più avanzati dell’Occidente e dell’Oriente, dalla Svizzera
alla Repubblica Federale, alla Spagna, al Regno Unito, agli USA e all’India.
Come intellettuale sardo, avverto la duplice responsabilità verso lo Stato repubblicano e verso la mia
irrinunciabile Nazione sarda, nella fedeltà alla Costituzione, nell’uso del bilinguismo, nella lealtà verso le
Istituzioni.
Tutto ciò necessita, ovviamente, di “una politica della cultura”, al posto di quella “politica senza cultura”,
giustamente e tempestivamente denunciata da Galli Della Loggia nell’articolo citato. Il quale lamenta
“l’assoluta casualità delle opere progettate” in vista del 150° dell’Unificazione.
Tanto più casuali e culturalmente insignificanti anche rispetto a quelle previste per il 50° anniversario nel
1911, che vide la celebrazione di manifestazioni culturali di straordinaria importanza.
Il 50° fu infatti l’occasione di festeggiamenti ufficiali destinati a celebrare il percorso economico, sociale,
culturale – in una parola, civile – compiuto dal giovane Stato italiano dai tempi della propria unificazione
politica. Ma anche di una profonda riflessione sul primo cinquantennio dello Stato unitario. La sua
incompletezza fu dovuta all’inevitabile incomprensione dei limiti del processo risorgimentale e delle sue
conseguenze
E tuttavia a Roma, ebbe luogo la grande Mostra Etnografica e Regionale e l’Esposizione Universale
d’Arte, nel Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale, appositamente costruito.
A Torino quella di carattere industriale e manifatturiera. Anche Firenze, in quanto terza capitale del
Regno, ebbe il suo ruolo. Ospitò infatti la straordinaria Mostra del Ritratto nella Pittura Italiana, credo
alla Galleria degli Uffizi..
Non dello stesso livello furono le manifestazioni concentrate a Torino per il Centenario dell’Unificazione.
In quell’anno 1961 ero redattore di “Critica Meridionale”, la rivista meridionalista diretta da Giorgio
Napolitano, Gerardo Chiaromonte e Mario Alicata. Fui incaricato di visitare l’Esposizione e di scrivere un
articolo. Niente di particolarmente entusiasmante. Ma un merito all’enorme plastico andava riconosciuto:
quello di proporre più che un’Italia unificata, un’Italia delle diversità.
A ben vedere, il messaggio sembrava essere uno solo, anche se non del tutto consapevole: l’Unità non può
prescindere dalle diversità. Quelle alle quali l’Italia deve il primato assegnatole dalla storia nel campo
della cultura, dell’arte, dell’ingegno e, perché no?, del pensiero e della politica. Primato minacciato non
dalle diversità, ma dal loro appiattimento nell’incultura e nella banalità. Nella notte in cui tutte le vacche,
padane e no, sono uguali.
Che altro sono la xenofobia, il razzismo, l’intolleranza nei confronti dell’altro e del diverso, l’avversione
per la società multietnica, multireligiosa, multiculturale, già presente in quasi tutti i paesi del mondo e
contrastata solo dal fanatismo fondamentalista, se non l’espressione di un risibile provincialismo culturale
e della mancanza di un’identità vera, che se fosse tale non avrebbe bisogno di essere difesa con ronde e
con alpini, comicamente promossi a esercito padano, ma di essere inverata con opere dell’intelletto oltre
che della produzione materiale?
Tutta quella paccottiglia serve soltanto a nascondere la fottutissima paura di non potere sostenere il
confronto, di esserne ridicolizzati, anche rispetto a un preteso e infantile celodurismo minacciato, peraltro,
da una concorrenza agguerrita e non aprioristicamente perdente.
Galli Della Loggia lamenta la mancanza di un Ministero della Cultura “in un paese come l’Italia!”. Ha
ragione. Ma aspettarsi solo da un Ministero un’iniziativa che possa fare del 150° dell’Unificazione
un’occasione non casuale di confronto e di dialogo, è forse un po’ ingenuo, se contemporaneamente non si
promuove nel Paese una sorta di rivoluzione culturale che affronti responsabilmente e spregiudicatamente
il tema dell’Unificazione incompiuta, nelle sue ragioni storiche e nelle sue responsabilità politiche.
A partire dall’irrisolta Quistione meridionale, che da questione nazionale; nel senso gramsciano più che
salveminiano del termine, si tenta di degradare a questione di sperpero di denaro pubblico, di incapacità di
spesa, di clientelismo e di parassitismo sociale... Tutte affermazioni non prive di verità, ma non
esorcizzabili e rese irripetibili dalla costituzione di una Agenzia per il Sud, ovviamente diretta
dall’infallibile e onnipotente duce di turno.
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A chi spetta quel compito, nella conclamata vacanza di gran parte della classe politica, se non agli
intellettuali? Ai Signori della parola, della scrittura, della comunicazione e della creatività? Sapranno
abbandonare per un momento la cura del loro particulare – leggi: premi, contratti, collaborazioni a radio e
televisioni – per dedicare parte del loro innegabile talento a promuovere quella riscossa, se non
rivoluzione, culturale della quale il Paese ha bisogno per affrontare unito, oltre che unificato, il futuro
difficile che, più che alle porte, è già iniziato?
Il Ministro per i beni e le attività culturali Sandro Bondi, intervenendo il 10 agosto scorso su Il Corriere
della Sera con la sufficienza che gli è propria, dribbla disinvoltamente quello che era il punto centrale
dell’articolo di Galli Della Loggia: la “politica senza cultura”, come stato permanente della politica
italiana, ma con un riferimento preciso a un evento che, essendo politico, avrebbe bisogno di una iniziativa
culturale non casuale, ma fortemente mirata a promuovere un confronto e un dialogo sul tema centrale che
torna a coinvolgere la politica italiana e, sia pure ancora timidamente, la cultura e gli intellettuali di questo
paese.
In concreto, anche solo comparata alle iniziative realizzate in occasione del 50° e del 100°
dell’Unificazione, quante, quali e di quale livello sono le manifestazioni previste per l’ormai prossimo
150°? Evitare la risposta, svicolare, giocare ancora la carta obsoleta del vizio marxista o storicista (!) della
“critica” non propositiva e non collaborativa, significa solo ed esclusivamente dribblare la domanda.
Perché non propone Bondi quel di più che si aspetta da Galli Della Loggia? Il quale, fra l’altro, non è solo.
Gli fa eco, sempre su Il Corriere della Sera, il neo Presidente del Consiglio superiore per i beni culturali,
Andrea Carandini, rilanciando una proposta proprio di Galli Della Loggia “feconda e caduta nell’ombra”,
di “un museo che non raccolga soltanto oggetti, ma racconti cose, costruzioni, paesaggi e azioni umane nel
tempo”.
Ben venga il Museo. Ma in che misura la proposta riguarda il 150° anniversario? E che cosa, altrimenti,
propone concretamente a questo riguardo il Presidente Carandini? C’è tempo ancora per lanciare, per es.,
un Concorso di idee, che a parer mio potrebbe anche essere gratuito, che veda impegnati gli intellettuali
delle più diverse specializzazioni, architetti, scrittori, poeti, artisti, sociologi? Se c’è, lo dicano Carandini
e/o il Ministro Bondi.
O condividono l’ultimissima dichiarazione di Bossi secondo il quale, ”per quanto riguarda il 150°
Anniversario dell’Unificazione, non è il caso di spendere neanche una lira”?
Di certo c’è solo, ad oggi, che le iniziative programmate, sulle quali nessuno dei due ha detto una parola,
sono del tutto casuali e insufficienti per quantità e per qualità. E che negli interventi di entrambi non c’é
neanche l’ombra di un’idea o proposta.
Con in più, nel caso di Bondi, il solito, stucchevole osanna alle iniziative del Governo, alle sue “riforme”:
quelle dei Beni culturali, della Scuola e dell’Università comprese.
Troppo poco, ci pare, rispetto alle attese di quanti hanno a cuore il presente e, soprattutto, il futuro di
questo Paese.
Un segnale sembra, tuttavia, venire dalla Presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, la quale
enuncia (Bresso sfida la Lega: l’Unità d’Italia sia festa, La Repubblica, 14 agosto 2009) la proposta di
istituire una Festa dell’Unità nazionale, da celebrarsi il 18 Febbraio data nella quale, nel 1861, il primo
Parlamento dell’Italia unita, riunito a Torino dichiarò la nascita del Regno d’Italia e la conclusione, quanto
meno, della fase risorgimentale dell’Unificazione. Insieme, ovviamente, ad iniziative rivolte più che a
celebrare, a fare il punto sullo stato reale dell’Unificazione.
Bisognerà riflettere sull’opportunità, da non scartare a priori, dell’istituzione di una nuova festa nazionale.
Potrebbe essere il 2 Giugno, assunto nel suo significato più vero e rivoluzionario, quanto meno rispetto al
precedente stato monarchico, in quanto capace di unire gli italiani senza distinzione, attorno alla
Costituzione repubblicana, fondamento del nuovo Stato basato sul Lavoro, sulla Resistenza e
sull’Antifascismo.
È importante che altre proposte vengano non solo da altre Regioni e da altre Istituzioni, ma anche dagli
intellettuali che non intendono rinunciare alla loro responsabilità di cittadini preoccupati della difesa dei
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valori di civiltà, di cultura e di arte che rappresentano l’immenso patrimonio creato nei secoli e
tramandatoci dai popoli della Penisola e delle Isole.
Sarebbe, questa, la risposta migliore a quanti bottegai cinici e ignoranti, puntano sulla divisione e sullo
sfascio della Repubblica, a vantaggio di meschini e miopi interessi localistici e corporativi.
Intanto c’è da registrare la durissima risposta di Galli Della Loggia all’articolo del Ministro Bondi (La
politica ha perduto il senso del Paese, Corriere della Sera, 14 agosto 2009), nel quale, dopo aver precisato
che “la discussione che ha preso le mosse dallo scellerato programma approntato per le celebrazioni
dell’anniversario dell’Unità d’Italia” tratta dell’“esito della politica quando la medesima perde ogni
retroterra culturale”, come è avvenuto in Italia, dove si registra “una cesura drammatica” tra politica e
cultura, testimoniata clamorosamente dall’”incredibile spezzatino edilizio pensato per il 2011”, il quale “è
solo l’espressione tra il patetico e il grottesco” dell’incapacità “di chi in senso profondo non sa neppure
che cosa realmente sia” la nascita dell’Unità d’Italia e che, proprio per questa ragione, non è in grado di
celebrarla.
Che di un “programma scellerato” e persino “patetico e grottesco” si tratti, non c’è alcun dubbio. Il
problema però è come modificare quell’“incredibile spezzatino edilizio” in modo da evitare lo scempio
della cultura e della politica insieme e fare del 150° l’occasione per un esame approfondito e senza
reticenze del processo di Unificazione, sottraendo alla Lega il monopolio della sua versione distruttiva e
non meno scellerata.
Da questo punto di vista la proposta della Bresso può essere una buona base di partenza. Certo, molto
dipende dall’accoglienza che ad essa riserverà il Presidente della Repubblica nell’incontro previsto e
annunciato. E molto anche dalla capacità delle Regioni che rappresentano la molteplicità e la diversità
delle Italie, di diventare propositive.
Ma non è da sottovalutare, tutt’altro, il ruolo che spetta in questa occasione agli intellettuali, o colti, o
umanisti, o come li si voglia chiamare, e in primo luogo agli storici ai quali, anche se non solo allora,
spetta un ruolo privilegiato. Si tratta dell’assunzione di un irrinunciabile responsabilità. Se essa dovesse
mancare, ci sarebbe davvero ben poco da sperare per le sorti future della cultura e della politica in questo
Paese in procinto di sfasciarsi, come ha scritto di recente Eugenio Scalfari.
Bossi interviene (cfr. dichiarazione rilasciata il 16 agosto) con l’accetta dell’ignoranza e dell’arroganza sul
corpo della lingua, sul quale occorre invece intervenire col bisturi dell’intelligenza e della responsabilità.
Non si tratta di sfasciare, ma di costruire.
E per farlo occorre partire da ciò che c’è. Riproponendo, cioè, la koinè attualmente oscurata, a vantaggio
di una lingua dietro la quale il potere nasconde la sua natura antipopolare e antidemocratica.
Occorre, cioè, riprendere il cammino, mai del tutto interrotto, della costruzione di una lingua condivisa,
nata dal confronto e dall’integrazione delle lingue delle minoranze storiche parlate e scritte nel Paese,
come sta scritto nella Costituzione e come riconosce la Legge 482 del 1999.
Non è certo con la sostituzione dello pseudo romanesco che imperversa nei programmi radio e televisivi
soprattutto, col fantomatico lombardo di una Padania inesistente nel quale si trascina una lingua ridotta a
meno di un dialetto, priva di dignità e tuttavia accettata dalla comunità dei parlanti alla quale vengono
proposte, come unica alternativa, le lingue di esigue minoranze di arti e mestieri, come il politichese, il
sindacalese e certo italiano sempre più gergale e autoreferenziale praticato da un numero crescente di
outsider, proposti e imposti dalle grandi Case editrici.
Senza dimenticare la lingua delle traduzioni sempre più scadente e sempre più incontrollabile, una sorta di
lingua franca sottratta alla rivitalizzazione prodotta dall’oralità e dal vissuto culturale e antropologico, ma
capace di assicurare il successo e la vendita di libri, noir soprattutto, provenienti dalle più disparate
repubbliche letterarie.
Il degrado della lingua, la cui responsabilità maggiore spetta a coloro che governano i mass-media,
televisione in testa, e cioè alla classe politica autoreferenziale per necessità, e cioè per sfuggire a un
effettivo controllo democratico dei suoi atti, incapace non solo di fare cultura in proprio, ma anche di
mutuarla dagli operatori della cultura, quelli che Galli Della Loggia chiama i colti o gli umanisti, senza
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tentare di asservirli, ha condotto a quel rifiuto, più che distacco, dalla politica da tutti ammesso, da pochi
denunciato, e sostanzialmente accettato in quanto garanzia di impunità, in un paese sempre più devastato
dagli scandali, nel quale ogni senso e ogni responsabilità etica, nel pubblico e nel privato, sembra essere
diventato impraticabile.
Nessun Dulcamara è in grado di estrarre dal cilindro formule e regole capaci di sanare una situazione
incancrenitasi negli anni, e la cui origine va cercata nella storia dell’età moderna precedente
l’Unificazione statuale.
Si tratta di un lavoro di lunga lena, che dovrà impegnare più di una generazione, ma che deve anzitutto
proporsi come obiettivo primo e raggiungibile a breve, di arrestare il degrado.
L’Italia ha bisogno di un’autentica e profonda rivoluzione culturale, anche se non é facile indicare, in un
momento di confusione come quello attuale, quali forze possano farsene promotrici e realizzatrici. Non
certo quelle che puntano allo sfascio dell’unità dello Stato Repubblicano, come strumento per il trionfo di
egoismi particolaristici e indifendibili alla luce della storia e della morale, al solo scopo di garantirsi
un’impunità sempre più sfrontata e diffusa..
Gli uomini di cultura, gli intellettuali o come li si voglia chiamare, sono chiamati ad impegnarsi in questa
rivoluzione culturale nel nome di una gloriosa tradizione che percorre come un filo rosso l’intera,
travagliata ma tendenzialmente unitaria, nella sua irrinunciabile varietà, storia di un paese che non può
rinunciare alla sfida che gli propone il presente e che a maggior ragione le proporrà il futuro.
Quanto ai maestri e alle guide che possono indicare loro il cammino, non sarà difficile agli onesti
individuarli e seguirne la lezione. Il 150° dell’Unificazione è l’occasione da non perdere, da non mancare.
La Stampa del 19 agosto, da notizia della lettera indirizzata al Governo dal Presidente Napolitano, “per
avere chiarimenti” e ottenere risposte “sull’Unità d’Italia”. Il Governo, dopo settimane di silenzio, sembra
disposto a fornirle nella prossima riunione del Consiglio dei Ministri.
È da sperare che il Presidente non si limiti ad accettare qualche aggiunta all’“incredibile spezzatino
edilizio” già annunciato, ma suggerisca con forza l’avvio di un progetto culturale che coinvolga in
maniera capillare tutte le Regioni, le Università, le Accademie, gli Archivi di Stato (oltre a riordinare i
materiali, potrebbero organizzare mostre dei medesimi), gli Istituti di ricerca (ce n’è di prestigiosi
ovunque nella Penisola), le Scuole di ogni ordine e grado e i Sindacati, in una riflessione non
convenzionale o retorica, ma critica sugli aspetti più rilevanti del processo di unificazione: dall’economia
alla politica fiscale, alla Questione meridionale, alla lotta al brigantaggio e al banditismo, alla collusione
fra politica e mafie, alla nascita del fascismo e le responsabilità della classe dirigente liberale,
all’Antifascismo e alla resistenza, alla politica di omologazione linguistica e culturale (imposizione della
lingua “nazionale”, divieto di uso delle lingue storiche e dei dialetti, anche nella Liturgia, con l’assenso
della Chiesa cattolica e solo apparentemente corretto con la rinuncia al latino e la rinnovata imposizione
dell’italiano).
Finanziarlo non dovrebbe essere difficile, recuperando magari una minima parte dell’evasione fiscale
rispetto alla quale gli imprenditori del Nord sono detentori di un non invidiabile ma “patriottico” primato.