Anno 2016. Se ancora si parla di razza

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CONTRONATURA
Anno 2016. Se ancora si parla di razza
L’FBI se ne serve per schedare chi viene arrestato, il governo americano
chiede ai cittadini di indicarla nel censimento, gli studi clinici la
considerano un dato necessario per distinguere i pazienti. Eppure nella
nostra specie il concetto di razza non ha alcun fondamento scientifico
Giovanna Dall’Ongaro, 29 Febbraio 2016 2:08
“A” sta per asiatico, “B” per “black", “W” per “white”, “I” per indigeno. Nella
prima categoria rientrano i cinesi, i giapponesi, i filippini, i coreani, i polinesiani,
gli indiani, gli indonesiani e gli abitanti delle isole del Pacifico. Alla seconda
appartengono invece gli individui originari di uno dei “gruppi razziali neri”
dell’Africa. I caucasici e gli ispanici finiscono nella lista dei bianchi “a
prescindere dalla razza” , mentre gli indiani nativi d’America vengono
danno indicazioni chiare: per archiviare correttamente nel database le impronte
digitali dei cittadini fermati dalla polizia basta associare a ogni persona il codice
giusto. Ne esiste uno per il sesso, un altro per il colore dei capelli, uno per la
pigmentazione degli occhi e uno per la razza.
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Il compito assegnato agli operatori dell’FBI non sembra difficile, le linee guida
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contrassegnati da una “I”.
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Eppure i dubbi devono essere all’ordine del giorno. Immaginiamo, prendendo in
prestito l’esempio dal libro del genetista Guido Barbujani “L' invenzione delle
razze. Capire la biodiversità umana” (Bompiani 2006), che i dipendenti dell’ente
investigativo americano si trovino di fronte il calciatore uruguaiano Marcelo
Zalayeta. Dove finirebbe “el Panteron”? La pelle così scura gli impedisce di stare
tra i “White”, ma le origini ispaniche stonano con la categoria “Black”… Per
fortuna nella tabella del “race code” è prevista un’ancora di salvezza: la casella
“U”, che sta per “unknown”, razza sconosciuta.
Perché partiamo dall’FBI? Quei documenti ci interessano per due motivi.
Dichiarano apertamente che il termine razza viene ancora usato con estrema
disinvoltura per catalogare le persone in gruppi differenti. E riconoscono però
che questa classificazione risponde a criteri arbitrari e non è sempre risolutiva.
Tradotto in linguaggio meno diplomatico, significa che tra le righe di quelle
linee guida spuntano segnali di razzismo alternati a riconosciuti errori
scientifici. E le due cose, come vedremo, sono collegate.
La razza resiste
Il recente appello lanciato su Science da quattro scienziati che chiedono di
eliminare il termine “razza” dagli studi di genetica umana perché privo di
fondamento scientifico è riecheggiato nei dipartimenti di antropologia e
biologia delle nostre università. Alla Sapienza di Roma ad accogliere e sostenere
il messaggio dei colleghi americani c’è, tra gli altri, Giovanni Destro Bisol
direttore dell’Istituto Italiano di Antropologia, convinto sostenitore
dell’infondatezza scientifica del concetto di razze umane tanto da avere
promosso insieme alla collega Maria Enrica Danubio una campagna per
eliminare il termine “razza” dall’articolo 3 della Costituzione italiana:
«Chiariamolo subito - commenta Destro Bisol - noi antropologi non abbiamo
nulla in contrario al concetto di razza, che nel gergo scientifico indichiamo più
spesso come sottospecie. Siamo pronti a sostenere che le razze esistono in
animali molto simili a noi, con cui condividiamo addirittura il 98 per cento del
patrimonio genetico. Negli scimpanzé e nei gorilla, per esempio, ma non nella
nostra specie».
Non è una novità. Alle prove raccolte dal genetista statunitense Richard
Lewontin sin dagli anni Settanta se ne sono aggiunte molte altre tra cui quelle
presenti negli imponenti studi dello scienziato italiano Luigi Luca Cavalli Sforza.
Secondo gli autori dell’articolo su Science la grande occasione per liberarsi
definitivamente del concetto di razza gli scienziati l’hanno avuta in un giorno e
in un luogo preciso: il 26 giugno del 2003 Craig Venter, con in mano i primi
risultati del sequenziamento del genoma umano, dichiarava nella sala stampa
della Casa Bianca che «per il 99,9 per cento siamo tutti uguali a livello di
Ma le cose andarono diversamente,
"Basta digitare “race” negli archivi
dei motori di ricerca specializzati in
scrivono Michael Yudell, Dorothy
Roberts, Rob De Salle e Sarah Tishkoff
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dalle riviste di biologia, medicina e genetica.
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DNA». Si poteva immaginare che da lì a breve le razze umane sarebbero sparite
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studi scientifici per rendersi conto che
il concetto di razza è ancora vivo e
vegeto anche nelle scienze
biomediche"
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su Science. I dati dimostrano
esattamente il contrario: quel concetto
che in molti già davano per morto e
sepolto è invece tuttora più vivo che
mai. Basta digitare “race” negli archivi
dei motori di ricerca specializzati in
studi scientifici per rendersene conto. C’è chi sostiene la necessità di riferirsi alla
razza nelle ricerche biomediche e nella pratica clinica perché ritenuta
un’informazione indispensabile per lo studio di alcune malattie e chi si
lamenta se i trial clinici per nuovi farmaci sorvolano sulla razza dei pazienti. Le
maggiori resistenze a rinnovare il vocabolario scientifico sembrano provenire
dalla farmacogenetica, la disciplina interessata a capire il rapporto tra i geni di
ogni individuo e l’azione dei farmaci.
«Non possiamo far finta che non ci siano interessi economici in questo ambito.
Facciamo un esempio per tutti. Ricordiamoci del Bidil, il farmaco per lo
scompenso cardiaco nato dalla combinazione in un’unica pillola di due
medicinali già esistenti e che viene pubblicizzato come terapia specifica per gli
afro-americani. Qualcuno si potrà risentire ma nel complesso il marketing
funziona, perché convince un target ampio di persone di essere beneficiarie di
un prodotto speciale pensato proprio per loro», commenta Destro Bisol.
Secondo Michael Yudell e i suoi colleghi il riferimento alle razze invece è nel
migliore dei casi problematico e nel peggiore dannoso. Seguire un’arbitraria
classificazione dell’umanità in rigide categorie non solo non ha alcun vantaggio
ma può addirittura nuocere alla salute delle persone. Perché si rischiano
pericolosi errori diagnostici sottovalutando la presenza di una malattia in un
determinato contesto sociale solamente perché ritenuta tipica di un altro
“gruppo razziale”. Così c’è il pericolo che possano sfuggire tra i “bianchi” le
malattie considerate tipiche dei “neri” e viceversa. Come le emoglobinopatie,
attribuite soprattutto alla parte “Black” dell’umanità, o la fibrosi cistica
giudicata di pertinenza della popolazione “White”.
Così diversi, così uguali
Ma abbracciamo per un momento il più facile degli stereotipi razziali: che
differenze ci sono tra i bianchi, i neri e i gialli? «Dall’analisi del DNA abbiamo
scoperto che siamo tutti molti simili e che l’85 per cento della variabilità
genetica si trova all’interno della stessa popolazione, mentre la differenza con
altre popolazioni aumenta solo del 5 per cento oppure del 10 per cento se ci si
sposta in un continente diverso. Il cambiamento avviene in modo graduale, chi
è lontano è un po’ più diverso, ma troppo poco per poter parlare di razza»,
spiega Destro Bisol.
così facilmente percepibile sono l’eccezione e non la regola nel nostro genoma.
E in più sono spesso il risultato della necessità di adattarsi all’ambiente. Il colore
della pelle per esempio è stato determinato dalle condizioni ambientali ed è
frutto di un lungo processo di selezione naturale, di un graduale succedersi di
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Le apparenze però ingannano: le caratteristiche fisiche che rendono la diversità
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Eppure le differenze tra senegalesi e svedesi saltano inevitabilmente agli occhi.
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mutazioni genetiche iniziate migliaia di anni fa quando i primi esseri umani
lasciarono l’Africa per spostarsi verso regioni meno assolate. Dove diventava più
vantaggioso avere la pelle chiara per assorbire la vitamine D piuttosto che una
carnagione scura per proteggersi dai raggi ultravioletti. Le razze non c’entrano.
La biologia insegna che per “fare” una
"Siamo una specie recente e molto
mescolata. Ci siamo spostati con
facilità anche a grandi distanze e i
fenomeni di isolamento non hanno
mai avuto la forza di modellare il
nostro genoma così come invece è
accaduto per scimpanzé e gorilla"
razza servono due ingredienti
fondamentali: molto tempo e tanto
isolamento. Ecco perché l’Homo
sapiens, a differenza dei cani e degli
scimpanzé, non si è diviso in razze
distinte. «Siamo una specie recente e
molto mescolata. Ci siamo spostati con
facilità anche a grandi distanze e i
fenomeni di isolamento non hanno mai
avuto la forza di modellare il nostro genoma così come invece è accaduto per
scimpanzé e gorilla. La nostra specie è, in definitiva, una storia di un ricco e
intenso meticciamento tra diversi ma non troppo», spiega Destro Bisol. Per
dirla con il genetista francese André Langaney «siamo tutti parenti, tutti
differenti». Tanto che c’è chi ha dimostrato che prendendo a caso due persone
nel mondo si può risalire a un antenato comune vissuto circa 3.000 anni fa.
La parole sono importanti e Meryl Streep ha
ragione
“Language matters” e razza, lo abbiamo imparato dalla storia recente, non è un
termine innocuo. I quattro firmatari dell’appello su Science spiegano che se
chiedono al mondo scientifico di mettersi d’accordo per cambiare il vocabolario
individuando termini più corretti con cui indicare la diversità umana è anche
perché «il termine razza ha una considerevole influenza su come l’opinione
pubblica percepisce la diversità umana». Scienza e società sono più che mai due
facce della stessa medaglia. E così, facendo sparire il concetto di razza da una
parte, sperano di poterlo far sparire anche dall’altra.
«Certo ci vorrà del tempo. Le persone preferiscono i concetti semplici e la
varietà biologica dell’umanità è un fatto complesso. Credo che qualche
neurologo potrebbe spiegare il fenomeno dal punto di vista cognitivo: le
classificazioni semplici e superficiali rendono la realtà più facile da comprendere
e in pochi si sforzano di superarle», commenta un po’ disilluso Destro Bisol.
Forse la rivoluzione lessicale in ambito scientifico faticherà a raggiungere gli
stadi per impedire i cori razzisti dei tifosi, oppure le strade delle città americane
per bloccare i grilletti dei poliziotti pronti a scattare prima se il sospettato ha la
come la stessa Sarah Tishkoff, una dei firmatari dell’articolo su Science, è
impegnata a dimostrare da molti anni a questa parte.
È anche difficile però immaginare che la completa e definitiva sostituzione del
termine razza da tutti gli studi di antropologia, genetica, biologia, medicina
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maggior parte delle persone che tutti gli esseri umani provengono dall’Africa
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pelle scura, o i comizi dei politici ostili agli immigrati. E faticherà a convincere la
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applicati all’essere umano, passi del tutto inosservata. Un così condiviso diktat
scientifico potrebbe forse imporre qualche cambiamento al “race code” dell’FBI
o alle schede per il censimento della popolazione americana che prevedono
caselle sulla razza da barrare. O, ancora, potrebbe dissuadere il giornalista del
New York Times Nicholas Wade a cimentarsi nel libro “Una scomoda eredità. La
storia umana tra razza e genetica” (Codice edizioni 2015), dove, crogiolandosi
nel politicamente scorretto, rispolvera il concetto di razze umane attirandosi le
critiche dei più autorevoli genetisti e antropologi del mondo.
E forse, quando oramai le razze umane saranno un ricordo lontano almeno per
la scienza, affermare che “siamo tutti africani” potrebbe non fare più notizia.
Neanche se a dirlo, per commentare la scarsa rappresentanza di candidati afro
americani agli Oscar, fosse una star di Hollywood del calibro di Meryl Streep.
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