N. 4- settembre ottobre 2006
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N. 4- settembre ottobre 2006
Vo l u m e 4 • N u m e r o 4 • S e t t e m b r e - O t t o b r e 2 0 0 6 Spediz. in abb. post. 45% - art. 2 comma 20.b - legge 662/96 - Filiale di Milano • Una copia: e 0,40 www.dermocosmonews.it BIMESTRALE DI NOTIZIE, NOVITÀ, AGGIORNAMENTI, TERAPIE IN DERMOCOSMETOLOGIA Direttore Scientifico: Ruggero Caputo Direttore Responsabile: Riccarda Serri Coordinatore Scientifico: Stefano Veraldi Comitato Scientifico e di Redazione: Mauro Barbareschi (MI), Enzo Berardesca (RM), Leonardo Celleno (RM), Gabriella Fabbrocini (NA), Marcella Guarrera (GE), Matilde Iorizzo (BO), Franco Kokelj (TS), Giorgio Landi (CE), Giuseppe Micali (CT), Giuseppe Monfrecola (NA), Paolo Piazza (RM), Marcella Ribuffo (RM), Corinna Rigoni (MI), Fabio Rinaldi (MI), Luigi Rusciani (RM), Adele Sparavigna (Monza - MI), Aurora Tedeschi (CT), Antonella Tosti (BO), Antonello Tulli (CH) Segreteria di Redazione: Giuseppe Provveduto [email protected] Redazione e Pubblicità: Via B. 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Mediante tecniche di spettroscopia infrarossa, microscopia Raman e di gascromatografia abbinata alla spettrometria di massa è stato possibile identificare componenti di varia natura tra i quali alcuni finora sconosciuti in questo campo. Una serie di composti inorganici presenti fanno pensare alle preferenze delle matrone romane, altri alle vie commerciali di approvvigionamento, altri ancora alle tecnologie per l’elaborazione del cosmetico. In generale, è possibile rilevare l’impiego di materiali di varia origine, di larga diffusione e di talora complessa preparazione. Non mancano però alcune singolarità, che si riferiscono all’uso di prodotti e tonalità particolari, di probabile provenienza extraitalica. INTRODUZIONE in vari siti noti da tempo, come Pompei, Ercolano, Capua, Cuma e Calatia portano alla luce sempre ulteriori materiali e pongono nuovi problemi agli studiosi della antica cosmesi oltre che della tecnologia antica. La conoscenza dettagliata dei componenti di sostanze rinvenute in contenitori ritrovati aperti o sigillati porta alla elaborazione di ipotesi sulle presenze di prodotti, alla individuazione D a alcuni anni le Università di Modena e Reggio Emilia e di Pisa hanno preparato programmi di ricerca comuni sulla cosmesi antica e moderna. Le opportunità offerte dalla presenza di gruppi di ricercatori di queste Università in area Campana sono risultate veramente considerevoli. Gli scavi tuttora in corso Iscrizione al ROC n° 9838 Iscrizione Tribunale di Milano n° 87 del 15/02/2003 ABBONAMENTI ANNUALI e 100 (Italia) e 150 (Estero) SOMMARIO Pag. 8 1 Notizie dalla Letteratura Internazionale e dai Congressi Gli unguentari pompeiani e il loro contenuto (Prima Parte) di Cecilia Baraldi, Maria Cristina Gamberini, Pietro Baraldi, Maria Perla Colombini, Erika Ribechini 11 Biorivitalizzazione: tutti pro o anche dei contro? Rubrica aperta ai nostri sponsor 6 di Matilde Iorizzo, Maria Pia De Padova 12 Rubrica aperta ai lettori 2 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 di legami con la storia classica e con le fonti. Un esame dettagliato e critico di testi come Teofrasto(1), Plinio(2) e Ovidio(3) e i testi di medicina di Galeno(4), oltre ai brani minori di poeti e scrittori, può portare all’individuazione di percorsi di artigianato classico dedicati ai prodotti per la cura della persona. Queste fonti riportano molto spesso le tracce della evoluzione del gusto che le classi più elevate di Roma antica vissero, soprattutto in contatto con le nuove popolazioni germaniche o galliche o quelle di provenienza orientale dai gusti antichi e cosmeticamente evoluti. L’acquisizione di nuovi cosmetici superò così le barriere legislative opposte da vari autorevoli personaggi dell’era repubblicana. Dalla Gallia giunse il sapo preparato dal grasso di capra con cenere di faggio, secondo un procedimento analogo alla saponificazione che, probabilmente, con altre modalità (noi) era già nota ai Latini del I sec. d. C. Dalle coste dell’Africa giungeva l’henné per re n d e re i capelli rossi e per dipingere parti del corpo(5). Altri prodotti consentivano la tintura dei capelli di nero come il decotto di iperico oppure la peluria bollita del porro. Colori più eccentrici, come il turchino e soprattutto il rosso carota erano riservati alle donne di facili costumi, definite appunto con l’appellativo di “rufae”)(6). Lo sviluppo della conoscenza di prodotti e del commercio nel mondo classico portarono un sensibile incremento del consumo dei cosmetici, soprattutto da parte dei ceti patrizi come elemento distintivo. Il manuale di cosmesi più celebre del periodo è quello scritto da Ovidio, che ci introduce anche al significato dei belletti impiegati da una donna a seconda dei messaggi che vuole lanciare al suo interlocutore. Nel De medicamine faciei feminae(3) riporta i consigli per correggere i difetti del viso e del corpo. Nel secondo testo è la ricetta di una maschera di bellezza astringente per pelli grasse, forse di provenienza etrusca. Era a base di orzo, lenticchie ed uova, ridotti a farina finissima, mescolati a bulbi di narciso, a resina, ad amido di produzione etrusca e a miele. Ovidio descrive alcune maschere di bellezza di origine vegetale, preparate con orzo, lenticchie, farina di fave, di lupini, di ceci, finocchi, con l’aggiunta di essenze profumate di rosa o mirra, stemperate con un medium come il miele, la placenta o il midollo. La biacca o cerussa (carbonato basico di piombo) veniva venduta in forma di pastiglie da stemperare con grassi e miele ed era il tipo di belletto più usato perché dava freschezza e candore giovanile alle guance. Le romane continuaronono a lungo a servirsene, malgrado fosse nota la sua tossicità. Alla biacca si aggiungevano altri ingredienti naturali come la schiuma di salnitro o la feccia di vino o il derivato di un’alga (fucus), per tingere di colore rosato le guance. Le paste depilatorie a base di pece, olio, resine e sostanze caustiche, e gli splenia erano di largo uso: potrebbero identificarsi con paste rosate che si stendevano sulla pelle per nascondere cicatrici, lesioni o marchi infamanti(7), oppure con piccoli nei posticci realizzati con cerottini tondi da applicare sulla guancia come vezzo o per coprire imperfezioni(8, 5). Secondo Teofrasto e Plinio, l’olio più impiegato era l’omphacium ottenuto dalla spremitura di grosse olive immature, considerato poco grasso, ma si impiegava anche l’olio di mandorle. Altre sostanze di origine minerale, come il cinabro e il minio, o di origine animale, come la porpora, si fabbricavano anche rossetti per le labbra, venduti sempre in forma di tavolette. Per dare luce al viso si polverizzavano sulle gote dei lustrini preparati macinando dell’ematite o della mica. Un ombretto diffuso era quello giallo tratto dai fiori del croco, pro b abilmente di origine Etrusca, dove era nota la specie vegetale. I verdi e gli azzurri erano ottenuti per macinazione di malachite e azzurrite e applicati impastando con grassi in piccoli contenitori in alabastro o in conchiglie o riprodotte in ambra. Il contorno degli occhi e le sopracciglia erano sottolineati con un cosmetico a base di nero fumo (fuligo), ottenuto bruciando noccioli di Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 dattero o sarmenti. Egiziano era il kohl destinato allo stesso uso: era costituito da una miscela di galena, cioè solfuro di piombo, ocra bruna, malachite, caolino e crisocolla, come è risultato da analisi di reperti funerari(8). kohl e fuligo erano venduti in contenitori stretti e allungati, dai quali con un finissimo bastoncino si prelevava il necessario e lo si applicava. I Romani ricavavano le essenze profumate o per spremitura diretta o tramite macerazione dei fiori o delle foglie in oli o grassi. Tale processo, attestato dalle fonti, è illustrato anche a Pompei in un affresco della casa dei Vettii, dove amorini profumieri sono affaccendati nella lavorazione dei profumi. È certo che in Campania esistevano coltivazioni di fiori, destinati alla vendita e alla produzione di profumi(6, 9); Capua (Seplasia), Napoli e Pompei erano i centri campani famosi per tale produzione, a fianco di Delo, per il profumo più antico, e a Corinto, per il profumo di iris. Le essenze venivano anche importate e lavorate sul posto unendole ad eccipienti liquidi: oli, tra cui l’omphacio, per la produzione di unguenti, o sucus, succo d’uva; alla miscela si aggiungeva resina o gomma come fissatore e coloranti quali cinabro o anchusa. La cura della persona prevedeva i bagni: per i Romani i bagni, soprattutto quelli pubblici, erano importanti per il benessere fisico e per il piacere che, con tutto il contorno di cure (massaggi, unzione, depilazione) e di possibilità di incontri sociali, procuravano ai cittadini. Per pulire la pelle si ricorreva a sostanze abrasive, come lo struthium o la creta fullonica, l’afronitrum, la liscivia o la pumex. L’uso di detergenti così aggressivi rendeva poi necessario l’uso di oli e unguenti(5). Alle terme gli unctores, addetti ai massaggi, gli aliptes, addetti alla depilazione con pinzette, e i dropacistes, preposti alla depilazione con il dropax erano molto ricercati. Ovidio parla della depilazione del corpo con creme o cere depilatorie da parte anche degli uomini, con creme a base di pece greca contenente resine, cere e sostanze caustiche(3). Una considerazione che risulta dal confronto tra cosmetici e farmaci è sulla presenza delle stesse sostanze: l’arte della cosmetica infatti era una branca della medicina antica. RICERCHE PREGRESSE SULLA COSMESI ANTICA Gli studi di tipo materico sui reperti facenti parte dei Beni Culturali negli ultimissimi decenni sono andati rapidamenti aumentando di n u m e ro. Molti di questi studi sono compilativi e basati sulla esperienza autottica degli archeologi, non sempre corretta. Di fronte a materiali biancastri la sola esperienza visiva, anche mediante l’impiego di microscopi, non è sufficiente a f o rn i re una descrizione dei reperti. Le prime indagini per determinare la natura del contenuto di recipienti datano dall’inizio del XIX secolo. È noto ad esempio che i primi scavi ad Ercolano e Pompei determinarono un elevato interesse tra i chimici di allora quali Chaptal e Davy(11, 12), che ebbero campioni di materiali colorati, li a n a l i z z a rono e pubblicarono i primi risultati. Ma è nel XX secolo che si intraprendono vere indagini sui re p e rti funerari egiziani. In alcuni lavori dell’inglese Plenderleith(13) v e n n e ro riportate le analisi dei contenitori per cosmetici egiziani. Nella tomba di Tutankamon, rinvenuta di recente, vennero ritrovati recipienti contenenti grosse quantità di prodotti. L’analisi dei prelievi consentì di arr i v a re alla conclusione che venivano impiegati grassi animali contenenti resine. In gran parte però dopo la seconda Guerra Mondiale cominciarono ad apparire pubblicazioni con analisi chimiche, microchimiche e strumentali di prodotti ritenuti cosmetici. Dall’esame dei dati analitici e dalla considerazione sulla stabilità delle sostanze inorganiche, ma soprattutto organiche si inizia a formulare delle ipotesi sulla loro degradazione nel tempo(14, 15). Altre ricerche hanno preso in considerazione l’analisi di una serie di cosmetici prelevati da flaconi di varia provenienza(16) e hanno accertato la presenza di caolino, apatite, sali di piombo (probabilmente galena) e altri componenti minori, tralasciando l’analisi di componenti organici e di loro prodotti di degradazione. Nel 1980 nel cimitero reale di Ur vennero scoperte alcune conchiglie contenenti polveri colorate. Alcune analisi condotte accertarono che i componenti minerali delle polveri erano ematite, goethite, azzurrite, apatite, cerussite, malachite, atacamite, pirolusite e wulfenite, cioè una serie ampia di pigmenti inorganici colorati dal giallo al bruno al verde e all’azzurro, alcuni dei quali probabilmente derivanti dalla degradazione di componenti minerali principali(17). Negli anni ‘80 Evershed e il suo gruppo(18-20) hanno iniziato la caratterizzazione di reperti organici provenienti da scavi archeologici. Nelle pubblicazioni prodotte sono stati descritti i metodi di analisi elaborati, tenendo conto della alterabilità dei materiali trattati e delle informazioni ottenibili per via archeologica dai dati di scavo. I metodi elaborati prevedono l’im- 3 piego di solventi per la dissoluzione di determinati composti, la loro separazione cromatografica e l’identificazione mediante vari sistemi. L’intervento blando non altera la matrice che può essere riutilizzata per le analisi di altri tipi di composti. Sono stati presi in considerazione metodi di indagine di tipo strumentale come la spettroscopia infrarossa, di risonanza magnetica nucleare, di gas cromatografia e spettrometria di massa. E d w a rds e i suoi collaboratori(21-23) hanno dedicato uno spazio consid e revole allo studio di materiali organici e inorganici antichi, in particolare i pigmenti antichi mediante soprattutto la spettroscopia IR, la spettroscopia FT-Raman e la m i c roscopia Raman. Queste tecniche si sono avvalse del progresso tecnologico in campo di laser, detector e fibre ottiche. Esse hanno consentito l’identificazione di n u m e rosi pigmenti organici e inorganici in re p e rti archeologici, e di ipotizzare dei cammini di degradazione a seguito dell’interv e nto di fattori ambientali. Due recenti pubblicazioni riassumono i numerosi problemi che riguardano l’identificazione dei componenti di materiali antichi ed esamina le tecniche attualmente più rilevanti applicate a oggetti museali, in particolare attinente alle sostanze organiche quali oli e grassi, resine naturali e lacche, materiali polimerici e coloranti per prodotti tessili(24), e l’altro riguardante le metodologie scientifiche applicabili alle indagini sui beni culturali(25). Diverse riviste specialistiche, come “Studies in 4 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 Conservation”, “Archaeometry” e “Journal of Cultural Heritage” pubblicano da anni articoli dove, mediante varie tecniche specifiche, come l’analisi isotopica e le spettroscopie, si indaga sull’origine e la provenienza dei materiali impiegati nella preparazione dei prodotti cosmetici. Per la presente ricerca, si presa in considerazione una serie di contenitori per cosmetici di Pompei allo scopo di fornire una panoramica sulla situazione dei cosmetici di epoca romana rinvenuti nel corso del tempo negli scavi. Per lo svolgimento della ricerca è stato stilato un protocollo che comprendeva: un sopralluogo presso i depositi di Pompei; un esame degli schedari per identificare i contenitori di cosmetici, fittili, vitrei o bronzei, i relativi numeri di catalogo e le coordinate topografiche del luogo di rinvenimento; un esame autoptico dei singoli contenitori per verificare la qualità e la quantità del contenuto dei medesimi; il prelievo di piccoli quantitativi dei residui presenti e la loro conservazione in recipienti chiusi e numerati. Presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università di Modena si è impostata una procedura sperimentale per ottenere campioni sui quali eseguire le analisi, da effettuare con metodi di indagine ritenuti i più idonei e promettenti per questi materiali: la spettroscopia infrarossa, la microscopia Raman e la gas-cromatografia abbinata alla spettrometria di massa. Un confronto tra i risultati delle singole metodiche, applicate agli stessi campioni, si rivela utile per trarre alcune considerazioni relative a: natura e varietà dei prodotti cosmetici, metodi di preparazione impiegati, alterazioni subite nel tempo per effetto dell’ambiente, origine e provenienza dei materiali, distribuzione sul territorio. I risultati qui riportati riguardano solamente una parte dei balsamari di Pompei, il cui numero elevato non permette al momento di esaurire la ricerca. Si intende in seguito completare l’indagine analizzando i restanti campioni prelevati ed estendere la ricerca ai reperti cosmetici dell’area Vesuviana. PARTE SPERIMENTALE Presso i Depositi della Soprintendenza Archeologica di Pompei sono conservati unguentari, balsamari e altri contenitori per cosmetici o unguenti di varia forma e di vario materiale (bronzo, vetro, fittili). Esaminando le casse contenenti i recipienti e consultando l’intero schedario è risultato presente a Pompei un insieme di oltre 1200 contenitori per cosmetici in vetro e di circa 700 balsamari fittili. Nella figura 1 è riportata l’immagine di alcuni di questi contenitori vitrei, alcuni di forma piuttosto comune. La maggior parte dei recipienti risultava però essere stato accuratamente lavato e privato del probabile contenuto. Su un totale di oltre 1200 contenitori solo circa 150 presentavano un residuo e su tali Fig. 1 - Alcuni dei balsamari rinvenuti a Pompei e dai quali si sono prelevate piccole aliquote. reperti sono stati eseguiti prelievi di piccole quantità di materiali tali da poter costituire i campioni per almeno tre tipi di analisi. Alcuni materiali rilevati sul fondo dei contenitori erano di aspetto vetroso, cioè con iridescenza tipiche del vetro originatosi per distacco dalle pareti interne. Anche tali frammenti sono stati raccolti per verificare se in essi vi erano residui di natura organica o inorganica. I prelievi sono stati posti in provette di materiale plastico e sigillati. Se il contenuto del balsamario si presentava eterogeneo nelle sue parti, si prelevavano porzioni di campione in due o tre posizioni differenti, al fine di garantire una significatività statistica del prelievo. Si procedeva all’omogeneizzazione delle polveri al fine di ottenere un campione medio rappre s e n t a t i v o Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 del contenuto del balsamario. Per l’analisi dei reperti sono state impiegate tre diverse tecniche. La spettroscopia vibrazionale, che possiamo dividere in infrarossa e Raman, è uno dei metodi più specifici per arrivare all’identità molecolare dei componenti. La prima in particolare trova un’ampia diffusione nel mondo della ricerca e dell’industria e nella caratterizzazione dei materiali. Essa consente di esaminare quantità relativamente piccole di campione, impiegando la conoscenza pregressa sui composti, per la quale esistono ampi data base e una corposa letteratura specifica(26-30). Essa inoltre risulta specifica, in quanto fornisce indicazioni legate alla natura e struttura di certi raggruppamenti molecolari. Determinati gruppi di atomi assorbono la radiazione infrarossa in una zona ristretta di numeri d’onda tale da causare la vibrazione dei legami molecolari. In particolare la zona cosiddetta delle ‘impronte digitali’ tra 1400 e 400 cm-1 può avere un alto valore ai fini della caratterizzazione delle molecole. La spettroscopia Raman dà informazioni altamente specifiche sulle vibrazioni reticolari a bassi numeri d’onda, a differenza della spettroscopia IR e tali informazioni analoghe e spesso sono complementari a quelle fornite da quest’ultima. La tecnica è importante per quei composti, come gli ossidi, i solfuri, gli alogenuri, che hanno solo vibrazioni fondamentali o reticolari a bassi numeri d’onda, o per quei composti le cui fondamentali si situano ad alti numeri d’onda, ma non possono essere discriminati tra loro semplicemente in base a queste. Essa inoltre non richiede una preparazione del campione, potendo anche essere applicata ai campioni tali e quali. Come regola generale, le vibrazioni molecolari che implicano legami non polari sono forti nello spettro Raman e quelle implicanti legami polari sono forti nello spettro infrarosso. Nel caso dello spettrofotometria microRaman il raggio laser di eccitazione è focalizzato su una micro-area della superficie del campione per mezzo di un m i c roscopio ottico che funziona anche da sistema di raccolta, in configurazione backscattering, per la radiazione Raman. L’uso del m i c roscopio aumenta fort e m e n t e la risoluzione spaziale (fino ad 1 µm2), il che consente di ridurre la dimensione del campione. La focalizzazione del fascio permette inoltre di mantenere basse le potenze laser impiegate. Il segnale in uscita dal microscopio viene filtrato con un filtro olografico Super Notch per eliminare la componente Rayleigh riflessa dal campione, quindi viene disperso da un monocromatore a reticolo ed registrato da un rivelatore CCD (charg e coupled device) raffreddato ad azoto liquido o mediante l’effetto Peltier(31, 32). La tecnica risulta non distruttiva e non invasiva; inoltre, l’elevata risoluzione spaziale consente di analizzare selettivamente zone molto ristrette, riducendo l’eventuale alterazione che potrebbe derivarne a materiali termosensibili, a volumi microscopici. La quantità di materiale richiesta per l’analisi è minima, il che implica tra l’altro la possibilità di analisi selettiva di zone differenziate per campioni di composizione non omogenea. Quando si studia una polvere o una superficie non omogenea, è possibile mediante il microscopio visibile focalizzare i cristalli uno alla volta, dato che i granuli dei materiali spesso superano la risoluzione spaziale. Si può quindi registrare lo spettro e identificare un cristallo per volta. Lo spessore del campione non rappresenta un problema, poiché è la radiazione diffusa dalla superficie del campione che viene raccolta dallo spettrometro Raman. Questo è il limite che si può riscontrare con molte sostanze organiche, ma che non sempre si verifica. In tali casi si opera eccitando il campione con laser a frequenze alle quali l’assorbimento da parte del campione sia minimo, asd esempio un laser infrarosso, e controllando la potenza del laser impiegato. La tecnica della gascromatografia abbinata alla spettrometria di massa (GC-MS) è dedicata alle sostanze organiche che, nella loro forma originale o modificata mediante derivatizzazione, possono essere separate nella gascromatografo. I gas in uscita passano nelle spettrometro di massa, dove le molecole vengono bombardate con un fascio di elettroni si ionizzano, e gli ioni molecolari carici positivamente si frammentano con formazione di cationi e/o radicali, risultano tipici della sostanza dalla quale provengono. Gli ioni vengono separati a seconda della massa e rivelati dallo strumento. La natura e relativa abbondanza dei radicali è indicativa del composto da cui essi traggono origine e quindi la ricerca mediante calcolatore su database specifici consente di risalire ai composti presenti originariamente(33, 34). CONDIZIONI OPERATIVE Per le misure in IR veniva preparata una pastiglia in KBr circa all’1% e quindi si registrava lo spettro con uno spettrofotometro FT-IR 5 Perkin Elmer 1700 che consentiva una risoluzione di 2 cm-1 operando con 20 scansioni e con il detector TGS (triglicinsolfato) nell’intervallo spettrale da 4.000 a 400 cm-1. Per avere spettri privi delle interferenze rappresentate da vapore acqueo e anidride carbonica si attivava un dispositivo di circolazione forzata di aria secca attraverso lo spettrofotometro. Dallo spettro si passava quindi alla ricerca della natura del campione per confronto con Data Base e riferimenti di letteratura(26-29, 35). L’identificazione della natura del campione veniva ottenuta in base alla frequenza dei picchi di assorbimenti presenti nello spettro cercando di ipotizzare i gruppi funzionali presenti e successivamente mettendo a confronto lo spettro del campione con spettri di composti ipotizzati. Per le misure in microscopia Raman la polvere veniva distesa su un supporto metallico e sottoposta all’obiettivo del microscopio. Si impiegava dapprima il microscopio ottico, focalizzando la particella sulla quale si intendeva registrare lo spettro. Si passava quindi alla misura Raman impiegando un laser a 488 nm di uno strumento Raman Jasco NRS 2000 con una potenza di circa 1 mW. Il detector impiegato era un CCD (330x1100) con 1100 pixel raffreddato ad azoto liquido. L’intervallo spettrale variava da caso a caso, in alcuni casi è stato esteso da 4000 a 100 cm-1, ma normalmente andava da 1100 a 100 cm-1. La scelta dipendeva dal tipo di composti che via 6 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 via venivano identificati: per i composti organici era importante studiare l’intervallo compreso tra 2000 e 1000 cm-1, per i composti inorganici e in particolare ossidi e eventuali solfuri l’intervallo a bassi numeri d’onda La potenza del laser è mantenuta relativamente bassa per evitare la degradazione del campione conseguente ad un eccessivo riscaldamento, che darebbe una graduale perdita del segnale. La durata della registrazione variava da caso a caso: per alcuni campioni si otteneva rapidamente un buon spettro con basso ru m o re e quindi si impiegavano pochi secondi, per altri, specie se il segnale era molto debole, si pro c edeva all’accumulo per alcuni minuti. Per l’identificazione della colorante sui campioni di cosmetici si è proceduto come per gli spettri infrarossi per confro n t o con DataBase e riferimenti di letteratura. Per le analisi in GC-MS i campioni venivano preparati secondo una metodologia standard elaborata da Evershed e coll.(18-20). Si prelevavano circa 0.2 g di campione, si ponevano in un provetta da centrifuga, si aggiungeva 1 ml di metanolo, si agitava il contenitore mediante ultrasuoni per due intervalli di 5 min e quindi si lasciava a riposo a temperatura ambiente per 24 ore. I campioni venivano poi centrifugati per 10 min alla velocità di 1700 rpm. Si filtrava quindi su carta da filtro l’estratto e la parte limpida veniva iniettata nel g a s c romatografo per l’analisi. Il campione 13086 con l’alcool formava grumi che dopo agitazione e riposo restavano parzialmente in sospensione. Gli altri campioni, invece, sedimentavano rapidamente se lasciati a riposo, fornendo una soluzione limpida. Solo i campioni che nello spettro IR rivelavano la presenza di sostanze organiche sono stati sottoposti ad analisi GC-MS. Per l’esecuzione dell’analisi gascromatografica è stato impiegato uno spettrometro Finnigan MAT SSQ 710 A abbinato a un gascromatografo Varian 3400 dotato di libreria specifica per le sostanze naturali per masse molari da 2 a 2000 u.m.a. Si iniettava 1 µl di estratto. Si è impiegato una colonna Rtx-5MS (lunga 30 m, 0.25 µm di film di fase fissa, 0.25 mm int. diam.) della Restek Corp. La colonna entra direttamente nella sorgente dello spettrometro. Il programma di temperatura è stato: 50 (1 minuto), salita a 280 °C a 10 gr/min, a 280 per 5 minuti, iniettore a 250°C; transfer line (fra GC e MS) a 285°C. Si ripeteva periodicamente l’iniezione di 1 µl dello stesso metanolo impiegato per le estrazioni, per controllare l’eventuale presenza di impurezze e la costanza dei parametri strumentali. Nei risultati delle analisi sono stati riportati solo i composti presenti con elevata probabilità. ___________________________ La seconda parte dell’articolo apparirà sul n° 5 di Dermo Cosmo News BIORIVITALIZZAZIONE: TUTTI PRO O ANCHE DEI CONTRO? Matilde Iorizzo, Maria Pia De Padova Clinica Dermatologica - Università degli Studi di Bologna L a biorivitalizzazione (biostimolazione, mesoterapia del volto, mesolift) della cute è una metodica che, negli ultimi anni, è rientrata sempre più frequentemente nei protocolli di medicina estetica. Le richieste dei pazienti stanno infatti aumentando e la voglia di prevenire piuttosto che di correggere si stà facendo sempre più insistente. La biorivitalizzazione è una tecnica soft, ormai nota, che consiste nell’iniettare, mediante aghi sottlissimi, sostanze perf e t t a m e n t e biocompatibili e totalmente riassorbibili a livello del derma superficiale di differenti distretti corporei (volto, collo, scollato, dorso mani, addome, superficie interna di gambe e braccia). Il fine è quello di migliorare il turgore, l’elasticità e la compattezza della pelle attraverso lo stimolo alla riattivazione delle funzioni del derma con produzione autologa da parte dei fibroblasti di sostanze della matrice extracellulare. Biorivitalizzare significa quindi attivare biologicamente un componente del nostro corpo al fine di ottimizzarne la fisiologia. Ma cosa attiva i fibroblasti? L’acido ialuronico è senza dubbio dotato di biointerattività nei confronti dei fibroblasti, stimolandoli a produrre collagene, elastina ed ulteriore acido ialuronico. Ha 7 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 azione osmotica-idratante, trofica sul microcircolo e facilita il reclutamento dei macrofagi ad azione scavenger. È disponibile in commercio a diverse concentrazioni (più la concentrazione è alta e più richiama acqua) e a diversi pesi molecolari. È più fluido e maneggevole di un filler, ma anche meno stabile (l’emivita è più corta e gli effetti durano quindi meno). Non ha speciespecificità e teoricamente nessun richio di allergie (non è necessario alcun test preliminare) anche se talvoltà si possono osservare reazioni da ipersensibilità; bisogna infatti tenere presente che i prodotti grezzi contengono proteine batteriche / animali ed il processo di stabilizzazione modifica la struttura dell’acido. L’acido ialuronico si utilizza anche associato a vitamine, amminoacidi, minerali, coenzimi ed acidi nucleici. Tutti questi hanno azione idratante, antiossidante e regolante processi metabolici volti a migliorare il trofismo cutaneo. Per attivare i fibroblasti si utlizzano anche macromolecole polinucleotidiche, silicio organico e prodotti omeopatici….per non parlare dei fattori di crescita !! Per il silicio organico spaventa un po’ il fatto che nel prodotto finito ci sia acido salicilico. È importante non dimenticarlo nel momento dell’iniezione. I prodotti disponibili sul mercato sono quindi numerosissimi ed in costante aumento. La ricerca di formule sempre più efficaci e di ingredienti superattivi procede rapidissima, di pari passo con la prevenzione di possibili effetti collaterali. C’è chi sostiene comunque che l’impiego della monosostanza sia più sicuro rispetto al cocktail; le intolleranze sarebbero minori ed i prodotti, da single, più efficaci. Bisogna però tenere presente che i fibroblasti non producono sempre le stesse sostanze della matrice: in giovane età si producono proteoglicani ed elastina (idratazione ed elasticità), mentre in età avanzata si produce collagene (tono, ma non elasticità). Biostimolare una cute giovane non avrà quindi gli stessi effetti che biostimolare una cute anziana. La biorivitalizzazione resta una metodica di semplice esecuzione sia per il medico che per il paziente. Quest’ultimo infatti non deve interrompere le normali attività quotidiane e questo fa della biorivitalizzazione un lunch hour treatment. Gli effetti sono immediati, ma PRO Facile esecuzione, ridotta invasività, minimo dolore No necessità di skin-test Luminosità, turgore e tono dell’area trattata in maniera globale Eseguibile in distretti corporei dove non si eseguono fillers (es. scollato, addome, sup. interna di gambe e braccia) CONTRO Necessari almeno 3 trattamenti prima di vedere risultati clinicamente evidenti Effetti meno evidenti e meno duraturi di un filler Efficace solo nel photo/chronaging lieve-moderato Mancanza di trials clinici controllati Scarsità di effetti collaterali Tab. 1 soprattutto cumulativi. Il turgore, l’elasticità e la compattezza migliorano col tempo se i trattamenti vengono ripetuti in modo costante. È una metodica mediamente invasiva che può essere utilizzata singolarmente o essere di complemento a fillers e botox. Non è solo curativa, ma anche preventiva. La biorivitalizzazione, anche se fatta con acido ialuronico, non è però un filler. Non riempie le rughe, ma ricostruisce e riorganizza la struttura della pelle. È dotata di scarsi effetti collaterali (lieve eritema e piccoli ematomi, legati per lo più alla metodica di esecuzione piuttosto chè ai prodotti iniettati), ma soprattutto è poco dolorosa per il paziente. È possibile comunque trovare l’acido ialuronico associato a lidocaina cloridrato al fine di ridurre al minimo qualsiasi sensazione dolorosa. Come ogni trattamento estetico ha le sue controindicazioni (gravidanza, malattie autoimmuni, cute infiammata, predisposizione alle cicatrici ipert rofiche, terapia con anticoagulanti orali, infezioni batteriche / erpetiche in fase attiva) e bisogna infine tenere presente che sulla biorivitalizzazione mancano studi clinici contro l l a t i , nonché protocolli che rispettino la medicina basata sull’evidenza, e questo è un limite significativo, che espone il medico a pro b l e m atiche medico-legali in caso di contenzioso. g Bibliografia 1. De Goursac C. Le mesolift: un approche progressive de la rétraction cutanée. J Méd Esthét Chir Dermatol. 2003; 30:117. 2. Cavallini M. Biorevitalization and cosme tic surgery of the face: synergies of action. J Appl Cosmetol 2004; 22:125-132. 3. Andre P. Hyaluronic acid and its use as a “rejuvenation” agent in cosmetic dermato logy. Semin Cutan Med Surg. 2004; 23:218-222. 8 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 9 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 Notizie dalla Letteratura Internazionale e dai Congressi I contributi editoriali dei Lettori vanno inviati a: I contributi editoriali dei Lettori vanno inviati a: [email protected] [email protected] PARAGONE TRA LASER AD ALESSANDRITE E LASER A LUCE PULSATA NELLA TERAPIA DELLE EFELIDI E DELLE LENTIGGINI NEGLI ASIATICI I laser Q-switched e quelli a luce pulsata vengono utilizzati per i disordini pigmentari della cute. L’obiettivo dello studio era di paragonare efficacia ed effetti collaterali di un laser Q-switched ad alessandrite rispetto ad un laser a luce pulsata, in caso di efelidi e lentiggini in pazienti asiatici. In totale 15 pazienti con efelidi e 17 con lentiggini sono stati trattati in maniera randomizzata con una seduta di laser ad alessandrite su una guancia e con due sedute a distanza di 4 settimane con laser a luce pulsata nell’altra guancia. L’efficacia è stata valutata mediante degli indici di severità e dimensione della pigmentazione. Tutti i pazienti sono migliorati in maniera statisticamente significativa. Un’iperpigmentazione postinfiammatoria si è sviluppata in 1 paziente con efelidi e in 8 pazienti con lentiggini dopo terapia con laser ad alessandrite. Nessun caso di iperpigmentazione si è verificato con la terapia a luce pulsata. Le efelidi hanno tratto un be- neficio molto maggiore con il laser ad alessandrite. In caso di lentiggini i risultati con laser a luce pulsata sono stati superiori al laser con alessandrite, specie nei pazienti con iperpigmentazioni postinfiammatorie dopo applicazione di quest’ultimo. COMMENTO: Le limitazioni includono un limitato campione numerico ed un follow-up a distanza troppo ridotto. Il rischio di iperpigmentazioni post-terapeutiche deve essere tenuto in considerazione con import a n z a primaria. - CC Wang, YM Sue, CH Yang et al. A comparison of Q-switched alexandrite laser and intense pulsed light for the treatment of freckles and lentigines in Asian persons: a randomized, physician blinded, split-face comparative trial. J Am Acad Dermatol 2006; 54:804-810. Daniele Gambini - Milano CARENZA MARZIALE E PERDITA DI CAPELLI La carenza di ferro è il deficit nutrizionale più comune al mondo ed è associata a ritardo nello sviluppo, ridotta performance intellettiva e diminuita resistenza alle infezioni. Nelle donne in pre - m enopausa, le cause più comuni di c a renza marziale sono le mestru azioni e la gravidanza, mentre nelle donne dopo la menopausa e negli uomini, sono il malassorbimento e le perdite gastro i n t e s t inali. Diversi studi hanno indagato la relazione tra carenza di ferro ed alopecia, quasi esclusivamente di tipo non cicatriziale. Sono state suggerite relazioni con l’alopecia areata, l’alopecia androgenetica e il telogen effluvium. Attualmente non esistono prove sufficienti in letteratura per raccomandare uno screening per la carenza di ferro in tutti i pazienti con perdita di capelli, e neanche per intraprendere una terapia marziale in pazienti con accertato deficit di ferro, in assenza di anemia. A nche in carenza di prove certe, l’opinione degli autori è quella di e s e g u i re un test di screening per c a renza di ferro nei loro pazienti con alopecia, sia di tipo cicatriziale che non cicatriziale. Nella l o ro esperienza, la cura delle alopecie con deficit marziale accertato, risente infatti favorevolmente della terapia di supporto con f e rro, sia in assenza che in presenza di anemia. Un eccessivo supplemento di ferro può però det e rm i n a re un suo accumulo nell ’ o rganismo, e deve essere evitato specialmente in pazienti a rischio, come quelli affetti da emocromatosi. COMMENTO: La concentrazione di emoglobina è utilizzata come screening, mentre la concentrazione di ferritina nel siero è usata come conferma del deficit marziale. Poiché tale concentrazione aumenta in corso di malattie infettive, infiammatorie o neoplastiche, è necessario, a volte, determinare anche il ferro nel siero oltre alla concentrazione e saturazione della transferrina. - LB Trost, WF Bergfeld and E Calogeras. The diagnosis and treatment of iron deficiency and its potential relationship to hair loss. J Am Acad Dermatol 2006; 54:824-844. Daniele Gambini - Milano ESPERIENZE CON MICRODERMOABRASIONE La microdermoabrasione è una procedura estetica non invasiva entrata oramai nella pratica comune dei dermatologi con interesse medico estetico. In questo articolo si rivede la letteratura relativa a questa procedura che utilizza l’azione fisica di cristalli inerti per esfoliare la cute e, in particolare, si riportano le esperienze degli autori nelle cicatrici post acneiche (10 pz), nel melasma (10 pz) e nel ringiovanimento del volto (10 pz). Dopo diverse sedute a cadenza settimanale, i risultati sono stati buoni, specialmente poi se si combina questa tecnica con l’utilizzo dei retinoidi topici. - Microdermabrasion: reappraisal and brief review of literature . Bhalla M, Thami GP. Dermatol Surg 2006; 32: 809-814. Matilde Iorizzo - Bologna TERAPIA DEL MELASMA La terapia del melasma comprende l’utilizzo di numerosi agenti topici depigmentanti e di terapie fisiche; i risultati di tali terapie sono spesso variabili. Nello studio, la Pigmentary Disord e r s Academy (PDA) ha paragonato l’efficacia clinica dei vari trattamenti per definire regole comuni nell’approccio completo al problema. Per questo sono stati identificati e tenuti in considerazione. gli studi clinici pubblicati negli ultimi 20 anni. Il gruppo di studio ha trovato un consenso comune nel definire, come terapia di prima linea per il mela- sma, una terapia topica con l’associazione di 3 sostanze. Nel caso i pazienti non tollerino tale associazione o questa non sia disponibile, altri prparati con 2 sostanze (idrochinone + acido glicolico) o con singoli agenti (idrochinone al 4%, acido retinoico al 1% o acido azelaico al 20%) dovrebbero essere considerati come alternative. Nei pazienti che non rispondono a queste terapie, le opzioni per una terapia di seconda linea includono i peeling, eseguiti singolarmente o associati alle terapie topiche. Alcuni pazienti richiedono terapie di mantenimento, ed anche in questo caso una combinazione di terapie topiche sembra dare il migliore risultato. I laser dovrebbero essere utilizzati raramente nella terapia del melasma e il fototipo dovrebbe sempre essere considerato. COMMENTO: Un coraggioso tentativo di mettere delle linee guida sulla terapia di una condizione cutanea comune. L’idrochinone non viene attualmente utilizzato nei paesi europei. - M Rendon, M Berneburg, I Arellano et al. Treatment of melasma. J Am Acad Dermatol 2006; 54 (S2):S272-S281. Daniele Gambini - Milano 10 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 I contributi editoriali dei Lettori vanno inviati a: [email protected] OPINIONI SULLE LAMPADE SOLARI DEI DERMATOLOGI RISPETTO AD ALTRI SPECIALISTI NEGLI USA Lo studio è stato eseguito mediante questionari spediti per posta a dermatologi, internisti, pediatri e medici di base. Lo scopo era di valutare l’atteggiamento dei diversi specialisti sull’utilizzo delle lampade solari. Hanno risposto il 38% dei medici intervistati (numero totale 364): nel 70% dei casi i pazienti chiedevano l’opinione al medico circa le lampade. Una percentuale superiore di derm a t ologi rispetto agli altri specialisti ha risposto all’intervista (52% vs 31%), ha riferito di parlare normalmente con i pazienti circ a rischi e benfici delle lampade, crede che i centri UV non siano sicuri e ne vorrebbe una maggiore regolamentazione. I medici donna scoraggiavano le applicazioni UV più degli uomini. I medici praticanti nella zona nordest e centrale degli USA erano più propensi all’utilizzo delle lampade UV per migliorare l’umore, e più comunemente credevano che tali lampade potevano servire per trattare la depressione o pre v e n i re la deficienza di vitamina D. Spesso le persone richiedono i n f o rmazioni sull’utilizzo delle lampade UV ai medici, e specialmente ai dermatologi, che generalmente ne scoraggiano l’uso e le considerano più negativamente rispetto agli altri specialisti. COMMENTO: Sarebbe utile distribuire un questionario simile in Europa, con speciale interesse nel verificare le opinioni dei dermatologi e degli altri specialisti nei diversi stati ed a differente latitudine. - KR Johnson, LF Heilig, EJ Hester et al. Indoor tanning attitudes and practices of US derm a t o l o g i s t s compared with other medical specialists. Arch Dermatol 2006; 142: 465-470. Daniele Gambini - Milano IL SILICIO NEL TELOGEN EFFLUVIUM: MICROANALISI AL MICROSCOPIO ELETTRONICO A SCANSIONE Scopo dello studio è stato quello di valutare la presenza di silicio (Si) nei capelli di pazienti con telogen effluvium, rapportandola a quella di un gruppo di contro llo senza tale patologia. Sono state arruolate 20 pazienti aff e tte da telogen effluvium, di età media pari a 42, 35 anni, e 20 c o n t rolli omogenei di sesso fem- 11 Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 minile. Da ciascuna di esse sono stati prelevati capelli, non tinti e non trattati, mediante pull test, preparandoli per l’analisi. Frammenti di un centimetro, tagliati in prossimità del cuoio capelluto per ridurre l’influenza della contaminazione ambientale, sono stati montati su stub di alluminio e ricoperti di carbone (Emitech K 950). L’esame è stato e ffettuato con un microscopio elettronico a scansione (SEM) dotato di apparecchiatura per la microanalisi (Cambridge Stere oscan S 360, Oxford Instruments INCA 3000). Il Si è stato evidenziato nel 5% delle pazienti (1 solo caso) e nel 35% dei controlli (p<0,05 s.), il Ca nel 70% dei pazienti e nell’85% dei controlli (p>0,05 n.s.), lo zolfo nel 100% dei pazienti e dei contro l l i . In letteratura sono riportate anomale concentrazioni di elementi essenziali in molte patologie dei capelli. La concentrazione di elementi inorganici è tuttavia influenzata da numerosi fattori di difficile identificazione: fase della crescita, distanza dal bulbo, localizzazione, esposizione ambientale, shampoo e cosmetici, lavaggi e metodiche utilizzate per la microanalisi. COMMMENTO: Dalla letteratura I contributi editoriali dei Lettori vanno inviati a: [email protected] non risultano finora studi di microanalisi al SEM sul Si nei capelli di donne con telogen effluvium e questi dati preliminari sembrano indicare un certo ruolo protettivo di questo elemento nei confronti di questa patologia. Studi pubblicati hanno dimostrato un ruolo del Si nello spessore e nell’elasticità cutanea e, poiché questo elemen- to si concentra elettivamente nel corneo e nell’epicuticola del pelo e sembra diminuire con l’età, p o t rebbe, per analogia, essere importante anche nel trofismo dei capelli. Studi su più vasta scala consentiranno di valutare anche se la somministrazione orale di Si può r i d u rre o prevenire il telogen effluvium. - Renata Strumia*, Maria Michela Lauriola Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentazione, Sezione di Dermatologia, Università degli Studi, Ferrara. * U.O. Dermatologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Arcispedale S. Anna, Ferr a r a . 81° congresso SIDeMaST - Torino 31 maggio - 03 giugno 2006. ADENOGEN ALLUNGA LA VITA DEI CAPELLI, LO DIMOSTRA UNO STUDIO CLINICO IN DOPPIO CIECO spressione genica e la sintesi non solo di VEGF ma soprattutto di FGF7 (Fibroblast Growth Factor 7) il più importante fattore di cre s c i t a che sostiene la fase Anagen (fase iniziale di crescita del capello). Uno studio clinico randomizzato in doppio cieco verso niacinamide, eseguito su oltre 100 pazienti presso la clinica del Prof. Watanabe, noto tricologo di fama internazionale, dimostra l’efficacia di Adenosina nel trattamento dell’Alopecia Androgenetica. L’80% dei pazienti, dopo 6 mesi di trattamento, migliora in modo statisticamente significativo, senza alcun effetto collaterale, perc e ntuale che sale al 90% se si includono anche i lievi miglioramenti. Valutazioni oggettive eseguite da istituti indipendenti dimostrano che aumenta lo spessore dei capelli: si riducono quelli con diametro inferiore a 40µ. mentre aumentano quelli superiori a 60 e 80µ. Adenogen allunga la vita del capello non solo nell’Alopecia Androgenetica, ma anche ed in tutti i casi di Telogen Effluvium. LiM nel 2001 per primo ipotizzò che Minoxidil promuovesse la crescita del capello in modo indiretto tramite Adenosina, principio attivo naturale di Adenogen. Per confermarlo ricercatori Shiseido hanno studiato l’effetto di Adenosina in v i t ro, con tecnica DNA micro a rr a y, dimostrando che favoriva l’allungamento del capello attraverso l’e- Volume 4 • Numero 4 • Settembre-Ottobre 2006 I contributi editoriali dei Lettori vanno inviati a: [email protected] • [email protected] VITAMINE DEL GRUPPO B NEL TRATTAMENTO DELL’ACNE Il quesito Egregio Prof. Veraldi, Che cosa pensa dell’utilizzo delle vitamine del gruppo B nel trattamento dell’acne? Sono eff i c a c i ? Sono sicure? Dr. A.G. - Collecchio (PR) La risposta Egregio Collega, Una risposta esaustiva richiederebbe molto spazio, per cui mi limito al ruolo della nicotinamide, che è, peraltro, la vitamina del gruppo B di gran lunga più studiata nell’acne. Numerosi studi sperimentali hanno dimostrato che la nicotinamide inibisce la migrazione dei polimorfonucleati, il rilascio di enzimi lisosomiali e la liberazione di amine vasoattive. La molecola agisce quindi nell’acne in quanto antiinfiammatorio. A mia conoscenza, sono stati fino a oggi pubblicati due studi clinici controllati relativi all’utilizzo della nicotinamide topica nell’acne(1, 2). Nello studio di Shalita et al.(1), la nicotinamide al 4% in gel è stata confrontata con la clindamicina fosfato all’1%, mentre nello studio di We l t e rt et al.(2) è stata confrontata con l’eritro m i c ina al 4% in gel. In entrambi gli studi la nicotinamide è risultata efficace almeno quanto il farm a c o di confro n t o . Gli effetti collaterali erano costituiti da lieve pizzicore e bruciore nella sede di applicazione del prodotto. Che la nicotinamide sia una molecola sicura è dimostrato dal fatto che pochi mesi fa è stato pubblicato uno studio(3) su 198 pazienti con acne o rosacea che sono stati trattati con nicotinamide orale (750 - 1.500 mg/die) associata allo zinco (25-50 mg/die per os) per otto settimane. Quanto fino a oggi pubblicato dimostre rebbe che alcune vitamine del gruppo B, come la nicotinamide, non peggiorano l’acne, come molti ancora oggi ritengono, ma anzi la migliorano, e presentano un profilo di sicurezza superiore a molti altri prodotti anti-acne. Stefano Veraldi - Milano Bibliografia 1. Shalita AR et al.: Int J Dermatol 1995; 34: 434-437. 2. Weltert Y et al.: Nouv Dermatol 2004; 23: 385-394. 3. Niren NM & Torok HM: Cutis 2006; 77 (Suppl. 1): 17-28. TERAPIA FOTODINAMICA NELL’ACNE Il quesito Caro Veraldi, Che cosa pensi della terapia fotodinamica nell’acne? Paolo R. - Firenze La risposta Caro Collega, Non ho un’esperienza personale: non posso quindi dare un giudizio. Tuttavia, a fronte di alcuni dati della letteratura positivi, sono rimasto impressionato dai giudizi negativi che hanno dato Harald Gollnick (a febbraio a Milano, in occasione degli Incontri organizzati dalla Intendis) e Gerd Plewig (a marzo a San Francisco, all’American Academy). Poiché Gollnick e Plewig sono considerati tra i maggiori esperti di acne in Europa... (non so se mi sono spiegato). Ai posteri l’ardua sentenza. Stefano Veraldi - Milano