Manfredo Tafuri - Storia del dopoguerra

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Manfredo Tafuri - Storia del dopoguerra
Architettura
italiana 1944-1981
di Manfredo Tafuri
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in Storia dell’arte italiana, II. Dal Medioevo al Novecento, 7. Il Novecento, a cura di Federico Zeri, Einaudi, Torino 1982
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Indice
1. Gli anni della ricostruzione
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2. Aufklärung I. Adriano Olivetti e la communitas
dell’intelletto
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3. Il mito dell’equilibrio. Il piano Vanoni e
l’Ina-Casa secondo settennio
47
4. Aufklärung II. Il museo, la storia, la metafora
(1951-1967)
56
5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975)
109
6. Due «maestri»: Carlo Scarpa e Giuseppe
Samonà
125
7. Il frammento e la città. Ricerche e exempla
degli anni ’70
131
8. Architettura come colloquio e architettura
come «invettiva civile»
143
9. Il «caso» Aldo Rossi
149
10. Il rigorismo e l’astinenza. Verso gli anni ’80
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1. Gli anni della ricostruzione.
Una difficile dialettica fra il conoscere e l’agire si impone, all’indomani della Liberazione, agli architetti impegnati a dare risposte alla nuova realtà italiana1. Difficile
a causa delle contraddittorie basi su cui poggiava la tradizione disciplinare, ma anche a causa della molteplicità
di livelli imposta da quel conoscere. Tanto piú che sembrava scontato, alle forze piú qualificate, che non potesse esistere un conoscere sganciato dall’agire: l’incontro
con la politica attiva appare un imperativo. Attraverso un
susseguirsi di ideologie, comunque, gli architetti italiani
procedono in un’affannosa ricerca di identità, appoggiata di continuo a tematiche extradisciplinari. In tal senso,
è sin troppo semplicistico individuare nel «rapporto con
la storia» il filo rosso che lega le ricerche dell’età neorealista agli esiti estremi dei viaggi nella memoria di architetti come Scarpa, Rogers, Gabetti e Isola, Aldo Rossi o
Franco Purini. Tuttavia, se per Ridolfi, Albini o Rogers
vale l’imperativo che connette «l’io sono» al «cosí furono», per le esperienze degli anni settanta vale piuttosto
quello che stringe «l’essa è» dell’architettura alle scaturigini prime del suo essere. La ricerca della «grande casa»
dell’architettura: anche questa, camuffata sotto vesti non
ancora sospette di heideggerismo, è presente nelle prime
esperienze posteriori al conflitto mondiale.
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Con un inevitabile ricorso allo schematismo, tuttavia.
Il riesame del recente passato viene improntato a una
logica manichea, mentre il bisogno di autocritica non
giunge al cuore delle «unità discorsive» in cui il sapere
architettonico si era scomposto e in cui continuava a
scomporsi. Quell’autocritica, cosí, si limita a questioni
di «stile». I convulsi fermenti che agitano la cultura
architettonica italiana dopo il ’45, espressi in coraggiose
iniziative editoriali, con la presenza nei luoghi di decisione, con la formazione di gruppi e associazioni, convergono almeno su un punto: della tradizione formata
da Persico e Pagano – vista frettolosamente come unitaria – andavano raccolte principalmente le istanze
«morali», quelle che sembravano condurre inevitabilmente «al di là dell’architettura». Automaticamente,
interi settori delle ricerche degli anni venti e trenta vengono messi fuori gioco: una rimozione provvisoria,
comunque, destinata a pesare, nella forma del «risveglio», in anni a noi più vicini.
Solo su un fondamento etico, infatti, potevano riconoscersi solidali gli architetti tesi a introiettare i valori
della Resistenza, compatti almeno nel perseguire un
«programma di verità». Ben piú complesso era definire
i contenuti di quella verità e le forme di azioni conseguenti. Che ci si trovasse di fronte a un ciclo nuovo da
costruire sembrava pacifico; altrettanto pacifica era la
necessità di fare i conti con un’«idea di ragione» che –
come denunciava in quegli anni Elio Vittorini – aveva
mostrato la propria disfatta.
Non ci sembra cosí casuale che la storia dell’architettura italiana del dopoguerra si apra con due opere
concepite come commossi omaggi a ideali che avevano
costituito, nel ventennio trascorso, fragili punti di appoggio per un’intelligencija costretta a ripiegare su se
stessa. Il monumento alle Fosse Ardeatine a Roma
(1944 sgg.) di Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini,
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Nello Aprile, Cino Calcaprina e Aldo Cardelli, e il
monumento ai Caduti nei campi di concentramento in
Germania dei Bpr (1946): un impenetrabile masso
sospeso, testimonianza muta al cospetto del luogo dell’eccidio, e un reticolo metallico su base cruciforme in
pietra, contenente al centro un’urna piena di terra dei
campi tedeschi2.
Da un lato, una geometria che si compromette con la
materia, memore forse del progetto per il Palazzo dell’Acqua e della Luce all’E 42 del gruppo Albini-Gardella-Minoletti: in un solo segno è contratto il dolorante ricordo di un evento che rende retorico ogni commento. Dall’altro, un omaggio lirico ai miti illuministi
degli anni trenta, espresso con esplicite allusioni al traliccio di Persico e Nizzoli nella Galleria di Milano e agli
«oggetti prigionieri» di Duchamp, Giacometti e Melotti. Si è parlato, e a ragione, per il monumento dei Bpr,
di «commemorazione di un ideale»3. Ma quel monumento, quel reticolo «troppo razionale» opposto all’immensità dell’eccidio, costituisce anche un momento di
riflessione che dà senso al motivo della «continuità» più
tardi teorizzata da Rogers.
Una riflessione conclusiva sul passato, dunque, il
monumento alle Fosse Ardeatine, alla luce delle successive esperienze dell’ambiente romano; il punto di una
situazione culturale ritenuta ancora operante, il monumento dei Bpr nell’ambiente milanese. La lirica con cui
ci si volge all’indietro, affinché non sia permesso dimenticare, è però accompagnata da un impegno nella ricerca di strumenti specifici atti a contribuire al problema
della ricostruzione: immediatamente, quella cultura tesa
al nuovo si mostra legata a pratiche discorsive tutte operanti sin dagli anni venti e trenta. Nel dicembre 1945,
al I Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia, la
voce di Rogers si leva per lamentare l’assenza di un
piano nazionale, mentre Zevi indica come modello pos-
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sibile quello dell’edilizia di guerra statunitense, tentando di trasferire alla situazione italiana i risultati di un
secondo New Deal letto in modo impressionistico4.
È De Finetti, il vecchio allievo di Loos, erede spirituale di un Illuminismo lombardo di stampo rigorista,
del tutto estraneo alle polemiche sui destini del «moderno» e autore di alcune «inattuali» proposte per il centro di Milano, fra il ’44 e il ’51, a mostrare un maggior
realismo, leggendo gli sviluppi del tessuto milanese alla
luce del mercato fondiario e preconizzando una nuova
legge urbanistica in grado di provvedere ad adeguati
demani pubblici di aree5. Ma il nodo politico della ricostruzione sfugge agli architetti: le loro petizioni vertono sulla globalità dell’intervento, rimanendo evasive
rispetto all’attrezzatura tecnico-istituzionale che avrebbe dovuto permetterla. Del resto, un documento come
quello redatto nel ’44-45 da Della Rocca, Muratori, Piccinato, Ridolfi, Rossi de Paoli, Tadolini, Tedeschi e
Zocca parla chiaro circa le ideologie che ispirano le ipotesi della cultura italiana in merito alla ricostruzione6:
l’accento batte sull’agricoltura come settore prioritario
di intervento, su un’Italia contadina ristrutturata e
razionalizzata attraverso un’urbanistica che punti su
una «migliore distribuzione della popolazione» e il potenziamento del turismo, salutato come sicura vocazione economica del paese. Gli urbanisti italiani, di fronte
al tema della ricostruzione, legano tenacemente la propria tradizione disciplinare a scelte politico-economiche
avanzate «in proprio». Piú che alla «supplenza», il loro
lavoro tende alla «simulazione».
Non sembra comunque lecito riconoscere nelle esperienze urbanistiche del primo dopoguerra un reale salto
metodologico rispetto alle elaborazioni della seconda
metà degli anni trenta e alle indicazioni contenute nella
legge del ’42. L’entusiasmo e le generose illusioni che
caratterizzano il clima ciellenistico permettono piutto-
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sto di fissare in modelli i contenuti ancora fluidi di quelle elaborazioni. Il piano ar, elaborato sin dal ’44 dal
gruppo italiano dei Ciam per il capoluogo lombardo7,
fissa le coordinate di un sistema urbano in cui strutture alternative si integrano a un consolidamento del patrimonio esistente: due assi attrezzati si incrociano legando una zona direzionale decentrata alla viabilità regionale8 un restauro conservativo è previsto per il centro
storico cosí liberato; nuclei integrati di residenza e produzione sono localizzati presso Gallarate, Como, Varese, Monza, la Brianza, nella prospettiva di una riorganizzazione regionale, mentre l’agglomerato urbano vero
e proprio viene limitato a una città di media grandezza.
Lotta contro la speculazione, conservazione e valorizzazione dei nuclei storici, sviluppo unidirezionale di
«città alternative» sono gli obiettivi che si vorrebbe
integrare, a Milano come a Roma. Nel ’46, una commissione di cui fanno parte Luigi Piccinato, Mario
Ridolfi, Aldo Della Rocca, Franco Sterbini, Ignazio
Guidi, Cherubino Malpeli e Mario De Renzi è chiamata ad elaborare un piano del traffico per la grande Roma;
ne esce un programma urbanistico completo, offerto
come base per una polemica che sfocerà nelle vicende del
piano del ’629.
Tutto ciò, tuttavia, rimane nei limiti della pura esercitazione. Anche quando, come nel caso degli studi per
il piano regionale del Piemonte, frutto dell’iniziativa di
Giovanni Astengo e Mario Bianco, ci si confronta con
una tematica territoriale di complessa struttura economica10, emerge la volontà di consolidare una disciplina
dotata di una indiscussa tradizione. È opportuno però
distinguere le tendenze che fra il ’44 e il ’48 caratterizzano l’approccio italiano all’urbanistica: il regionalismo
del piano ar è in linea con quello che aveva ispirato il
piano della Valle d’Aosta, patrocinato da Adriano Olivetti nel 1936-37, pur nella diversità dei contesti; quel-
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lo affrontato da Astengo e Bianco per il Piemonte è
piuttosto frutto di una petizione di principio e di una
ricerca di metodologie analitiche. Saranno le pressioni
contingenti a far precipitare l’esperienza urbanistica in
dogmatismi tenacemente vincolati a modelli di sviluppo
cittadino alla fine ineffettuali. Per suo conto, d’altronde, il territorio italiano sfugge ad ogni pianificazione: nel
catalogo delle utopie vengono relegate le proposte del
piano ar o quelle emergenti dal concorso del ’46 per il
centro direzionale di Milano, mentre il crollo progressivo delle speranze seguite alla lotta di liberazione spinge
gli architetti – specie quelli settentrionali, in presenza
di una committenza piú dinamica e di un apparato industriale rapidamente riassestatosi – a concentrare in messaggi formali le loro aspirazioni a nuovi ordinamenti
civili.
Il confronto con la storia, che in modo piú o meno
ambiguo caratterizzerà il decorso della ricerca italiana,
è d’altronde imposto da occasioni clamorose, come quella della ricostruzione dei ponti e della zona di Por Santa
Maria a Firenze, distrutti da uno dei più gratuiti atti
compiuti dalle truppe tedesche in ritirata. Nell’affannoso tentativo di contrapporre le qualità della «civiltà»
all’ignominia della barbarie, gli architetti toscani si
cimentano in progetti e polemiche che si concludono con
una ricostruzione del tessuto storico povera e compromissoria: rispetto alle indicazioni – anch’esse, tuttavia,
viziate da incertezze e ambiguità – di Giovanni Michelucci, la vicenda fiorentina sfocia anch’essa in un fallimento, lasciando però emergere problemi su cui sembrerà degno impegnarsi a fondo11.
La cultura architettonica italiana sente subito, peraltro, di dover fronteggiare molteplici nemici, e non tutti
esterni. Non si tratta solo della battaglia contro la «leva
dei morti» di cui parlava Guido Dorso, ma anche di
quella che gli intellettuali sentono di dover ingaggiare
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con se stessi, con le proprie tradizioni, con il nodo che
li lega a istituzioni da sovvertire.
Sono esattamente questi i temi affrontati dall’Associazione per l’architettura organica (Apao) e dall’azione
personale di Bruno Zevi, tornato in Italia dopo aver
completato i suoi studi negli Stati Uniti. Zevi esordisce
con un volume, Verso un’architettura organica (1945)
scritto come «manifesto» non solo di una scelta storiografica ma anche di un principio di azione: la fondazione dell’Apao e della rivista «Metron» è conseguente
alle riflessioni depositate in quel volume, le cui linee
metodologiche saranno esplicitate piú tardi in Saper vedere l’architettura12. Per Zevi, il «superamento» dell’eredità
del cosiddetto «razionalismo» non prescinde dalla rivoluzione delle coscienze da esso preconizzato. Anzi, il
rinnovamento dovrà completare e approfondire un’operazione il cui ascetico calvinismo non ha piú ragion
d’essere dopo l’ampliamento alle masse del messaggio
contenuto nel terrorismo delle avanguardie. La lezione
di Wright, principalmente – ma anche quella di Aalto –
dovrà essere assorbita per «liberare» le forme, per piegarle a una «umana» fruizione dello spazio. Ma l’insistenza zeviana sulle valenze spaziali va colta nel suo
valore di metafora. Lo spazio è protagonista là dove esiste scambio fra progettazione e fruizione, dove il suo
oscillare fra condizioni naturali e innaturali permette il
recupero di «luoghi», dove si fa riconoscibile l’ambiente di una società democratica. Singolare è l’integrazione tentata da Zevi del metodo analitico della «scuola di
Vienna» con l’eredità crociana e con una volontà di
intervento diretto della storia nell’azione contingente13.
Certo, lontana da Zevi era l’intenzione di proporre una
«maniera» linguistica. Ma il nuovo vessillo da lui agitato come catalizzatore di energie altrimenti prive di centri è troppo mitico per non divenire adatto ad ogni uso.
L’Apao afferma, nel suo programma ideologico, di per-
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seguire una pianificazione urbanistica e una libertà
architettonica come strumenti di costruzione di una
società democratica in lotta: la libertà sociale deve essere garantita dalla socializzazione dei grandi complessi
industriali, bancari e agrari14. Tale deciso appello rimane tuttavia generico e privo di relazioni con le scelte da
compiere nel settore edilizio. La politica viene evocata,
piuttosto che praticata dall’Apao. I cui obiettivi specifici, comunque, sono anch’essi vaghi: l’equazione
architettura organica = architettura della democrazia è
utile piú che altro per riconoscersi, non certo per riconoscere. Né le incertezze della cultura romana sono
compensate dal richiamo all’ortodossia proveniente dal
Movimento studi di architettura (Msa) di Milano o dal
gruppo Pagano di Torino: dietro le formule, si nasconde un’incertezza di fondo che l’analisi storiografica non
riesce a rimuovere.
Eppure, riviste come «Metron», «Domus» – diretta
dal 1946 al 1947 da Rogers – o «La nuova città», diretta dal ’45 da Giovanni Michelucci, ereditano con diversi orientamenti la vis polemica della «Casabella» di
Pagano: ma la prima rimane legata alle sorti dell’Apao,
la seconda si presenta con un volto aristocratico, incidendo scarsamente sull’architettura militante15, la terza
è costretta in limiti localistici. Rimane comunque alla
pubblicistica di questo periodo il merito di aver ampliato le pertinenze dell’analisi critica e di aver abbozzato
una revisione dell’eredità storica del cosiddetto «movimento moderno» che produrrà ben presto i suoi frutti.
Nel frattempo, le istanze tese alla formulazione di un
linguaggio nuovo, libero dalle ambigue ipoteche del
recente passato e capace di entrare in consonanza con
le speranze riposte nell’ordinamento democratico e con
i valori espressi dalla Resistenza, sfociano per vie differenti nella vicenda neorealista16.
Sin troppo facile è tracciare le linee di un’archeolo-
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gia del neorealismo architettonico: la mostra sull’architettura rurale alla VI Triennale di Milano (1936), che
vede l’esordio di Pagano come fotografo, la villa a Porto Santo Stefano di Quaroni (1938), il progetto di Ridolfi per un’azienda agricola a Sant’Elia Fiumerapido
(1940) sono lí a testimoniare una volontà antiretorica
che suo malgrado entra in risonanza con le velleità ruraliste della politica economica del regime, che nel voler
reagire al «lasciarsi vivere soltanto» cerca parole prime
in una logica costruttiva legata al mito della «naturalità», che nelle sperimentazioni lecorbusieriane con i
materiali poveri scopre un’ideologia di ricambio. E viene
da fantasticare su un archeologo del futuro privo di
documenti che non siano grafici o costruiti, perplesso nel
dover collegare opere cosí distanti come quelle citate, ai
quartieri progettati da Forbat per Karaganda (1932), agli
edifici residenziali realizzati da Püschel ad Orsk (1935),
ai progetti per case contadine di Mel´nikov (1918-19) o
al folclore di maniera di Norristown, caposaldo della
«conquista» rooseveltiana della regione del Tennessee.
Impossibile isolare meccanicamente le anime della
«tradizione del nuovo» in separate stanze: avanguardie,
populismi, rétours à l’ordre convivono come maschere
intercambiabili di un medesimo attore.
Che sceglie, nel caso del neorealismo italiano, la via
della descrizione. Descrizione, innanzitutto, di un
incontro traumatico con uno specchio imprevisto – la
convenzione chiamata «realtà» – che restituisce a chi
guarda immagini inquietanti; descrizione di emozioni
provate nello scambiare l’orgoglio della modestia con
l’immodestia di una volontà di potenza frustrata; descrizione di un viaggio «là dove altri erano» nella speranza
di poter cosí comprendere il presente di tutti. Di tale
contaminazione fra il soggetto, la collettività, la parte e
il tutto vive la stagione neorealista.
Autobiografica è infatti la narrazione dell’improvvi-
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so incontro dell’intellettuale con le masse subalterne
rese «auratiche» dalla Resistenza; autobiografica la rivelazione di una speranza, che proietta su un’immagine
sentimentale della realtà nazionale una volontà di rigenerazione che somiglia all’espiazione di ataviche colpe;
autobiografica la struttura di opere che della loro emarginazione fanno motivo di orgoglio. Cosí che uno slogan
sembra permeare il progetto del gruppo Quaroni-Ridolfi per la Stazione Termini, il quartiere Tiburtino o La
Martella: «Io partecipo; dunque noi siamo».
Sartrianamente, quegli intellettuali prendevano posizione: sceglievano di identificare il destino della loro tecnica e del loro linguaggio con quello di classi venute
improvvisamente alla ribalta, ricche di un passato «perdente» eppure intriso di valori, se esso aveva permesso
loro di emergere, di profilarsi come portatrici di nuove
«purezze». Poco importava se l’adesione somigliava
troppo a un bagno catartico, se l’esplorazione di quelle
tradizioni nascondeva un masochistico bisogno di identificarsi con i perdenti, se la ricerca di radici nel focolare contadino rimuoveva l’ansia per lo spaesamento
incontrato a contatto con la società di massa. Né si era
in grado di valutare che pensando di agire come re magi,
recanti in dono ai nuovi eletti il proprio engagement, si
era letteralmente parlati da un disegno di cui inconsciamente ci si faceva docili strumenti.
Ma nei primi anni del dopoguerra tale risvolto non
era avvertibile. L’orgoglio con cui si pronunciano le
nuove parole è proporzionale alla volontà di cancellare
quelli che vengono considerati i compromessi o gli errori dell’anteguerra: il linguaggio della materia e della
realtà popolare è invocato per annullare un passato fatto
di adesioni intellettualistiche o opportuniste agli etimi
costruttivisti, internazionalisti o neoclassici. È su tale
base che prende forma l’opera piú eloquente della «scuola romana», il progetto presentato al concorso per il
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fabbricato viaggiatori della Stazione Termini dal gruppo Quaroni-Ridolfi (1947).
Non è forse azzardato leggere nel progetto del gruppo Quaroni, Ridolfi, Fiorentino, Cardelli, Caré e Ceradini per la stazione Termini l’immagine di una faticosa
liberazione. Liberazione, anzitutto, di una struttura
dalla propria matericità: e ciò non contrasta affatto con
l’espressionistica articolazione della copertura, «gran
tetto» al cospetto di una città pesantemente conformata ma di incerto destino. Ma liberazione, anche, da
canoni tranquillizzanti, da «soluzioni». Arrivo e partenza «fanno problema», in questo progetto che non
rinuncia all’allegoria – il risucchio e l’espulsione – per
contaminare le tonalità, per fare della piazza coperta un
omaggio alle contraddizioni del presente17. Ma nello
sforzo teso al recupero di una rappresentatività volutamente ambigua e nel fascio di tendini che trasmettono
le loro tensioni ai sostegni a doppia forcella non è forse
un’esagitazione che rassomiglia sin troppo a un esorcismo della tecnica? Nello stesso 1947, Quaroni progetta la chiesa al Prenestino a Roma18, con un’idea ripresa
nella chiesa a Francavilla al Mare (1948-58): la forma
aspira a ricongiungersi all’inventio tecnologica, ma anche
a far sparire, nella levitazione del rappresentato, il soggetto stesso del fare tecnico19.
Si tratta di un controcanto rispetto all’abaco della
«piccola tecnica» del Manuale dell’architetto. Tormentosamente, e riproducendo una casistica di «generi» che
nulla ha a che fare con la tipologia, si aprono sentieri
obliqui al percorso di un’architettura insofferente a
ridursi a semplice dispositivo, e condannata nonostante
tutto a denunciare tale propria carenza. La «liberazione» sopra riconosciuta come contenuto di fondo del
progetto per la stazione Termini di quelli che si stanno
avviando a divenire i maestri della «scuola romana» è,
alla fine, indice di un’inconfessata aspirazione a elude-
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re l’indagine circa le condizioni di senso della progettazione, pur presentandosi come accorato punto interrogativo sulle strutture della comunicazione.
Ma il progetto Quaroni-Ridolfi per Termini dice
anche altro. In esso l’oggetto e l’idea di città formano
un’unità: a differenza dello strutturalismo severo ma
esibito del progetto di Saverio Muratori per il concorso
per il nuovo Auditorium di Roma20, lí la gestazione di
un linguaggio implicato nel dolore e nelle speranze del
momento parla epicamente. Monumentalmente, il neorealismo pronuncia inediti etimi.
Tuttavia, non un’occasione unica bensí temi generalizzabili costituiscono il terreno naturale di crescita del
neorealismo: sia Quaroni che Ridolfi incontrano subito
il problema della nuova committenza sociale. Per Ridolfi, la cerniera che congiunge le opere degli anni trenta
alla poetica populista è costituita da un’intensa ricerca
manualistica21. Del ’40 è il suo Contributo allo studio sulla
normalizzazione degli elementi di fabbrica, del ’42 i Problemi dell’unificazione: l’indagine verte sugli elementi
minimi, sul dettaglio, sul recupero di un sicuro «mestiere», dove l’attenzione per la correttezza e la normalizzazione si riallaccia alle ricerche concretizzate negli arredi fissi e nei particolari delle palazzine di via di Villa
Massimo e di via San Valentino a Roma, per metterne
fra parentesi i modi del linguaggio. La porta è aperta per
la tassonomia del Manuale dell’architetto, pubblicato nel
1946 sotto il patrocinio del Cnr e dell’Usis: è quello che
abbiamo chiamato un abaco per una «piccola tecnica»,
dedicato all’età della ricostruzione22. In esso il valore
dell’«esperienza» viene esaltato; all’edilizia dell’Italia
postfascista viene consegnato un prontuario «da bottega». In realtà, la concretezza della tradizione costruttiva che il Manuale esalta è frutto di una media di culture regionali non immune da intellettualismo: l’esperanto vernacolare che assume in esso forma tecnologica si
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riallaccia alla celebrazione del regionalismo in abito
«folk» che era stato uno degli ingredienti ideologici del
New Deal. Il manuale destinato a divenire testo di riferimento per l’architettura tesa alla ricerca del «nazional-popolare» funge da tramite rispetto alle esperienze
di una politica sperimentata oltre oceano e divenuta
merce di esportazione.
Al Manuale e alle tipologie studiate da Ridolfi per i
fascicoli normativi dell’Ina-Casa, tipiche espressioni dell’ambiente romano, risponde il Problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, opera di Diotallevi e
Marescotti – già collaboratori di Pagano per il progetto
di «città orizzontale» – edita a Milano nel 194823. Al
culto del dettaglio costruttivo, il volume di Diotallevi e
Marescotti oppone analisi sociologiche e tipologiche, con
espliciti riferimenti ai modelli della Germania di Weimar, specie nel primo gruppo di tavole: la stessa organizzazione dell’opera, per schede successivamente integrabili, ne caratterizza il contenuto, in presa diretta con
la grande tradizione dell’architettura e dell’urbanistica
«radicali» fra le due guerre. Ve n’era abbastanza per
riservare un’accoglienza men che disattenta al Problema
sociale dei due milanesi, destinato, a differenza del
Manuale ridolfiano, a divenire rarità bibliografica. Ma
per inquadrare storicamente quella sfortunata iniziativa
editoriale, è necessario considerarla una tappa intermedia, nell’attività teorica di Marescotti, fra la mostra «La
città del sole» (Catania 1945) e lo studio sui problemi
dell’edilizia per il piano del lavoro proposto dalla Cgil24.
L’impegno di Marescatti è in presa diretta con le rivendicazioni del movimento operaio e del movimento cooperativo: i suoi sbocchi limitati conseguono alla sconfitta delle sinistre alle elezioni del ’48 e all’avvento della
politica centrista, ma anche alle proprie interne utopie.
Per Marescotti, infatti, i centri sociali cooperativi sono
luoghi di organizzazione autonoma dell’utenza con obiet-
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tivi antiburocratici: l’associazione cooperativa è salutata
come forma di azione politica dal basso, in polemica con
ogni gestione piramidale. Era inevitabile per Marescotti entrare immediatamente in conflitto con gli stessi partiti di sinistra: fra Bottoni, che offrirà la sua tecnica
lineare al movimento operaio organizzato, e le istanze
antiburocratiche di Marescotti, si apre un incolmabile
varco. Quello di Marescotti, tuttavia, è populismo ideologico espresso in forme ascetiche: i suoi quartieri per
l’Iacp di Milano – Baravalle e Varesina del 1947, Mangiagalli del 1949 – sono fedeli agli studi sulla «casa
dell’uomo» elaborati dallo stesso Marescotti negli anni
trenta, mentre il centro sociale e cooperativo «Grandi e
Bertacchi» (1951-53) costituisce il canto del cigno delle
sue idee partecipative25.
D’altro lato, opere come la Casa del Viticultore di
Ignazio Gardella (1945-46) e il Rifugio Pirovano a Cervinia di Albini (1949-51) testimoniano – come poco piú
tardi il quartiere di Cesate – la penetrazione anche a
Milano delle ideologie populiste: anche se, specie nel
rifugio albiniano, queste vengono accolte come valore
aggiunto di un aristocratico distacco dal materiale formale. Vero è, piuttosto, che il volume di Diotallevi e
Marescotti, il quartiere qt8 a Milano, alcune delle opere
degli anni quaranta dei Bpr, come le case in via Alcuino (1945), le testimonianze di fedeltà alla sintassi elementarista di Figini e Pollini (casa in via Broletto del
1947-48), di Ghidini e Mozzoni (la terragnesca villa a
Gallarate del 1948), di Piero Bottoni (edificio polifunzionale in corso Buenos Aires, 1947-49), o il raffinato
ascetismo di Asnago e Vender, autori, fra l’altro, dell’edificio per uffici e abitazioni in piazza Velasca (1950),
esprimono nel loro insieme una proposta radicalmente
alternativa all’organizzazione della produzione edilizia
dell’età della ricostruzione. Né è un caso che tale linea
– perdente – si profili in un centro industrialmente
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sviluppato, laddove da Roma si afferma l’ipotesi – vincente – di una gestione dell’edilizia come sacca di contenimento della disoccupazione e settore subordinato al
mercato finanziario e speculativo.
Dal punto di vista linguistico, la «continuità» lombarda e il populismo romano sembrano concordare almeno su un punto: sulla messa fra parentesi del problema.
Una comune linea riduzionista viene abbracciata. Si
parla – anche in opere indubbiamente elaborate come la
Casa al Parco di Gardella (1947) – con sintassi «povere», come a voler riflettere le condizioni del frangente
storico impedendosi di oltrepassarle.
Eppure, afone, nei confronti delle ricerche neorealiste, appaiono le testimonianze di continuità con l’esperanto moderno. Ed è significativo che su quest’ultimo
si innesti la pratica sociale che muove l’opera di Marescotti o di Bottoni: la forma che riveste le ricerche che
puntano a una produzione di massa e a una riforma pianificata dell’abitazione è affatto dimessa. D’altronde,
non è certo con problemi formali che si confronta Bottoni nel progettare, per l’VIII Triennale di Milano, il
quartiere sperimentale qt8. Iniziativa indubbiamente
innovatrice, quella di Bottoni, che unifica una proposta
di rivitalizzazione della Triennale con una chiamata a
raccolta delle forze vive della cultura architettonica italiana intorno al tema della residenza popolare. Il qt8, il
cui piano urbanistico diviene parte integrante del progetto di piano regolatore di Milano e dei piani di ricostruzione, è concepito come mostra permanente di
nuove tipologie, di programmi costruttivi e igienici sperimentali, di una tecnologia basata sulla prefabbricazione e l’industrializzazione: norme speciali vengono elaborate da Luigi Mattioni in collaborazione con l’ufficio
tecnico della Triennale – di cui Bottoni è commissario
– mentre i diversificati tipi edilizi si attengono a un
asciutto elementarismo26.
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Eppure, nel clima politico-economico definito dalla
strategia di Luigi Einaudi, imprese come il qt8 o impostazioni del tema sociale dell’alloggio come quella di
Marescotti assumono tratti utopistici. La stabilizzazione
monetaria einaudiana aveva allontanato il pericolo dell’inflazione e ridotto progressivamente il deficit dello
Stato: ma a spese di un’aumentata divaricazione della
forbice fra regioni settentrionali e regioni meridionali,
senza risolvere il problema del passivo dei conti con
l’estero, e soprattutto con un pauroso aggravio della
disoccupazione, che da 1 654 872 unità del 1946 tocca
un massimo di 2 142 474 unità nel ’48. L’edilizia è chiamata a «risolvere» il problema coscientemente creato
dalla politica neoliberista: il piano Fanfani diviene legge
nel febbraio 1949, originando la Gestione Ina-Casa, con
il titolo Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori. Chiare sono le finalità del piano: arginare l’aumento del tasso
di disoccupazione, usare l’edilizia in funzione subordinata ai settori trainanti, tenendola ferma a un livello
preindustriale e in funzione dello sviluppo delle piccole
imprese, mantenere inalterato piú a lungo possibile un
settore della classe operaia fluttuante, ricattabile e non
massificabile, fare dell’intervento pubblico un sostegno
per l’intervento privato.
Non certo le proposte di innovazione produttiva
implicite nella manualistica di Marescotti o nel qt8 possono essere funzionali a tali obiettivi. Piuttosto, l’esaltazione di una tecnologia povera e legata alle tradizioni
regionali, cosí come si configura nelle tavole del Manuale dell’architetto e nelle aspirazioni del neorealismo, entra
in singolare consonanza con essi: la celebrazione dell’artigianato, del localismo, della manualità, cosí come
l’insistenza sull’organicità degli insediamenti, distanti –
idealmente e spazialmente – dalla «città del compromesso» formano gli ingredienti privilegiati della poeti-
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ca neorealista e delle esperienze del primo settennio
Ina-Casa27.
La politica urbanistica dell’Ina-Casa appare subito ai
piú avvertiti antitetica a una «sana» pianificazione urbana. Dislocati in aree lontane dai centri urbanizzati per
usufruire di terreni a basso costo, i quartieri Ina-Casa
sfuggono a inquadramenti di piano o condizionano questi ultimi, stimolando la speculazione fondiaria e edilizia che progressivamente li raggiunge ed accerchia,
approfittando delle infrastrutture create dall’operatore
pubblico. Non a caso, programma e gestione dell’ente
sono condizionati dal paternalismo di Arnaldo Foschini: per suo tramite, si cala nella nuova realtà un ulteriore
motivo di continuità con i risvolti populisti agiti nel ventennio fascista. Si pone quindi un «problema di coscienza» agli architetti italiani riuniti nell’Apao: esso sarà
risolto scegliendo la via della Realpolitik, ma con contraccolpi non indifferenti sulla compattezza di quel gruppo di pressione.
«Manifesto» del neorealismo architettonico e insieme dell’ideologia dell’Ina-Casa primo settennio è il quartiere Tiburtino a Roma, che vede riuniti, fra il ’49 e il
’54, i due nuovi «maestri», Quaroni e Ridolfi, insieme
a giovani e giovanissimi collaboratori, come Carlo
Aymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Federico
Gorio, Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, Carlo
Melograni, Giancarlo Menichetti, Rinaldi, Michele
Valori: la «scuola romana» ha qui un ulteriore momento fondativo28. Esiliato dalla città, il Tiburtino volge
sdegnosamente le spalle a quest’ultima. I suoi modelli
sono i luoghi della «purezza» popolare e contadina; di
essi, il nuovo quartiere intende riprodurre la vitalità, la
«spontaneità», l’umanità. Non piú le rigorose griglie o
il terrorismo geometrico della Neue Sachlichkeit: l’intento è esaltare l’artigianalità che costituisce il modo
obbligato di produzione del complesso, salutandola come
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antidoto antialienante. Ne esce una planimetria vagamente informale, solo marginalmente controllata tipologicamente, e un’architettura ricca di motivi strapaesani, dai balconi in ferro battuto, alle coperture a tetto
tradizionale, al taglio delle finestre, alle sequenze delle
scale esterne e dei ballatoi. Ma è proprio qui che, involontariamente, la polemica antiavanguardista del neorealismo si morde la coda. Il lessico popolare, elevato a
norma linguistica, è assunto, specie nei blocchi controllati personalmente da Ridolfi, come puro «materiale».
La comunicazione, ricercata con tanta accoratezza,
avviene grazie alla deformazione di quel materiale linguistico, grazie alla sua distorsione: il procedimento è
esattamente quello preconizzato dal formalismo e dalle
avanguardie tecnologiche. Il che contiene un ulteriore
risvolto. L’ansia conoscitiva nel neorealismo si rivela
infatti, sulla base di tali considerazioni, per quello che
è: ansia di un gruppo intellettuale di conoscere se stesso, nei casi peggiori attraverso l’immersione nei tepori
dell’eterna pace contadina, in quelli migliori come
espressione di rancore e di traboccante volontà di
comunicazione.
Nonostante tutto, rimane nel Tiburtino uno schiaffo
alla rispettabilità piccolo-borghese. Né città, né periferia,
il quartiere, a rigore, non è neanche un «paese», bensí è
un’affermazione, insieme, di rabbia e di speranza, anche
se le mitologie che lo sostengono rendono la rabbia impotente e la speranza ambigua. Uno «stato d’animo»
tradotto in mattoni, laterizi e intonaci di scarsa qualità:
come ogni stato d’animo, esso doveva essere «superato».
Era necessario lasciar là il Tiburtino, fra la montagna
sabina, le sconnesse zone industriali, la ferrovia e il quartiere di San Lorenzo, come testimonianza di un incontro unilaterale fra intellettuali e lotte popolari.
Poiché è chiaro che tutta la carica eversiva che promana dall’antiformalismo del Tiburtino, da questo
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monumento all’incerta linea di confine che separa la
delusione dell’engagement, contiene, paradossalmente,
un «grande sì» detto alle forze che dell’isolamento dell’edilizia popolare fanno incentivo per la speculazione,
dell’arretratezza tecnologica uno strumento di sviluppo
per i settori avanzati, dell’eloquenza un motivo di stabilizzazione. Era necessario lasciar solo il Tiburtino. Si
procedette invece in direzione contraria, riducendo a
formula quell’irripetibile episodio, che con troppa generosità offriva materiali di facile uso e consumo.
Eppure, sia Ridolfi che Quaroni intuiscono che l’esperienza lí fatta è irripetibile: le loro diverse declinazioni dell’ideologia populista battono ben presto nuove
strade.
Praticamente a ridosso dell’esperienza del Tiburtino,
infatti, Ridolfi offre, calata nel vivo della periferia romana, una delle piú alte testimonianze dell’inquietudine
intellettuale dei primi anni cinquanta, dimostrando la
fecondità della propria disponibilità linguistica. Il nucleo
di case alte in viale Etiopia a Roma, realizzato da Ridolfi per l’Ina (1950-1954), accetta la densità edilizia di
quello che non a caso è stato chiamato il «quartiere africano»: anzi, la continuità della struttura cementizia esibita, la perentorietà volumetrica delle torri ad angoli
smussati, la violenza chiaroscurale si traducono in epica
popolare, ostentano la propria drammaticità come commento dolorosamente partecipe di una condizione
umana non riscattabile con «certezze» architettoniche.
Per questo le orgogliose torri di Ridolfi adottano soluzioni irripetibili. L’uso del colore, del ferro lavorato,
della maiolica smaltata non introduce notazioni ironiche,
bensí una «piccola scala» – quella alla quale ha ancora
possibilità di esprimersi il fare artigiano – che sottolinea,
per scarti, la grande scala del complesso29. Assolutamente nuova, per lo stesso Ridolfi, tale composizione
«per scarti». Indubbiamente, l’autore si trova, nel con-
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testo di viale Etiopia, in una situazione che lo spinge a
mettere fra parentesi ogni afflato sentimentale e ogni
nostalgia; la sapienza con cui egli tratta la doppia scala
in cui sceglie di giocare il suo intervento – la sensibilizzazione delle intelaiature cementizie e delle coperture
rispondono, con tonalità grave, alle «sfacciate» variazioni delle soluzioni di dettaglio – segnano, per Ridolfi, il passaggio dal neorealismo al realismo.
Un realismo che, malgrado quanto è stato scritto in
contrario30, non sembra colto da Mario Fiorentino nelle
attigue torri residenziali realizzate fra il 1955 e il 1962
sullo stesso viale Etiopia al ciglio della ferrovia: graziosamente agnostiche, le torri di Fiorentino riducono le
tensioni ridolfiane, per proporsi come «civili» divagazioni in una violenta periferia. D’altra parte, il rischio
cui la ricerca ridolfiana si espone è proprio questo: i suoi
strumenti espressivi divengono facilmente commestibili: da Roma città aperta è sin troppo facile passare a Pane
amore e fantasia. Ma la ricerca di Ridolfi procede per diagonali: nello stesso 1950, insieme a Wolfgang Frankl,
suo collaboratore fisso, Ridolfi realizza un quartiere Ina
a Cerignola, frutto di un attento studio del comportamento umano dei futuri abitanti e, ancor piú, di una
severa declinazione della tipologia e del gioco con la
materia31. Il fare sofferto è ancora quello delle torri di
viale Etiopia; ma a Cerignola la densità delle allusioni
rapprese nella tessitura dei materiali e nell’asciuttezza
dei volumi non permette «copie». Anche l’isolamento
cui si condanna l’alto artigianato è atto – involontario
– di realismo: la poesia concessa e stimolata dal ritardo
tecnologico è sublimazione di una transeunte contingenza, e il canto che ne scaturisce sa di vivere una stagione colpevolmente felice. Che poi tale «colpa» fosse
vissuta in qualche modo da Ridolfi lo dimostra un’ulteriore opera del 1950-51, la palazzina romana in via G.
B. De Rossi. Un ritorno all’edilizia per il ceto medio,
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dunque: ma ora non è piú possibile al lirico dell’«altra
Roma» affrontare il tema con il medesimo distacco utilizzato nell’anteguerra nella vicina palazzina in via di
Villa Massimo o ai Parioli. Non v’è piú tipologia da proporre per quel ceto, nessun «modo di vita». Ne esce un
espressionistico cozzare di forme, un irrequieto e dodecafonico elenco di distorsioni geometriche, culminanti
nella tormentata trave cementizia a profilo spezzato che
fa da basamento. Lo «schiaffo al gusto del pubblico»
viene reiterato, in quest’opera ridolfiana. Alla scontrosa dignità del quartiere di Cerignola si sostituisce a via
De Rossi una sorta di «ritratto» della committenza:
disgregata, inutilmente ansiosa, volgare in definitiva,
essa appare, nella lettura di Ridolfi, singolarmente vicina a quella che in diverse occasioni vorrà darne Visconti. E un ulteriore confronto si impone. La palazzina di
via De Rossi e le torri di viale Etiopia: due lingue per
due realtà compresenti, l’eccezione e la regola, anche se
la prima non scalfisce la realtà da cui si divincola, e la
seconda è obbligata a un semplice «commentare».
È questo il dramma cui la poetica ridolfiana va inesorabilmente incontro: il gioco delle manipolazioni della
materia diviene sempre piú tormentoso, come nelle palazzine in viale Marco Polo (1952) e in via Vetulonia
(1952-53) a Roma, colloquia con la struttura urbana di
Terni – città cui il Nostro dedica una meticolosa e continua opera di «cura urbanistica»32 – come nella magistrale Scuola media in via Fratti, si staglia polemicamente al
di sopra di edifici eclettici, come nelle sopraelevazioni di
via Paisiello (1948-49) e di via Mercadante (1954-55) a
Roma, sottostà a un rigoroso imperativo geometrico nelle
nuove carceri di Nuoro, progettate nel 1953-5533. Ma alle
soglie del «miracolo economico», la scomparsa progressiva delle condizioni che avevano sostenuto il sorgere di
quella poetica riducono quello che era stato un incontro
fra l’urgere di un soggettivo bisogno di comunicare e le
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necessità imposte dalla situazione storica a una coerenza
che sopravvive a se stessa parlando con inopportuna
nostalgia di un «cattivo» mondo scomparso.
Nel frattempo, la complessità della ricerca ridolfiana
contribuisce ad alimentare polemiche disgreganti in seno
all’Apao. L’attenzione della critica si rivolge quasi esclusivamente alle piú scoperte motivazioni populiste del
neorealismo: ma non è certo questo un esito accettabile per chi, come Zevi, aveva proposto la formula «organica» come strumento di arricchimento e non di eversione della tradizione «moderna». Nel 1950, la Storia
dell’architettura moderna di Zevi precisa e sistema definitivamente i concetti anticipati in Verso un’architettura organica e in Saper vedere l’architettura. In un suggestivo racconto, le cui articolazioni molto debbono ad
esclusioni obbligate da una ricerca storiografica ancora
embrionale e ad azzardati giudizi ben presto smentiti dai
fatti, Zevi tenta di riportare il dibattito sui «destini»
dell’architettura in ambiti non viziati da folclorismi o da
cadute populiste. Non a caso, in quel volume egli non
riconosce nel neorealismo un’incarnazione, sia pure parziale, della poetica «organica», limitandosi ad indicare,
come esempi di una tendenza nascente, il progetto di
Samonà per l’Ospedale traumatologico di Roma, il ristorante a Sabaudia di Claudio Dall’Olio, la palazzina da
lui stesso progettata insieme a S. Radiconcini in via
Pisanelli a Roma. Né Scarpa – non ancora «scoperto» –
né Carlo Mollino vengono considerati in quel volume.
Eppure, proprio Mollino, con la Stazione per slittovia
con albergo al Lago Nero in Val di Susa (1946 sgg.) e
con i suoi oggetti di design, procedeva verso un’integrazione di membrature ridotte a scheletri animati in
organismi aerodinamici, che fornivano, come già la sua
sede della Società ippica a Torino (1935-39), una versione originale e ironica dell’organicismo34. In effetti,
una vera tendenza organica non prende piede in Italia,
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malgrado l’appassionata predicazione zeviana. Opere
come il Villaggio del fanciullo a Trieste-Opicina (1949)
di Marcello D’Olivo – una delle piú notevoli di quegli
anni –, o la villa a Mondello di Samonà (195o) rimangono isolate insieme alle geniali riletture wrightiane di
Scarpa e a pochi exploits di maniera. Il dibattito
sull’architettura organica rimane a livello letterario. Nel
’51, Giulio Carlo Argan risponde implicitamente al disegno contenuto nella Storia zeviana con un volume pubblicato anch’esso da Einaudi, dedicato a Walter Gropius
e la Baubaus. Non si tratta di una contrapposizione di
linee normative. Il Gropius ricostruito da Argan è erede
dell’etica protestante cosí come viene interpretata da
Weber e da Troeltsch, è portatore di un mito europeo
della ragione «che reca in sé i germi del dubbio e del
disinganno», è protagonista di un salvataggio in extremis «di un’idea di civiltà dall’inevitabile collasso della
classe dirigente». La «razionalità» di Gropius, come
quella di Le Corbusier o di Mies – preciserà piú tardi
Argan35 – nasce «da un’ultima illusione d’immunità portata nel vivo della mischia», dato che il concetto moderno di libertà non è piú identificabile con una «sconfinata
effusione nell’immenso dominio della natura»: la fedeltà
a quella lezione, già data come perdente sul piano ideologico, è considerata un’imprescindibile necessità.
Difficile lettura, quella di Argan, per la cultura italiana dei primi anni cinquanta. Considerate con un
rispetto proporzionale all’incomprensione, le pagine di
Argan formano un’élite di giovani storici, ma, come
quelle di Zevi, non modificano sostanzialmente la vicenda architettonica. La crisi dell’Apao e del Msa pone il
problema, per conto suo, di nuovi modi di organizzazione della cultura architettonica, che ha ancora da
abbattere residui accademici particolarmente forti nelle
sedi universitarie. A Venezia, Giuseppe Samonà raccoglie alcuni dei protagonisti piú vivi del dibattito italia-
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no: Zevi, Albini, Gardella, Belgiojoso, Giancarlo De
Carlo, Scarpa, Luigi Piccinato, Giovanni Astengo contribuiscono a fare della scuola da lui diretta una roccaforte avanzata; ma Venezia è subito isolata dal mondo
accademico, e «l’isola felice» è costretta a crescere su se
stessa. L’Inu procede invece agitando il vessillo della
pianificazione, cercando un colloquio con le forze politiche che avrà alterne fortune.
Ed è appunto vivendo da protagonista la battaglia
dell’Inu che Quaroni prosegue, dopo il Tiburtino, il
proprio tragitto. Anche per lui, quell’esperienza è superata mentre si compie: senza poetiche, senza «lingue»,
Quaroni si obbliga a un bagno nella realtà italiana, alla
ricerca di strumenti in grado di «potere». Prima un
breve periodo all’interno del Gruppo tecnici socialisti,
poi l’impegno meridionalista, l’incontro con il movimento Comunità di Adriano Olivetti, le ricerche per
l’inchiesta parlamentare sulla miseria36: Quaroni non
mette in questione solo gli strumenti della progettazione urbana, ma anche le tecniche di analisi. Con un interrogativo di fondo, relativo alle strutture destinate a coagulare e rendere realmente sociale la domanda proveniente dalla base.
Non casuale, al proposito, l’incontro di Quaroni con
Olivetti. Il movimento di Comunità, infatti, tramite la
sua azione capillare, l’organizzazione che tende ad offrire agli intellettuali in nome dell’unità della cultura, i suoi
strumenti editoriali, appare come una «repubblica degli
intellettuali» in presa diretta con il sociale, priva delle
remore nei confronti delle nuove scienze umane che
provengono dai partiti di sinistra. L’anima terzaforzista
di molta intelligencija italiana trova cosí in Comunità un
terreno obbligato. Il quale si concreta privilegiando,
appunto, l’urbanistica, con riferimenti – propagandati
sia dalla rivista «Comunità» che dalle edizioni del movimento – alla sociologia urbana e ai modelli di interven-
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to anglosassoni. I motivi populisti serpeggianti nell’età
della ricostruzione si incontrano in tal modo con i
modelli decentralisti e con un pensiero teso a recuperare qualità comunitarie in insediamenti concepiti in alternativa alla «Dinosaur City»: i testi di Lewis Mumford,
le Greenbelt Cities di età rooseveltiana, l’esperienza
della città-giardino possono cosí essere filtrati attraverso l’ideologia olivettiana divenendo materia di riflessione per nuovi esperimenti37. L’urbanistica diviene cosí
linguaggio che pretende di ridurre a sintesi le molte lingue che governano la città: in essa, quella inquietante
pluralità di tecniche trova una patria e una dimora.
Per Adriano Olivetti si tratta di un’azione in continuità con quella intrapresa nell’anteguerra e che aveva
portato ai progetti teorici di pianificazione della Valle
d’Aosta: alle sue idee presiede una concezione dell’impresa come luogo da cui si irradii una razionalizzazione
neoumanistica dell’ambiente fisico. È quindi conseguente il percorso che porta Olivetti alla presidenza dell’Inu e alla vicepresidenza dell’Unrra-Casas, come è conseguente quello che conduce lo stesso Olivetti, Quaroni e una serie di architetti romani ad agire nel cuore del
sottosviluppo meridionale.
Proprio come vicepresidente dell’Unrra-Casas, Olivetti, sfruttando nuovi finanziamenti da parte del fondo
Erp (European Recovery Program) centra l’attenzione
sul Mezzogiorno, nella prospettiva di un programma di
decentramento industriale in regioni come la Campania,
la Basilicata, le Puglie. Non si tratta, per lui, solo di
chiudere la forbice del dualismo economico nazionale.
Partire dal sottosviluppo significa anche intervenire in
zone non compromesse, al fine di raggiungere equilibri
territoriali piú difficilmente ottenibili nelle regioni sviluppate. I modelli newdealisti, e quello della Tennessee
Valley Authority in particolare, sembrano agire esplicitamente in tale concezione38.
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L’attenzione si accentra sul «caso» dei Sassi di Matera, l’agglomerato che aveva commosso la cultura italiana
dopo la lettura delle pagine del Cristo si è fermato a Eboli
di Carlo Levi, e che era stato definito sia da Togliatti che
da De Gasperi «vergogna d’Italia». Matera è cosí assunta – anche a causa delle lotte popolari che vi scoppiano
nel 1945 – a capitale-simbolo dell’universo contadino, e
viene sottoposta ad analisi da sociologhi americani e italiani, da giornalisti, da economisti, da architetti39: nel
1950, una relazione di Mazzocchi Alemanni e Calia per
il Consorzio di bonifica della media valle del Bradano
propone una ristrutturazione agricola del territorio legata alla creazione di borghi rurali e allo sfollamento dei
Sassi. È a questo punto che interviene Olivetti. Su sua
iniziativa, viene costituita, nel 1951, la Commissione di
studio della città e dell’Agro di Matera, a cura dell’Inu
e dell’Unrra-Casas, per la quale lavorano Quaroni, Federico Gorio, Tullio Tentori e Rocco Mazzarone con un
impegno pressoché volontaristico e fra difficoltà d’ogni
genere. La legge n. 619 del 1952 per il risanamento dei
Sassi, infatti, usa in modo distorto le indagini della Commissione, prevedendo l’inabitabilità di 2472 case sulle
3374 censite e la creazione di borgate rurali per il trasferimento delle famiglie evacuate. In realtà, in presenza di
quella che è stata definita la «controriforma fondiaria»40,
il caso di Matera esemplifica il ruolo assegnato al sottosviluppo dal grande capitale industriale: il sottosviluppo
stesso, infatti, va gestito come serbatoio di manodopera
di riserva per le aree industrializzate, e per questo è
necessario confermare la vocazione contadina del Sud,
gonfiare artificialmente il settore terziario, attuare una
politica di opere pubbliche nel Mezzogiorno che ne stimoli il ruolo di consumatore41.
In tale ottica vanno inquadrati sia il villaggio Unrra
«La Martella» che i quartieri Serra Venerdì, Lanera e
Spine Bianche. La Martella viene progettata da Quaro-
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ni, con Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori e Agati
come nucleo modello di intervento territoriale e di
gestione: alcuni dei progettisti del Tiburtino si trovano
di nuovo insieme a «scoprire» la realtà meridionale42. Ne
esce un insediamento aderente alla situazione geografica e a suo modo plasmato come omaggio commosso a
quella realtà: l’«unità di vicinato», rilevata nei Sassi,
viene reinterpretata in un linguaggio a metà fra il populista e l’astratto, nelle case dislocate secondo le curve di
livello e che hanno nella chiesa di Quaroni, dominata da
una torre sull’altare, il loro punto fisso di riferimento.
Ma i conflitti fra l’Ente riforma e i criteri dei tecnici dell’Unrra rendono inefficienti i servizi e fanno fallire gli
obiettivi primi del villaggio: l’estremismo conservatore
del blocco agrario ha ragione sui progetti di riforma
economica, sociale e fondiaria.
Per Quaroni si tratta di un duplice fallimento: l’impegno meridionalista trova come ostacoli interessi consolidati e il conflitto fra i poteri si risolve negativamente a causa dell’ambiguità interna, anche, delle illusioni
«terzaforziste». I Sassi, nel frattempo, contribuiscono
ad alimentare indirettamente l’ideologia comunitaria e
decentralista: i nuovi quartieri materani di Serra
Venerdì, di Spine Bianche, di Borgo Venusio, che realizzano le linee portanti del piano regolatore redatto nel
1952-56 da Luigi Piccinato43, sorgono come «paesi nel
paese», mentre incerto rimane il rapporto residenzalavoro nello sviluppo urbano.
Il caso di Matera, su cui tanto si affanna la cultura
italiana, non è certo il piú grave del sottosviluppo nazionale: esso è però il piú «letterario», e ciò giustifica la
concentrazione degli interessi. In realtà, per città meridionali come Napoli, Bari o Palermo, opere pubbliche
ed edilizia fungono da mezzi di contenimento della
disoccupazione e come strumento di primo addestramento al lavoro per ceti agricoli da indirizzare verso
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l’immigrazione nelle regioni sviluppate, a formare un
esercito di riserva atto a contenere i livelli salariali.
Di fronte a tale piano sotteso, la cultura architettonica e urbanistica non ha armi adeguate, né il riferimento – peraltro generico e sospettoso – ai partiti di
sinistra riesce a fornirne. Là dove gli architetti tentano
di calare la propria tecnica nella trasformazione delle
strutture si registrano scacchi cocenti: le città e i terreni periferici sono sedi delle piú sfrenate speculazioni,
come conseguenza collaterale della politica neoliberista
imposta dai centri di potere.
Il che spiega come mai l’edilizia che dà forma alla
nuova Roma degli anni cinquanta non abbia nulla a che
fare con lo sperimentalismo di Quaroni né con l’accorato
lirismo ridolfiano. Per l’alta e la media borghesia è lí
pronta la tipologia della «palazzina», consacrata dal
piano regolatore del 1931 e perfettamente adeguata a
vellicare le ambizioni condominiali di una classe sostanzialmente statica44; alle classi popolari sono riservati gli
intensivi che si ammassano alla periferia; al sottoproletariato le «borgate» e i vani abusivi, che ancora negli
anni settanta ammontano a cinquecentomila, ospitando
un quinto della popolazione romana. Ugo Luccichenti,
Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti si incaricano
di rendere la «palazzina» oggetto di piacevole consumo:
cordialmente, questa tipologia di compromesso si installa nelle fasce contigue al centro storico, a designare, con
i suoi balconcini neoorganici o «alla Rietveld», le sue
volumetrie obbligate ma che non rinunciano a esibizionismi, i suoi materiali ben curati, lo status symbol che
ad essa viene richiesto45. Né mancano interpretazioni
«monumentali» della palazzina: Luigi Moretti, nella sua
Casa del Girasole a viale Bruno Buozzi (195o), attribuirà
a quel tipo edilizio le cadenze solenni del tempio, squarciato da una rampa ascendente. Si viene cosí a creare
una situazione paradossale. Il professionismo di Mona-
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co e Luccichenti o le rarefazioni formali di Luigi Moretti
battono la via del «disimpegno» declinando alfabeti che
hanno comunque le loro radici nella tradizione dell’avanguardia; l’engagement, per suo conto, sembra seguire vie regressive. Il che ha persino una sua coerenza: la
lingua del «Neues Bauen» mostrava la propria disponibilità, ma anche la propria aulicità. Chi voleva esser «comprensibile» pensava bene di doversene allontanare, ripiegando sulla deverbalizzazione architettonica.
Certo, era facile accusare di formalismo Moretti da
parte della cultura «impegnata». Eppure, le sue casealbergo a via Corridoni (1948-50) 0 il complesso per abitazioni e uffici in corso Italia a Milano (1952-56), assai
piú della Casa Astrea a Roma (1949), sono qualificate
da una scrittura sicura, non immune da tonalità irrealiste per eccesso di astrazione. La sapienza del comporre,
rivendicata da Moretti, investe organismi che traducono in lingua astratta forme classiche: il purismo eloquente dei suoi edifici milanesi è fedele, in sostanza, alle
ricerche più «metafisiche» degli anni trenta, quelle di
Terragni comprese. Ma nel clima degli anni cinquanta
tale ricerca è destinata a rimanere isolata o ad essere
respinta. Il lirismo di Moretti raggiunge ancora alti livelli nella Villa Pignatelli a Santa Marinella (1952-54), perseguendo uno spazio – come scrive il suo autore – estraneo alle «avventure grandi e piccole» della vita quotidiana: volumi incurvati e ciechi, intonaci mediterranei,
allusioni arabizzanti proteggono una «casa gelosa, saracena, degli affetti e dei pensieri». Ben presto, tuttavia, le
astrazioni morettiane pencoleranno verso grafie fini a se
stesse, come nella Casa San Maurizio a Roma (1962), o
nel nuovo complesso termale di Fiuggi (1965)46.
Ma intanto, la Palazzina del Girasole, gli edifici milanesi e i pochi numeri della rivista «Spazio» diretta da
Moretti fra il ’5o e il ’53, si appropriano, «da destra»,
dell’eredità linguistica dell’avanguardia; magari per ten-
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tare di dimostrarne la non estraneità a una cultura che
paga i propri debiti all’accademia. Se nelle «aure»
morettiane è comunque leggibile una sintassi inequivocabile, insieme a un legame diretto con le velleità della
sua committenza, nelle opere degli architetti impegnati
sul fronte del rinnovamento e non attestati né sulla linea
«organica» né su quella neorealista, è facile scorgere
una cautela che si nasconde dietro timide eleganze. L’edificio per abitazioni e uffici di Samonà a Treviso
(1949-53) o l’Ospedale Inail a Bari dello stesso autore
(1948-53) si affidano a formule sicure, mentre Gardella, con le sue case per impiegati ad Alessandria (1952),
la Galleria d’Arte Moderna a Milano (1951-54), le
Terme Regina Isabella a Ischia (1950-53), intesse tenui
colloqui fra vibrazioni dei volumi e tessiture di materiali47. La tacita parola d’ordine è sempre quella del superamento dialettico del «razionalismo»: senza clamore,
ma pervicacemente, la nuova qualità è cercata in variazioni basate sull’esaltazione della materia, sulla cordialità e l’indeterminazione delle forme, su un’empiria
assunta come metafora di una condizione artigianale
che costringe a produrre opere uniche dissimulate sotto
una patina di modestia.
Eppure, è proprio tale condizione costrittiva a permettere ad Albini di pervenire a uno dei risultati piú
notevoli di tale fase di ricerca, l’edificio per l’Istituto
nazionale delle assicurazioni a Parma (1950). Ricucendo
la smagliatura di un tessuto urbano ampiamente definito, Albini ricorre a una calibrata misura: l’intelaiatura
cementizia ridotta a esile trama, a puro suggerimento ritmico, entra in colloquio con una distillata modulazione
di pannellature e di vuoti48. Un design en plein air, dunque, una correttezza formale fatta di precisione tecnologica e di gusto irrealista – pensiamo anche alla scala
interna dell’edificio parmense – che verranno lette, e
non solo da Rogers, come interpretazioni critiche delle
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preesistenze ambientali: l’opera di Albini può cosí essere accostata alla casa di via Borgonuovo dei Bpr a Milano, all’edificio di Samonà a Treviso, alla Borsa Merci a
Pistoia di Giovanni Michelucci (1947-50).
Il colloquio con «l’ambiente»: questo il tema che
emerge da tale complesso di opere e che sembra costituire l’originalità dell’esperienza italiana in quegli anni.
Il rivolgersi all’ambiente, peraltro, non è che la seconda faccia del rivolgersi alla natura: si cerca «protezione»,
ci si mette a riposo, ci si infila fra tiepide coltri. E anche
a questo proposito si pencola fra due estremi: un’eccezionale spregiudicatezza nei confronti del lascito delle
avanguardie; un’altrettanto eccezionale cautela nella
definizione dei limiti concessi al dialogo con la storia. In
verità, «l’ambiente» non era considerato come struttura storica in senso proprio; prevale l’atteggiamento
impressionistico, il «saggio» in definitiva strumentale a
una sospensione di giudizio.
È proprio Michelucci, a Firenze, a dar corpo a un’architettura che aspira costantemente a negarsi, per risolversi nella vita vissuta49. Dopo le inospitali cifre metafisiche del Palazzo del Governo ad Arezzo (1939) e di
Villa Contini-Bonacossi a Forte dei Marmi (1941), con
cui Michelucci sembra sconfessare i risultati raggiunti
nella stazione di Santa Maria Novella, già gli schizzi per
la ricostruzione della zona Ponte Vecchio a Firenze
(1945) parlano di una forma urbana plasmata da flussi
intrecciati di esistenze50. Una forma «che nasce con l’urgenza e l’evidenza di un fatto vitale»: questo è l’obiettivo cui Michelucci tende con i delicati equilibri e l’ostentata chiarezza della Borsa Merci di Pistoia, oggetto
che si affida all’elementarietà dello spazio unico interno e all’evidenza della struttura per pervenire a una fissità albertiana posta in relazione diretta con le tipologie
del Rinascimento toscano. Nella chiesa di Collina a Pontelungo (progetto 1947-50, terminata nel ’53) l’archi-
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tettura tende a immergersi nel paesaggio, a commentarne la desolazione, a segnare in essa una presenza umana
unicamente con variazioni sul tema del «casolare». Si
tratta di una declinazione personale del neorealismo,
materico come quello ridolfiano, ma privo degli accenti espressionistici in quello presenti. La ricerca michelucciana, fatta di adesioni spesso irriflesse a sensazioni
contraddittorie, è fra le piú insofferenti, nel clima italiano del dopoguerra, alla fissazione di cifre o frasari:
malgrado tutto, essa aspira a un’improbabile fusione di
lingua ed esistenza. Ciò porta Michelucci a un’assimilazione della «non-forma», o comunque all’accettazione
transeunte e provvisoria, quasi suo malgrado, di forme
dettate dal genius loci: ciò spiega, dopo l’omaggio alla
campagna pistoiese compiuto nella chiesa di Collina,
l’enfasi dimensionale dei due grattacieli allacciati progettati per Sanremo (1952), la confidente essenzialità
della chiesa della Vergine a Pistoia (1954-56)51, la nitida strutturalità della Cassa di Risparmio di Firenze
(1953-57)52, il delicato equilibrio raggiunto nell’edificio
per abitazioni e negozi a via Guicciardini a Firenze
(1955-57). Che la forma, per Michelucci, rappresenti
comunque un arresto rispetto al fluire della vita è dimostrato dall’ossessivo gioco di vibrazioni con cui egli investe le superfici della chiesa di Larderello (1956-59); mentre l’insofferenza per i limiti di ogni sintassi si fa esigenza di liberazione fantastica: ne escono l’osteria del
Gambero Rosso a Collodi e la chiesa del Villaggio Belvedere a Pistoia (1959-61), esperimenti di fluidificazione dello spazio e di ramificazione delle strutture. Si
tratta di un preludio ai temi che Michelucci affronterà
negli anni sessanta e settanta, a partire dalla «grande
tenda» della Chiesa dell’Autostrada.
L’«ambiente», cui le poetiche degli anni cinquanta
rendono omaggio è comunque inconscia metafora di
un’aspirazione alla contemplazione della staticità rifrat-
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ta da specchi in movimento. La consolazione che ne
deriva è certo inappagante; eppure, è questo il valore
perseguito. L’intervento in campagne dal volto ben definito, o in centri di cui si accentua – non senza residui
mentali di tipo giovannoniano – l’unitarietà, fa emergere
la corale «socialità» dell’ambiente storico: si persegue
una classica utopia regressiva, quella della «comunità»
contrapposta all’anonimato di una metropoli «in cui si
va come in terra straniera». Siamo tornati alle ideologie
olivettiane, al fantasma di Tönnies, al Mumford più
romantico. Con il medesimo atteggiamento, gli architetti si adoperano a definire i loro strumenti di lavoro
per affrontare il tema del quartiere. Ancora una sociologia di importazione: al mito della città nucleare – nucleare = organico – corrisponde l’ideologia dell’unità di
vicinato di dimensione conforme, raccolta intorno ai
servizi primari, alle scuole innanzitutto. L’unità quartiere si scinde in sottosistemi idillicamente organizzati,
almeno sulla carta: piccole, controllabili «comunità» a
misura di bimbo e per la pedagogia dell’adulto si sommano fra loro, dando corpo a insiemi che sotto la ricerca di valori riaggreganti celano un’adesione a «paci»
interclassiste.
La mitologia dell’unità di vicinato, in realtà, non è,
per gli architetti italiani, che materiale compositivo: piú
che per salvarsi l’anima, la sociologia entra nella definizione del quartiere come strumento di controllo figurativo e come garanzia di un rapporto con il reale. Da un
lato, i limiti imposti dalle scelte a monte divengono i
limiti stessi del comporre: tutto si risolve nel microcosmo della sottounità urbana, considerata in possesso di
un suo linguaggio. Dall’altro, l’articolazione di quel linguaggio è reticente: sistemato in codici, il neorealismo
perde ogni vis polemica per divenire piuttosto strumento di dissimulazione. E si potrebbe anche osservare
che la sintassi della modestia, divenuta generalizzata,
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permette persino a vecchi accademici di rientrare in
campo: ma l’osservazione rimane marginale di fronte
all’esigenza di sistema che trapela dalle realizzazioni del
primo settennio Ina-Casa.
Una mimesis di maniera sostituisce ora l’accoratezza
autobiografica. Si consideri pure la differenza di impostazione fra i vari quartieri come frutto di un omaggio
a un malinteso genius loci: la contrapposizione tipologica, che è l’unico elemento emergente dalla tavolozza disordinata del quartiere a Borgo Panigale a Bologna, vale quella, fondata su un ambientismo tanto esplicito da divenire macchiettistico, del quartiere San Giuliano a Mestre (1951-55), del gruppo Samonà-Piccinato.
Ed è significativa, in quanto sintomatica di un clima, l’adesione di un architetto come Giuseppe Samonà alla lingua dell’accattivante domesticità – non solo a San Giuliano, ma anche nel quartiere Ina a Sciacca (1952-54) –
qualora si consideri che dalla matita dello stesso era
uscito, nel 1945, il progetto di sistemazione del quartiere
del Lavinaio a Napoli, attento alle elaborazioni lecorbusieriane e sicuro nella sua monumentalità senza tempo53. «Essere nel tempo» significa invece pagare uno
scotto, fare professione di astinenza, fingersi disponibili con l’occhio fisso «al di là dell’architettura».
E ciò vale anche per i complessi realizzati a Milano
e a Torino. Nel quartiere di Cesate (1950 sgg.), Albini,
Albricci, i Bpr e Gardella declinano con passiva pulizia
linguistica un dialetto paradossalmente divenuto un
esperanto54, mentre Figini, Pollini e Gio Ponti tentano
il recupero di valenze elementariste nei grandi blocchi
disposti a turbina intorno a uno spazio centrale a verde
nel quartiere di via Dessié a Milano (1951-1952). Singolare, comunque, la disinvoltura con cui la riduzione
del populismo a idioletto si stempera in complessi che
passivamente accettano tipologie fissate a priori. Dietro
lo schermo dell’«impegno» e del moralismo, si cela una
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rinuncia: la contraddittorietà del clima intellettuale che
segue agli eventi del 1948 informa pesantemente la progettazione dell’edilizia pubblica italiana. La quale risente, come si è accennato, anche delle influenze del New
Empiricism scandinavo: attraverso la lezione dei quartieri di Backström e Reinius, principalmente, sembrava
possibile recuperare valenze legate a una ricerca tipologica e morfologica connessa in modo articolato alla cellula-tipo. Ma non era estranea a tale riferimento culturale una ricerca di identità, risolta in una simulazione:
l’immagine del piccolo interno di famiglia contadina
viene appiattita contro quella della rarefatta pace raggiunta dalla «grande famiglia» socialdemocratica, modello provvisorio e sperimentale di una cultura che sconta
nel limbo dell’incertezza le proprie scelte terzaforziste.
Dalle aggregazioni continue sperimentate dal New
Empiricism svedese e dalla cordiale ovvietà degli impaginati di facciata e dei dettagli, su cui quello stesso movimento gioca la propria ricerca di artificiosa naturalità,
prendono le mosse sia il quartiere Unrra-Casas di San
Basilio a Roma, di Mario Fiorentino e S. Boselli
(1949-55), che quello di Falchera a Torino, del gruppo
Astengo-Renacco (1950-51). Per il primo di essi, la critica piú spietata è quella che si risolve nello stato d’animo cui non si sfugge a una visita del complesso nello stato
attuale: ghetto per emarginati, il suo deperimento fisico
parla chiaramente circa le condizioni produttive che ne
hanno condizionato il sorgere, denunciando la dose di
utopia che il «realismo» conteneva in sé. E il risultato
indubbiamente piú positivo di Falchera, basato, come
San Basilio, su una successione di corti aperte di forma
poligonale, non ha certo fra le sue cause ultime la realtà
di una Torino che va divenendo sempre piú una company
town in grado di collocare l’intervento pubblico all’interno delle proprie esigenze complessive55.
Da tale panorama in definitiva mediocre si staccano
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due esperienze, non foss’altro che per il loro carattere
sperimentale: il quartiere di Villa Bernabò Brea a Genova, di Luigi Carlo Daneri (1951-54) e l’unità di abitazione orizzontale al Tuscolano, a Roma, di Adalberto
Libera (1950-1951) ai margini del dignitoso complesso
progettato da Muratori e De Renzi56. Sia Daneri che
Libera prendono le loro distanze dal sottolinguaggio
populista à la page, rivendicando con diversi strumenti
una fedeltà, che poteva persino suonare anacronistica,
rispetto alle ricerche del rigorismo italiano anteguerra.
In particolare, il complesso genovese dimostra che l’inserimento nella natura è tanto piú valido quanto meno
si sforza di essere mimetico, introducendo all’interno di
una morfologia aperta, ma rigorosamente calibrata, elementi di definizione tesi a saldare ipotesi linguistiche a
ipotesi produttive, come la prefabbricazione in cemento
armato, i pilotis che staccano i blocchi dal suolo, la
standardizzazione tipologica, la strada pensile interposta ai piani. Ancora piú polemica appare l’unità di Libera, scontrosamente chiusa nel proprio rigore teorico e
geometrico. A un tessuto continuo, fatto di cellule a un
solo piano connesse in modo da formare una piastra solcata da percorsi pedonali, si contrappone un blocco a
ballatoi: le memorie delle tipologie olandesi degli anni
trenta e degli studi di Pagano per la «città orizzontale»
rivivono quindi nel complesso di Libera, valido come
testimonianza di una possibile alternativa al formulario
corrente, anch’esso rivolto all’indietro.
E rientra perfettamente nel disegno generale del
piano Fanfani – gestito con ammirevole agilità burocratica da un tecnico certo non di avanguardia, come Arnaldo Foschini – che le proposte di Daneri e di Libera vengano accuratamente isolate: esse sono ospiti «tollerate»
all’interno dell’edilizia del primo settennio Ina-Casa. E
pour cause. Anche se fra le righe, entrambe contengono
indicazioni produttive incompatibili con gli obiettivi
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del programma che liberalmente concede loro spazio.
Cosí, l’accerchiamento dei «quartieri» da parte della
città speculativa – fenomeno previsto e calcolato, d’altronde – rende ben presto palese che neanche isole di
utopia realizzata il disegno degli architetti riesce a produrre: il realismo si mostrava per quel che era, il frutto
di un compromesso inutile.
2. Aufklärung I. Adriano Olivetti e la «communitas»
dell’intelletto.
Nel frattempo, le idee olivettiane puntano sulla trasformazione dell’ambiente di lavoro nell’impresa di
Ivrea: concentrandosi su una città, Olivetti vuol dimostrare la concretezza delle sue teorie comunitarie, offrendo nello stesso tempo un’immagine «sociale» della ditta
– in piena espansione fra il ’46 e il ’54 – e tentando di
contrapporre alle incertezze dell’intervento pubblico le
certezze di un intervento «illuminato» di tipo imprenditoriale57.
L’alleanza fra la politica cultural-manageriale di Olivetti e l’immagine che ne viene offerta dagli architetti,
peraltro, regge, negli anni cinquanta, a livello di manufatti, mentre rivela le sue crepe a livello di pianificazione. La razionalità umana della «comunità del lavoro»
deve mostrare la propria olimpica continuità: nell’ingrandimento della fabbrica, realizzato fra il 1947 e il
1949, Figini e Pollini rimangono sostanzialmente fedeli all’impostazione da loro data al nucleo degli ultimi
anni trenta, e ancora nelle nuove officine Ico, che essi
realizzano nel 1955-57, il linguaggio non si distacca da
un monumentale ascetismo. Ma il volto sociale dell’industria abbisogna di mediazioni: la communitas vive
delle proprie articolazioni e si proietta nella vita quotidiana elargendo paterni sorrisi. Se il centro direzionale
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Olivetti a Milano, di Bernasconi, Fiocchi e Nizzoli
(1955) adotta ancora un formulario International Style,
il Centro studi e ricerche a Ivrea di Edoardo Vittoria
(1952-55), ma ancor piú la fascia dei servizi sociali di
Figini e Pollini (1954-57), il ristorante aziendale di Gardella (1955-59), il centro di vacanze a Brusson, realizzato da Carlo Conte e Leonardo Fiori nel ’68, usano con
cordiale disinvoltura geometrie basate sul rombo, sull’esagono, o su spezzate irregolari58. La via «organica»
qualifica gli spazi destinati alla riproduzione della forzalavoro: il sorridente recupero della natura, da parte del
ristorante di Gardella, proteso ad abbracciare un giardino ricco di japonismes, è sintomatica testimonianza del
programma olivettiano, d’altronde liberamente introiettato da parte dei suoi interpreti.
Onnicomprensiva, pertanto, deve presentarsi la
«repubblica dell’intelletto». Ivrea accoglie opere di
architettura come fossero quadri da collezione, mirando a una qualità sempre meno legata a linguaggi precostituiti. Per questo, accanto al Gardella del ristorante
aziendale e dell’ospedale, e a Figini e Pollini nella loro
duplice versione, ecco il Quaroni autore della neutriana
scuola elementare di Canton Vesco (1955) e del
ponte-diga a due livelli sulla Dora (1958), progettato con
Zevi, Adolfo De Carlo e Sergio Musmeci, ricco di implicazioni urbane ed esibito come «macchina» dalle funzioni complesse59; ma ecco anche il Ridolfi dell’asilo-nido
di Canton Vesco (1955-63), materica dissonanza in
cemento e pietra a vista, snodata all’interno del quartiere dominato dai blocchi residenziali di Nizzoli e Fiocchi (1950-53)60. Le inquietudini ridolfiane – qui severamente controllate e ironicamente rivissute: vedi le aeree
gabbie che culminano sulle terrazze – vengono cosí a
commentare la regolare griglia che dà forma al principale
nucleo residenziale della «comunità» olivettiana, mentre il quartiere Castellamonte, su piano del ’38 di Picci-
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nato, modificato e realizzato da Figini e Pollini, si arricchisce, dal ’51 in poi, di ville per dirigenti e alloggi collettivi per impiegati progettati da Nizzoli e Oliveri,
prima secondo canoni «internazionali», poi con matrici
linguistiche che sembrano rifare il verso, senza convinzione, alle compiaciute distorsioni dello Scharoun del
dopoguerra. L’appel aux architectes olivettiano è intriso
di implicazioni pedagogiche: la «buona forma» è lí per
saldare ogni differenza, per dimostrare che una «vita
altra» attende chi vorrà entrare nella koiné permessa da
rapporti di produzione in cui capitale e lavoro adottano
nuove forme di scambio; l’«officina di vetro» vuol essere omaggio alla trasparenza di tale scambio, tende ad
annullare – come, del resto, gli «organici» edifici dei servizi – la realtà delle ineliminabili differenze, la realtà del
lavoro a catena, le leggi, imperscrutabili ad ogni progetto
comunitario, che regolano la strategia nazionale e internazionale dell’impresa. La quale, ancora agli inizi degli
anni cinquanta, tenta di concretizzare la politica meridionalistica di Adriano installando una fabbrica a Pozzuoli, su progetto di Luigi Cosenza (1951 sgg.)61. La
regione del Canavese come alternativa alle concentrazioni metropolitane settentrionali; un impianto nel
Meridione del sottosviluppo, come esempio di possibile politica alternativa a quella imposta dal blocco di
potere. Intervenendo direttamente a Pozzuoli, Olivetti
cerca di provocare un’inversione di tendenza, sperando
di suscitare rotture e ripercussioni a catena nel sistema
economico napoletano. Non a caso, la sua è un’officina
modello, ad alta tecnologia e ad alti salari, i cui risvolti
sociali vengono demandati a un letterato, Ottiero Ottieri, che nel ’55 è incaricato di selezionare i futuri operai
della nuova fabbrica fra i molti aspiranti attirati dall’impresa olivettiana: le lucide pagine di Donnarumma
all’assalto rimangono a testimoniare il dramma e le speranze frustrate di quel proletariato, insieme all’isola-
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mento in cui il tentativo di Olivetti è condannato a
vivere.
Nulla di quel dramma traspare però dalle terse volumetrie di Luigi Cosenza, preoccupato di inserire nel
golfo di Napoli la sua «fabbrica verde», edificio che vuol
apparire «antiindustriale», luogo di integrazione fra spazio del lavoro e spazio sociale. La «grande casa» della
catena di montaggio si articola colloquiando con il paesaggio, con la natura e con laghetti sinuosamente disegnati: la catarsi disalienante si rivela fatto privato dell’architetto e delle sue forme.
La confluenza occasionale fra le ideologie del movimento di Comunità e le fuoriuscite ideologiche di architetti alla ricerca di miti cui consacrare velleità extradisciplinari o il bisogno «di essere presenti» aveva comunque basi troppo fragili per sopravvivere alla breve stagione in cui l’utopia olivettiana sembrava compensare
l’irraggiungibilità delle istituzioni. La collezione architettonica radunata a Ivrea ha, negli anni cinquanta, un
significato simile a quello assunto dall’Istituto universitario di architettura di Venezia diretto da Samonà.
Due «carceri dorate» da cui l’evasione è difficile. Ma
una koiné non si raggiunge semplicemente «rimanendo
vicini».
In un certo senso, l’aspirazione olivettiana che non
riesce a farsi realtà con l’architettura viene soddisfatta
nel settore del design. Come è stato acutamente osservato62, il mito americano – fordismo + riorganizzazione societaria – informa in modo del tutto particolare la
produzione degli oggetti della Olivetti, a partire dalla
macchina da scrivere mp1 del 1932. Nizzoli, principalmente, e Xanti Schawinsky, con un grafico come Pintori e un letterato come Sinisgalli, interpretano in modo
fedele un progetto che punta sul dialogo, attraverso
l’immagine incorporata al prodotto, non con un pubblico e una società reali, bensí con un’ipotesi metastorica
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di pubblico e di società. Il «classicismo del nuovo»
instaurato da Nizzoli con la Lexikon 80 (1948), la Lettera 22 (1950) la Divisumma (1956), la Summa Prima 20
(196o), non costituisce un’immagine credibile del prodotto, bensí fa entrare in circolo un’immagine significante del progetto politico-culturale complessivo che si
innesta sull’operazione di mercato.
Un mercato, peraltro, che va toccato anch’esso con
canali conseguenti al carattere sovrasignificante dei prodotti: i luoghi normali di distribuzione appaiono ad Olivetti, già negli anni trenta, inadeguati; Schawinsky e
Nizzoli vengono incaricati di allestire spazi di esposizione a Torino e a Venezia, in cui ciò che è messo in mostra,
piú che l’oggetto, è il valore aggiunto cui esso allude, il
«progetto» di cui esso è frammento 63. Conseguentemente, i negozi Olivetti, in Italia e all’estero, divengono preziosi scrigni spaziali, la cui qualità è affidata a
un surrealismo architettonico che sospende il prodotto
nel vuoto: che lo isola, principalmente, dal suo contesto
materiale tendendo a cancellarne il carattere di merce.
Compiutamente surreali, infatti, sono i magazzini espositivi Olivetti di New York – il primo ad essere creato
all’estero, sulla prestigiosa Quinta Avenue, su progetto
dei Bpr (1954) –, di Düsseldorf, su progetto di Gardella, di Venezia, su progetto di Scarpa (1957-58), di Parigi, su progetto di Albini e Helg (1958). Agli architetti italiani che piú d’altri avevano contribuito a rinnovare la
museografia viene cosí affidato il compito di caricare gli
oggetti Olivetti di un’«aura» impalpabile64.
Meno felice, come si è accennato, è il rapporto di
Adriano Olivetti con le operazioni urbanistiche da lui
stesso innescate a Ivrea e nel Canavese. Nel 1938,
Adriano aveva patrocinato presso il comune di Ivrea la
redazione di un piano regolatore, affidato a Luigi Piccinato: mai adottato dal consiglio comunale, è sulla scorta delle direttive da esso previste che sorgono i due
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quartieri di Canton Vesco e Castellamonte. Nel 1952,
è ancora Olivetti a sollecitare lo studio di un piano di
dimensioni regionali: questa volta i progettisti sono
Quaroni, Fiocchi, Ranieri e Renacco, cui si affianca una
vasta équipe di sociologhi, economisti, specialisti di problemi agricoli e industriali. Per la cultura italiana sembra arrivato il momento di sperimentare tecniche di
analisi sui piú diversi aspetti della struttura territoriale,
cogliendo l’occasione per mettere a punto strumentazioni interdisciplinari di alto valore scientifico. In
altre parole, si trattava di dar sostanza allo slogan «l’urbanistica per l’unità della cultura»: piú che il risultato
finale – il progetto di piano – interessa agli intellettuali
il processo compiuto per giungere ad esso. D’altra parte,
la complessa organizzazione impiantata per l’analisi del
territorio canavese, e che avrebbe dovuto sfociare in
pubblicazioni modello, dimostra in che modo gli intellettuali meno organicamente legati all’ideologia olivettiana interpretassero, per se stessi, il concetto di «comunità»: sotto l’egida di un impresario illuminato, è la cultura che si ricementa, che compie un notevole sforzo per
superare le barriere delle specializzazioni, che si dispiega come coacervo di tecniche fra loro colloquianti. Il
mito dell’interdisciplinarità si salda, qui, a quello comunitario, rivelando però che l’unica reale comunità organizzabile concretamente – ma in una ulteriore situazione di eccezione – è quella dei clercs65.
Per tali ragioni, il piano di Ivrea rappresenta la
summa delle teorie e dei modelli circolanti nella cultura italiana dell’epoca, coniugati, per dovere d’ufficio,
all’idea olivettiana della «comunità» a misura d’uomo.
Il piano, presentato senza fortuna nel ’54 e rimaneggiato nel ’59, prevede un’espansione per nuclei a dimensione controllata e in simbiosi con centri minori di produzione, la valorizzazione conservativa del centro storico, uno sviluppo frazionato delle zone industriali, la
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creazione di due centri direzionali a raggio urbano e territoriale, uno dei quali al di là della Dora, legati dal
ponte poi progettato, come s’e visto, da Quaroni, Zevi,
De Carlo e Musmeci.
Il processo che ha condotto al piano, tuttavia, e le difficili relazioni fra intellettuali e interessi di impresa
deludono profondamente. Per Quaroni quel processo si
rivela di nuovo insoddisfacente o incompiuto: anche il
mito dell’interdisciplinarità appare in esso consunto. Il
riflesso di tali delusioni si manifesta in modo singolare
alla X Triennale di Milano (1954). La mostra dell’urbanistica, organizzata da Quaroni, Giancarlo De Carlo e
Carlo Doglio, assume tonalità decisamente provocatorie:
i tre cortometraggi lí presentati – specie Una lezione di
urbanistica, al cui progetto collabora Elio Vittorini e che
ha come protagonista Giancarlo Cobelli66 – rivolgono un
severo e caustico monito agli urbanisti, «perché precisino – come scrive De Carlo – in quali limiti sono disposti ad affrontare il rischio di un confronto con la realtà:
a portare nell’urbanistica la collaborazione di tutte le
forze attive della cultura che vi sono implicate ed escogitare i mezzi che rendono possibile una effettiva capillare partecipazione della collettività». Ma la provocazione rimane senza effetto. «I Grandi Sacerdoti, ineffabili – prosegue De Carlo67 – hanno respinto la provocazione con sdegno e non hanno risposto».
Il ripensamento sugli strumenti della pianificazione
proposto da intellettuali come De Carlo e Quaroni, in
realtà, toccava ancora di striscio il nesso piano - istituzioni - riforme di struttura. Al sostanziale fallimento dei
generosi tentativi dell’ Aufklärung urbanistica, nel Meridione e a contatto di Olivetti, non si riesce a rispondere con analisi compiutamente politiche della situazione
reale. Da parte sua, di fronte a quegli stessi fallimenti,
l’ideologia comunitaria tenterà di tradursi per suo conto
in politica diretta: nel ’58, Adriano Olivetti partecipa in
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prima persona alle elezioni politiche. L’anacronismo
della via terzaforzista diverrà cosí pesantemente evidente. Del resto, alla fine degli anni cinquanta, il sogno
olivettiano era già andato in frantumi, compromesso
dal tentativo di entrare nel mercato dell’elettronica
gigante, da una crisi di finanziamenti e dalla perdita del
controllo assoluto dell’impresa da parte degli Olivetti:
Adriano, morto nel 196o, non assisterà alle trasformazioni dell’azienda, che, oltre a comportare una revisione dei suoi programmi sociali, richiede un’immagine
internazionale di mercato ben diversa da quella propugnata negli anni cinquanta.
3. Il mito dell’equilibrio. Il piano Vanoni e l’Ina-Casa
secondo settennio.
Le profonde modificazioni dell’economia italiana
avviate nel corso della ricostruzione erano state condizionate dall’incalzare del capitale internazionale. Il
ruolo trainante dell’impresa pubblica aveva peraltro
avuto buon gioco nei confronti dei settori del padronato
ancorato a nostalgie autarchiche: l’ingresso dell’Italia
nella Ceca, con la conseguente espansione della siderurgia, trascina con sé, in particolare, il settore meccanico, rendendo evidente la necessità di una strategia
di lungo periodo volta a una trasformazione dell’intera
società. Alla fine del ’54, il piano Vanoni sembra
rispondere a tale necessità: mantenendo un saggio di incremento del reddito nazionale annuo del 5 per cento
e prevedendo posti di lavoro addizionali extraagricoli,
il piano punta al potenziamento dell’efficienza e della
capacità concorrenziale del sistema produttivo, fissando come obiettivo da raggiungere la creazione di quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Il programma che
guiderà le linee di crescita del capitale di Stato è cosí
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fissato: le vicende della sua attuazione dipenderanno
strettamente dalle variabili politiche messe fra parentesi
dal modello. Solo in tal modo, infatti, si spiega l’abbandono di alcuni «settori propulsivi» a favore di altri,
che non tarderanno a rovesciarsi come un boomerang
contro la strategia dello sviluppo. Le grandi infrastrutture – autostrade e linee di distribuzione dei gas naturali – chiamate a riorganizzare il territorio fungono in
realtà da sostegno all’espansione dei consumi privati
(settore dell’auto), accentuano il formarsi di aree metropolitane, si rivelano incapaci di guidare inversioni di
tendenza nella geografia dello sviluppo. È il sogno dell’equilibrio, alla base del piano Vanoni e dei tentativi
piú avanzati del movimento cattolico di questi anni, che
va in frantumi di fronte a una strategia che, senza piano,
punta sul blocco edilizio come garanzia di cementazione fra i vari strati della borghesia proprietaria e di
un’alleanza fra quest’ultima e la Confindustria, attraverso le realizzazioni della rendita fondiaria e i suoi travasi nel sistema produttivo68.
«La politica del settore edilizio – veniva scritto nel
piano Vanoni – dovrà promuovere o contenere gli investimenti nell’industria delle costruzioni nella misura in
cui la domanda di beni di consumo diversi dall’abitazione sia rispettivamente insufficiente o eccessiva in relazione al processo di espansione possibile». Il
processo di urbanizzazione scatenatosi in Italia negli
anni cinquanta nulla ha a che fare con tale concezione
dell’edilizia come «volano». Il malgoverno delle amministrazioni locali sembra divenire istituzionale, le norme
edilizie e di piano regolatore vengono considerate meno
che formali, l’offerta di case si espande in modo indiscriminato comprimendo quella destinata ai ceti popolari o seguendo unicamente le leggi della speculazione
sulle aree, l’aumento dei costi di costruzione porta a un
prezzo triplicato, fra il 1953 e il 1963, dei nuovi fab-
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bricati, in corrispondenza di un prezzo decuplicato dei
suoli edificabili, l’industria edilizia rimane frammentata
e a basso livello organico di capitale, sfruttando tale sua
deliberata arretratezza sia in senso economico che politico. Si valuti inoltre che i vani di abitazione annualmente
realizzati passano dai 543 ooo del 1951 a 1 970 ooo del
1961, con una media annua di 1 400 000 vani, mentre
la produzione edilizia, nel suo complesso, nel periodo
considerato, si sviluppa a un tasso annuo del 12,1 per
cento circa, contro l’8,2 per cento dell’industria nel suo
complesso. Il tasso medio annuo delle retribuzioni nel
settore, per suo conto, registra il 4,5 per cento di aumento, per una massa di lavoratori che rappresenta il 28 per
cento dei lavoratori industriali complessivi.
Il piano Vanoni, dunque, funge piú da detonatore di
un conflitto interno al movimento cattolico, risolto con
la conferma del ruolo dirigente delle forze piú reazionarie, che da indicatore di una linea effettuale di politica economica. La realtà è che l’intreccio di poteri funzionale a uno sviluppo volutamente squilibrato, disposto a pagare, con il rigonfiamento dei settori parassitari, i rischi provocati da pesanti inceppi per il meccanismo
complessivo, rende illuministico ogni tentativo di
sovrapporre a un quadro istituzionale cosí vischioso programmi quadro che implichino spostamenti di interessi
e blocchi di alleanze storicamente impossibili.
Per collages di disposizioni settoriali, e non attraverso
dichiarazioni programmatiche, la politica edilizia italiana viene piuttosto concretamente attuata. Alla legge
istitutiva dell’Ina-Casa si collegano altri due provvedimenti, la legge Tupini sull’edilizia cooperativa (1951) e
la legge Aldisio, che vara la costituzione di un fondo di
incremento per l’edilizia: il fine è quello di sostenere
comunque, sulla base di meccanismi creditizi e finanziari
che privilegiano la piccola impresa frazionata, l’offerta
di case, spostando l’interesse – specie con la legge Tupi-
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ni – su un mercato accessibile ai ceti medi. L’aggravamento dell’urbanesimo selvaggio, conseguente a tale
rigonfiamento indiscriminato dell’offerta, ha come effetto indiretto il potenziamento dei flussi migratori verso
le aree sviluppate e verso i centri urbani, provvedendo
l’industria di un esercito di riserva non qualificata, in
buona parte riassorbita in edilizia. Ciò spiega il basso
livello tecnologico cui l’edilizia stessa permane, anche
una volta superate le condizioni contingenti della ricostruzione; il degrado e la congestione che attaccano le
aree centrali, per loro conto, sono funzionali, assieme al
meccanismo del blocco dei fitti, a un lento ma progressivo rastrellamento di porzioni dei centri storici da parte
delle immobiliari, in attesa che il mito dell’antico e l’esaurirsi delle aree pregiate esterne ai centri determinino
un mercato di lusso nei centri storici, grazie anche al permanere in essi di gran parte delle funzioni direzionali.
(Ciò quando, naturalmente, il centro storico non viene
direttamente e pesantemente aggredito dalla speculazione, come a Milano).
Di fronte a tale dispositivo innescato dal blocco di
potere cui fanno capo le forze centriste con il beneplacito della grande industria – che, fino a quando i fenomeni da esso indotti non si riveleranno frenanti, può
aspirare capitali, tramite i meccanismi finanziari, dalla
rendita di speculazione – la cultura urbanistica risponde in modo duplice. Da un lato, si apre un’intensa campagna scandalistica all’insegna del moralismo: nel 1957
viene fondata l’associazione Italia Nostra su iniziativa
di Umberto Zanotti-Bianco; la rubrica di Antonio
Cederna sul «Mondo» colpisce periodicamente le malefatte dei «vandali in casa», contribuendo ad arrestare
operazioni di sventramento e a salvare dalla lottizzazione parchi e aree verdi; il processo per diffamazione
intentato dal sindaco di Roma Salvatore Rebecchini
contro «L’Espresso» mette in luce la portata e i mecca-
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nismi della speculazione sui suoli e l’intreccio fra corruzione amministrativa e potere economico.
D’altro lato, si procede verso un’astratta precisazione degli strumenti disciplinari, alla ricerca di una «tecnica indeterminata»: indeterminata, anzitutto, perché
priva di referenti e di soggetti i cui interessi collimino
con quelli dell’«equilibrato territorio», e indeterminata
perché costretta a continue petizioni di principio a proposito delle condizioni prime chiamate a giustificarne
l’esistenza, come la fine del mercato liberistico dei suoli
o almeno il controllo pubblico degli stessi. Non è sicuramente un caso che l’Inu proceda, fra il 1952 e il 1958,
a un esame di tutte le possibili scale di intervento, mentre i pochi piani redatti nel paese vengono evasi o resi
inoperanti tramite il meccanismo delle «varianti».
Rimane per gli architetti la progettazione dei quartieri Ina-Casa: l’esperienza compiuta nel campo non
risulta consumata invano, ed è a partire da una revisione autocritica che i suoi limiti vengono forzati fino a toccare le soglie di nuovi terreni di ricerca.
Le ipotesi comunitarie e il disimpegno linguistico che
avevano caratterizzato l’ideologia del quartiere, nel
corso del primo settennio Ina-Casa, risultano infatti
consumate agli inizi del secondo settennio. È ancora
Quaroni a riassumere le fila dell’esperienza compiuta, in
un memorabile saggio pubblicato sulla rivista «La Casa»,
e a compiere un’autocritica che sfocia, nel 1957, nel
quartiere San Giusto a Prato69. Non è sicuramente estranea, alla radicale revisione quaroniana, l’esperienza
architettonica compiuta nel ’56 con i progetti per le
chiese genovesi del San Gottardo e della Sacra Famiglia.
Se la prima, rimasta allo stadio di idea, tende a divenire cerniera urbana aderente alla struttura fisica del sito
– un nodo di traffico a livelli ascendenti –, la seconda
sfrutta abilmente un’area stretta da presso da edifici e
da un alto muro di sostegno intersecato da due strade a
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livelli diversi: la chiesa, dominata da un torrione compatto squarciato sullo spigolo, funge ancora da soluzione di continuità fra percorsi cittadini intersecati, fulcro
visivo ricco di epos che si staglia al centro di un flusso
ascendente di scalinate. L’equilibrio fra la ricerca di un
codice inedito, ormai scevro di concessioni a romanticismi, e quella tesa a far colloquiare un oggetto fortemente strutturato con il luogo urbano è uno dei piú alti
raggiunti da Quaroni70.
Le chiese genovesi da un lato, il progetto del ponte
sulla Dora a Ivrea dall’altro, si legano strettamente al
progetto per il quartiere di San Giusto. La complessità
della città non è dominabile scindendo la stessa in elementi finiti; eppure, questa è la «condizione» imposta
dalla politica dell’Ina-Casa. Non rimane che assumere
tale contraddizione e darle voce.
La composizione si snoda a partire da un modulo
planimetrico a torre, si amplia in un secondo modulo «a
corte» in cui si ripete una disposizione «a turbina» delle
cellule, si svincola infine dalla figura geometrica prefissata nell’aggregarsi libero e continuo delle corti.
Con un brusco e significativo scarto rispetto alla
«poetica del quartiere» – contraddetto solo dal trattamento ancora «paesano» degli alzati – Quaroni si appresta, a Prato, a definire i materiali che sfoceranno nella
piú problematica delle sue opere dei tardi anni cinquanta, il complesso Cep di San Giuliano a Mestre. Le
corti chiuse non fanno piú riferimento ad enunciati
sociologici: è il tessuto che qui conta, il suo aprirsi e il
suo rimanere fedele a moduli plurimi. Il quartiere non
«risolve» più; ad esso non è piú richiesto alcun riscatto. Esso è solo ciò che può essere, né intende nobilitare la propria emarginazione.
Ed è sintomatico ritrovare temi consimili – la corte
chiusa assunta come modulo, la definizione di una
maglia estensibile, una disciplina consapevole – in un
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altro quartiere chiave del secondo settennio Ina-Casa,
quello di via Cavedone a Bologna, anch’esso del 1957,
realizzato da una équipe guidata da Federico Gorio e che
ha fra i suoi membri Marcello Vittorini e Leonardo
Benevolo71. A puri residui vengono ridotte le persistenze
populiste: è il tipo urbano ciò che ora conta e insieme
un controllo tecnologico che sembra preludere a nuove
ipotesi di progettazione. Il neorealismo è comunque
affossato senza una critica all’altezza dell’esperienza; il
ricorso a una morfologia collaudata, come quella del
cortile chiuso, evita palesi riferimenti storicisti; il tentativo di imporre una severa misura «realista» si risolve in semplificazioni reticenti. L’irraggiungibilità della
città, che nel progetto di Quaroni è denunciata fra le
righe, nel quartiere di via Cavedone è accettata con rassegnata serenità.
Comunque, un’apertura sperimentale caratterizza la
fase aperta con il secondo settennio: ancora a Bologna,
nel complesso di via della Barca (1957-62), realizzato dal
gruppo guidato da un rigorista della vecchia guardia
come Giuseppe Vaccaro, le unità di vicinato sono interpretate come tessuto continuo interrotto dal lungo edificio porticato e ricurvo posto sull’asse mediano. Di
nuovo, il quartiere tenta di uscire dal suo isolamento,
preleva motivi dalla città storica, articola le sue funzioni accostandole timidamente. Il décalage ideologico, evidentissimo, fa di questi quartieri delle esperienze «di
attesa»; ma permette anche di concentrarsi in ricerche
in cui invenzioni tipologiche e aggregative vengono
sfruttate per il loro valore di immagine: è il caso dei
quartieri di Galatina (Lecce) e di Ascoli Piceno (1958)
realizzati dal gruppo Cicconcelli con l’apporto determinante di Luigi Pellegrin. Estremamente riflessa la lezione wrightiana assorbita da Pellegrin. Ben diverso da
quello di Carlo Scarpa, anche il wrightismo di Pellegrin
rifiuta soluzioni di maniera, rivelandosi piuttosto stru-
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mento per una meditazione sulle qualità dello spazio e
degli oggetti: le sue scuole a Urbino e Sassari (1956, in
collaborazione con C. Cicconcelli), o le case d’abitazione progettate per Roma mostrano chiaramente la linea
analitica di questo solitario sperimentatore. Che nei
quartieri di Galatina e di Ascoli dimostra che l’afasia cui
la maggior parte dei progettisti dell’Ina-Casa si autocondanna è anacronistica. Specie a Galatina, la reiterazione delle cellule tipo, orientate a 45° rispetto alla
maglia viaria, le aggettivazioni e il dosaggio degli elementi di raccordo permettono al complesso di raggiungere una sua identità; e sia pur convulsa e fatta di inquiete cesure.
Al primato dell’indagine propugnato da Quaroni si
contrappone cosí la ricerca di risultati finiti di Cicconcelli e Pellegrin, mentre solo come variazioni di collaudate esperienze tipologiche e linguistiche sono apprezzabili gli interventi Ina-Casa di Ridolfi a Napoli (appartamenti in via Campegna e a via Chiaina, 1956) a Conegliano (1958-6o) a Mareno (1958), a Treviso (1956-58),
in cui il disinteresse per la scala della progettazione e la
concentrazione degli interessi sul manufatto edilizio mostrano i loro limiti.
E ancora un risultato concluso in se stesso è il quartiere di Forte Quezzi a Genova (1958 sgg.), del gruppo
Daneri72, forse il piú spettacolare complesso residenziale del secondo settennio Ina-Casa. Si tratta anzitutto di
una dimostrazione di coerenza personale: dalle case alla
foce al Lido di Albaro (1938 sgg.) al quartiere Bernabò
Brea, al complesso di Forte Quezzi, Daneri compensa le
limitazioni linguistiche autoimpostesi con approfondimenti che non disdegnano il riferimento a modelli riconoscibili, come, per l’ultimo caso citato, la serpentina e
i blocchi «danzanti» sulle colline di Algeri del Plan Obus
di Le Corbusier. Ma nei sinuosi blocchi che a Forte
Quezzi sembrano voler commentare il paesaggio,
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seguendo fedelmente le curve di livello, frantumandosi
in unità tipologicamente complesse, arricchite di servizi interni, loggiati, percorsi pedonali, è anche il tentativo di consolidare un frammento urbano che «si espone»
come contraddizione vivente. Il piano pedonale pubblico che interrompe i due blocchi centrali va letto contestualmente al difficile colloquio instaurato con il sito:
elasticamente, il complesso si contrae e si espande, si
apre «a teatro» e si chiude in se stesso. Serenamente,
Daneri parla qui delle ormai non più tollerabili condizioni imposte dai programmi dell’intervento pubblico:
alla problematica ricerca di Quaroni, egli risponde con
un’immagine e una struttura che mettono in tensione,
l’una contro l’altra, la finitezza dell’intervento e la sua
aspirazione frustrata a divenire parte della città.
In fondo, gli esempi emergenti del secondo settennio
Ina-Casa – cui dovrebbero aggiungersi le molte realizzazioni di routine, spesso di sconcertante provincialismo, come il villaggio residenziale a Ricciano (Pescia) del
gruppo Gori o il quartiere di Acilia, del gruppo Perugini - Del Debbio (1957-59) – rendono evidente che la
sempre maggiore marginalità dell’edilizia pubblica e la
sua strumentalità si prestano solo a brillanti forzature o
a sperimentazioni che rimandano ad altre intenzionalità.
Parlando «d’altro», ci si sporca le mani salvando l’anima; assumendosi i limiti del reale, si disegnano suggestive «cifre sbagliate».
Ma ciò che è maggiormente significativo è che in
questi quartieri l’ideologia dell’«abitare» sopravvive a se
stessa come simulazione. Simulata, infatti, è la «ricerca
del luogo» a Forte Quezzi; simulata la ricerca tipologica a Galatina; simulata la metodologia con cui vorrebbe convincere il quartiere di San Giusto. Il quartiere
non risiede in città; eppure è funzionale a una dinamica che viene occultata con la sua realizzazione: chi è
chiamato a far da protagonista in tale gioco non può che
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appellarsi a una «onesta dissimulazione». Il bagno nel
realismo produce cosí il sonno della ragione. I mostri
non si faranno attendere. Si tratterà del rovescio dello
stato d’animo che aveva generato le mitologie dell’immediato dopoguerra: al realismo come ideologia si sostituirà ben presto il recupero dell’utopia.
Ma bisognava bruciare fino in fondo i motivi che avevano dato luogo all’autobiografia come rispecchiamento, o, perlomeno, era necessario far compiere loro un
salto di scala.
4. Aufklärung II. Il museo, la storia, la metafora
(1951-1967).
Alle frustrazioni sofferte nel corso dell’esperienza di
progettazione dell’edilizia pubblica, la cultura architettonica italiana ha da contrapporre i successi ottenuti nel
settore del design, e, ancor piú, quelli ottenuti nel campo
della museografia. Indubbiamente, nell’arredo delle
«case dell’arte», i migliori architetti italiani liberano
aspirazioni altrimenti represse: qui, il rapporto con la
storia è obbligato e diretto, e strettamente intrecciato a
compiti pedagogici73. L’architettura del museo sembra
riassumere, depurati da molte scorie contingenti, i temi
principali dibattuti negli anni cinquanta: dal ruolo «civile» della forma a quello dell’incontro fra la memoria e
il nuovo, al recupero di una rappresentatività legata ad
occasioni privilegiate. In tale quadro, l’allestimento di
Palazzo Bianco a Genova, ad opera di Franco Albini
(1950-51), costituisce immediatamente un riferimento
d’obbligo per una cultura tesa a salvaguardare, in ogni
occasione, rassicuranti equilibri74. In effetti, l’allestimento albiniano è un capolavoro del suo genere: all’estremo rigore esplicato nella tecnica museografica si unisce una raffinata neutralità dell’arredo nei confronti
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delle opere esposte; tale, però, da lasciar trasparire in
filigrana i segni interpolati, ridotti a rispettose glosse
interlineari di frammenti di testo pazientemente ricostruiti.
Lo «stile» museale di Albini rimane cosí definito; più
tardi, esso si esprimerà nel restauro e nella sistemazione di Palazzo Rosso a Genova (1952-61), per raggiungere un apice nel Museo del Tesoro di San Lorenzo
(1952-56)75. Tre tholoi di diverso diametro, nello spazio
sotterraneo del San Lorenzo, intersecano un invaso esagonale dotato di escrescenze. Si tratta di un preciso programma allegorico, cui non è estraneo l’intervento di
Caterina Marcenaro: al sacello del Santo Graal si unisce il ricordo del Tesoro di Atreo. L’esoterismo dei riferimenti è comunque sublimato da Albini. La dialettica
degli spazi, la variata incidenza della luce, il colloquio
fra la forma delle teche vitree e l’ambigua allusività degli organismi agganciati fra loro rendono omaggio a uno
degli ingredienti piú originali della poetica albiniana:
una vena surreale tanto piú sottile quanto piú risolta in
etimi tecnologicamente inappuntabili. L’architecture
ensevelie di Albini possiede un proprio linguaggio. Protetta dal mondo esterno, in essa il dialogo fra l’eleganza tecnologica – ulteriore strumento di supremo distacco – e le forme esalta una dimensione irreale: la dimensione, per l’esattezza, dell’astrazione come «immagine
sospesa». Si tratta della medesima astrazione che, negli
allestimenti albiniani, gioca come reagente a contatto di
oggetti storici magicamente spaesati all’interno di invasi effimeri. Cosí, nella mostra didattica «L’evoluzione
della bicicletta» (Triennale 1951), nelle Sale dei «Tessuti genovesi del xvi secolo» e del «Miracolo della scienza» (Venezia, Palazzo Grassi, 1952), nel Salone d’Onore
della X Triennale di Milano (1954), nella piú recente
sistemazione della mostra palladiana nella Basilica di
Vicenza, Albini crea capolavori di virtuosismo rappre-
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sentativo, non alieni da suggestioni oniriche. Una lirica, questa di Albini, affidata a telai eretti, appesi, sospesi, controventati, che – come ha notato Fagiolo – sembrano «larve o surrogati della struttura architettonica»76: la severità albiniana allude a un’assenza senza mai
sconfinare nel tragico.
Fra «l’astrazione magica» dell’Albini «arredatore» e
quella dell’Albini autore del Museo di San Lorenzo esiste una continuità diretta, assai meno percepibile nelle
opere in cui – come nel complesso gradonato degli uffici comunali dietro Palazzo Tursi a Genova (1952-62) –
alla lirica dell’intérieur si sostituisce il gioco formale en
plein air77. Eppure, sarebbe errato pensare che l’architettura per i musei costituisca per Albini un capitolo in
sé concluso: se all’allestimento di Palazzo Bianco corrisponde il Palazzo dell’Ina a Parma, è indubbio che il
Museo del Tesoro di San Lorenzo, anche nel suo recupero di valenze allegoriche, apre ai progetti per La Rinascente a Roma. Ma negli anni cinquanta è la «misura»
degli interventi albiniani a fare testo. Di fronte al mormorio sommesso dei pur apodittici segni di Albini, le
invenzioni museografiche di Carlo Scarpa appaiono
troppo parlanti: la critica, anche quella favorevole al
maestro veneziano, non nasconderà la propria perplessità nei confronti dell’opera di Scarpa al Correr (1953)78.
Da un lato, dunque, il «lasciar essere» di Albini, dall’altro la magistrale narratività di Scarpa: l’alternativa
non dà ancora scandalo. Quest’ultimo esplode piuttosto
nel 1956, quando si apre al pubblico il Museo del Castello di Milano, opera dei Bpr, che offre il fianco a una serrata polemica, puntualmente ripresa, due anni dopo, a
chiusura di cantiere di un’ulteriore opera dei Bpr e destinata a divenire sintomatica del clima milanese della fine
degli anni cinquanta: la Torre Velasca79. In realtà, chi
discuteva separatamente del Museo del Castello e della
Velasca non si accorgeva di affrontare un medesimo
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problema. L’assunto verte sulla manipolabilità dei reperti: per i Bpr, e per Rogers in particolare, che aprirà il
dibattito sulle preesistenze ambientali su «Casabella»80,
solo la manipolazione – leggi l’appropriazione mediante il contatto fisico – rende storico un cantiere archeologico. Il quale sarà, indifferentemente, un museo o una
città. Attraverso l’intervento – il progetto –, la storia
assume un volto: le molte eredità che nel progetto si
incontrano daranno luogo a contaminazioni, a opere in
qualche modo «sporche»; ma sarà quell’impurità a permettere il «gioco dei riconoscimenti». L’architettura,
contaminandosi con gli antichi reperti, riconosce la legittimità della propria tradizione; quei reperti potranno di
converso usare il «nuovo» come cartina di tornasole,
come specchio da interrogare e da cui trarre un principium individuationis.
Nell’allestimento del Museo del Castello l’operazione compiuta è eloquente: contro le caute interpolazioni
albiniane, i Bpr scelgono la via di una scenografia continuamente e pesantemente presente, che introduce –
nel pavimento da città medievale della Sala degli Scarlioni, nello «steccato» della Sala delle Asse, nella disposizione onirica della Sala Verde delle armature, nell’apparecchiatura che recinge la Pietà Rondanini – polivalenti risonanze fra pezzo esposto e macchina espositiva.
L’ansia comunicativa fa da protagonista: soggetto di
essa è la relazione fra memoria privata e memoria collettiva; o meglio, il problema di come far parlare una
memoria privata – quella dell’intellettuale – considerata, «per elezione», depositaria di doveri rispetto alla
memoria collettiva.
Si tratta dei medesimi «doveri» cui, a suo modo,
intende rispondere la Torre Velasca, costruita dai Bpr
su incarico della Rice su un’area devastata dai bombardamenti a 450 metri da piazza del Duomo81. La progettazione del complesso polifunzionale – negozi, spazi
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commerciali, uffici, studi, abitazioni – inizia nel 195051, nel momento in cui la società immobiliare completa l’acquisizione dei suoli in tale zona strategica del centro milanese; la struttura è in ferro, e la torre si presenta
come un monolito, geometricamente e metricamente
definito, scomposto nei tre elementi caratterizzanti
anche la soluzione realizzata: una protome introduttiva
sulla via Velasca, un corpo verticale a lastra scandito da
pilastri, un doppio cubo aggettante. Scartata per il suo
alto costo la soluzione in ferro, dal ’52 al ’55 prende
piede il progetto definitivo, costruito fra il ’56 e il ’57:
la Torre è ora un solido compatto, percorso da costoloni in cui si addensano le interne tensioni dell’immagine
chiamata a stagliarsi come unicum nella skyline milanese. Il raccordo fra il blocco verticale e il corpo dilatato
superiore avviene ora per mezzo di puntoni inclinati: la
Velasca, orgogliosamente avvolta nella sua matericità, si
dilata come magma energetico verso il cielo, assumendo
l’aspetto di una torre medievale paradossalmente ingigantita. Un «omaggio a Milano» compiuto dunque con
strumenti non ancora tacciabili di storicismo. La Velasca si installa in città commentando liricamente un corpus urbano in via di sparizione: ancora una volta, dalle
intenzioni riposte nelle pieghe di un solo oggetto si
attende una catarsi.
Come il Museo del Castello Sforzesco, infatti, la
Velasca intende «insegnare a vedere»: le risonanze interiori che hanno generato questa forma chiamano le
«coscienze» a un’epoché collettiva, a una riconsiderazione radicale del nuovo alla luce del temps perdu che
esso stimola a ritrovare. Non per nulla Enzo Paci è il
«filosofo» di «Casabella», accomunato a Rogers dalla
lezione insieme ricevuta da Antonio Banfi. Ma principalmente la Velasca, avvolta nella sua ambigua aura
fatta di significati ritrovati per analogie e sottintesi, è lí
a costituire un simbolo riassuntivo delle aspirazioni del-
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l’architettura italiana degli anni cinquanta: nel grande
museo costituito dalla città storica, sembra dato trovare una «casa» che consoli i segni del loro straniamento,
che li protegga dal futuro, che li illuda circa la validità
delle loro istanze «morali».
Con risultati formalmente meno interessanti, ma sulla
medesima linea di ricerca, è un’ulteriore opera dei Bpr,
il complesso di piazza Statuto – corso Francia a Torino
(primi studi 1955-56, realizzazione 1959): il tema delle
«preesistenze storiche» alimenta, in modo determinante ormai, la discontinua esperienza dei Bpr, che dall’epos dispiegato nella Velasca passano all’enfasi strutturale
della torre torinese fino a ripiegare su piú caute allitterazioni nella ristrutturazione di Casa Lurani Cernuschi
a via Cappuccio a Milano (1959)82. Si tratta di un’architettura di riflessione: su tutto queste opere riflettono – sul passato, sulle città, sul possibile colloquio fra
intellettuali e masse – meno che su se stesse. Mediate
dall’insegnamento teorico di Rogers, esse sono destinate a generare un nuovo capitolo nell’autobiografismo
dell’architettura italiana. Allegoria dello stato d’animo
che le muove è la tomba che, in collaborazione con
Carlo Levi, i Bpr erigono a Rocco Scotellaro nel cimitero di Tricarico (1957): una reminiscenza arcaica in
muratura che lascia intravedere, dalla spaccatura dal
contorno digradante, la valle del Basento. Sulla pietra,
i versi del poeta, ricchi di una contenuta nostalgia, che
è anche degli architetti: «Ma nei sentieri non si torna
indietro | Altre ali fuggiranno dalle paglie della casa |
Perché lungo il perire dei tempi | L’alba è nuova, è
nuova»83. Eppure, la «nuova alba» sembra preclusa a
una cultura che sceglie sempre piú, per riconoscersi, la
via della «pensosa sospensione». Una via che viene battuta, contemporaneamente ai Bpr, da Ignazio Gardella,
con la sua casa alle Zattere di Venezia, terminata nel ’58.
Rispetto alla Torre Velasca, la casa alle Zattere costi-
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tuisce una sorta di pendant, tale, comunque, da poter
essere salutata, all’epoca, come indice di un clima storicistico pericolosamente evasivo. Che la casa alle Zattere, con le sue calcolate dissimmetrie, il frastagliarsi dei
particolari, il suo impaginato di facciata presentato come
«commento» alla tipologia del palazzo gentilizio lagunare, cercasse un confronto volutamente ambiguo con
l’eccezionalità del sito è indubbio. Il revisionismo qui
espresso da Gardella vive un equilibrio instabile fra
rarefazione di strumenti linguistici, intimismo e prudenza formale: lo stesso, in fondo, che aveva caratterizzato le Terme Regina Isabella a Ischia, la chiesa di
Cesate (1956-58) e il complesso turistico-alberghiero
alla Colletta, Arenzano, realizzato nel ’56 in collaborazione con Marco Zanuso, eppure ricco di tonalità che lo
rendono estraneo alla linea seguita dallo stesso Gardella nella Galleria d’Arte Moderna a Milano e nella mensa
Olivetti a Ivrea, la piú «classica» delle sue opere degli
anni cinquanta. Sembra quasi di incontrare due personalità antitetiche in Gardella: ciò che le accomuna è il
gusto per la «revisione gentile»84.
Anche per Gardella i linguaggi sono là, già configurati: non rimane che giocare ai loro margini per eroderli lievemente o per saggiarne la resistenza. In fondo,
anche se non raggiungerà piú le altezze del dispensario
di Alessandria, la ricerca «ai margini» di Gardella nel
dopoguerra non è molto diversa da quella da lui stesso
perseguita negli anni trenta.
Ma lo «scandalo» della casa alle Zattere, definita da
Argan, con sapiente sottinteso, «la Ca’ d’Oro dell’architettura moderna»85, travalica il problema del personaggio
Gardella, per inquadrarsi nel dibattito, accesosi a livello
internazionale, su quella che viene definita da Banham
«l’infantile ritirata italiana dal movimento moderno».
Pietra dello scandalo, in realtà, non è la Velasca, né
la casa alle Zattere, né la Borsa Merci a Pistoia di Miche-
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lucci, bensí un’opera di due giovani torinesi, Roberto
Gabetti e Aimaro Isola, la Bottega d’Erasmo a Torino
(1953 sgg.) pubblicata in un memorabile numero di
«Casabella continuità» del 1957. Progettata ed eseguita con alta raffinatezza, la Bottega d’Erasmo si presenta come una ben calibrata sintesi di sapienza compositiva e di linguaggi allusivi: un vero e proprio flirt con
l’età d’oro dell’architettura alto-borghese dell’Ottocento italiano ed europeo trapela – senza mai divenire citazione diretta – da un infittirsi di aggettivazioni che
informa le superfici, spezzate e ripiegate, con una rappresentatività ermetica e stupefatta. Rispetto alla Velasca, alla torre torinese dei Bpr o alla casa alle Zattere,
la Bottega d’Erasmo ha il merito di eliminare ogni
mediazione, rendendo esplicito il nuovo referente chiamato a convalidare la vocazione autobiografica degli
architetti italiani. Ma la polemica non nasce da un’analisi diretta dell’opera. È piuttosto la lettera di presentazione di Gabetti e Isola che accompagna le foto, a sollevare in Gregotti, allora redattore di «Casabella», perplessità, e a dettare a Rogers un commento che apre la
polemica sul cosiddetto «neoliberty»86. Ciò che scandalizza è l’affermazione di un fallimento del movimento
moderno, dei suoi ideali etici tradotti in diete formali
divenute superflue. Fintanto che il «recupero delle
valenze lasciate libere» dai padri fondatori sembrava
non incrinare il castello del movimento moderno, ogni
incursione in aree linguistiche eterodosse era giustificata e ritenuta salutare; una volta eliminate – e per giunta verbalmente – le reti teoriche di protezione, contro
chi palesa una crisi sembra necessario lanciare anatemi.
Eppure, sia la Bottega d’Erasmo che le altre opere
significative di Gabetti e Isola – la Borsa Valori di Torino, realizzata, dal ’52 in poi, con Giorgio e Giuseppe
Raineri, il progetto di concorso per un convento a Chieti (1956), o la sede della Società ippica torinese a Niche-
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lino (1959) – non presentavano scoperti revivalismi:
rilette a distanza di tempo, esse non sembrano giustificare lo scalpore suscitato alla loro apparizione. Scalpore che, in gran parte, è dovuto al loro far emergere problemi sottesi, alla loro capacità di far chiarezza – per
eccesso di ambiguità – sul contenuto oscillante dell’introspezione repressa, dell’intimismo catartico, del moralismo teorico propri dei nuovi «maestri» italiani. Perché
tutta quell’attenzione per le «preesistenze» e il contesto non era che un estremo tentativo di ancorarsi a un
porto stabile, per sfuggire alla tempesta che rendeva
fragile la navicella dell’architettura, priva di fari capaci
di illuminare gli iceberg minacciosi delle istituzioni87.
Ciò comportava una sorta di fobia per ogni codificazione linguistica: storia, preesistenze e movimento
moderno – insegnava Rogers – sono mediabili fra loro
solo facendo appello al «metodo», e sia pure al metodo
«dell’ortodossia dell’eterodossia»88.
Gli echi della communitas vengono cosí assimilati al
bacio del principe che ha il potere di riportare alla vita
la «bella addormentata», la struttura scenica, cioè,
semanticamente neutra, delle avanguardie radicali ed
elementariste: il che permette di non precisare i limiti
delle lingue usate, mentre il dogma della «continuità»
risulta sempre piú compromesso.
Eppure, quegli stessi limiti possono essere forzati. È
semplicemente questa l’operazione compiuta da Gabetti e Isola, e certo il termine «neoliberty» non rende
omaggio al fenomeno. Impalpabile è la storia cui i due
torinesi si rivolgono, cosí come impalpabile è quella cui
si rivolgono, sulla loro scorta, fra Milano e Novara, Vittorio Gregotti, Gae Aulenti, Guido Canella89. Ciò che
sembra accomunare gli sforzi di tale generazione è una
rivolta contro i «padri», colpevoli di aver trasmesso illusioni duramente scontate e di cui si ostinano a celebrare la «continuità». La borghesia che avrebbe dovuto rac-
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cogliere l’ascetico messaggio del purismo e delle avanguardie ha dimostrato di non saper che fare delle diete
spirituali proposte. Meglio disegnare per essa, riconoscendola vittoriosa su ogni utopia illuminista, «poltrone per piangere», come faranno Gregotti, Meneghetti e
Stoppino – la «poltrona Cavour» del 1959 – richiamandosi a fluenze timidamente memori del coup de fouet
vandeveldiano, o mettersi alla scuola di un padre antico come Alessandro Antonelli, alternativo a Labrouste
o Baltard, per dar vita ad opere artigianalmente curate,
come il nucleo residenziale operaio della Bassi a Cameri (1956), del medesimo studio novarese. Il quale eleggerà Perret come riferimento d’occasione per leggervi
una décadence coniugabile alle brumose atmosfere della
«triste Torino», in polemica con la lettura canonica
fatta nel ’55 da Rogers dello stesso Perret90: ne sortirà
il palazzo per uffici nel centro storico di Novara (195960), omaggio involontario alla tematica delle «preesistenze ambientali».
Nel frattempo, i saggi di Canella sulla «scuola di
Amsterdam» e su Dudok, come quelli di Gregotti e
Aldo Rossi su Antonelli (piú tardi, sarà finalmente rivalutato il «Novecento» milanese, da Muzio a de Finetti
non sottacendo l’apporto di Aldo Andreani), mutano la
ricerca sulla «preistoria del nuovo»91. Non si tratta piú,
come per la rubrica della rivista di Zevi, «Eredità
dell’8oo», di annettere piú vaste zone del recente passato all’anticamera di un mitico «movimento moderno». La storia viene ora spezzata in tronconi discontinui, viene costruita come sistema discreto, prelevando
da essa campioni in ragione di esplorazioni introspettive.
Tale fenomeno non è esclusivo della cultura architettonica. È sintomatico che proprio fra il ’54 e il ’57
registi cinematografici come Fellini e Antonioni facciano slittare il linguaggio neorealista verso tonalità intimiste o lo pieghino a descrivere il risultato di un con-
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nubio fra esplorazione del profondo e dimensioni oniriche. Né è poco significativo che se nella Strada o nell’Avventura le vicende vengono sospese in spazi astorici,
nella Dolce vita o nella Notte l’alienazione del soggetto
incontra l’alienazione metropolitana. E che quell’alienazione fosse letta con occhi idealistici o messa in scena
alludendo a dimensioni fenomenologiche non intacca la
sostanza del nostro discorso. Aver insistito sulle componenti autobiografiche presenti nella poetica neorealista ci permette ora di leggere una continuità fra le esperienze che la caratterizzano e quelle tese a un suo superamento. In ballo è sempre una ricerca di identità, un
interrogativo circa la propria funzione, cui si risponde
con scavi nella soggettività tesi a ritrovare il cordone
ombelicale che lega l’infelice savant alla collettività.
Gli strumenti scelti per operare quegli scavi sono a
loro volta rivelatori: essi parlano di una solitudine ormai
accettata, di un’incertezza sul proprio essere sociale che
appare l’unico discorso degno di venire comunicato. Le
componenti irrazionaliste, specie da parte degli architetti, sono severamente controllate. Eppure, la querelle
riesce a scuotere l’ambiente internazionale. Come si è
ricordato, Banham tuona nel ’59 contro lo «storicismo
italiano» accusato di tradimento92: nella condanna vengono accomunati sia i giovani che nel ’6o bruceranno le
loro velleità nella mostra «Nuovi disegni per il mobile
italiano», allestita da Gae Aulenti e Guido Canella93, sia
i loro «padri» immediati. Né basta. Rogers, Gardella e
Giancarlo De Carlo vengono duramente attaccati per la
Velasca, la casa alle Zattere e le case materane, al convegno di Otterlo: il solo De Carlo riuscirà a riscattare
le accuse di deviazionismo riaffermando la spregiudicatezza del suo impegno antiformalista – uno dei motivi
che lo avevano condotto a uscire polemicamente dal
gruppo dei dirigenti di «Casabella» – aderendo alle
ricerche e alle iniziative del Team X.
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In difesa delle posizioni «neoliberty» interviene nel
’58 Paolo Portoghesi, con un articolo su «Comunità»
che costituisce un primo bilancio delle ricerche italiane legate all’enunciazione autobiografica e al recupero
di umanesimi disalienanti: non a caso, il saggio si intitola Dal neorealismo al neoliberty94. L’intervento portoghesiano tende in realtà a costruire una koiné là
dov’è una disseminazione tutt’altro che sedimentata di
interessi, con un chiaro risvolto autogiustificativo. Il
recupero della dimensione storica, infatti, gioca per
Portoghesi un ruolo ben diverso da quello, allusivo e
sommesso, degli ambienti piemontese e lombardo.
Concentrato dapprima nell’analisi filologica e critica
dell’opera borrominiana, letta come paradigma di una
sofferta condizione umana collimante con un’ambiguità che è parte del genius loci romano, poi in quella
dell’architettura dell’eclettismo ottocentesco, Portoghesi non rinuncia a tradurre in progetti il bagno nel
passato da lui quotidianamente esperito. Base teorica
è una critica alle condizioni del «cattivo moderno» e
alla notte della reificazione, inizialmente agganciata
alle filosofie del progressismo cattolico95. Ne escono
prodotti che dell’ibrido fanno la loro ragione d’essere:
le modulazioni neobarocche di Villa Baldi a Roma
(196o-1962), in tal senso, vanno ben al di là del programmatico e rarefatto monumentalismo del progetto
presentato dallo stesso Portoghesi, con Gianfranco
Caniggia e Paolo Marconi, al concorso per la Biblioteca Nazionale di Roma, preludendo a una «maniera»
orgogliosa delle proprie involuzioni. Il canto di vittoria sulle «inibizioni dell’architettura moderna» viene
intonato in falsetto e su una partitura trascritta da
qualcuno che ha scambiato per giochi grafici le notazioni musicali96.
Sarà però bene mettere da parte ogni moralismo nel
tentare di valutare il nuovo interesse per l’accademia,
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nel senso piú genuino del termine, serpeggiante fra le
nuove generazioni alla fine degli anni cinquanta. Accademia significa trasmissibilità e perfezionabilità delle
esperienze contro il dilettantismo – anche didattico –
imperante; significa fedeltà a codici rigorosi cui attenersi
contro ogni stucchevole empirismo; significa rivendicare per la cultura cattolica – da cui in gran parte quegli
stimoli erano vissuti – un nuovo ruolo contro il lassismo
etico imperante. In fondo, i giovani neoeclettici e i
sostenitori di una continuità senza residui con le mitologie pevsneriane – pensiamo a Leonardo Benevolo –
aspiravano a una medesima etica. Certo, si tratta di
diverse accezioni di essa: ma l’arma da usare contro l’assalto ben programmato di forze permeate di volgarità è,
ancora una volta, l’appello moralistico.
È Saverio Muratori a farsi interprete delle istanze
rigoriste e della «critica al moderno» serpeggianti come
antidoto al disordinato dibattito in corso. La lezione del
neoclassicismo scandinavo cui, insieme a Fariello e a
Quaroni, Muratori era ricorso nell’anteguerra nei progetti per la piazza imperiale dell’E42 lascia una traccia
significativa in lui; lo strutturalismo severo dei suoi progetti per l’Auditorium romano e per il quartiere Tuscolano I è solo una premessa per una ricerca di leggi oggettive che guidino il comporre, partendo da dati dislocati su diverse aree tematiche. Un’acuta percezione della
«crisi dei valori» è nel pensiero di Muratori: la sua critica al moderno «smarrimento», al relativismo, all’effimero, tende a ricostruire l’infranto appellandosi a leggi
certe, ritrovate spezzando soggettivamente l’«oblio dell’Essere» e vincendo la malattia che ha generato le attuali «dissociazioni». La crisi, dunque, non va attraversata, ma esorcizzata, per Muratori97. Non la storia, bensí
ciò che in essa appare resistente al mutamento viene
invocato: da un lato, è la ricerca di forme adeguate a
materiali dotati di interna coerenza – muratura cupola-
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ta o voltata –; dall’altro, la ricerca di sicurezze derivanti dall’analisi delle strutture urbane. Indubbiamente,
l’analisi urbana, come si è sviluppata in Italia dagli anni
sessanta in poi, è debitrice agli studi muratoriani su
Venezia e Roma98. Quegli studi, d’altra parte, spostavano gli interessi sulla struttura dei tessuti antichi, rendendo anacronistico il dibattito sulle «preesistenze» e
dando diverso spessore al tema stesso dei centri storici.
È piuttosto il passaggio non dialettico di Muratori dall’analisi al progetto a inquinare il suo apporto: la sua
polemica contro il soggettivismo e «l’esilità del moderno» – Fahrenkamp versus Mies – sfocia in un organismo
indubbiamente pregevole, come la sede dell’Enpas a
Bologna (1957), ma anche nel mediocre risultato della
sede centrale della Democrazia cristiana all’Eur
(1955-58), pago del suo polemico anacronismo. Non a
caso, le prime rivolte studentesche nelle facoltà di architettura si rivolgono contro la didattica di Muratori a
Roma, scelta come punto debole di un’istituzione sorda
alle più vive istanze del momento.
Rimane il fatto che il ricorso alla storia si risolve
comunque in ricerca di assoluti, opposti all’urgere di
forze disgreganti o in omaggio a una speranza di palingenesi. L’appello alla totalità nasconde dissimulate nostalgie per un lavoro intellettuale svolto in forma rituale e con panni sacerdotali.
Ciò è vero, nonostante le apparenze, persino per la
travagliata storia della pianificazione urbanistica di quegli anni. Se Quaroni, come s’è visto, cerca in complessi
e sempre nuovi modi di intervento punti di attacco alle
realtà delle città e dei territori non fossilizzati in schemi a priori, Luigi Piccinato e Giovanni Astengo consolidano una disciplina che si rivela sempre piú inoperante, ma dotata di modelli divenuti canonici e di tecniche
di analisi non prive di raffinatezza. La pianificazione
regionale, ufficialmente varata nel ’52, auspice il mini-
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stro dei lavori pubblici Salvatore Aldisio in concomitanza con il congresso dell’Inu dedicato a quel tema,
vede Astengo impegnato nella redazione dei due volumi dei Criteri di indirizzo, ricchi di indicazioni metodologiche. Ma il «buongoverno» del territorio evocato con
l’immagine dell’affresco senese del Lorenzetti è solo un
sogno per philosophes. Gli studi per i piani della Campania, del Piemonte, della Lombardia, del Veneto,
rimangono, in assenza di leggi sull’uso del suolo, di istituzioni responsabili e di reali volontà politiche, pure
esercitazioni99. All’urbanistica scientifica auspicata da
Astengo non rimane che ripiegare sulla scala dei piccoli comuni ricchi di memorie storiche; ma proprio ad
Assisi, Astengo sperimenterà una delle sue piú brucianti
sconfitte. Né, per suo conto, il «modello» ripetuto da
Piccinato nei piani regolatori di Matera, l’Aquila, Padova, Siena, Benevento, Carrara, avrà maggior fortuna.
Non si tratta solo di carenze dovute all’eccessiva compiutezza di quel modello. L’urbanistica di Piccinato ha
una sua coerenza anche al di là di esso: l’individuazione di assi preferenziali, la collocazione di nuclei direzionali alternativi al cuore storico, la tecnica dello
zoning interpretano le possibilità offerte dalla legge del
’42 portando a compimento l’opera dei «padri» della
disciplina. (E non si tratta solo di Stübben o Eberstadt,
ma anche del Piacentini della proposta per Roma del
1916). Ma è l’ipotesi economica su cui la disciplina stessa è fondata a renderla esornativa; per comprenderlo,
saranno necessarie analisi storiche disincantate, impensabili nel clima da crociata in cui si muove l’urbanistica
in Italia negli anni cinquanta. Un clima in cui l’uso del
termine «pianificazione» è già guardato con sospetto e
la cui misura è offerta dalla travagliata vicenda del piano
regolatore di Roma100.
La decisione relativa al varo di un nuovo piano per
la capitale viene presa nel 1954, dopo una relazione del-
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l’assessore liberale Storoni tenuta nel dicembre del ’53
in Campidoglio, che segue le linee tracciate appositamente dalla sezione laziale dell’Inu: le campagne della
stampa progressista contro la speculazione edilizia e la
corruzione amministrativa sembrano sul punto di produrre effetti concreti di vasta portata, e la cultura romana coglie l’occasione per coalizzarsi in una battaglia di
lungo respiro. Mentre la sezione laziale dell’Inu funge
da organismo di pressione e la popolazione – fino al livello delle scuole superiori – è sensibilizzata sempre piú al
problema, la Grande Commissione per il piano procede
fra compromessi e confusioni di competenze e il Cet –
il Comitato di esecuzione tecnica in cui spiccano le personalità di Quaroni e di Piccinato101 – elabora uno schema che diviene subito oggetto di polemiche e di studi.
Il piano del Cet rappresenta, insieme, una summa della
modellistica corrente e un’ipotesi decisamente innovativa. Il tema della salvaguardia del centro storico attraverso un’espansione unidirezionale e lo spostamento in
zone cerniera delle strutture terziarie si cala nella realtà
romana concentrandosi in un’«invenzione» urbanistica
decisiva: le zone di espansione orientali si saldano al territorio e al nucleo storico attraverso una struttura direzionale attestata su un asse attrezzato e sui tre poli di
Pietralata, di Centocelle, dell’Eur. Il disegno convenzionale dello zoning e l’imprecisato rapporto residenza-lavoro costituiscono i limiti dello schema: che nella
situazione data, tuttavia, caratterizzata dall’assenza di
piani economici o di semplici prospettive di industrializzazione proiettabili nello spazio, rimane il piú avanzato prodotto della cultura urbanistica italiana di quegli anni.
La semplice prospettiva di un piano è comunque sufficiente a coalizzare le forze della grande e piccola speculazione, insieme alle loro espressioni politiche e culturali. Con argomentazioni pretestuose – l’assenza di un
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piano intercomunale – l’elaborato del Cet viene accantonato, e dopo faticose polemiche, nel giugno del ’59,
l’amministrazione comunale adotta il «piano della giunta», un documento sostanzialmente rispecchiante i desiderata dei costruttori e dei proprietari terrieri. Quaroni, che in verità aveva mostrato scetticismo sin dalle
prime battute della vicenda, considerando immaturo il
clima per una reale pianificazione, rifletterà la sofferta
delusione di larga parte dell’intelligencija romana in un
saggio magistrale, Una città eterna: quattro lezioni da 27
secoli102. Ma la vicenda del piano di Roma non si svolge
senza conseguenze storiche indirette. Anzitutto, rimane assodato che lo stesso strumento del piano è un’arma spuntata: e non solo per difetto di una volontà politica che lo sostenga o di un appoggio di massa. Il suo
intervento restrittivo in un solo settore di un singolo settore economico – l’uso del suolo – non giustifica le speranze tese a diversi assetti sociali e produttivi, accumulate su di esso da una cultura troppo attenta ai propri
tradizionali strumenti e ora venuta a confronto con interessi ancora nevralgici per lo sviluppo capitalista. Per
poter offrire ai partiti politici contributi realmente tecnici, è necessario entrare direttamente nel «gioco» e trasformare, con esso, la propria attrezzatura culturale.
Ma il dibattito quotidiano sul piano ha anche reso familiare all’opinione pubblica il tema del futuro urbano. La
denuncia non appartiene piú solo alle colonne del
«Mondo», dell’«Espresso», del «Contemporaneo» o ai
quotidiani dei partiti di sinistra: di là a poco, la speculazione urbanistica napoletana verrà descritta da Rosi
per il pubblico cinematografico in Mani sulla città.
Mentre l’Inu si appresta a sferrare la sua ultima grande provocazione in quanto organismo indipendente, con
il Codice dell’urbanistica, l’urbanistica italiana, in possesso della piú bella rivista internazionale specializzata,
si vede costretta a ripiegare su posizioni di denuncia.
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Nel frattempo, sul versante architettonico, emergono
sporadicamente ipotesi che sottintendono nuovi approcci alla definizione della forma urbana.
Parallelamente alle tendenze storiciste e intimiste, si
sviluppa infatti una tendenza che viene subito definita
«neorazionalista», mentre sollecitazioni linguistiche provenienti dalle ricerche piú sperimentali e meno «ortodosse» iniziano a distaccare il problema della scrittura
architettonica da quello dei suoi referenti. È un concorso a fungere da catalizzatore per forze che si dispongono in campo con insegne mutate. Nel 1957, al concorso per la nuova Biblioteca Nazionale di Roma, localizzata nell’area del Castro Pretorio, non risultano presenti né i Bpr, né Albini, né Gardella, né Quaroni, né i
revisionisti settentrionali: piú giovani energie si impegnano, insieme a quell’eterno fanciullo che è Giuseppe
Samonà, ad interpretare l’occasione del concorso come
stimolo per una revisione delle acquisizioni divenute
incerte o addirittura come pretesto per una dichiarazione programmatica103. Le proposte dei gruppi emergenti
si fronteggiano sdegnosamente. I progetti dei gruppi
Benevolo-Giura Longo-Melograni e del gruppo Manieri-Nicoletti (consulente Giuseppe Vaccaro) sono radicali nella loro decisa ripresa del metodo e degli stilemi di
un International Style ripercorso criticamente: nel ’58,
tale affermazione di continuità ortodossa suona polemica, colpendo sia le tendenze storiciste – documentate, peraltro, da alcuni elaborati presentati al medesimo
concorso – sia i revisionismi piú cauti, sia la tradizione
neorealista. Si tratta di un’operazione che travalica la
qualità dei singoli progetti: rispetto all’anonimato cui si
consacra l’afono progetto vincente del gruppo Vitellozzi-Castellazzi, la tradizione rivendicata in particolare
da Benevolo, Giura Longo e Melograni appare portatrice di un metodo adeguato a un’Italia che si va inserendo nel consesso economico internazionale e che di
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conseguenza non può permettersi di vedere disperse le
proprie energie in ricerche marginali. Per Benevolo, in
particolare, si tratta anche dell’annuncio di una svolta
autocritica: il populismo dei suoi primi progetti – come
quello presentato al concorso per il quartiere Torre
Spagnola a Matera – è qui sconfessato; la linea che lo
condurrà a disegnare la sua Storia dell’architettura moderna, negli anni immediatamente successivi, è già tracciata con sicurezza.
Una linea, tuttavia, che non può apparire che riduttiva a chi, come Samonà, considera la stessa architettura moderna come un vasto coacervo di problemi tutti
lasciati aperti e quindi tutti degni di riflessione, al di
fuori di ogni visione «prospettica». Nel 1953-58,
Samonà aveva sapientemente assunto come materiale del
comporre lo strutturalismo di Perret, nei blocchi della
Palazzata di Messina, e aveva dimostrato che nessuna
«oggettività» era in quel «materiale», da lui manipolato con severità non priva di enfasi. Ma l’unità raggiunta attraverso la scomposizione degli elementi era già
stata da lui sperimentata, insieme a Egle Trincanato,
nella sede dell’Inail del 1950-56 presso San Simeone a
Venezia, con una fraseologia fatta di frammenti e di
divertite grafie104. La sapienza del compositore è nella
sua capacità di «commentare», di completare e di chiosare una stilistica, ma anche di completare e commentare un sito urbano. Nel progetto di Samonà per la
Biblioteca Nazionale di Roma il tema di fondo è immutato, anche se cambiato risulta il modello di riferimento.
Ora, è il linguaggio materico e monumentale dell’ultimo
Le Corbusier ad essere rivisitato; ma si tratta solo di un
codice assunto sotto condizione, di un pretesto usato per
dichiarare la necessità di una maestria «classica», per
uscire da un dibattito divenuto angusto e che rischia di
compiacersi del proprio provincialismo. La sicurezza
con cui la fraseologia lecorbusieriana viene ricomposta
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da Samonà in una austera struttura binaria – una L alta,
legata diagonalmente a una piastra tormentata da segni
ermetici – rimane a ricordare una delle tante occasioni
mancate dell’architettura italiana del dopoguerra, ma è
anche la ragione dell’isolamento di questa esperienza. Al
metodo propugnato da Benevolo, Samonà risponde con
la pregnanza della lingua, della «parola piena»: troppo
piena per essere compresa nei suoi significati trasmissibili in quegli anni, eppure profetica di un clima che avrà
bisogno di sollecitazioni internazionali à la page per
affermarsi.
Non un risultato, bensí un acerbo ma denso manifesto programmatico presenta invece Carlo Aymonino.
Anche Aymonino è alla ricerca di una via d’uscita dalle
secche del realismo impoverito che aveva caratterizzato
la sua precedente esperienza professionale; anch’egli
ripercorre la storia dell’architettura moderna alla ricerca di referenti che parlino di una complessità che non
escluda valenze simboliche; anch’egli è disposto a intraprendere, momentaneamente, un’operazione di rilettura. La polivalenza del segno e la componibilità degli
spazi: in Aalto, Aymonino cerca una fonte per una scrittura fatta di accumulazioni e di scatti insofferenti; significativo è che alla fine del suo percorso egli incontri
le edulcorate aggregazioni di Willem Marinus Dudok105.
Chiaramente provvisorio è il dualismo della Biblioteca Nazionale aymoniniana, che comunque, alla pubblicazione dei risultati del concorso, appare come una
novità carica di promesse, e certo fra le piú inattese. Che
la poetica complessità abbracciata da Aymonino avesse
le sue radici proprio nel neorealismo implicitamente
sconfessato era invece, all’epoca, piú difficile da cogliere. Eppure, persino la ricerca di organismi che in qualche modo assumono su di sé la polisemia urbana, e che
nella città si pongano come variabili legate a una tematica morfologica – tema che caratterizza da ora in poi l’o-
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pera di Aymonino – trova nell’esperienza del Tiburtino
una lontana origine. Nei progetti per l’Istituto tecnico
industriale di Lecce e per quello di Brindisi, nel condominio in via Arbia (196o-61), e nell’intensivo di via
Anagni a Roma (1962-63), Aymonino metterà a punto
il suo lessico fatto di affabulazioni: ma le ricerche alla
scala edilizia sono per lui solo esperimenti in vitro,
momenti minimi di un’elaborazione che attende di
potersi confrontare con la scala urbana.
Del resto, il recupero del valore rappresentativo dell’immagine è una tentazione costante per l’architettura
italiana alla fine degli anni cinquanta. Essa è presente a
Milano nell’opera di Vico Magistretti, professionista
abile e capace di modulare inquiete aggregazioni volumetriche, come nell’edificio della Società «L’Abeille»
(con G. Veneziani, 1959-6o), domina l’Istituto Marchiondi Spagliardi a Milano Baggio di Vittoriano Viganò
(1953-57), subito salutato come esempio di «brutalismo» parallelo a quello giapponese e di derivazione
lecorbusieriana106, con piú superficialità, informa l’opera di Caccia-Dominioni107 e rende pensosa quella di Figini e Pollini – pensiamo non solo alla chiesa della Madonna dei Poveri a Milano (1952-54), ma anche alla casa di
via Circo (1954-57) – viene magistralmente coniugato da
Gino Valle a una poetica capace di superare l’oggettivismo di Mangiarotti o l’eleganza astratta di Marco
Zanuso108.
Anche Valle è impegnato in revisioni linguistiche
risolte in etimi di sapore costruttivista109. La sua collocazione geograficamente periferica, ma in presa diretta con
una committenza concreta, lo allontana dalle ideologie
imperanti ma anche dalla voga autobiografica. L’alto
professionismo da lui mostrato nel condominio di via
Marinoni a Udine (1958196o), nel monumento alla Resistenza nella stessa città (progetto di concorso del 1958,
realizzazione del 1967-69), nel condominio in via San
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Francesco a Trieste (1955-57), introduce a un’opera – gli
uffici della Zanussi a Porcia (Pordenone), del 1959-61 –
che lo impone all’attenzione internazionale. L’immagine
dell’industria è qui offerta nella sua polivalenza: le aggettivazioni strutturaliste parlano della qualità possibile del
lavoro industriale, ne traducono la realtà in serena narrazione formale. Ai tormentati appelli dell’alta cultura
architettonica italiana, Valle risponde con un antintellettualismo pago del proprio corretto e sicuro inserimento
nel mondo della produzione: gli uffici della Zanussi preludono cosí a una ricerca che si continuerà senza scosse
fino ad oggi, tesa a pervenire a una realistica conoscenza delle capacità di incidenza della progettazione su una
realtà industriale ridotta all’immediato.
Negli anni cinquanta, all’interno di un dibattito
preoccupato di definire le aree in cui il valore della testimonianza può dissipare le nebbie dell’alienazione, l’opera di Valle appare coraggiosa. La tensione che informa l’organismo e le soluzioni di dettaglio degli uffici Zanussi accetta una tradizione che è al contrario dissipata dalla piatta esercitazione di Melchiorre Bega per
il grattacielo Galfa a Milano (1958), ma anche da quella, piú pretenziosa ma ugualmente vuota, del grattacielo Pirelli di Ponti, Fornaroli e Rosselli (1955-58).
Eppure, l’edificio di Valle è confinato come oggetto
per visite di architetti nella provincia veneta, e le opere
di Gio Ponti e Melchiorre Bega dànno forma al nuovo
organismo terziario milanese: i loro abiti internazionali
sono in sintonia con il bisogno di sicurezza che i ceti
dirigenti dell’Italia del «miracolo» contrappongono ai
sussulti della coscienza alto-borghese espressi dalla Torre
Velasca.
Quel bisogno di sicurezza, peraltro, non è estraneo a
vaste fasce della cultura architettonica. In tal senso, il
«ricorso a Bakema» avvertibile nell’Istituto di farmacologia alla Città Universitaria romana, di Dall’Olio e
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Lambertucci (1957-6o), vale l’esperanto efficientista del
terso volume degli uffici in via Torino a Roma di Libera, Calini e Montuori (1956-1958)110: il formulario
«internazionale», manipolato peraltro con sicurezza da
architetti del calibro di Libera e Moretti, associati per
l’occasione a Vittorio Cafiero, Amedeo Luccichenti e
Vincenzo Monaco, dà contemporaneamente vita al Villaggio Olimpico a Roma (1957-6o), in una zona arricchita dalla presenza dello Stadio Flaminio e del Palazzetto dello Sport di Vitellozzi e Pier Luigi Nervi111. Il
complesso olimpico rimane fra i pochi interventi della
fine degli anni cinquanta nella capitale dotato di una sua
dignità: i lunghi blocchi arcuati definiscono un paesaggio urbano capace ora di recuperare i valori della
strada ora di affermare una poetica dell’indeterminato
qui esente dagli eccessi retorici che caratterizzano alcune delle contemporanee e successive opere di Moretti,
come la palazzina a Monte Mario (1961-62) o il complesso residenziale Watergate a Washington (1959-61).
Rimane però il fatto che il quartiere al Flaminio è un
frammento della «Roma delle Olimpiadi»: di una colossale operazione speculativa, cioè, innestata sull’evento sportivo e alternativa a una sia pur minimale
razionalizzazione dello sviluppo urbano112.
Il professionismo romano è dunque capace di ribattere positivamente alla problematicità di un’alta cultura che non nasconde il proprio disorientamento, e proprio a proposito del nesso disciplina-politica che essa
rivendica come proprio. Sulle pagine di «Casabella» il
dibattito si sposta sul terreno della storia, mentre si inizia a prendere in considerazione con occhi nuovi la
ricerca extraeuropea; ma anche quel dibattito appare ora
limitato, compromesso da un élitismo improduttivo.
L’insofferenza si manifesterà ben presto con tentativi
destinati a breve vita, che vedono alcuni esponenti delle
nuovissime generazioni riunirsi intorno a nuove riviste
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come «Superfici» o «Argomenti di Architettura», e giovani architetti raccogliersi nella Società di architettura
e urbanistica (Sau). Piú che come gruppo di tendenza,
la Sau si pone, dal ’57 al ’63, come un’eclettica associazione di moralisti alla ricerca di un’ideologia. Solo un
generico moralismo, infatti, poteva riunire architetti
come Benevolo, Aymonino, Valori, Giuseppe Campos-Venuti, Melograni, Vittoria, Bruschi, Manieri,
Moroni, Insolera. L’insistenza sui problemi di metodo
e sull’«impegno» all’interno dei grandi problemi posti
dalla realtà italiana forma un curioso contrasto con i prodotti di quegli architetti, attestati – a meno di poche
eccezioni – su formule minimali e pronti a dissolvere il
gruppo ai primi impatti con la politica concreta113.
Al tentativo «di gruppo» della Sau risponde, nel ’59,
l’iniziativa «in grande» di Zevi, che dichiara finita l’epoca dei cenacoli di tendenza e si fa promotore dell’Inarch. Produttori, architetti, tecnici dell’edilizia a tutte
le scale, imprenditori sono chiamati a collaborare all’interno di un organismo nazionale: al limite, a far scontrare in una sede unitaria i loro opposti interessi. L’accusa di corporativismo è sdegnosamente respinta da
Zevi, che sottolinea la funzione dialettica che l’incontro organizzato di forze comunque destinate a comporsi fra loro può esercitare114.
L’Inarch non agirà con le tensioni che avevano caratterizzato la vita dell’Inu, e i grandi obiettivi auspicati
da Zevi nel suo discorso di promozione rimarranno in
gran parte inevasi. Ma anche la formazione dell’Inarch
va registrata come un sintomo delle confuse aspirazioni della fine degli anni cinquanta: né se ne comprenderebbero le ragioni storiche sottovalutando che di lí a
poco il dibattito sulla formula politica del centro-sinistra dilanierà i grandi partiti italiani e provocherà aggiustamenti e ridimensionamenti nell’intero schieramento
culturale.
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È condizionata da tale clima che viene alla luce, nel
196o, la Storia dell’architettura moderna, di Leonardo
Benevolo. Far chiarezza a costo di semplificare con noncuranza, e tracciare una linea coerente e progressiva che
attraversi sicura la «tradizione del nuovo» sono al centro del progetto storico benevoliano: il Modern Movement teorizzato nel ’36 da Pevsner diviene qui un solido edificio, alla cui ombra ansie e inquietudini possono
trovare riposo e appagamento. Rassicuranti anche gli
esiti scelti come exempla nelle pagine finali: schiacciata
l’allucinante testimonianza dell’ultimo Mies in una lettura inesorabilmente riduttiva, considerati con scettica
compunzione i «furori» di Le Corbusier e di Wright
anni cinquanta-sessanta, «attuali» risultano – come continuatori della giganteggiante ortodossia gropiusiana –
Bakema e Van den Broek e Arne Jacobsen. Ma ciò che
interessa Benevolo non è la contrapposizione di una lingua a un’altra. Anzi, il suo sforzo è dimostrare che il
movimento moderno nasce e si sviluppa come progetto
di complessiva ricollocazione delle attività umane in un
contesto che ha come obiettivo la riforma della vita
associata nelle sue varie espressioni e alle sue diverse
scale.
In definitiva, la Storia benevoliana si colloca, nel
196o, come una sorta di diga contro i deviazionismi, ma
anche come un rappel à l’ordre, oltre che come summa
tranquillizzante. Vaghi sono sia il sociologismo che l’interpretazione della politica che informano l’opera di
Benevolo. Ciò che per lui conta è che, alle soglie di una
nuova fase storica delle trasformazioni del paese, gli
architetti possano ritenersi sciolti dalle ipoteche figurative che Zevi, Rogers o i revivalisti fanno pesare su di
loro: il metodo benevoliano è assai piú erede del riduzionismo postneorealista di quanto non apparisse al
momento. Tuttavia, la revisione storiografica di Benevolo, tesa anch’essa a individuare radici politiche nei
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modelli di lavoro intellettuale, appare decisamente in
ritardo. Il suo ottimismo, a distanza di nove anni dalla
tormentata lettura compiuta da Argan del Gropius di
Weimar, riflette una posizione di difesa.
Neanche un’opera indubbiamente di alta qualità,
come la nuova sede della Rinascente realizzata da Albini e Franca Helg in piazza Fiume a Roma (196o-61)
appare però in sintonia con i nuovi problemi115. Nel passaggio dal primo progetto (1957-59) all’esecuzione, la
«macchina» albiniana subisce un sensibile calo di tensione: una struttura in ferro sapientemente denunciata
contro un volume totalmente cieco è sostituita da un’increspata cortina di cemento inerte color rosa, incisa dal
reticolo strutturale e interrotta, verso la piazza, da un
troppo gradevole finestrone. Come oggetto che voglia
ostentare la propria reificazione, la Rinascente è eccessivamente colloquiale con l’intorno urbano; come sperimentazione sulla tematica delle «preesistenze», essa si
mostra troppo spaesata. L’equilibrio raggiunto con l’edificio dell’Ina parmense si è rotto. La Rinascente di
Albini e Helg rende palese che quel tema si è esaurito,
insieme alle motivazioni che ad esso facevano da supporto. Ad altre dimensioni il problema del colloquio
con le strutture esistenti va ora posto: una linea alternativa inizia a profilarsi dalle analisi sulla forma fisica
della città e del territorio che si sviluppano all’interno
dell’Inu, senza integrarsi, se non verbalmente, alla consueta attività di denuncia o all’individuazione di canali
burocratici di intervento.
Si badi bene: spesso tale linea alternativa è battuta
dai medesimi protagonisti dell’architettura come autoriflessione, mantenendo come obiettivo di fondo il raggiungimento di «parole piene» nelle tecniche di intervento sulla città e sul territorio inconsciamente parallelo alla ricerca di parole piene nel settore dell’oggetto.
Singolare coincidenza, questa, che non tarderà a pro-
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durre i suoi effetti nel tentativo di ricongiungere le due
scale operative attraverso l’invenzione di una soluzione
di continuità funzionante come magnete ricoagulante
forze in divaricazione.
Non è certo casuale che nella tavola rotonda del Convegno di Lecce dell’Inu116 (1959), Giancarlo De Carlo,
Piero Moroni, Quaroni e Eduardo Vittoria concordino
nel ritenere usurato il termine «urbanistica», ma solo
per ricomprenderne i significati nel termine «architettura». Eppure, dopo aver in tal modo operato una sintesi artificiale, da essa si riparte per riempirla di senso,
travalicando ogni limitazione di scala e ogni tecnica di
comunicazione. Protetta da una parola, la volontà di
potenza è libera di spaziare nel terreno magico della
«città-regione»: coniando termini, il controllo sognato
si estende alle nuove dimensioni sollecitate dalla scoperta dell’implosion creata dai mass media, dal «progresso tecnologico, dall’assenza di limiti che i mutamenti di scala nella vita e nella scena urbana» sembrano introdurre. Di nuovo, l’intellettuale tenta di riconoscersi entrando in una stanza dagli specchi ricurvi e
descrivendo lo shock provato di fronte all’immagine che
ne risulta. Non si tratta più della stanza dolorante della
realtà contadina e meridionale, ma del soggiorno metafisico e tecnologicamente iperattrezzato installato in un
ipotetico missile: il «paese dei barocchi» viene abbandonato a favore di un viaggio nel territorio delle «città
invisibili».
Nel medesimo 1959, un volume di Giuseppe Samonà,
L’urbanistica e l’avvenire delle città europee, apre anch’esso, con maggior riflessività, il tema della scala extraurbana: gli esempi della Greater London e dei grands
ensembles francesi sono assunti a pretesto di una lettura della forma fisica dell’ambiente che allude a profondi ridimensionamenti disciplinari. Due elementi emergono da tale complesso di fermenti: da un lato, l’accen-
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to si sposta sul visibile; dall’altro, ciò che è messo in crisi
è l’urbanistica come «modello», con un inconsapevole
recupero di tematiche «regionaliste». Crisi del modello,
comunque, senza referenti istituzionali: la critica alla
«città come forma» o alla poetica del quartiere lascia
libera la valenza politica che in qualche modo era contenuta (o compressa) in quegli strumenti operativi. Operazione duplice, dunque, quella che si compie allo scadere degli anni cinquanta. Azzerando, almeno teoricamente, l’usurata relazione piano-istituzioni, si fa emergere il problema di nuovi soggetti e nuove tecniche per
nuove istituzioni; riconvogliando immediatamente il
tema emerso nell’alveo rassicurante della «volontà di
forma», si impedisce al problema stesso di esplodere.
Le istanze avanzate nel corso della tavola rotonda di
Lecce hanno piuttosto modo di esprimersi in occasione
di un ulteriore concorso, destinato, come i molti altri che
segnano le tappe della nostra storia, a divenire una pietra miliare per il dibattito culturale, risolvendosi in un
nulla di fatto dal punto di vista realizzativo. Nello stesso 1959, infatti, gli urbanisti italiani giungono puntuali all’appuntamento fissato loro dal concorso per un
quartiere Cep alle Barene di San Giuliano (Mestre), in
una zona prospicente la Venezia lagunare117.
È il progetto del gruppo diretto da Quaroni a sollevare un dibattito di ampie ripercussioni. In effetti, quel
progetto segna una tappa decisiva per la cultura architettonica internazionale: in esso, Quaroni concentra i
risultati positivi desunti dal suo incessante criticismo,
l’intuizione di inediti metodi progettuali in sintonia con
un design a grande scala, una spregiudicata lettura della
morfologia storica lagunare, l’attenzione per una comunicazione visiva destinata a un pubblico di massa e
polistratificato. L’aleatorietà informe dello zoning e la
rigidità formale della definizione architettonica vengono respinti a favore di un town design precisato nella
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trama delle relazioni fra le sue principali componenti e
lasciato indeterminato per quanto riguarda la forma
delle singole parti. Ma è proprio un’estetica dell’indeterminato che qui Quaroni ricerca. I grandi edifici semicircolari, che si concatenano specchiandosi nella laguna
e formando un’enorme cerniera da cui si diparte un tessuto urbano che esplode a raggera verso l’entroterra,
alludono alla lezione urbana del tessuto storico veneziano: un’allusione non perseguita tramite rimandi
visuali, bensí percepibile a livello strutturale. La polistratificazione della città, l’intersecarsi delle sue immagini polisense, l’eclettismo che l’informa sono accolti da
Quaroni in un’organizzazione di segni a grande scala
informati a un vitalismo che influenza anche gli strumenti della progettazione: la scoperta dell’immensa ricchezza comunicativa dell’aleatorio si traduce in un
«piano-processo», in un’«opera aperta» a livello urbano. Le molte invenzioni tipologiche che Quaroni abbozza per la configurazione dei tessuti da lui connotati
informalmente non sono vincolanti; le configurazioni
architettoniche vengono liberate dal disegno urbano: ad
esse viene restituita una piena autonomia all’interno di
uno schema fissato come puro sistema relazionale.
Non sono solo l’ideologia del quartiere e la microsociologia che l’accompagnava ad essere definitivamente
sepolte dal progetto di Quaroni per il Cep di San Giuliano. L’intera fase sperimentale attraversata dai complessi del secondo settennio Ina-Casa trova in esso una
soluzione e un punto di svolta. Una nuova disciplina si
fa qui strada, alla cui origine è certo la riflessione quaroniana sulle metropoli statunitensi, ma anche una critica – ben piú profonda di quella poi espressa da Alexander – ad ogni ipotesi di sviluppo urbano per «addizioni
conformi»: il manifesto che si fa leggibile in questo progetto non a caso diverrà fondamentale per ricerche
tutt’oggi in corso.
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Eppure, lo stesso Quaroni trova difficile dar immediatamente seguito alla difficile svolta impostata. Negli
studi e nella soluzione finale del piano di lottizzazione
di Lido di Classe a Ravenna (con D’Olivo, Antonino
Manzone e Antonio Quistelli), la ricerca iniziata nel
’59 prosegue con risultati originali; ma nel ’62 il progetto del gruppo Quaroni per il centro direzionale di
Torino ricade nell’equivoca identificazione della progettazione urbana con un’architettura dilatata.
Per piú versi, comunque, il progetto quaroniano per
il Cep di San Giuliano apre al nuovo clima degli anni
sessanta. Esso appare infatti in un momento in cui si va
profilando una nuova realtà agli occhi degli intellettuali
italiani: la rapidità della crescita economica e le profonde trasformazioni nella società e nei comportamenti,
indotte dalla convulsa urbanizzazione e dal diffondersi
delle comunicazioni di massa, provocano la formazione
di modelli interpretativi che ben presto spiazzano quelli del decennio precedente. Ai miti neorealisti si sostituiscono ora quelli tecnologici, magari letti attraverso
una riconsiderazione del lascito delle avanguardie storiche: non si tratterà quindi della tecnica celebrata trionfalmente da Pier Luigi Nervi nel Palazzo e nel Palazzetto dello Sport a Roma, o nel Palazzo del Lavoro a
Torino, né di una semplice assunzione dei nuovi riti dell’affluent society. Si tratta, piuttosto, di nuove ricerche
premute, da un lato, da una realtà che sembra travolgere in una corsa sfrenata ogni modello stabilizzato, dall’altro, da una crisi di strumenti che si riflette nelle
inquietudini da cui hanno origine i ripensamenti di
Libertini e Panzieri, di Franco Fortini, di Elio Vittorini, del «marxismo eterodosso».
Un diffuso clima antiideologico si diffonde a partire
dai fermenti che provengono da tale coacervo di riflessioni, mentre dalle tesi di Colombo sulla necessità –
anche e principalmente per le aree industrializzate del
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Nord – di investimenti produttivi nelle regioni sottosviluppate, e di Saraceno sull’impiego del capitale pubblico per un sistema economico autopropulsivo e tendente al pieno impiego, dalla tendenza dell’imprenditoria piú avanzata a puntare su una crescita della domanda globale, dalle ipotesi sul controllo del mercato da
parte dello Stato tramite la pianificazione degli investimenti (nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, 1962), esce un
quadro favorevole all’istituzionalizzazione di una politica di piano.
L’Inu, presentando nel 196o il proprio progetto di
Codice dell’urbanistica compie, in tal senso, un’azione
conclusiva e contemporaneamente di apertura: finiti i
tempi delle contrapposizioni astratte, sembra ora il
momento di aprire un colloquio più articolato con i partiti, e il quadro perfetto del Codice costituirà, per frammenti, l’occasione per alcuni dei piú significativi scontri politici. Ma è un’intera concezione dell’urbanistica
a rinnovarsi agli inizi degli anni sessanta.
Piú tecniche debbono ora investire il territorio: non
si tratta piú dell’invecchiato mito dell’interdisciplinarità,
riflesso a sua volta della «repubblica dell’intelletto» olivettiana. La fondazione di organismi di ricerca come l’Istituto lombardo di scienze economiche e sociali (Eses),
in cui sono attivi un urbanista come De Carlo e un economista come Sylos-Labini, sposta i termini del colloquio fra le tecniche, rendendo molto più articolato, fra
l’altro, il rapporto fra analisi e interventi. Nel ’62, il convegno organizzato dall’Ilses a Stresa fa il punto sulle
esperienze internazionali e individua come precipua la
tematica della città-regione118. È la fine del «modello»,
della forma globale da imporre alla dinamica urbana, che
viene decretata al Convegno di Stresa. De Carlo, nel
chiudere i lavori del Convegno, parla della città-regione come di un insieme di relazioni dinamiche istituite
all’interno di una galassia territoriale di insediamenti
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specializzati, resi omogenei da quello stesso arco di interrelazioni. Ed è chiaro che l’intervento su un insieme in
continua mutazione non può pretendere di pervenire a
una «forma», a meno di non far compiere un salto concettuale a quest’ultima: l’attacco che De Carlo e Quaroni avevano sferrato nel 1954 contro la tradizione urbanistica italiana si rovescia in positiva ipotesi metodologica. Lo stesso piano di Roma appare, alla luce delle
nuove considerazioni, sin troppo preoccupato a imporre un impossibile controllo sulla forma complessiva della
città. Gli studi per il piano intercomunale di Milano, che
vedono attivo, fra gli altri, lo stesso De Carlo, si appellano ancora a uno scheletro formale – un disegno «a turbina», le cui estremità fungono da teste di ponte territoriali per un organismo policentrico – ma solo come
supporto per successivi interventi, non tutti «disegnabili»119.
Immediatamente, la «grande scala» entra a far parte
del bagaglio mitologico della cultura architettonica italiana. Chi pensa di dover aderire all’invito di Vittorini
ad appropriarsi della nuova realtà creata dall’universo
industriale si avvicina all’automazione e alla cibernetica, o ai modelli dell’economia spaziale, subendo il fascino dell’incontrollabile e proiettando in immagini futuribili le proprie dissimulate emozioni. Rispetto al populismo e al sociologismo degli anni cinquanta, i riferimenti e i modi di approccio risultano mutati, ma non gli
atteggiamenti intellettuali. Avviene, cosí, che le aperture
provocate dalle analisi dell’Ilses e dai risultati del Convegno di Stresa si compongono con le suggestioni che
provengono dai progetti di Kenzo Tange per la baia di
Boston e per Tokyo (196o), pubblicati con grande rilievo: «Casabella» vive una nuova stagione, con un susseguirsi di numeri monografici dedicati alla realtà americana, ai centri direzionali, alla «città-territorio», al piano
intercomunale milanese, ai grandi concorsi nazionali e
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internazionali. Gli studi del Lynch sulla struttura dei
luoghi urbani e sulla loro riconoscibilità si fondono con
immagini che provengono da una cultura che elegge la
tecnica a feticcio: importante è sacrificare al nuovo
totem, non conoscere la realtà in esso sublimata. La
febbre per la «grande dimensione» cerca ancora luoghi
ove deporre forme. Disperando di poter investire livelli generali, quei luoghi vengono individuati fra i gangli
dell’organismo territoriale, letto come struttura in mutamento incessante: di quel campo magnetico si spera di
poter definire almeno lo scheletro portante, l’ossatura
infrastrutturale e i suoi cervelli. I centri direzionali
appaiono come nuclei dirompenti e di coagulo delle
forze interagenti nel territorio: i progetti elaborati dagli
studenti della facoltà di architettura di Roma nel
1961-62, nel tentativo di definire la struttura direzionale della capitale120 e quelli di architetti come Aymonino, Canella, Quaroni, Samonà, Aldo Rossi per il concorso per il centro direzionale di Torino (1962) cantano le loro apologie al terziario, relazionandosi, come
«macchine» cariche di promesse, a una dimensione
regionale. La sintesi fra architettura e urbanistica, preconizzata nel ’59 alla tavola rotonda di Lecce, sembra
ora trovare il proprio campo di applicazione. Le megastrutture che popolano le riviste di architettura – subito criticate da Ceccarelli come espressioni di un’«urbanistica opulenta»121 – o che, come nel caso del progetto
di Aymonino e P. L. Giordani per il centro direzionale
di Bologna, rimangono fra le velleità delle amministrazioni comunali italiane, vanno però valutate in quanto
sintomi122. Si tenta di progettare ciò che fuoriesce da possibilità previsionali, si tenta di entrare, con lo strumento del disegno, nella cittadella in cui si suppone troneggiare il Potere, si cerca di sottoporre quel luogo sacrale
a una forma, in un inconscio esorcismo compensatorio.
Se il realismo aveva tentato di unificare la lingua del
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«popolo» e quella dei colti, ora quegli stessi colti cercano di dare una lingua ai nuclei anonimamente pensanti
in cui essi – per semplicità – radunano i centri del dominio.
Il fenomeno si verifica in Italia con caratteri particolari, ma è diffuso a livello internazionale123. Esso riflette, fra l’altro, un profondo disagio nei confronti dei
limiti propri dell’architettura e il trauma per il profilarsi
del planning come disciplina del tutto autonoma. Mentre prende piede la nuova «internazionale dell’utopia»,
quel disagio si manifesta anche in dimensioni piú tradizionali, con gesti di insofferenza accolti come risposte
architettoniche alle provocazioni dell’Action Painting:
il caso piú clamoroso è quello della chiesa michelucciana all’imbocco dell’autostrada Firenze-Bologna (progetto 1961-62, inaugurazione 1964)124.
Con la Chiesa dell’Autostrada, Michelucci dà vita a
un singolare tentativo di forzare la logica architettonica, esponendo una vera e propria battaglia fra la materia, dotata di forze prorompenti, e la struttura, piegata
alle piú paradossali deformazioni. Non dai sofferti labirinti autobiografici riposti nelle pieghe della cappella di
Ronchamp, proviene tale insofferente coacervo di spazi
e di oggetti informali, bensí da una sorta di contestazione permanente, vissuta da Michelucci nei confronti
dell’imperativo formale. Ancora un luogo che chiama
alla partecipazione, che fa appello all’esperienza vissuta
e che disdegna la geometria in quanto costrizione. Persino a contatto con la pista della velocità – o proprio perché a contatto con essa – l’architettura cerca di negare
la possibilità di un «comporre». Scomposta, la Chiesa
dell’Autostrada sembra voler costituire un monito per
l’automobilista disattento: non lo obbliga a fermarsi per
contemplare, bensí gli presenta un ammasso di materiali violentati per mostrare l’innaturalità del «falso moderno». Il neoespressionismo michelucciano si fa strada
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sperimentando una intera gamma di variazioni su temi
informali: un linguaggio fatto di lacerazioni, di membrane, di scavi fiabeschi o onirici, di avvolgenze e di percorsi intrecciati, di materia e di coaguli strutturali è
parlato da Michelucci, con sempre maggior coerenza,
nella chiesa di Borgomaggiore a San Marino (1961-66),
nella chiesa di Longarone (1966-78), forse il capolavoro della sua ultima fase, in quella di San Giovanni Battista ad Arzignano presso Vicenza (1965-67), mentre in
una serie di progetti – per le chiese e i centri parrocchiali
di Montalbano Jonico e di Sesto Fiorentino, per un
memorial michelangiolesco nelle Alpi Apuane, per un
complesso termale presso Massa Carrara, per la sistemazione della limonaia di Villa Strozzi a Firenze125 – la
dinamica del segno e l’inviluppo delle forme raggiungono un horror vacui di sapore piranesiano.
È nei primi anni del ’6o, comunque, che le nuove
ricerche di Michelucci informano largamente la «maniera» della scuola fiorentina126. Nel quartiere di Sorgane
presso Firenze (1963-66), che solleva una vasta polemica
in merito alla sua localizzazione, Leonardo Ricci e Leonardo Savioli traducono, per vie indipendenti, il «furor»
michelucciano in brutalismo strutturale: il lungo blocco
residenziale di Ricci scardina con impazienza i nessi sintattici alla ricerca di un rinnovamento tipologico, mentre Savioli, nella casa in via Piagentina a Firenze (1964),
progettata con Danilo Santi, gioca su escrescenze materiche, su enfatizzazioni oggettuali, su paradossi formali.
Il tutto viene portato all’eccesso da Ricci nel progetto per
il Villaggio degli ulivi a Riesi, in Sicilia (1963): qui inospitali caverne si aprono come fossili di animali preistorici, a mimare un «assoluto naturale» memore delle organiche amebe di Finsterlin, ma anche degli habitacles di
André Bloc o dell’approdo gestuale di Fredrick Kiesler.
Dietro tanta ansia di pienezza semantica sono stimoli
culturali diretti: la rimeditazione sulla stagione espres-
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sionista, anzitutto, ma anche la volontà di comunicare
un’incertezza e insieme il fastidio che si prova nei confronti di quest’ultima, l’angoscia, infine, per una «perdita» compensata con i sempre piú insistenti tentativi di
applicare all’analisi architettonica i risultati della ricerca semiologica. Non è un caso che da tale clima esca, nel
1964, la mostra su «Michelangiolo architetto» (Roma,
Palazzo delle Esposizioni), in cui Zevi e Portoghesi
fanno del Buonarroti un furente iconoclasta che, al di
sopra dei secoli, porge la mano sia a Pollock che a Frank
Lloyd Wright127. Con la mostra michelangiolesca, la «critica normativa» tocca forse il suo punto piú basso: la rinvenzione di Michelangelo – sia che si tratti del Michelangelo delle fortificazioni fiorentine, che di un improbabile «Michelangelo urbanista» – è funzionale infatti
a un’ipotesi di retroguardia; la stessa che Zevi batterà
riproponendo la figura di Erich Mendelsohn, pochi anni
piú tardi. Ad intellettuali delusi e frustrati viene infatti proposta una poetica fatta di eroiche sublimazioni: e,
quel che piú conta, una poetica che spinge a vestire gli
abiti del dolente furore come se fosse in gioco una questione di prêt-à-porter. Il neoespressionismo italiano –
interpretato in forme professionalmente smaliziate da
Marcello D’Olivo nella Villa Spezzotti a Lignano Pineta (1958) o nella città di vacanze a Manacore del Gargano (1964), oltre che da Guido Canella, per il quale è
necessaria una diversa disamina – appare piú che altro
come un cosmetico labilmente sovrapposto a un volto
disciplinare raggrinzito e consunto. E come ogni cosmetico, anche questo serve a non prender coscienza del perché di quel decadimento, serve ad illudersi di vivere una
perenne giovinezza, invece di chiedersi quali siano i
ruoli adeguati alle nuove condizioni che si profilano. Gli
entusiasmi della critica per la chiesa michelucciana dell’Autostrada si saldano cosí alle proposte che celebrano
come attuale l’estetica dell’«ambiguo traditore».
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L’etica che emerge dai modelli che tale tipo di storiografia propone è, significativamente, quella del perdente, di chi ha bisogno di essere sconfitto per cantare
il proprio eroismo. E v’era da rimanere perlomeno perplessi quando poi quella critica riteneva suo dovere indicare, nella produzione contemporanea, come esempi di
linguaggio «anticlassico» e di anticonformismo, le piatte esercitazioni tecnologiche dell’Habitat di Moshe Safdie a Montreal e le eleganti e rarefatte disarticolazioni
dell’edificio in via Campania a Roma, dello studio Passarelli (1963-65)128.
Il disorientamento della critica riflette però l’incerto
riassestamento dei ruoli di fronte a una piú precisata
domanda politica e a una massificazione ancora confusa dei bisogni. Le vecchie ostilità nei confronti delle
scienze sociali, da parte comunista, sono svanite; ma
insieme risultano miseramente consumati i miti dell’impegno generico e quelli legati ad astratti umanesimi.
Nel vuoto creatosi, i partiti di massa chiedono supporti
tecnici. In mancanza di progetti di riorganizzazione
complessiva del lavoro intellettuale, questi ultimi vengono offerti sulla base di strumenti in disuso. Tipico, al
proposito, il compromesso che nel dicembre del ’62 permette al comune di Roma di adottare un piano regolatore redatto da una commissione già composta con l’occhio fisso alla politica di centrosinistra129. Il sovradimensionamento del piano, l’incertezza fra le direttrici di
espansione, lo zoning – generico per i settori esistenti o
di completamento, basato su inadeguati modelli nucleari per quelli di nuovo impianto – si sommano a una struttura direzionale ereditata dallo schema del Cet: una tecnica incerta viene a soccorso di una politica urbana
sostanzialmente statica. L’unico spunto innovativo non
era nel disegno, ma nelle norme che lo accompagnavano, là dove era prevista la formazione di un «osservatorio urbanistico», memore dell’Outlook tower ged-
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desiana, atto a seguire la dinamica dello sviluppo territoriale e urbano. Non a caso, quella indicazione rimarrà
lettera morta.
A confermare che il piano del ’62 è solo un inoperante disegno, una disseminazione di attrezzature, servizi e insediamenti rende sempre meno significativa l’ipotesi del sistema direzionale orientale, compromesso,
inoltre, dalla progressiva saturazione dei suoli. È l’Eur,
anzitutto, che pesa, a sud, come Business District dal
volto efficiente e luogo residenziale dei ceti medio-alti:
l’internazionalismo da parata dei grattacieli dell’Eni e
del Ministero delle Finanze – quest’ultimo di C. Ligini,
G. Marinucci e R. Venturi (1958-62) – nella zona prospicente il lago, insieme al Palazzo dello Sport di Nervi
e Piacentini, configura la «porta» urbana da sud, mentre i palazzi per uffici di Luigi Moretti e Vittorio Ballio
Morpurgo (1963), nella loro sofisticata astrazione, fungono da propilei sul lato opposto dell’asse mediano. La
sicurezza e l’ottimismo dell’Italia che si «modernizza»
in pieno miracolo economico trapelano dal nuovo Eur,
l’unico reale polo direzionale della capitale: un polo che
parla – e non poi tanto sotto metafora – degli elementi
di continuità che legano le espressioni ufficiali del ventennio fascista a quelle del regime democristiano130. È
ancora Moretti, nel ’62, a confermare, con il suo quartiere Incis presso l’Eur, la direzionalità dell’insediamento polifunzionale che la gestione del commissario
straordinario Virgilio Testa riesce a innestare sulle spoglie degli edifici realizzati per l’E 42131. In tono minore,
si tratta di modelli linguistici e tipologici affini a quelli
del quartiere Olimpico: ma sia l’intervento dell’Incis,
che i lunghi blocchi iperrazionalisti di Pietro Barucci per
il nucleo direzionale di piazzale del Caravaggio (1968)
sostengono un’edilizia speculativa che nessun programma pubblico si incarica di coordinare, fra la Cristoforo
Colombo e il dorato suburb di Casal Palocco.
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Non solo l’Eur e l’asse da esso segnato vengono consolidati in palese contrasto con le direttive del piano
regolatore. Fra il ’59 e il ’69 vengono realizzate a piazzale Clodio, su progetto del gruppo Perugini-Monteduro, le nuove Preture, la cui pur notevole castigatezza linguistica, in gran parte dovuta alla matita di Vittorio De
Feo, non riesce a riscattare l’infelice localizzazione,
mentre la realizzazione del progetto Vitellozzi per la Biblioteca Nazionale al Castro Pretorio (1959-67), il palazzo per gli uffici Rai-Tv a viale Mazzini di Berarducci e
Fioroni (1963-65), gli sporadici interventi nella zona di
piazza Fiume – via Veneto – dalla Rinascente albiniana
al puristico prisma per uffici di Montuori e Calini in via
Po – punteggiano la fascia contigua al centro storico,
rendendo almeno problematica una riconversione di tendenza132.
Il sistema orientale, cardine del dibattito che aveva
condotto al compromesso del ’62, rimane cosí oggetto
di sperimentazioni accademiche, seguite da una singolare iniziativa, che vede architetti del calibro di Quaroni, Zevi, Fiorentino, i Passarelli, Morandi, con la consulenza di Gabriele Scimemi, associati nello studio Asse,
costituitosi per la progettazione dell’intero sistema direzionale (1967-70)133. Si tratta, evidentemente, di un’impresa che intende raccogliere l’intero schieramento della
cultura architettonica romana con fini promozionali:
all’immobilismo delle istituzioni, la cultura risponde con
i propri strumenti, offrendo gratuitamente alla città il
proprio progetto, nella speranza di rimuovere, con un
adeguato battage pubblicitario, le remore che bloccano
il rinnovamento dell’organizzazione urbana. Quanto
esce da tale ultimo appello alla libertà concessa alla separatezza del laboratorio sperimentale è una «macchina
inutile» che cerca di svincolarsi dalla propria condizione reificata tramite appelli a codici geometrici che giacciono muti. L’orrido che scaturisce da una condizione
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di astinenza porta all’eccesso il gioco perverso che era
stato impostato in aule universitarie ansiose di nuova
purezza. L’animale mostruoso rimane lí come testimonianza di una nevrosi collettiva, di un’impotenza priva
di pathos, dell’anacronismo di operazioni ancora partecipi di atmosfere terzaforziste.
Pur di non farsi «tecnici» si compete con la tecnica,
obbligandola a uno sposalizio sterile con universi
metaforici privi di spessore. Eppure, da soli, i Passarelli avevano dimostrato di saper compitare correttamente e con sicura professionalità molteplici lingue, Riccardo Morandi rimaneva il piú valido e inventivo strutturalista italiano. Quaroni proseguiva la sua tormentata
ricerca indulgendo a modulazioni kahniane nel centro
governativo alla Kasbah di Tunisi (1966-67), elaborando sistemi di controllo per il disegno urbano ricchi di sollecitazioni, come nel piano regolatore di Bari (1965-73)
e negli studi per il lungomare della stessa città, tornando a una sofferta riflessione sugli strumenti della configurazione con il progetto per la chiesa di Gibellina
(1970), in cui lo scontro fra purezza e impurità persegue una dialettica che rassomiglia a una confessione personale. Solo Fiorentino riuscirà a trarre, dall’esperienza
dello studio Asse, un risultato: ma bisognerà attendere
l’occasione del complesso al Corviale.
Non era piú tempo per forzate koiné, né per riaffermare primati improbabili per un lavoro intellettuale
troppo incerto sulle proprie finalità per potersi fare alfiere di messaggi progressivi. Le speranze sollevate dal
primo centro-sinistra, d’altronde, erano indirizzate a un
rinnovamento degli strumenti legislativi su cui si appuntano sforzi e attenzioni. È in tale periodo che matura la
formazione di ruoli direttamente implicati nella gestione dei vari settori dell’edilizia e dello sviluppo urbano,
con riferimenti precisi alle strategie dei partiti politici,
e di quello socialista in particolare. Non si tratta sola-
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mente di miti tecnocratici. L’esigenza piú sentita è di
creare rinnovate impalcature tecnico-istituzionali adeguate a un’efficiente strategia di riforme; solo in seguito, anche sulla base delle nuove delusioni sofferte, la cultura architettonica si porrà il problema di un ripensamento teorico. Ma sin dalla prima metà degli anni sessanta, tecnici come Michele Achilli, Baldo De Rossi,
Giuseppe Campos-Venuti, Marcello Vittorini, Edoardo
Salzano, Federico Gorio cercano collocazioni all’interno degli enti gestiti piú o meno direttamente dai partiti di sinistra, scavalcando i ruoli tradizionali legati alle
figure dell’architetto o dell’urbanista. Tutt’altro che
trasparenti i compiti da essi svolti in organismi come la
Gescal, l’Ises, le amministrazioni comunali o addirittura
in Parlamento. Comunque, il loro impegno è antitetico
rispetto a quello di chi attende catarsi dalla manipolazione delle forme e dalla concitata elaborazione di
modelli. Anche per loro l’illusione proviene da una lettura del reale ancora ideologicamente distorta. Difficile però ignorarne, al di là dei risultati e di ogni moralistica considerazione, l’apporto concreto, non foss’altro
che nella demolizione di discipline consunte o nella
delimitazione del loro possibile uso.
Tale è il clima che vede la cultura architettonica
affrontare il tema posto dalla nuova legge per l’acquisizione pubblica dei suoli per l’edilizia economica e popolare, la «167» del 1962. Rispetto all’esproprio generalizzato caldeggiato dalla sinistra socialista e dal partito
comunista, la nuova legge è indubbiamente compromissoria, e non sostituisce certo i progetti di legge che la
Democrazia cristiana riuscirà ad accantonare sconfessando il proprio ministro, Fiorentino Sullo, fattosi
interprete dei voti dell’Inu e delle istanze di riforma.
Anzi, congelando porzioni di aree urbane, piuttosto che
da calmiere nel mercato dei suoli la «167» agirà nel
senso opposto: ma in un comune come Roma essa appa-
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re un buon punto di appoggio per sferrare una battaglia
per riforme a piccola scala.
In prima linea vengono posti il coordinamento degli
enti operanti nel settore dell’edilizia economica e popolare e l’integrazione del loro intervento con quello dei
privati tramite l’inquadramento nei piani regolatori – i
programmi «167» sono infatti intesi come piani particolareggiati – mentre la Gescal, formatasi nel ’63, sostituisce l’Ina-Casa inserendosi nei programmi suddetti
sulla base di un piano decennale, e l’Ises sostituisce
l’Unrra-Casas rivolgendosi all’edilizia sociale con finalità
tuttavia indeterminate134. Tutt’altro che facile si rivelerà
l’uso di tali nuovi istituti. Gli interventi rimangono
inferiori al fabbisogno, il centro studi della Gescal, su
cui si appuntano molte speranze di rinnovamento tipologico e produttivo, si rivela una sacca di contenimento
per tecnici e non sopravvive a un biennio; il controllo
dello sviluppo urbano sfugge ai disegni dell’operatore
pubblico. Ciò non toglie che nella progettazione dei
quartieri «167» si concentri la rinnovata volontà di
forma a scala urbana preannunciata a livello teorico e
sperimentale alla fine degli anni cinquanta. Nel progetto per il quartiere a Tor de’ Cenci, Aymonino e Maria
Luisa Anversa rivolgono un deferente omaggio al Cep
quaroniano di San Giuliano, racchiudendo lo spazio in
due semicerchi planimetrici affacciati; nei progetti per
il quartiere al Casilino (1964-65), il gruppo guidato da
Quaroni sperimenta dapprima una morfologia fatta di
segni elastici, per poi attestarsi su forme che sembrano
ispirarsi alle ricerche visive della «op art» e giungere
infine a una soluzione «a ventaglio», come metaforica
esplosione di un nucleo nascosto; nel quartiere di Spinaceto, realizzato fra il ’64 e il ’7o dal gruppo Piero
Moroni - Nico di Cagno, domina invece una contaminazione tipologica scambiata per ricchezza, una grafia
contrabbandata come forma, un variare non necessario.
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Solo con i quartieri del Corviale e di Vigne Nuove135 a
Roma e Gallaratese a Milano, la «167» sarà interpretata con risultati degni di nota: ma allora le illusioni sull’efficacia del nuovo strumento legislativo si saranno
del tutto volatilizzate.
Al confronto con la realtà, il dibattito sollevato dalla
scoperta della «nuova dimensione» e dall’individuazione del town design come autonomo strumento di configurazione è destinato a ripiegare su se stesso, entrando
ben presto in crisi. Man mano, inoltre, che le illusioni
sul primo centro-sinistra vengono a cadere, anche i
nuovi rimedi tecnico-politici si rivelano affetti da sindrome demiurgica. Come è stato scritto, in quegli anni
«l’architetto che vuole sfuggire al cliché dell’artista cade
in un nuovo e definitivo ruolo pagliaccesco [...] il suo
livre de chevet diventa l’ultimo numero del “Journal of
the A.I.P.”, diserta le mostre d’arte e il bollettino dell’Istat lo appassiona piú di Gadda o Montale»136. Forse
ingeneroso un cosí reciso giudizio su un gruppo intellettuale che, in qualche modo, tentava di spostare su terreni poco esplorati il dibattito sulla progettazione. Da
«intellettuali organici» essi tentavano di passare a «tecnici organici»; ma la teoria era ancora un’astrazione
indeterminata e il campo di battaglia conteso dalle forze
politiche cosparso di mine. Ve n’era abbastanza per dar
luogo a uno smembramento degli stessi termini del
dibattito, che si riflette anche nell’opera dei piú impegnati progettisti. I «maestri», anzitutto: queste «muse
inquietanti» che avevano incatenato intere generazioni
ai loro dubbi e ai loro incessanti ripensamenti perdono
pian piano il loro ruolo di punti centrali di riferimento137.
Sia Gardella che Albini appaiono proteggersi dietro
scritture empiriche dall’assalto di problemi considerati
scetticamente: l’eleganza rarefatta della metropolitana
milanese (1962-63), della Villa Corini a Parma
(1967-70), delle Terme Luigi Zoja a Salsomaggiore (pro-
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getto 1963, realizzazione 1969-1970), o del palazzo
degli uffici Snam a San Donato Milanese (1970-72),
ben poco aggiunge alla poetica albiniana, così come i
risultati raggiunti da Gardella nel complesso turistico di
Punta Ala (1962-65) o piú tardi nella chiesa di Sant’Enrico a Metanopoli (1963-66) parlano di uno spaesamento
che verrà smentito solo dalle opere più recenti138. Dal
canto loro, i Bpr non oltrepassano la soglia di un afono
professionismo nel quartiere Iacp di Gratosoglio a Milano (1963 sgg.), e anche in opere «di esportazione»,
come la sede Olivetti di Barcellona (1965), dànno evidenti segni di stanchezza. Le tematiche che li avevano
portati al centro del dibattito internazionale risultano
palesemente esaurite: l’edificio da essi realizzato in piazza Meda a Milano, nel suo tentativo di colloquiare
allusivamente e caricandosi di ambiguità con il tamburo cilindrico della cupola pellegriniana del San Fedele e
con le opere adiacenti di Figini e Pollini e di CacciaDominioni, vive come specchio deformante del sistema
immobiliare milanese139.
Né la ricerca di una linea di coerenza, come quella
perseguita da Ridolfi nelle sue opere ternane degli anni
sessanta – case Staderini (196o), Briganti (1962), Pallotta (1961-63), Franconi (196o), o il complesso polifunzionale fratelli Fontana (196o-64) – oltrepassa limiti scontati: il «ben fare» ridolfiano, specie nelle operazioni di ricucitura del tessuto urbano della città di Terni,
eletta a luogo di mediazione fra i mondi diversi che
convivono nella poetica di questo sempre più appartato
artigiano della forma, perde ogni tonalità barocca, per
ricaricarsi di improvviso «furor» espressivo in un progetto singolare, che in qualche modo segna per Ridolfi
l’addio definitivo alla battaglia culturale; quello per un
motel Agip in località Settebagni a Roma, nei pressi dell’Autostrada del Sole (1968)140. Come ripercorrendo i
propri inizi, la torre disarticolata e sottomessa a violen-
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ta torsione del motel Agip cita esplicitamente – ignorandone le valenze novecentiste – la «torre dei ristoranti» progettata da Ridolfi nel ’28: a contatto con i
risultati di un «miracolo economico» fittizio, l’architetto
violenta le proprie forme, le rappresenta come squassate
da un vento impetuoso, rappresenta se stesso nel
momento in cui domina una geometria difficile, reagendo, stupefatto, a un universo superindividuale da cui
è attratto e respinto al contempo. Non è forse un caso
che la torre ridolfiana per l’Agip, con la sua planimetria
di base a forma di stella a dieci punte, ricordi uno dei
grattacieli che appaiono in Metropolis di Fritz Lang.
Anche per Ridolfi il cerchio si chiude. Il «realismo»,
qui, lascia parlare la «passione per la notte» che si era
annidata nelle sue pieghe; la stessa che conduce lo stesso Ridolfi a concentrarsi con sospetta frenesia nei progetti per la Casa Lina alle Marmore (1966), per la Casa
De Bonis (1971-75) a Terni, o per l’ampliamento di una
casa d’abitazione a Norcia (1976-77), testimonianze
estreme di un volontario esilio141. Infatti, nella concitazione iperartigianale di quei progetti, a piante stellari,
poligonali ed ovali si uniscono citazioni ed allusioni che
con «l’onestà professionale» non hanno nulla a che fare:
tanto, da far pensare che qui Ridolfi si sia impegnato a
consumare materiali compositivi e a macerare tecnologie,
in continuità con uno dei filoni della sua poetica espresso sin dalle torri di viale Etiopia e palese nella Scuola
media di Terni. L’immagine del crollo imminente, cristallizzata nella torre dell’Agip, si rivela cosí decisamente allegorica.
Tuttavia, né la coerenza ridolfiana, né quella di Carlo
Scarpa – un altro esiliato, ma con diverse finalità –
costituiscono «lezioni» per le nuove generazioni negli
anni sessanta. A loro modo, «maestri» rimangono per la
loro didattica socratica e spesso piú per il non-detto che
per il detto, Samonà e Quaroni; ma il loro insegnamen-
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to fatto di ermetici suggerimenti si chiude sempre piú
nell’ambito delle loro aule universitarie, alimentando
spinte sempre meno controllate e ben presto rese aleatorie dai processi di trasformazione disciplinare e istituzionale. È però significativo che il loro contributo piú
produttivo non provenga, nel corso degli anni sessanta,
dai loro progetti, quanto da intenzioni che da questi ultimi solo raramente traspaiono: il design a grande scala
che caratterizza le ricerche degli allievi di Quaroni vive
la sua stagione come esperimento da coniugare alle piú
disparate sollecitazioni linguistiche, per ricavarne effetti boomerang da sottoporre a piú attenti vagli. Ugualmente, la «maniera grande» dispiegata da Samonà nella
sede della Sges-Enel a Palermo (1961-63) o nelle ammiccanti aggettivazioni del progetto di concorso per la sede
dell’Istituto nazionale di previdenza e credito delle
comunicazioni nella stessa città (1963), persegue un
comporre che ben poco ha a che fare con le sperimentazioni da lui stesso condotte in occasione dei concorsi
per il centro direzionale di Torino, per il Tronchetto di
Venezia, per la «metropoli dello stretto»142.
Fatto sta, che l’ansia di porsi alla testa di trasformazioni strutturali nell’ambito della società e del territorio si scinde da declinazioni critiche di lingue sicure,
compiute magari per riframmentarle ed esaurirne le possibilità, come nella cooperativa in via Palmanova a Milano, di Gregotti, Meneghetti e Stoppino (1962-67), nelle
concitate articolazioni della casa in via Conservatorio a
Milano di Magistretti (1966), nelle geometrie scomposte in giochi affabulatori di Nino Dardi143, nella sapiente reinterpretazione del lessico brutalista dei Collegi
universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo (1963-66),
nell’espressionismo addolcito di Carlo Aymonino (edificio pluriuso a Savona, 1963-66, progetto di concorso
per il Teatro Paganini a Parma, 1964), o in quello, ben
piú angry, di Canella, Achilli, Brigidini e Lazzari, come
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si esprime nel centro civico di Segrate (1965). Ma si tratta di opere che lasciano insoddisfatti i loro stessi autori: le intenzioni prevalgono di continuo sulle capacità o
le possibilità di dar loro sostanza.
Per valutare correttamente la sperimentazione architettonica della metà degli anni sessanta è necessario
rifarsi al convulso dibattito aperto dalle neoavanguardie
letterarie, musicali e pittoriche – con il sostegno di editori come Feltrinelli e di riviste come «Il Verri», «Quindici», «Marcatré», ecc. – che a loro modo rispondono
alle esortazioni lanciate da Vittorini dalle pagine del
«Menabò». In ballo, è la funzionalità del linguaggio, la
sua capacità ad emettere informazioni attraverso lo strumento dello scarto, della trasgressione, della «distorsione semantica». Il rinnovato interesse per la semiologia
e per la linguistica ha infatti al suo fondo un’interpretazione del materiale formale come plesso disponibile di
relazioni: la teoria dell’informazione, divulgata da
Umberto Eco, offre per suo conto un sostegno alla poetica dell’aleatorio, dell’«opera aperta», del magma lasciato in perenne attesa di completamenti operati dai fruitori. Per un’arte che ha smarrito significati e che per
significanti aggrovigliati non è in grado di proporre organizzazioni privilegiate, la vague neoavanguardista apparirà un approdo in certo modo rassicurante. La polemica nei confronti dell’opera, inoltre, rimette in gioco una
relazione del tutto fossilizzata tra ideologia e scrittura;
ne emerge, dominante, il tema della lingua depurata da
scorie sovrastrutturali: anche se non facile appare la
scelta fra i due versanti degli «apocalittici» e degli «integrati».
Con un risultato fondamentale: parlando di musica,
di letteratura o di arti figurative, si stava riconoscendo
uno dei caratteri precipui del progetto moderno, quello
di costituirsi come dominio-previsione del caso, come
tecnica che si apre al divenire, come insieme di strate-
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gie che cattura l’imprevisto. Nel ripensamento sulle
avanguardie non v’era nostalgia per l’irrazionale, ma
riconoscimento delle nuove forme in cui si dà il progetto (politico e quindi tecnico, anzitutto). Non v’è traccia
però di una qualche coscienza di ciò nel dibattito architettonico di quegli anni. I numeri della rivista «Edilizia
moderna» diretti da Gregotti esplorano l’area della polisemia in un ampio ventaglio di forme, mentre un progetto come quello di Maurizio Sacripanti per il nuovo
teatro di Cagliari (1965) partecipa sia della poetica dell’aleatorio che di quella dell’evento programmato144.
D’altronde, le ricerche di Aymonino e Canella non
erano già pienamente immerse in un’atmosfera polisensa, ambigua, contraddittoria? Senza gli ammiccamenti
di Bob Venturi, gli architetti italiani avevano assorbito
la lezione dei Seven Types of Ambiguity. Anche questa
era una forma di realismo: polisensa è la realtà non piú
sintetizzabile esperita in un territorio letto come continuo flusso di sovrapposte informazioni. Assorbire quell’inquietante contraddittorietà in oggetti che contestino
il loro carattere finito significa tentare un controllo su
quanto un’interpretazione riduttiva della razionalità
sembrava essersi lasciato sfuggire. Alla Triennale del
’64, dedicata al «tempo libero», tutto ciò ha modo di
esprimersi superando i confini segnati dal tema. Specie
nel «caleidoscopio» introduttivo, organizzato da Gregotti, Meneghetti, Stoppino, Peppo Brivio e Umberto
Eco, in una serie di percorsi dominati dall’Omaggio a
Joyce di Luciano Berio, da film di Tinto Brass riflessi sei
volte da specchi, da una banda sonora composta da Balestrini e da immagini di Achille Perilli, le tecniche di
comunicazione travalicano l’una nell’altra: ma anche nel
settore italiano, curato da un gruppo coordinato da Gae
Aulenti e Aymonino, viene usata senza parsimonia la
tecnica del collage, dello shock a effetti multipli, dello
happening145.
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Lo spaesamento artificiale che domina gli antri magici della XIII Triennale proietta nelle sfere dell’immaginario – magari con l’aiuto della Corsa al mare di Picasso ingigantita e replicata – alcuni dei problemi cardine
dell’Italia del «miracolo». Ma ora l’indagine sulle capacità informative delle tecniche di comunicazione non
verbale batte una strada che si divarica sempre piú da
quella della conoscenza analitica, anche se su «Casabella» i temi che si susseguono sono quelli delle coste
italiane, delle infrastrutture terziarie, del verde attrezzato a scala urbana. Quella medesima Triennale, tuttavia, era introdotta da un enigmatico ponte in ferro a
sezione triangolare e spezzato in due tronconi slittati fra
loro: in tal modo Aldo Rossi collega ieraticamente l’edificio di Muzio al parco. Contro gli sprechi linguistici
che si consumano all’interno della mostra, il ponte di
Rossi parla solo dei confini della visione. La contrapposizione è significativa, e a suo modo profetica rispetto
agli sviluppi delle ricerche che si stavano consolidando:
né il suo senso sfugge a Polesello, che, commentando il
ponte di Rossi, fa riferimento al «mistico» di Wittgenstein146.
L’intravista possibilità di superare la poetica dell’oggetto per dar vita a un’architettura fatta di sole relazioni ha un ulteriore sbocco: nel 1965-1966 prima al X
Convegno Inu di Trieste, poi in un numero monografico
di «Edilizia moderna» dedicato alla geografia del territorio, si pone il problema di un intervento sul paesaggio capace di colloquiare con i suoi segni divenuti parlanti147.
La trasformazione della natura in cultura, qui auspicata, non ha nulla a che fare con l’utopismo che aveva
vissuto la sua stagione felice fra il ’62 e il ’64, né è carica di messaggi ideologici. Anche questo è un segno dei
mutamenti vissuti dagli intellettuali: le analisi sulla storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni e le
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indagini di Lévi-Strauss sulla forma conseguente a particolari strutture antropologiche sostengono ricerche
sulla leggibilità del territorio e degli insediamenti che
intendono superare lo psicologismo naïf di Kevin Lynch.
Da esse usciranno sia i progetti di Luciano Semerani e
Gigetta Tamaro per Trieste (1969 sgg.), che i progetti
a grande scala di Gregotti e Purini148.
L’effetto provocato da tale accavallarsi di tematiche
e di suggestioni, con sempre piú frequenti scambi con
ricerche provenienti da aree esterne a quelle dell’architettura, allarga all’infinito il ventaglio delle ipotesi: se
da un lato il «bla-bla-bla» denunciato da De Carlo al
Convegno Inu del ’65 era una pesante realtà non certo
superata a tutt’oggi, l’elevamento della qualità complessiva della current architecture sostiene le esperienze
di punta, mentre l’indagine storiografica inizia a porsi
in modo nuovo il problema del proprio rapporto con l’attività dei progettisti.
Ancora una volta, sono i risultati di un concorso a
permettere un bilancio del nuovo clima culturale e una
verifica della vischiosità delle istituzioni. Nel 1967, il
concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati a
Roma, sfociato in un risultato nullo, offre un’ulteriore
occasione sbagliata di confronto per l’architettura italiana, colta dai migliori «per parlare d’altro»149.
La localizzazione dei nuovi uffici in pieno centro storico e accanto al corpo realizzato da Ernesto Basile,
infatti, è indice di una sostanziale incapacità da parte
dell’operatore pubblico di programmare in modo semplicemente «conveniente» i servizi di base della comunità. Solo Italo Insolera rifiuta il tema dato e presenta
una proposta di interventi e destinazioni d’uso estesa a
un vasto settore del tridente: un’ulteriore supplenza
volontaristica, tuttavia. Le carenze del bando di concorso non provocano invece «scandalo» a Quaroni, a
Samonà, ad Aymonino, a Portoghesi, a Sacripanti, deci-
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si a sfruttare l’occasione con un atteggiamento «al di là
del bene e del male»: il loro problema è come saggiare i
limiti della rinnovata fiducia nello strumento specifico
della forma. Certo, tutto ciò avviene avant le déluge: e
d’altra parte, per presentarsi come atti di fede nella
catarticità della scrittura architettonica, quei progetti
appaiono troppo scossi da incontrollati incubi. Fatto è,
che il disincanto con cui l’intelligencija italiana affronta tale concorso è indice di una neutralità ideologica
ormai generalizzata, conseguente al nuovo clima cui si
è sopra accennato, e di cui l’impegno disciplinare copre
a malapena le radici.
Ciò non toglie – anzi permette – ad architetti come
Quaroni e Samonà di offrire saggi fra i piú elevati della
loro produzione. Perfettamente a suo agio nel cuore dell’odiata-amata Roma, Quaroni non esita ad informare il
proprio progetto a un faticoso e variato accumularsi di
episodi e frammenti, alla ricerca di una lingua monumentale, capace di commentare un contraddittorio rapporto con il genius loci. Un telaio geometrico formato da
quattro assi agganciati al contesto urbano penetra la
chiusa massa dell’edificio, che si staglia tuttavia come
solenne e polivalente cerniera, sintesi neobarocca di
istanze razionalizzatrici e informali affabulazioni.
Rispetto ai grovigli geometrici quaroniani, simboli scontrosi di una figuratività onnivora, il progetto di Giuseppe e Alberto Samonà appare piú riflesso e mediato.
Se gli antecedenti quaroniani sono in Poelzig e nei grattacieli miesiani del ’19 e del ’21, quelli di Samonà sono
in Le Corbusier, citato esplicitamente nella main ouverte che si staglia alla sommità del progetto: in particolare il Musée de la Ville et de l’Etat, del 1935, sembra
essere stato oggetto di meditazione per i progettisti. Ma
la trama aerea dei sostegni in ferro che sostengono volumi slittati a varie quote, l’inversione paradossale delle
funzioni fra pesi e sostegni, il gioco delle trasparenze,
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caricano di ironia appena trattenuta la proposta di Samonà: un’ironia che sembra memore sia di atmosfere
«alla Klee», che delle rarefatte artificiosità della pittura pompeiana del «terzo stile». L’elaborato di Samonà
aveva un precedente, il progetto per la nuova sede compartimentale dell’Anas di Palermo; ma la nuova disinvoltura della sua scrittura architettonica prelude alle sue
prove piú impegnative degli anni settanta, e in particolare ai progetti per la Banca d’Italia a Padova e per il teatro di Sciacca.
Piú scontate le prove di Aymonino, di Nino Dardi o
di Luigi Pellegrin: «ludi geometrici», declinati con varie
inflessioni, i loro progetti – come del resto, quello di
Portoghesi – costituiscono solo tappe di avvicinamento
a «maniere» in via di consolidamento. D’altronde, nella
ridda delle ipotesi linguistiche che traspaiono dai molti
progetti presentati al concorso, risulta evidente l’assimilazione delle lezioni di Louis Kahn, di Giurgola, di
Paul Rudolph: non foss’altro, la cultura architettonica
italiana appare ora informata e scaltrita sul piano formale. Con due estremi: i progetti di Maurizio Sacripanti
e del gruppo romano Grau. Sacripanti aveva già sperimentato, come si è visto, un linguaggio architettonico
ampiamente partecipe della poetica dell’aleatorio con il
progetto per il teatro di Cagliari, oltre che con il progetto vincente al concorso per il grattacielo Peugeot150.
Il motto con cui egli si presenta al concorso per gli uffici della Camera è «omaggio a Mafai»; ma per esso sarebbe stato piú appropriato il motto «omaggio a Rauschenberg», con il sottotitolo: «e un fiore per Sant’Elia». Infatti, il progetto di Sacripanti si presenta come
un’orgia di spazi esplosi, di oggetti ammassati e violentati, di vuoti allucinati: l’architettura è ridotta a rappresentazione di uno sfasciume che ha del morboso, di
una nausea provocata da oggetti osceni puntualmente
esibiti. Su quello sfacelo si innesta l’esaltazione del mito
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macchinista: Sant’Elia si ricongiunge a Rauschenberg.
Sacripanti proseguirà la sua ritrattistica dell’angoscia
contemporanea nel progetto per il padiglione di Osaka,
mentre piega a struttura fruibile il polo macchinista
della sua poetica nel progetto per il nuovo Museo Civico di Padova: le sue junk sculptures battono una strada
che si ammorbidirà appena nei progetti piú recenti151.
Puntualmente, alla «rabbia» di Sacripanti risponde l’apollinea astrazione del gruppo Grau. Seguendo una poetica già precedentemente sperimentata – pensiamo al
progetto di concorso per il nuovo Palazzo dello Sport di
Firenze – il Grau rende iperbolica la ricerca di una logica formale chiusa nel suo sforzo di autoverifica. Sintomatica di una generazione che con sdegno rifiuta ideologismi sovrapposti alla specificità dell’architettura, la
ricerca del Grau esibisce in modo provocatorio un atteggiamento le cui radici sono nella «verifica dei poteri»
preconizzata nei primi anni sessanta da Fortini, anche
se, nel caso particolare, le sue neoumanistiche astrazioni salutano come fonte teorica l’estetica dellavolpiana.
La forma si ritira nel suo mondo e non colloquia con
l’«altro». Il Grau non reggerà a lungo tale posizione –
si veda il suo progetto di concorso per l’Archivio di
Stato di Firenze (1972), inquinato da velleità simboliche152 –; ma nel ’67, le ermetiche tavole in cui manipola le sue geometrie hanno il merito di evidenziare una
tendenza al recupero di un’autonomia assoluta dell’oggetto, che serpeggia nel clima italiano: pensiamo, ad
esempio, ai progetti del gruppo Manieri - De Feo e di
Gian Ugo Polesello, presentati al medesimo concorso.
Lo spaccato sulla consistenza della cultura architettonica italiana alle soglie del ’68, permessa dall’analisi degli
elaborati del concorso romano, ci riconduce a un diffuso stato di ansia, non coperto certo dalle ricerche piú
apparentemente sicure di se stesse. Una fase di «attesa»,
dunque, per un’architettura che vaga alla ricerca di
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nuovi ruoli dopo aver constatato l’usura di miti vecchi
e recenti: né convince nessuno la disinvolta soddisfazione con cui l’autorispecchiamento viene ostentato153.
5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975).
Alle soglie del ’68, peraltro, le incertezze del lavoro
intellettuale si scontrano con pesanti dati emergenti
dalla realtà, relativi alla struttura stessa della professione. Un’inchiesta condotta presso la facoltà di architettura del Politecnico di Milano, relativa agli anni
1963-69, rivela che solo il 36 per cento dei laureati in
architettura svolge realmente la professione: il 57,5 per
cento di loro risulta impiegato in lavoro salariato e il 6,5
per cento risulta disoccupato o impiegato in lavori estranei. Si aggiunga a ciò che, nei primi anni settanta, circa
il 6o per cento dei laureati in architettura sopravvive con
l’insegnamento nelle scuole primarie e secondarie, in
un quadro generale che registra, per il 1968, un totale
di disoccupazione giovanile pari a seicentomila persone
circa, pari al 1o per cento sul totale della forza-lavoro.
La situazione è ben lungi da «livelli frizionali»: essa
appare piuttosto patologica.
E non basta. Un calcolo approssimativo dei metri
cubi realizzati in Italia da architetti dava, nel ’74, una
cifra oscillante fra il 2 e il 3 per cento sul totale: e non
sarà inutile far osservare che la storia che stiamo tracciando si fonda su una selezione all’interno di tale percentuale minima di opere in qualche modo qualificate.
Inoltre, la genericità del titolo di architetto, specie dopo
gli eventi degli anni sessanta, appare un anacronismo
caro solo a inguaribili nostalgici: né l’apertura di corsi
di laurea di urbanistica – nel 197o a Venezia, su iniziativa di Astengo, nel ’75 a Reggio Calabria – risponde a
un’articolazione fondata su analisi della situazione con-
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creta della disciplina. Anzi, mentre quest’ultima si
smembra e si aprono nuovi settori di intervento, l’ipotesi del town planning celebrata da quei corsi di laurea
fossilizza un’area disciplinare da coinvolgere piuttosto in
una impietosa discussione critica, mentre gli sbocchi
professionali ad essa connessi rimangono compromessi
dalla mancanza di un riconoscimento professionale del
titolo di studio. Se si valuta che nel frattempo la percentuale dell’edilizia pubblica, rispetto a quella privata,
passa dal 25 per cento del 1951 al 6 per cento del ’68 –
per toccare punte minime del 2 per cento dal ’73 in poi
– si è in grado di completare un abbozzo della struttura del settore, da porre a confronto sia con le contorsioni
formali degli architetti «che progettano per non pensare», sia con l’esplosione contestativa del ’68. Esplosione che, per quanto riguarda le facoltà di architettura
o le istituzioni culturali all’architettura connesse, non
comporta che modifiche di superficie, ripensamenti frettolosi, atteggiamenti demagogici che si risolvono in
débâcles collettive. Gli effetti delle contestazioni dirette contro l’Inu o la Triennale di Milano o il blocco delle
attività didattiche rivelano solo la fragilità di quegli istituti e delle loro funzioni. Il tentativo di far partecipare
lo «studente-militante» alle lotte che si svolgono nei cantieri edili e nelle borgate porterà da un lato alla formazione dei comitati di quartiere, ma dall’altro darà luogo
a un’accademizzazione dell’analisi del «disagio urbano»,
in un’accezione in definitiva misera dell’intervento politico e in un distorto tentativo di estrarsi soggettivamente dall’area degli «sfruttatori».
Le analisi piú spregiudicate del «marxismo degli anni
sessanta», le nuove ondate di lotta del movimento operaio, le inedite forme assunte da quelle stesse lotte percorrono tracciati che con il verbalismo demagogico imperante nelle facoltà di architettura hanno ben poco a che
fare. Eppure, sulla scia del ’68 e dei suoi slogan piú con-
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sumabili prendono piede movimenti già delineatisi negli
anni precedenti, pronti ad occupare gli spazi lasciati
vuoti dalla cultura oggetto di piú immediata contestazione. Di nuovo, si fa appello all’avanguardia, e questa volta per il suo potere dissacrante. Il gruppo fiorentino Archizoom, nato da un corso tenuto da Savioli e
Santi sullo «Spazio di coinvolgimento» in cui – grazie
anche agli interventi di Ugo La Pietra e Ettore Sottsass
– si tenta un uso propositivo delle acquisizioni della
pop art, punta su un’arte come terapia psicofisica-liberatoria, priva di codici, rivolta a un’utenza chiamata a
partecipare a un’orgia nullificante e catartica.
Le tesi dell’«architettura radicale» sono cosí defini154
te . Da un lato, esse ereditano le velleità eversive vive
sin dai primi anni sessanta nell’ambiente fiorentino; dall’altro, esse si fregiano di intenti antistituzionali, appellandosi al ceppo «negativo» delle avanguardie storiche.
Non piú lo sperimentalismo del Gruppo ’63, bensí
teatri per azioni psichedeliche, in cui si spera di trascinare un mitico proletariato. La No Stop City del gruppo
Archizoom o il Monumento continuo (1969) del Superstudio fanno del progetto una registrazione di materiale onirico trascritto con un’ironia «che non fa ridere»:
nelle vignette che illustrano la No Stop City, struttura
urbana continua priva di architetture, i neoprimitivi
che nell’assoluta nudità dell’ambiente usufruiscono di
macchine microclimatizzanti sembrano messi lí ad esplicitare un mostruoso connubio fra un anarchismo populista e istanze liberatorie attinte dal Maggio francese.
Per questa via non era difficile avviarsi a un luddismo intellettuale tanto piú irresponsabile quanto piú
verbalmente dedotto dalla frettolosa lettura delle riviste
della «nuova sinistra», dai «Quaderni rossi», a «Classe
operaia», a «Contropiano»: ma se Strum e 9999 rifiuteranno del tutto il progetto, i gruppi Archizoom e
Superstudio, o Ettore Sottsass riversano nel design la
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loro carica ironica: i loro prodotti riescono a conquistare il mercato rimasto precluso ai piú lambiccati oggetti
neoliberty; le loro dissacrazioni, a giustificare le quali
viene addirittura evocata la figura di Duchamp, vengono alla fine riconosciute internazionalmente dalla mostra
organizzata da Emilio Ambasz al Museum of Modern
Art di New York (1972), «Italy. The new Domestic
Landscape». Per qualche anno, la bandiera dell’antidesign, dietro cui si fa strada un’astuta operazione di mercato, conquista anche la testata di «Casabella» – nel ’64,
la direzione era stata tolta a Rogers dall’editore, che
inconsapevolmente segnava cosí la conclusione di un
ciclo culturale – mentre critici come Menna o Restany
profetizzano «civiltà estetiche» e «arti totali». All’estremo opposto, si collocano tendenze che con queste
hanno in comune l’atteggiamento iniziale di sfida alla
società dei consumi. L’interesse con cui, sin dai primi
anni sessanta, è seguita in Italia l’opera di Louis Kahn
si compone con una lettura tendenziosa dell’estetica di
Galvano Dalla Volpe. Se l’aleatorio è la forma estrema
di un universo che sacrifica se stesso alle merci cosí
come esse governano, il recupero del concetto di
«opera», della sua «organicità semantica», della totalità
di esperienza che essa presuppone sembra costituire l’unico contributo specifico offerto alla conoscenza dall’attività di progettazione. In Kahn, inoltre, si crede di
vedere un recupero del tempo storico libero da romanticismi: le allusioni kahniane al tardo antico o a Piranesi appaiono scelte di «antecedenti logici», frutti di
«astrazioni determinate». In realtà, ciò che permette di
guardare a Kahn subito dopo aver chiuso la Critica del
gusto è l’istanza di «ordine» che traspare sia dalla sua
opera di architetto che da quella di teorico. Trascurabile sembra l’afflato mistico che si accompagna a quell’istanza; la pienezza del segno e dell’organizzazione formale che proviene dalle opere kahniane fa di queste ulti-
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me dei teoremi estrapolabili dal contesto che tuttavia ne
condiziona l’esistenza. Accolto con diffidenza prima,
con deciso atteggiamento di ripulsa poi da Zevi, che si
attesta in una linea di difesa dei codici «anticlassici», l’opera di Kahn diviene immediatamente familiare nelle
facoltà di architettura. Fra il ’63 e il ’65 si ripete il fenomeno che negli anni cinquanta aveva attirato l’attenzione sui «giovani delle colonne» milanesi: studenti di vocazione marxista elaborano progetti stigmatizzati come
«accademici» da accademici ravveduti, esprimendo cosí
la loro inappagabile esigenza di chiarezza.
Il rigorismo della composizione come «recupero della
tonalità» era già stato di Muratori, negli stessi anni
veniva perseguito dalle prime opere di respiro di Aldo
Rossi e Giorgio Grassi e si colora di diverse intonazioni
nelle opere e nei progetti del gruppo Grau, dallo studio
Stass, di Vittorio De Feo. E se le esasperazioni geometriche del Grau rimangono nella sfera del puro programma, opere come l’unità residenziale alla Serpentara
a Roma e il progetto per il centro direzionale di Grosseto dello Stass, o l’Istituto tecnico per geometri a Terni
(1968), di De Feo e Errico Ascione, fanno dell’autoverifica motivo di orgoglio. De Feo, in particolare, dimostra che è possibile assumere contemporaneamente le
lezioni di Ridolfi, di Kahn e di Venturi, nel suo Istituto ternano, e che Complexity and Contradiction in Architecture possono essere assunte senza cadere nei trabocchetti in cui rimarranno impigliati i fautori recenti del
«Post-Modern». Ne usciranno la composizione serrata
del progetto per insediamento turistico ad Abbadia San
Salvatore (1970), l’immagine pop della stazione tipo
della Esso (1971), il laconico omaggio a De Chirico (ma
anche a Malevi™) del progetto di concorso per il Palazzo Municipale di Legnago (1974)155.
In tali opere – ma anche nelle prime esperienze progettuali di Franco Purini e Laura Thermes, stimolate sia
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dallo sperimentalismo di Sacripanti che dal dubbio sistematico di Quaroni – l’architettura tenta di riconoscersi.
Bruciate tutte le ideologie cui aveva sino ad allora fatto
appello, ad essa rimane l’esercizio autoriflessivo. Dall’abbraccio populista al ripiegamento nell’autobiografia, all’esplosione utopica, al «segno in quanto tale»: un
percorso a scatti marca le tappe di una ricerca somigliante ai frustrati sforzi compiuti dall’agrimensore per
raggiungere l’ineffabile Castello.
Non a questi intellettuali, comunque, era possibile
rivolgersi, alla fine degli anni sessanta, per tentare di dare
una sostanza tecnica di respiro alla strategia socialista
delle riforme logorata dal compromesso quotidiano, dall’abilità dell’avversario, dalla crescente divaricazione fra
l’incerta marcia all’interno delle istituzioni e i movimenti
della «nuova» classe operaia. Dietro le serene autocontemplazioni formali del Grau, dello Stass, di De Feo, ma
anche di Quaroni e Samonà, è lecito scorgere l’accoglimento dell’invito a farsi «candidi come serpenti». Non
essi, bensì Giorgio Ruffolo, Marcello Vittorini, Giovanni Astengo, Baldo De Rossi sembrano ora i tecnici in
grado di dare veste politica a un programma di ampiezza nazionale, la cui urgenza è sottolineata dal paradossale
degrado idro-geologico e delle risorse storico-ambientali. Nel luglio del 1966, sotto il peso di migliaia di vani
abusivamente costruiti di fronte alla Valle dei Templi,
crolla un’intera porzione della città di Agrigento; nel
novembre dello stesso anno le acque dell’Arno sommergono Firenze, distruggendo un incalcolabile patrimonio
artistico e documentario, mentre i Bastioni della Serenissima si rivelano insufficienti a salvaguardare la Venezia lagunare e l’opinione pubblica è scossa dal disastro del
Vajont. La risposta tecnico-politica proveniente dall’area
socialista prende il nome di Progetto 8o.
Chi nel ’70, tuttavia, all’apparire del Progetto 8o,
prodotto da un gruppo di lavoro presso il ministero del
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bilancio, pensò di trovarsi di fronte a una piena esplicitazione di un «piano del capitale», dimostrò solo di
confondere un astratto exploit con una strategia reale.
Le analisi e le proposte del Progetto 8o sono in sostanza
frutto di un’esercitazione che, dietro l’ambizione e la
velleità dei programmi, nasconde una situazione di stallo e un ottimismo tecnologico intrinseco alla neutralità
politica del progetto. Nessuna modifica di fondo del
sistema produttivo nazionale è in esso prevista, né l’ossatura istituzionale e la gestione delle leve economiche
erano state modificate per permettere operanti modifiche strutturali. Non rimaneva che proteggersi dietro
cortine fumogene: attraverso la parola d’ordine delle
«vocazioni territoriali» viene aggiornata quella facente
capo al mito dell’equilibrio. Ancora una volta, a un sistema che si fonda su squilibri vengono proposte «correzioni» impraticabili. Il che non significa che la «progettualità deserta» di quel documento (Asor Rosa) sia
del tutto inutile. Essa serve, perlomeno, a polarizzare un
dibattito e a tenere occupati intellettuali, in un momento politicamente incerto. Comunque, gli strumenti che
il Progetto 8o finalizza al controllo del territorio e al riassetto produttivo si estendono a livello nazionale: il «riequilibrio» è perseguito attraverso la riorganizzazione di
sistemi metropolitani, di un sistema infrastrutturale
nazionale e di un sistema, anch’esso nazionale, per il
tempo libero156.
L’«invenzione» urbanistica fondamentale che
dovrebbe permettere di raggiungere gli obiettivi è
appunto quella dei «sistemi metropolitani». Il Progetto
8o assume su di sé l’intera mitologia della città-regione,
distinguendo in sistemi di riequilibrio, sistemi basati
sulle grandi conurbazioni esistenti, sistemi alternativi: le
«ceneri di Geddes» possono cosí essere utilizzate per un
ultimo infuso offerto a un malato di cui si dispera la guarigione.
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Lo sforzo della cultura socialista concentrato nell’elaborazione del Progetto 8o non può neppure essere tacciato di tecnocrazia. Più ideologico che tecnico, questo
documento rimane, fra le aspirazioni frustrate della programmazione italiana, a testimoniare i limiti soggettivi
degli intellettuali che avevano sentito come nuovo dovere ricollocare le proprie competenze in un quadro di concreto intervento politico. Esso, caso mai, testimonia
l’assenza di una tecnica effettuale, di un diverso rapporto fra tecniche rinnovate e strategie di massa.
I nuovi modi di lotta del movimento operaio organizzato, cosí come si esprimono nelle grandi controversie sindacali del ’68-69, giungono invece per altra via a
porre il problema della casa e dell’assetto territoriale. Il
19 novembre 1969 gli operai italiani seguono l’invito dei
sindacati e dichiarano uno sciopero generale di ventiquattr’ore i cui obiettivi rivendicativi insistono direttamente sull’organizzazione della città e del territorio: la
fabbrica si proietta sul sociale, la variabile salariale
annette a sé aree prima impensate. Si tratta di una svolta fondamentale del movimento di classe: i partiti sono
costretti a prendere in considerazione in modo nuovo la
politica edilizia. Sono le istituzioni base che ora vengono attaccate; né gli antichi strumenti, né astratte razionalizzazioni possono essere invocati per offrire adeguate risposte. Anzi, la pressione di un soggetto sociale che
usa armi prima utilizzate per raggiungere obiettivi settoriali spiazza le fossilizzazioni disciplinari: mentre il
Parlamento si impegna in un’estenuante discussione che
condurrà alla nuova legge per la casa del ’71, le lotte proseguono, dando origine a organizzazioni mobili e leggere, come le unioni inquilini o i comitati di quartiere.
L’effetto immediato di queste ultime è un calo di tensione sugli obiettivi generali e la settorializzazione degli
obiettivi stessi; ma ormai è dimostrato che il nesso fra
cultura e movimenti di massa non può essere piú assi-
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curato dalle «grandi sintesi» o dal ricorso a modelli di
simulazione. Si apre, per gli intellettuali, un nuovo capitolo nella loro ricerca d’identità al cospetto del sociale:
una ricerca destinata ad ampliarsi dopo i risultati delle
elezioni del ’75 e del ’76, che pongono ai partiti della
classe operaia il problema della gestione di città o regioni su cui pesano disastrosi precedenti e un assetto legislativo difficilmente utilizzabile.
La risposta alle lotte operaie del ’68-69 passa intanto attraverso l’istituzione delle regioni, agli inizi del
1970, e l’approvazione della nuova legge sull’edilizia
del 22 ottobre 1971: quest’ultima ha come scopo il freno
della speculazione fondiaria, l’attribuzione al potere
pubblico di compiti relativi all’assetto urbano e territoriale estesi a ventaglio – edilizia popolare, installazioni
produttive, attrezzature turistiche, ecc. – la democratizzazione e il decentramento degli organismi di gestione, il coordinamento delle iniziative. Naturalmente, tale
riforma amministrativa deve fare i conti con la tradizionale struttura accentrata dello Stato: la regione appare, nel disegno che emerge dal complesso dei provvedimenti suddetti, come interlocutoria rispetto alla base e
mediatrice rispetto ai luoghi decisionali che detengono
il monopolio dei servizi pubblici, ma anche come possibile luogo arbitrale – quando non un cuscinetto – dei
conflitti sociali157. D’altra parte, la fine del boom speculativo è solo sancita dalla legge del ’71: ormai, forme
arcaiche di accumulazione, come la rendita fondiaria
urbana, sono riconosciute anche dai ceti capitalistici piú
attenti come motivi di freno allo sviluppo, per non parlare degli sprechi indotti dal mercato liberistico dei suoli,
con effetti gravanti anche sui settori trainanti. Fatto sta,
che ora la grande industria non ha solo bisogno di strutture amministrative in grado di canalizzare i conflitti
fuori dei luoghi di lavoro – le regioni si istituiscono, non
a caso, rispettando il dato costituzionale solo quando l’e-
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sigenza di tale canalizzazione emerge con forza – ma
anche di una ristrutturazione del settore edilizio che permetta di superare definitivamente la sua utilizzazione in
chiave esclusivamente «congiunturale». Una ristrutturazione, per giunta, che deve agire assicurando la continuità del processo produttivo, toccando quindi sia il
mercato dei materiali che la formazione della domanda.
È significativo però che la legge n. 865 – approvata dal
Parlamento dopo un lungo iter che sbocca in un compromesso che ne riduce la portata o ne rende difficile
l’applicazione – non si preoccupi di modificare i meccanismi finanziari e creditizi che presiedono al settore158.
Contraddittorio è quindi il segno della nuova legge. Da
un lato, essa tende a far ragione della concezione previdenziale e mutualistica seguita in Italia dall’Ina-Casa e
dalla Gescal. D’altro lato, essa risponde all’esigenza di
dar corso a una nuova concezione degli impieghi sociali del reddito, vale a dire a una politica di investimenti
sociali pianificata.
Ciò non contrasta la linea delle grandi forze imprenditoriali. Queste ultime, organizzate nell’ambito dell’Ance e della Confindustria – le «imprese edili integrate» – nel corso del dibattito parlamentare operano
giocando la carta della crisi e del ricatto occupazionale;
ma solo perché il loro disegno tende a riversare sulla
legge l’esigenza di un salto di scala: il nuovo metro produttivo ha dimensioni territoriali, infatti, e il problema
di quelle forze è come utilizzare i nuovi poteri regionali. Le leve gestite dal capitale finanziario – rimaste intoccate – costituiscono a tal fine una valida garanzia.
Una nuova armatura istituzionale e una nuova strategia capitalistica si profilano cosí, agli inizi degli anni
settanta, a servizio di una politica di razionalizzazione
che ha perso le motivazioni etiche e illuministe dei
decenni precedenti, per abbracciare una logica produttiva a grande dimensione. Di nuovo, l’ideologia sembra
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essere scavalcata dalla realtà e con tempi dettati dalle
esigenze incrociate della risposta politica e della dinamica dello sviluppo.
Non è certo un caso che, ancora agli inizi degli anni
settanta, sia alcune grandi industrie private, come la Fiat
e la Montedison, che industrie a partecipazione statale
– Iri, Eni – si impegnino nel settore delle costruzioni.
L’era che aveva visto l’edilizia ancella dei settori trainanti sembra definitivamente chiusa. Il problema ora di
fronte alle industrie nazionalizzate è l’introduzione di
una situazione di monopolio nella produzione dei servizi sociali – alloggi, scuole, ospedali, ecc. – intervenendo sul mercato dei suoli, sulla fornitura dei materiali,
sull’organizzazione della domanda e dell’offerta. È un
intero ciclo l’oggetto della pianificazione. La formula
che sembra in grado di tradurre quell’ipotesi di salto
produttivo in dimensioni territoriali era stata introdotta dal presidente del Consiglio Colombo accettando
alcune indicazioni del Progetto 8o: i «nuovi sistemi urbani», da realizzare attraverso interventi pubblici e imprese controllate dallo Stato, riassumono l’intero arco delle
nuove istanze. I documenti della Fiat e della Isvet concordano nel proporre «sistemi» in cui il tema residenziale si connetta indissolubilmente alla riorganizzazione
delle strutture commerciali e dei servizi urbani: le economie di scala, i salti tecnologici resisi indispensabili, la
gestione dei nuovi poli di sviluppo all’interno delle regioni economiche, la gestione delle infrastrutture sociali
formano un tutt’uno, e in tale quadro persino il colloquio tra iniziativa capitalistica e istituzioni democratiche è programmato. Le regioni si vedono confidare ruoli
promozionali, dove è da leggere il sottile intento di
ridurle a organismi di gestione del consenso. L’ingresso
trionfale del grande capitale nell’area del sociale ha bisogno di un uso anticonflittuale delle istituzioni democratiche.
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Il progetto piú clamoroso conseguente a tale strategia è quello per la cosiddetta «città Nolana» (1969): un
intervento promosso dalla Sicir, società finanziata dalla
Fiat e dall’Iri, per una nuova struttura integrata presso
Napoli e inizialmente dimensionata sull’unico grande
complesso industriale esistente, l’Alfa-Sud159. Le zone
residenziali per cinquantamila abitanti, con possibilità di
ampliamento fino a duecentomila, si agganciano a un
asse autostradale che lega il nuovo complesso a Napoli,
alla regione e a una nuova struttura di servizi a raggio
territoriale, comprendente, fra l’altro, un ospedale per
cinquemila posti letto e una università per diecimila studenti. L’immagine è quella ormai di prammatica assunta dalle megastrutture urbanistiche: in un territorio cronicamente sottosviluppato e congestionato, la proposta
tende a creare un asse ipertecnologico, superiore, come
qualità e quantità di servizi, alle piú recenti New Town
inglesi. Non sostanzialmente diversa è la concezione
che guida il progetto di intervento nella regione di Ottana, in Sardegna, ad opera dell’Eni e della Sir: ancora una
volta, capitale pubblico e capitale privato risultano associati in un’ipotesi di ristrutturazione regionale a supporto di una catena di nuovi insediamenti chimici.
La politica dell’intervento nel Meridione tramite
«cattedrali nel deserto» è però finita solo teoricamente.
Il progetto di Ottana segue ancora la logica di una forte
concentrazione di capitali per impianti destinati a una
forza-lavoro limitata, mentre al nulla di fatto per quanto riguarda la «città Nolana» risponde lo scandalo del
nuovo impianto siderurgico di Gioia Tauro: un’ulteriore risposta politica alla jacquerie esplosa con i moti sottoproletari di Reggio Calabria, abilmente manovrati dalle destre, che costringe lo Stato a spendere centinaia di
milioni per una impresa destinata al fallimento.
Fatto sta, comunque, che agli inizi degli anni settanta l’emergere del problema territoriale e urbano come
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terreno di intervento capitalistico comporta la creazione, da parte delle grandi imprese, di nuove strutture
finanziarie e operative: la Fiat crea la Fiat Engineering
e la Siteco, per la progettazione e la realizzazione di
complessi industriali, commerciali, residenziali, turistici; l’Eni opera tramite la Tecneco e Issvet; la Montedison crea la Montedil; la Sir lancia un sistema di industrializzazione edilizia in materiali plastici; l’Iri crea l’Italstat, società finanziaria che nel ’71 assorbe la Società
condotte d’acqua, la maggiore impresa edilizia italiana
che realizza opere come il tunnel del Monte Bianco, il
viadotto del Polcevera a Genova, su progetto di Riccardo Morandi, il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma, il Palazzo dello Sport di Milano. Nel frattempo, appaiono organismi di ricerca a capitale misto,
come la Tecnocasa, con capitali dell’Italstat, dell’Eni,
della Montedison e della Fiat, mentre nel 1973 la regione toscana stipula un contratto con la Svei, società a partecipazione paritaria dell’Italstat, dell’Eni e della Montedison, per la costruzione di venticinquemila alloggi a
carattere popolare160. A fronte di tale rilancio dell’iniziativa capitalistica, che rende di colpo anacronistico il
bagaglio propositivo dell’intelligencija anni sessanta
utilizzandone in proprio i margini, è il tentativo del
movimento cooperativo – ma in particolare della Lega
nazionale, in cui confluiscono le cooperative «rosse» –
di legare la propria produzione di alloggi e le proprie rivendicazioni alla politica sindacale. Difficile colloquio,
questo, fra un organismo produttivo e un organismo
rivendicativo: cui sono da aggiungere le difficoltà interne alle stesse cooperative, il cui principale obiettivo – la
priorità data alla proprietà indivisa – viene ostacolato in
ogni modo dalle condizioni creditizie, che puntano, al
contrario, sul tradizionale obiettivo politico della casa di
proprietà individuale161. Inoltre, solo in regioni come
l’Emilia, la Lombardia e la Liguria operano forti impre-
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se aderenti alle cooperative di produzione e lavoro; per
le altre regioni, è necessario ricorrere a imprese private.
Ma anche nelle regioni «rosse» le contraddizioni non
mancano. Soggette a un mercato competitivo, le imprese cooperative di produzione e lavoro sono costrette
ad attestarsi su prezzi spesso inaccessibili alle cooperative di abitazione, cosí che i prodotti politicamente indirizzati alla classe operaia risultano alla fine destinati ai
ceti medi. Comunque, dalla fine degli anni sessanta in
poi, l’edilizia cooperativa ha avuto modo di realizzare
complessi di notevole qualità, per l’articolazione tipologica e la ricerca di immagini urbane significative, come
i quartieri della Federcop Verbena ad Ancona (1972-75)
e Astra a Terni (entrambi dello studio Coper), i quartieri Barca e Steccone a Bologna, città in cui il 40 per
cento degli edifici residenziali è di tipo cooperativo, il
complesso nell’intervento «167» di Casal dei Pazzi a
Roma dello studio Coper (terminato nel 1977).
Ma il quadro sinora tracciato rimane teorico. Sia le
strategie padronali che il movimento cooperativo, specie dal 1973 in poi, sono costretti a uno stallo dalla crisi
economica incalzante: i grandi progetti a scala regionale
rimangono sulla carta, la riconversione tecnologica nel
settore edilizio resta una semplice ipotesi, l’Italstat sembra girare a vuoto. L’edilizia è di nuovo relegata ai margini delle considerazioni economiche. Chi aveva sperato – o temuto – una clamorosa ripresa dell’iniziativa
capitalistica è costretto a riconoscere una volta di piú il
carattere illuministico dei suoi sogni. Gli scioperi generali per la casa attendono ancora una risposta, a piú di
dieci anni di distanza.
Rimane, certo, una nuova qualità residenziale nelle
articolazioni di un quartiere come quello di Verbena: la
riflessione sulle esperienze internazionali e l’impegno a
risolvere contemporaneamente problemi tecnici, produttivi e politici agiscono positivamente, in questo caso.
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Ma è anche dato assistere ad involuzioni che denunciano un impatto violento di artigiani della qualità con la
nuova domanda: la Nizzoli associati, costituitasi nel ’65,
si cimenta nella progettazione di strutture urbane complesse nell’area del nuovo polo industriale di Taranto,
con deludenti risultati sia nella fascia residenziale realizzata nel ’72 che nel progetto per la direzione dello stabilimento Italsider. Il luogo dell’industria non ispira piú
le soluzioni totalizzanti che l’antico collaboratore di
Edoardo Persico era stato capace di riversare nei suoi
prodotti per la Olivetti. Ma anche un architetto cosí
puntigliosamente concentrato sull’indagine di specifiche aree linguistiche, come Luigi Pellegrin, appare spaesato agli inizi degli anni settanta: l’eco della lezione wrightiana risulta assente nei progetti di concorso per il
quartiere Zen a Palermo (197o) e per l’Università di Barcellona (1970, con Ciro Cicconcelli), informati, come anche il Liceo scientifico ed Istituto per geometri da lui
realizzato a Pisa nel ’72-76, a una tecnolottizzazione
tanto professionalmente controllata quanto abbracciata
con distacco. Il risultato di tale ibrido incontro fra abilità di scrittura e programmi produttivi è nelle cellule
prefabbricate progettate da Pellegrin per la Sir (1974),
all’interno del piano di intervento sopra accennato. I
suoi elementi tubolari, accoppiabili, moltiplicabili e
sovrapponibili non mancano di ironia; ma essi vanno
valutati alla luce dei contemporanei disegni di città utopiche insofferentemente schizzati da Pellegrin: ancora
una volta, il pendant della tecnica è l’incubo onirico, la
rievocazione aggiornata della megalomania decadente
dell’Alpine Architektur.
Se il coinvolgimento di Pellegrin nei programmi della
Sir mette in gioco il ruolo del progetto all’interno della
logica produttiva, quello che vede i Bpr impegnati nella
sistemazione degli svincoli autostradali della Milano
Nord o della tangenziale di Napoli (1970-71) riduce il
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design a semplice decorazione a livello paesistico: là
dove si precisano gli obiettivi del grande capitale pubblico o privato, il lavoro intellettuale viene utilizzato o
come supporto tecnico o come sovrastruttura esornativa. Chi, con il Museo del Castello Sforzesco o la Torre
Velasca, aveva potuto assumersi il ruolo di custode di
coscienze e memorie collettive, accetta ora senza traumi di nobilitare, apponendovi un marchio di qualità,
programmi di intervento territoriale incontrollabili con
gli strumenti conoscitivi propri a quella «qualità».
Nel frattempo, all’interno delle amministrazioni
comunali democratiche matura un nuovo progetto che
investe il destino dei cosiddetti «centri storici». Ci si
interroga, in sostanza, sulla produttività economica e
culturale di un ribaltamento di tendenza a favore del
patrimonio esistente: si tratta di combattere l’espulsione degli abitanti meno abbienti dai centri e i processi di
trasformazione dei centri stessi in organismi terziari o
in distretti residenziali di alta classe, e di utilizzare in
favore del risanamento conservativo gli strumenti nelle
mani dell’operatore pubblico.
Con le iniziative prese dal comune di Bologna, che
affronta operativamente il restauro di comparti esemplari
sulla base di attente analisi tipologiche e di una sperimentale utilizzazione dei dispositivi di legge per il controllo degli effetti indotti dall’operazione, la tematica
compie un salto di qualità. Da astratta istanza culturale,
come essa ancora si presenta al Convegno di Gubbio del
196o, quella tematica si fa ora politica e tecnica: i successi e gli insuccessi dell’impresa bolognese – cui seguono i tentativi compiuti a Pesaro, Rimini, Brescia – pongono con forza il problema del riuso delle strutture esistenti come alternativo a quello della creazione di nuovi
tessuti, facendo toccare con mano i limiti e gli ostacoli
da rimuovere a monte per la riuscita delle operazioni
decise a livello locale. Operazioni, peraltro, che corrono
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costantemente il pericolo di cadere nel vizio ideologico.
Il recupero dei tessuti antichi come ritorno ad ambienti
che permettano di vivere in equilibrate comunità aleggia
ancora come tema di fondo, lasciando trapelare ambigue
tonalità antiurbane. Rimane però aperta la questione del
riciclaggio dell’edilizia usata, certo determinante per città
come Venezia, che nonostante la legge speciale (o a causa
di essa) permane in una grave crisi di identità, ma che
investe anche il destino dei quartieri ottocenteschi e del
magma periferico di Torino, Milano o Roma. Si tratta
comunque di processi aperti, che dopo le sperimentazioni bolognesi segnano il passo, malgrado il mutato segno
politico di molte amministrazioni comunali. Le relazioni fra decisioni decentrate e apparati istituzionali emergono in tutta la loro drammaticità proprio da tali spostamenti degli equilibri politici. L’elezione a sindaco di
Roma di uno storico dell’arte come Giulio Carlo Argan
(1976-1979) sembra realizzare in ritardo il sogno vittoriniano di un potere gestito in proprio dagli intellettuali: ma la buona volontà e la dedizione personale si rivelano strumenti non sufficienti per influire visibilmente su
un organismo metropolitano cosí composito e compromesso. Di nuovo si profila come prioritaria la ricerca di
un nuovo rapporto fra tecniche e strutture di potere: un
rapporto su cui si giocherà gran parte del futuro della
società italiana.
6. Due «maestri»: Carlo Scarpa e Giuseppe Samonà.
Al cospetto dei nuovi problemi esplosi nei primi anni
settanta, gli architetti appaiono armati solo di rinnovate capacità di autoverifica. Le loro organizzazioni corporative non offrono strumenti di azione o conoscenza,
i loro organi culturali sono disseminati, l’editoria specialistica è inflazionata, mentre l’«ideologia del rifiuto»
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mostra la sua povertà e la boria tecnocratica la sua inefficienza. I migliori «scrivono testi». Per molti di loro,
si tratta di una dolorosa autolimitazione, per altri, si
tratta solo di coerenza con un atteggiamento di separatezza da sempre sostenuto. Per i piú giovani, di un
momento che si vorrebbe di attesa, e di cui si constata,
con angoscia, l’indefinito perpetuarsi.
Non a caso, è proprio nelle opere di chi si apparta,
di chi si protegge dai rimbombi, che è dato trovare il
massimo livello di coerenza linguistica. Il distacco
dell’«inattuale» illumina su situazioni soggettive e collettive che permettono ancora (o stimolano?), «il coraggio di parlare delle rose». Per tali aurei isolati anche la
trattazione storiografica deve sospendersi, per assumere l’aspetto «classico» della monografia.
Del resto, non v’è altro modo corretto per trattare di
un’opera come quella di Carlo Scarpa (1906-78), cosí
orgogliosamente attestata in difesa del cerchio magico
entro cui l’architetto appare rinchiuso insieme ai propri
codici: un’opera che va trattata nella sua interezza e che
affrontiamo solo ora per sottolinearne l’isolamento e la
particolarità162.
Nessuna «decadenza», tuttavia, è nella Venezia cantata e vissuta da Scarpa. Da Venezia, piuttosto, Scarpa
trae un insegnamento in qualche modo perverso: quello che proviene dalla dialettica fra celebrazione della
forma e disseminazione labirintica, tra volontà di rappresentazione ed evanescenza del rappresentato, tra
ricerca di certezze e consapevolezza della loro relatività.
Negli anni trenta, la ricerca scarpiana era iniziata con
una serie di vetri per la Venini di Murano e con la
ristrutturazione interna di Ca’ Foscari (1936-37), con
l’occhio attento sia alla scultura di Arturo Martini che
a temi di Braque e di Léger: già in quei primi saggi, un
ironico sorriso traspare dalla sua opera di «sapiente arti-
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giano». Che prosegue, nel dopoguerra, del tutto estranea ad ogni trauma ideologico, perseguendo una poetica dell’oggetto ricca di compiacimenti formali, attenta
alla lezione wrightiana ma attenta anche a non cadere
in maniera alcuna, accanita ad elaborare una materia
fatta di preziosità, di evocazioni e di contrasti. Depurata di ogni utopismo, la sintassi wrightiana diviene,
nelle sue mani, flessibile strumento di meditazione,
capace di dar vita a narrazioni convulse e interrotte.
Frasi che alludono ad altre frasi, in un’infinita catena di
rimandi, caratterizzano già i suoi progetti per una casa
di appartamenti a Feltre (1949), per un cinema a San
Donà di Piave, per Villa Zoppas a Conegliano (1953),
per la Casa Taddei a Venezia (1957), per Villa Veritti a
Udine (1956-61). Puntigliosamente concentrato nel
segreto del suo mestiere, Scarpa scompone i pezzi della
sua lingua, per trascinare lo spettatore in un aggrovigliato universo di segni la cui difficoltà di decifrazione
è ammorbidita da un edonismo ingannevole. Edonistica è infatti la sua scrittura per frasi staccate. Nel padiglione del Venezuela ai Giardini della Biennale
(1954-56), ma ancor piú nei frazionati e preziosi spazi
del negozio Olivetti alle Procuratie Vecchie (19571958), del negozio Gavina a Bologna (196o)163, della
Querini-Stampalia a Venezia (1961-63)164 la frase è tutto.
Angoli spezzati e «figurati», piani slittati, acqua introdotta a diluire ulteriormente forme instabili: una vera
arte della manipolazione informa i singoli frammenti di
tali parole «troppo piene». In qualche modo, il linguaggio è per Scarpa un pre-testo, come pre-testi sono
i monumenti su cui ha modo di intervenire con la sua
indiscussa competenza di restauratore o di allestitore.
Nella sistemazione di Palazzo Abatellis a Palermo
(1953-54), nella Gipsoteca di Possagno (1956-57), nel
restauro del Museo di Castelvecchio a Verona (1964)165,
Scarpa intesse con la storia un colloquio privato ricco di
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metafore: la surreale collocazione della statua equestre
di Cangrande della Scala, a Castelvecchio, è tipica di tale
rapporto divertito e pensoso ad un tempo con l’antico.
Ciò differenzia notevolmente l’atteggiamento di Scarpa
dallo «storicismo renitente» o ambiguamente sofferto
tipico di Rogers, di Gardella, di Quaroni o dei loro piú
diretti allievi. L’ironia investe anche la storia, considerata come materiale di progettazione. Si tratta, per Scarpa, di un’ironia cui certo non è estraneo l’incontro con
Paul Klee, in occasione della mostra allestita nel 1947.
Dalla confluenza fra le oniriche rievocazioni della «fanciullezza crudele» di Klee, l’ascetismo di Mondrian –
anch’esso commentato da Scarpa nell’allestimento della
mostra romana del ’56166 – e i «ludi geometrici» wrightiani scaturisce un comico impertinente e disincantato.
Insegnare a sorridere di ciò che rischia di divenire
troppo serio: anche questo è un insegnamento che proviene dall’opera di Scarpa, il cui riserbo aristocratico
può persino permettersi di tingersi di impudicizia. E
certo «impudica» è l’ultima grande opera realizzata da
Scarpa, la sistemazione del cimitero di San Vito presso
Asolo per la tomba di G. Brion (1970 sgg.). «Necropoli ludens» è stata definita questa tormentata sequenza
di episodi formali rappresi e iperprogettati – il disegno,
del resto, non è mai stato un mero strumento, per Scarpa – cunicolari e metafisici, disposti secondo un piano
dalle direttrici nascoste. Omaggio reso all’«arte del
cimento e dell’invenzione», il cimitero di San Vito assume l’aspetto di un campo di battaglia, dove le forme –
il «tempietto» evocante lezioni orientali, il «padiglioncino» e la passeggiata coperta che guida fino al portico
di ingresso, l’ermetico arco tombale che copre i sarcofagi dei familiari – giocano fra di loro una serena partita con la morte. Piú che nei progetti per il teatro di
Vicenza (1968), per la Banca Popolare di Verona o per
il rifacimento del Teatro Carlo Felice a Genova, è nel
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cimitero di San Vito e nella Casa Ottolenghi a Bardolino (1975) che è dato cogliere il nucleo segreto della poetica di Scarpa. Chiuse in loro stesse, tali opere si rivolgono agli «intendenti» per testimoniare l’ostinata volontà di comunicazione di un maestro di età bizantina
casualmente vissuto nel xx secolo, e che conseguentemente usa scritture attuali per far parlare verità antiche.
E a ben vedere, ancora di verità antiche è intessuta
l’opera piú recente di un altro «maestro» isolato, Giuseppe Samonà.
Troppo spesso, analizzando l’opera di Samonà, si è
dato credito al tema da lui stesso teorizzato: l’indissolubile unità delle diverse scale di intervento, dal territorio all’architettura167. Ma si tratta di un assunto datato,
legato alle condizioni del dibattito degli anni cinquanta, che va verificato nel concreto dei suoi progetti recenti, frutto di una stagione creativa eccezionalmente felice. La fase aperta con i progetti per la Biblioteca Nazionale di Roma e con i nuovi uffici del Parlamento prosegue infatti con alcuni progetti di concorso per temi a
grande scala, come la «metropoli dello Stretto» (1969)
e principalmente per le Università di Cagliari (1971) e
di Cosenza (1972)168. Una complessa «macchina» lineare si inserisce – nel progetto per Cagliari – fra i centri
urbani esistenti, affossandosi nel suolo; un gioco «epico»
di forme si installa, di converso, nelle corti interne.
Samonà lavora ancora per paradossi: il suo «comporre»,
ora piú che mai, procede assoggettando frammenti e
affermando, con dignità d’altri tempi, che suo compito
è rinnovare la memoria di un’ars antiqua con termini
attuali. Cosí, fra storicismo e antistoricismo, matericità
e immaterialità, volontà di forma e disintegrazione sintattiche, si struttura una delle sue opere più notevoli, la
nuova sede della Banca d’Italia a Padova (1968-74),
fatta di citazioni deformate nel fronte su via Roma – gli
archi di base enfatizzati o contratti, i merli ghibellini riu-
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niti fra loro alla sommità – e di campi neutri tormentati da oggetti surrealisticamente isolati nella fronte su via
Tito Livio. Il «comporre» mostra qui i propri limiti,
incontrando l’arte della «decomposizione». Diverso il
discorso relativo al centro civico, culturale e commerciale di Gibellina (1970-71), caso esemplare dei ritardi
e delle tutt’altro che innocenti vischiosità della burocrazia italiana, oltre che delle conseguenze degli interessi
che si accumulano persino su un caso, come questo, di
ricostruzione – nelle intenzioni «esemplare» – di una
comunità terremotata. Interessante comunque è rilevare che, nel loro progetto, Samonà, Quaroni, Gregotti e
G. Pirrone si sentono in dovere di abbandonare ogni inibizione per immaginare un insediamento fatto di objets
trouvés: la loro Gibellina appare come frutto di un colloquio impossibile fra interlocutori che ricorrono all’ermetismo per reciproca diffidenza. Anche qui, un sintomo: la tragedia naturale non è interpretata con lo sguardo di un Verga o di un Pasolini, ma solo come occasione per confrontare vie di approccio diverse all’autonomia della lingua. Per quanto riguarda Samonà, va notato che a Gibellina appare, in scala ridotta, una prima
idea di quello che sarà il progetto per il teatro popolare
di Sciacca (1975 e 1979, in via di realizzazione). Un
assemblaggio di tre segni perentori da forma all’organismo del teatro di Sciacca: un tronco di cono e un tronco di piramide si attestano sui lati opposti di un enorme parallelepipedo, che ospita le scene mobili e i servizi delle due sale contrapposte. Come nella banca patavina, ma qui con una piú accentuata volontà espressionista, la perentorietà dell’impianto è mascherata da una
ridda di riferimenti a Poelzig, a Van de Velde, a Le Corbusier, mentre l’ingresso evocante un arcaico trilite, le
lunghe scalinate esterne ispirate ai templi maya, il bucranio che corona il vertice del piccolo teatro introducono
caustiche interferenze narrative.
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Con aristocratico distacco, Samonà espone, scritti in
codice cifrato i frammenti della propria autobiografia
culturale. La passione per l’autobiografia non si nasconde piú, né, come nell’opera di Quaroni, assume toni
accorati. Al massimo, essa testimonia di un ritorno a un
universo di «totalità» perdute, rievocate in un clima spoglio di nostalgia.
7. Il frammento e la città. Ricerche e «exempla» degli
anni ’70.
Il ciclo chiuso che, nel loro insieme, è tracciato dalle
opere di Scarpa e Samonà esprime chiaramente lo spreco di energie che caratterizza il dibattersi della disciplina fra compiti inconfrontabili fra loro. La capacità di far
scaturire poesie dalle contraddizioni vissute in prima
persona è l’altra faccia della medaglia di una situazione
che non ha piú punti di appoggio, né nelle università,
che sopravvivono quasi per scommessa a una crisi cronica, né nelle istituzioni, né nelle organizzazioni di categoria o di cultura. Specializzata la funzione dell’Inu,
divenuta esornativa quella dell’Inarch, problematico il
rapporto fra università ed enti locali: elaborata in solitudine, o all’interno di piccoli gruppi consci della propria aleatorietà, la ricerca non trova luoghi in cui depositarsi. Ciò può provocare gesti tanto altisonanti quanto superflui – come la richiesta di pensionamento anticipato di Zevi in segno di protesta contro l’incuria
governativa che contribuisce a incancrenire le strutture
universitarie (1979) – o spinge a chiudersi nel limbo di
spazi fittizi, consegnati alla carta come testimonianze
estranee. In entrambi i casi, viene accuratamente messa
da parte la ricerca delle ragioni prime della crisi: una
ricerca che potrebbe rivelare quanto i «piccoli no», pronunciati magari con veemenza, siano in sostanza dei
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«grandi sì» offerti senza contropartite a un nemico in
fondo accettato perché sconosciuto.
Ciò spiega la ragione del fallimento degli Zevi, dei
Quaroni, dei Samonà, nei confronti dei compiti soggettivi richiesti dalla didattica, dalla metà degli anni sessanta in poi. Rimangono certo, per Quaroni, i risultati
ottenuti presso schiere di eletti, e per Samonà il merito
di aver permesso, a Venezia, l’innesco di processi di trasformazione tuttora in fieri. Ma si tratta sempre di «premesse». Al di là di esse, i nostri Socrati non si sono mai
inoltrati. Né Quaroni, il piú tormentato e problematico
dei protagonisti dell’architettura italiana del dopoguerra, maestro del dubbio e dell’autocritica, può vantare,
come Samonà, realizzazioni che sublimino le sconfitte
subite o autoimpostesi. Il dubbio, del resto, obbliga a un
percorso fatto di imprevisti e di improvvisi cedimenti,
di svolte subitanee e inspiegabili. Un sottile legame congiunge la magistrale ipotesi tracciata nel ’59 nel progetto per il Cep di San Giuliano alla macchina sovrabbondante del ’67 per gli uffici del Parlamento a Roma; ma
nel design a grande scala, che Quaroni sperimenta negli
anni settanta in collaborazione con Salvatore Dierna e
altri giovani allievi, l’indifferenza nei confronti dei
materiali imbocca una strada che sembra non aver nulla
a che fare con le macerazioni linguistiche della chiesa di
Gibellina o della succursale romana del Banco di Roma
(1970 sgg.). Un’insolita olimpicità domina i progetti
quaroniani per le Università di Cosenza, di Mogadiscio
(1973), di Lecce (1974): la «torre di Babele» sembra in
essi definitivamente esorcizzata169. In realtà, si tratta di
un farsi da parte senza clamori, di un diverso modo di
porsi in posizione di scettico osservatore, da parte di chi
ha dato fondo a un intero arco di ipotesi e di disilluse
speranze.
Altri sono, fra la fine degli anni sessanta e i primi
anni settanta, i portatori di nuovi strumenti di lavoro:
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per tutti loro o quasi l’utopia è arma spuntata, e giungere a risultati eloquenti è essenziale. Se i vecchi maestri avevano elaborato strategie, i nuovi privilegiano
sperimentazioni esemplari; se quelli erano intrisi di
moralismo e di miti, questi usano l’ideologia come arma
leggera e problematizzano, piuttosto, sistemi di analisi
depurati dalle scorie del futuribile.
Fra il colpo di freno provocato dalla crisi posteriore
al ’73, le incerte prospettive degli operatori pubblici e
l’attesa in cui vive il settore edilizio, la cultura architettonica italiana ha potuto cosí produrre quattro esempi di intervento residenziale di respiro internazionale –
i quartieri Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo
(1969-75), Monte Amiata al Gallaratese a Milano di
Carlo Aymonino e collaboratori (1967-73), Corviale a
Roma del gruppo Fiorentino (1973 sgg.) e Zen a Palermo del gruppo Gregotti (1970 sgg.) – utilmente confrontabili fra di loro, anche per il loro valore di modelli, non foss’altro che di metodo. Del bagaglio consumato nel corso dell’esperienza dei vari programmi per l’edilizia pubblica, quasi nulla trapela da questi quattro
exempla, ben consci del loro ruolo dirompente rispetto
al dibattito relativo alla collocazione del manufatto in
seno allo sviluppo della città contemporanea. Le ipotesi che essi hanno l’indubbio merito di rendere concrete
e verificabili chiudono storicamente un’epoca per segnare una svolta che ammette molteplici sbocchi.
Il villaggio Matteotti, anzitutto. È impossibile prendere in considerazione quest’opera senza rifarsi alla complessa ricerca di De Carlo e alle sue ramificazioni. Impegnato a ridefinire strumenti concreti per il farsi politico dell’architettura e del planning, aperto alle sollecitazioni metodologiche delle tecniche di analisi statunitensi ma pronto a farle reagire al confronto con la realtà
italiana, conscio della diversa qualità imposta alle tecniche dalle differenti scale di progettazione, De Carlo
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accompagna l’opera da lui svolta in organismi collettivi
come l’Eses o il piano intercomunale milanese con
approcci al design urbano, come nel progetto di concorso
per l’Università di Dublino (1964), svolge un’esemplare opera di pianificazione continua ad Urbino, approfondisce e depura il linguaggio sperimentato nei dormitori dell’Università urbinate nell’insieme residenziale
La Pineta (1968), nel nuovo Ospedale Civile di Mirano
(1967 sgg.), nei nuovi collegi universitari di Urbino
(1973 sgg.), nel progetto per la nuova Università di
Pavia (1970-75). L’approccio di De Carlo alla forma è
duttile: un’assenza di pregiudizi gli permette di vagliare un arco di ipotesi palesemente aderenti al clima del
Team X, piú orientato verso lo sperimentalismo degli
Smithson, tuttavia, che verso le troppe serene certezze
di Bakema. Né il brutalismo dei dormitori di Urbino, né
l’elegante geometrismo del quartiere La Pineta o della
Scuola Normale sono comunque, per lui, riducibili a un
formulario. Ciò che conta è la ricerca di un metodo e,
soprattutto, di un rigore capaci di restituire credibilità
all’approccio disciplinare170.
È quindi necessario valutare sia i residui utopici del
piano elaborato da De Carlo per Rimini, sia gli scarti linguistici presenti nella sua opera alla luce del tema predominante che li informa: la ricerca di una sicurezza progettuale che comprenda in sé le molteplici sollecitazioni provenienti dall’utenza, di una tecnica, in definitiva,
«aperta», capace di colloquiare con linguaggi ad essa
estranei. Che su tutto ciò pesi l’origine «anarchica» di
De Carlo e il contatto con l’esperienza dell’Advocacy
Planning statunitense è indubbio171. Ma anche della
mitologia della partecipazione De Carlo è capace di fare
uno strumento sperimentale e flessibile. Il risultato del
villaggio Matteotti diverrebbe incomprensibile fermandosi a una sin troppo facile contestazione delle ideologie che ne sono alla base.
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Infatti, esso vale non solo o non tanto per il suo
risultato, quanto per il processo che lo ha reso possibile.
Nel ’69, quando De Carlo è chiamato dalle Acciaierie
Terni a dar forma a un insediamento nell’area del vecchio villaggio costruito nel ’39 per i dipendenti della
società, egli si trova al centro di un conflitto che ha per
protagonisti l’amministrazione comunale, la Terni, le
organizzazioni operaie172. Scegliendo fra le cinque alternative proposte da De Carlo la piú coraggiosa e innovativa, la Terni intende rendere visibile un cambiamento di rotta nella sua politica sociale, prima pressoché inesistente. De Carlo impone però un processo
progettuale basato sul continuo scambio con gli operai
delle Acciaierie al di fuori di ogni controllo della società
e in orari di lavoro. Iniziando con una mostra documentaria su casi esemplari di edilizia residenziale, De
Carlo dà il via a un’operazione dagli effetti imprevisti.
La partecipazione alla progettazione da parte dei futuri
utenti è certo guidata dall’architetto: sullo schema da lui
proposto – una piastra scavata, con elementi paralleli a
tre piani, spazi per accessi veicolari e aree private all’aperto, servizi di prima necessità lungo percorsi trasversali a due livelli – la variabilità tipologica e la frequenza delle singole cellule vengono fissate dall’utenza. La
griglia tridimensionale definita da De Carlo funge cosí
da maglia di riferimento su cui si depositano i desiderata di utenti le cui vecchie abitudini vengono modificate nel corso di un rapporto con l’architetto – cui si
affiancano un tecnico della Terni e un sociologo – dagli
effetti indubbiamente didattici.
L’immagine che prende forma da tale colloquio fra
intellettuale e utenza riflette la ricchezza delle scelte
acquisite. La chiarezza della griglia di base si compone
con la mutevolezza delle tipologie, con il digradare dei
volumi cementizi, con i tetti giardino e i percorsi variati: la severità del linguaggio è addolcita da modulazioni
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e particolari che inclinano verso un picturesque urbano
non sempre controllato. Ma è proprio nel corso dell’esecuzione che esplodono conflitti che compromettono
l’operazione: la Terni sceglie per l’appalto una consociata Iri, l’Italedil, e la conduzione dei lavori è affidata
all’Italstat malgrado le offerte minori avanzate da imprese locali; la realizzazione si rivela onerosa; gli esecutori
entrano in contrasto con i progettisti e De Carlo è considerato ospite sgradito in cantiere.
Nel 1975, le duecentocinquanta famiglie assegnatarie entrano nei nuovi alloggi, ma la Terni, che da una
gestione socialista, nel frattempo, è passata in mani fanfaniane, non è piú interessata a un’operazione «illuminata» e la realizzazione delle attrezzature e del secondo lotto di alloggi viene rimandata sine die. Dal canto
loro, gli effetti del processo partecipativo innescato da
De Carlo si diramano in piú direzioni. Il comitato di
quartiere, insieme al movimento cooperativo, propone
un risanamento autogestito delle vecchie abitazioni in
alternativa al nuovo complesso, raccogliendo l’adesione
del 98 per cento dei residenti ma con l’opposizione dei
sindacati e del consiglio di fabbrica; l’amministrazione
comunale, nel preparare nel ’75 il suo piano triennale
per l’edilizia economica e popolare, si ispira ai metodi
di De Carlo; nel ’74, il comitato di fabbrica e i sindacati rivendicano la loro presenza alle decisioni relative
alla ristrutturazione degli impianti.
L’azione di De Carlo aveva puntato su una ridefinizione della relazione intellettuale-produzione agendo su
un solo settore di un singolo «caso»; le ripercussioni di
quell’azione riportano la tematica ai modi di produzione
e alla loro gestione globale.
Se il villaggio Matteotti obbliga all’esame di un processo, il complesso Monte Amiata al Gallaratese si impone nella sua pregnanza di oggetto. Al risultato del quartiere Monte Amiata Aymonino giunge attraversando la
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tematica della «nuova dimensione», elaborando ipotesi
operative sulla formazione della città «per parti finite»173, approfondendo le tematiche linguistiche aperte
con il progetto per la Biblioteca Nazionale di Roma: e
ci riferiamo, in particolare, all’edificio residenziale di via
Anagni a Roma (1962-63), e ai progetti di concorso per
il Teatro Paganini di Parma e per l’Ospedale Psichiatrico
di Mirano (1967, in collaborazione con Nino Dardi)174.
D’altronde, la lunga gestazione del quartiere – progettato fra il 1967 e il 1970, realizzato fra il ’7o e il ’73175
– non illumina solamente sulle sue caratteristiche strutturali: attraversando gli anni della «grande illusione» e
quelli dell’incertezza, esso assume il valore di un saggio
riassuntivo. Troppo aperto all’intorno, dominato dalle
professionali torri di Vico Magistretti, per essere realmente brandello autosufficiente; troppo «disegnato»,
per assumere valore metodologico: il complesso sembra
enunciare dolorosamente la propria condizione di lacerto infinitesimale, impotente a «metter ordine» nell’oceano periferico della metropoli lombarda, eppure ancora teso a prefigurare modi piú complessi di vita. Solo,
che la vita intensa qui preconizzata è vissuta solo dalle
forme: i quattro blocchi disposti a ventaglio e incernierati sulla soluzione di continuità del teatro all’aperto
sono ricchi di affabulazioni tipologiche e formali, da cui
trapela lo strumento principe del «saggio», la memoria.
Le solenni cadenze del Karl Marx-Hof vengono evocate insieme a residui informali e all’onirica stupefazione
dell’Andrew Melville Hall stirlinghiana: fatto di materiali deformati che alludono a ordini diversi che si sanno
irraggiungibili, il quartiere, onnicomprensivo come un
film felliniano, è realmente l’erede dell’ideologia piú
profonda della «scuola romana». Non a caso, la sua
sicurezza si stempera nelle soluzioni angolari, svuotate,
distorte, convulse. Sono esse a rendere palese che la
lacerazione è il soggetto di tale irripetibile coacervo di
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ipotesi, di parole accatastate, di immagini polivalenti.
Né un discorso «lineare» sarebbe lecito per far parlare una condizione intellettuale costretta a gettarsi sull’occasione fortuita con l’ansia di chi intende erigere un
monumento alle contingenti contraddizioni in cui è
immerso. Un monumento, prima di tutto, al «rumore»,
all’inesauribile ricchezza del frastuono: esiliato dalla
metropoli, il frammento si carica di un eccesso di valori metropolitani. Serve tuttavia uno specchio per esaltare l’affabulazione, una cassa di risonanza per far
echeggiare quel frastuono: non a caso, uno dei blocchi
del quartiere viene affidato da Aymonino a Aldo Rossi.
Ieratico e contegnoso, il lungo corpo realizzato da Rossi
gioca il proprio ruolo di testimone silenzioso al cospetto della messa in scena aymoniniana. Ma esso non disdegna la ricerca tipologica: la rue intérieure che attraversa
l’edificio di Aymonino penetra quello di Rossi, che la
assume come memoria dei ballatoi delle antiche case
lombarde, pur accettando suggerimenti dall’unité lecorbusieriana.
Dialogo come contaminazione reciproca quello fra
Aymonino e Rossi: le polarità che essi incarnano si rivelano entrambe bisognose del loro opposto. Non a caso,
i due collaboreranno per il progetto di concorso per il
centro direzionale di Firenze176, come non a caso le scarnificazioni cui Aymonino si costringe nel campus scolastico di Pesaro (1970 sgg.) sono un omaggio alle affinità
elettive che lo legano all’amico, al «diverso»177.
Se il Gallaratese segna nel non-luogo della conurbazione milanese un punto interrogativo raggrumato, il
Corviale a Roma si distende per circa un chilometro nel
tentativo di costituirsi come magnete riorganizzativo di
un sito urbano disgregato e come modello di integrazione fra residenze e servizi. Il Gallaratese e il Corviale; Aymonino da un lato e Fiorentino, Gorio, Michele
Valori e Piero Maria Lugli dall’altro: a piú di venti anni
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di distanza dal Tiburtino, che aveva visto gli stessi architetti compresenti accanto a Ridolfi e Quaroni, gli esempi che stiamo accostando mostrano l’ampiezza della
divaricazione che ha fatto esplodere la «scuola romana».
Professionista cui sono estranee le molteplici tentazioni intellettuali di Aymonino, Fiorentino si stacca ben
presto dal ridolfismo «educato» delle prime torri residenziali in viale Etiopia, congelando il suo lessico sia nel
secondo gruppo di case a torre nel medesimo viale Etiopia (1962), che nel progetto di concorso risultato vincente ex aequo al concorso per la nuova sede dei tribunali a Roma (1969). Può quindi sorprendere trovarlo
impegnato nell’impresa già ricordata dello studio Asse:
l’enfasi strutturale suggestiona anche chi persegue una
correttezza progettuale sostanzialmente aproblematica.
Anzi, nei progetti di Roma-mare e Ostiamare del ’7o e
per la zona Flaminio - Tor di Quinto (1971), Fiorentino mostra di aderire in toto al frammentismo esteso a
scala territoriale e al clima da metafora ipertecnologica
che imperversa nelle sedi universitarie in quegli anni. In
ciò, almeno, egli sembra vicino ad Aymonino, e al comune «maestro» Quaroni178.
Ma nel Corviale la protezione dell’utopia non regge
piú. Dovendo dar risposta a una domanda dell’operatore pubblico, Fiorentino recupera per intero le sue capacità di abile mediatore. Un unico sistema di 200 metri
di spessore, con originali tipi edilizi e realizzato con
avanzate tecniche di prefabbricazione: eppure, in quanto modello, questa città compressa in un solo volume
lineare solo teoricamente si presenta riproducibile; la sua
qualità coincide con l’esplicitarsi delle sue dimensioni
produttive. L’autentico risultato è nell’aver persuaso
l’Iacp della validità della proposta: priva di profezie,
questa decantazione dei canti al futuro si realizza trionfalmente come limite della periferia romana, senza alcuna certezza di poterne condizionare gli sviluppi.
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Didascalico, quindi, il Corviale. La sua perentorietà
si staglia contro lo sfascio urbano circostante, la sua proposta impegna la committenza a una sperimentazione
inabituale, l’allaccio fra la lunga struttura residenziale e
i servizi indica possibili modi di articolazione del complesso. Riflettiamo ancora. Da San Basilio al Corviale:
due opere «di decantazione», rinunciataria e artigianale
la prima, disincantata ma propositiva la seconda. In
mezzo, un «vuoto di valori», essenziale. Tuttavia né
Aymonino né Fiorentino sono «autori» benjaminiani, e
certo nessuno dei due si è fatto «astuto come colomba».
Ma l’esito storico che, insieme, il Gallaratese e il Corviale
designano per le atmosfere dell’età della ricostruzione è
troppo parlante per non ammettere la produttività del
décalage ideologico vissuto dalla cultura italiana. Le ambiguità di tali opere sono appunto in quell’aver «vissuto»
e non guidato la crisi: anche questo è leggibile in esse. È
forse un caso che, dopo il Corviale, Fiorentino senta il
bisogno di rivisitare – tradotti però in lingua ascetica –
gli etimi del neorealismo, nel progetto per un insediamento residenziale nell’alto Lazio (1979-81)?
Il difficile rapporto con l’insieme urbano, che in
modo diverso è alla base delle soluzioni del Gallaratese
e del Corviale, diviene, nel progetto del gruppo Gregotti
per il quartiere Zen a Palermo, colloquio con una natura sentita troppo ricca di valenze emozionali e con la
stratificazione storica del tessuto cittadino179. Poste sul
prolungamento dell’asse via Maqueda - via della Libertà,
le compatte insulae di Gregotti scandiscono solennemente le fasi di un rito: è l’atto del «fondare», che la
griglia rigorosa, appena variata alle estremità e aperta ad
accogliere i servizi in posizione asimmetrica rispetto
all’asse di simmetria virtuale, intende celebrare. I blocchi alti che fanno da testata alle singole insulae accentuano, fungendo da discreti richiami visivi a distanza,
tale esaltazione della «città murata»; una città che si
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difende, principalmente, dall’assalto della natura come
da quello, prevedibile, della disgregazione periferica. Il
«troppo costruito» del quartiere Zen si rapprende nell’unità tipologica costitutiva del complesso: perentoria,
l’insula si presenta come struttura finita ma articolata da
percorsi e incidenti, che ha come antecedenti il superblocco di Michiel Brinkman a Spangen e il Lindenhof
di Ehn, e come obiettivo la costituzione di un «catalogo di negazioni delle idee correnti intorno al tema della
residenza», come è scritto nella relazione al progetto.
Dopo le calibrate distorsioni della Rinascente di Torino, Gregotti risponde cosí, a quattro anni di distanza,
alle istanze avanzate nel numero monografico di «Edilizia moderna» dedicato alla forma del territorio. Se il
Corviale è un grande segno che si staglia come diga, alle
soglie dello sviluppo urbano, il quartiere Zen è una
meteora che si stacca dalla costellazione cittadina e si
condensa sotto l’incombere di forze minacciose. Mutano le morfologie e i modi di produzione proposti; permane la volontà di proteggersi da minacce. Sempre piú
astratta – l’ombra del Worringer si proietta su tali dispositivi formali carichi di allusioni arcaiche – è la scrittura che caratterizza la ricerca di nuovi equilibri fra l’artificiale e il naturale.
Quell’astrazione è peraltro indice di una volontà di
controllo sul frammento finito assunto come testimonianza: per il Corviale e per il quartiere Zen, ma anche
per i successivi progetti del gruppo Gregotti, o per le
ricerche a grande scala di Franco Purini e Laura Thermes180 – la grande croce del centro direzionale di Latina
(1972), il lungo muro percorribile del progetto per la
sistemazione delle cave di Montericco, il piano particolareggiato della zona archeologica e portuale di Terracina (1975) – è lecito parlare di un eccesso geometrico, di
un eloquente riduzionismo, di un processo di straniamento ostentato come espediente retorico malgré soi. De
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Carlo è ancora fiducioso in un’architettura capace di
radicarsi in «luoghi» e di fornire «dimore»; Aymonino
narra le vicende che hanno messo alle corde i facili sogni
di rigenerazione, anche se si ostina a confabulare con un
incerto futuro; Fiorentino ribalta in realismo l’utopia;
Gregotti e Purini accettano i confini della forma finita
e nello spazio geografico configgono strutture che conoscono la propria artificialità.
Naviganti in mari extraterritoriali, i frammenti che
dànno forma alle nuove ipotesi non cessano di fare i
conti con la storia che incombe su di loro.
Il che è tanto piú vero per gli ultimi progetti della
Gregotti associati: non piú il tema residenziale è qui in
gioco, bensí quello di infrastrutture che permettano di
proseguire il discorso sul patologico rapporto architettura-paesaggio. Si noti: proprio Gregotti, uno degli
architetti rimasti piú silenziosi durante la breve stagione della febbre megastrutturale, sta oggi realizzando
una delle poche operazioni territoriali in cui la dimensione gioca da protagonista, l’Università della Calabria.
Ma a tale risultato Gregotti perviene dopo aver approfondito, con Purini, il tema del quartiere Zen nel progetto di concorso per la nuova Università di Firenze
(1971)181. Ancora un sistema di dighe – cinque blocchi
scarnificati, sedi dei nuclei didattici e di ricerca – contiene le forze del sito e si installa, con funzione nodale
rispetto ai nuclei storici di Firenze, Prato e Pistoia,
come misterioso reperto. Di nuovo, il comporre assume
veste rituale: solennemente la fondazione del nuovo
organismo urbano ha luogo. I segni che colloquiano con
il paesaggio si caricano di valenze ieratiche: l’architettura riflette gravemente su se stessa e si preserva
da contaminazioni esterne. Ma nel progetto risultato
vincitore al concorso per la nuova Università di Cosenza e attualmente in via di realizzazione, l’orchestrazione dei segni appare del tutto mutata182. Due diversi siste-
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mi aggrediscono la successione collinare che scende
verso la vallata del Crati dalla catena paolana: una serie
di blocchi a pianta quadrata per le attività dipartimentali
si aggancia a un pontile attrezzato lungo 3200 metri e
posto a una quota costante che scavalca le accidentalità
orografiche; tessuti residenziali a gradoni si sfrangiano
sul versante settentrionale, innestandosi nei nodi di collimazione fra la struttura lineare e i colmi collinari. Il
paesaggio viene in tal modo scomposto e ricomposto.
Nel conflitto fra il percorso artificiale – il pontile, teso
come segno sicuro e filiforme – e i percorsi naturali – le
strade di colmo – è riposto il significato ultimo dell’intera operazione: il filo di Arianna sospeso nel vuoto,
indifferente a ogni incidente, è l’unico riferimento per
un’architettura che tende ad esaurirsi in un fascio di
pure «relazioni», e che in quanto tale nell’ambiente che
l’accoglie «non abita». Dietro l’ottimismo progettuale di
Gregotti – come si esprime anche nel progetto per il centro turistico Manilva a Malaga (1974, con Oriol Bohigas, Martorell e Mackay) o nel centro di ricerche della
Montedison a Portici (1978), ricco di citazioni da Stirling e da Terragni – vive una feconda inquietudine.
8. Architettura come colloquio e architettura come
«invettiva civile».
Non può non dar da pensare il parallelismo dei tragitti segnati, su rotte indipendenti, da alcuni dei piú
radicali «revisionisti» italiani degli anni cinquanta.
Come per Gregotti, anche per Gabetti e Isola il
«neoliberty» non aveva avuto il significato né di un
movimento né di una corrente: il loro tenace radicamento nella specificità della loro regione – un Piemonte letto nella sua doppia caratteristica, provinciale e
cosmopolita – e nella specificità delle singole condizio-
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ni produttive permette loro di proseguire senza clamori ma con sicurezza la strada iniziata con la Bottega
d’Erasmo. Un realismo, cioè, in cui la carica introspettiva è potenziata a contatto con il genius loci, e in cui il
gusto artigiano per il «buon prodotto» fa i conti con una
spregiudicatezza formale che deriva ancora dal diretto
rapporto con le cose, ma in assenza della «disperata tensione esistenziale» che motivava la loro ricerca. La
quale, partita dalla celebrazione dell’oggetto, giunge a
toccare, come per Gregotti, il tema del rapporto manufatto-ambiente. Eppure, nulla sembra piú lontano di
quel tema dalle opere di Gabetti e Isola dei primi anni
sessanta 183. Nella chiesa parrocchiale di Montoso
(Cuneo), del 1963, i due architetti contaminano motivi
eruditi e strutture tradizionali, in omaggio a un’esigenza partecipativa (la chiesa viene costruita dal parroco e
dalla comunità religiosa locale); una smaliziata misura
domina gli scatti geometrici del monumento alla Resistenza a Prarostino (1964); un realismo colto, raffinato
e divertito, attento agli stilemi tradizionali dell’architettura padana e rurale, ma anche a sedimentate memorie e a suggestioni letterarie, informa opere come l’edificio per abitazioni in corso Montevecchio a Torino
(1964), la casa-albergo Eca a Le Vallette (1965, con
Giorgio Raineri), l’oratorio Farina a Cortanze (1966), le
Ville Pero (1965)184 e Furlotti (1973), il progetto per la
Casa del Gallo a Pinerolo (1967).
Rispetto a tali esperienze di alto artigianato professionale, affettuosamente radicate nei centri storici e
nelle campagne piemontesi come cifre cariche di allusioni, il centro residenziale realizzato a Ivrea per i dipendenti della Olivetti (1969-70) sembra voler aprire un
nuovo capitolo185. Il complesso fa parte di un piano
finanziario che comprende un analogo intervento localizzato ai margini del centro storico di Ivrea e opera di
Igino Cappai e Piero Mainardis. Due nuove «architet-
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ture da collezione» vengono cosí ad arricchire l’eclettica raccolta olivettiana: in città, un pezzo macchinistico
che gioca sull’impatto fra un’ammorbidita futurologia e
l’antico tessuto urbano; all’esterno, in un terreno boscoso prossimo al quartiere Castellamonte, l’arcadia severa
delle residenze di Gabetti e Isola. Attraversando la
Dora, e installandosi per la prima volta in città, la Olivetti – con il centro dei servizi sociali e residenziali di
Cappai e Mainardis – si presenta come «macchina»
astrale ingentilita da un design di intonazione anglosassone; verso la campagna, un crescent ben memore dei
suoi antenati settecenteschi commenta il volto sociale
della ditta.
Significativo, il «confidente distacco» dalla natura
del crescent in curtain-wall di Gabetti e Isola. Le cellule
residenziali minime hanno un solo affaccio all’esterno,
definito dalla griglia infittita della facciata ricurva: per
metà interrato, questo esempio di «land-architecture»
ha cura di non interrompere la struttura del sito, inserendosi in esso con un unico gesto sicuro, con un riconoscibile segno di commento.
Terminato nel ’70, il centro residenziale di Ivrea è,
per Gabetti e Isola, la premessa di irrealizzati progetti
che ne riprendono e ne ampliano la tematica: il progetto di concorso per il centro direzionale della Fiat a Candiolo, presso Torino (1973), quelli per un complesso
residenziale a Volterrano, all’isola d’Elba (1975), per un
albergo, servizi e attrezzature per il Club Méditerranée
a Sestrière (1973), per un complesso residenziale in alta
montagna (1975). Piú vicini al progetto del gruppo Gregotti per l’Università di Cosenza che a quelli per il quartiere Zen o per l’Università di Firenze, il rapporto
manufatto-ambiente è in essi mantenuto al livello di un
sottile ed aristocratico colloquio: il centro direzionale
della Fiat si riduce a una doppia scarpata di terra, erba
e superfici vetrate inclinate, che descrive un enorme
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cerchio, dominato alla sommità da un enigmatico lucernario fatto di tre tubi accostati.
Un esile ma perentorio segno si raggruma cosí nel
paesaggio piemontese. Testimonianza di un educato
farsi avanti della volontà di forma, esso è lí per far
riflettere, non per violentare. La sua compiutezza non
vuol altro che «lasciar essere» il sito che lo ospita: non
a caso, rispetto al complesso di Stupinigi, poco distante, esso si situa in posizione appena defilata, a rendere
evidente la sua qualità di eco della forma circolare del
giardino settecentesco.
Anche per Gabetti e Isola, dunque, la grande scala
non comporta necessariamente utopie o enfasi strutturali. Anche per loro l’incontro con il paesaggio è inserimento in una storia in fieri, da leggere con gli stessi occhi
che erano stati capaci di cogliere i valori intimi dei centri di Torino o di Pinerolo. È l’intimismo, piuttosto, che
con questi progetti ha compiuto un salto di scala, dimostrando la propria capacità di tradurre la memoria in
forme che travalicano i limiti del semplice oggetto186.
Ben diverso è il percorso compiuto dai protagonisti
milanesi della vicenda neoliberty come Canella, Achilli e Brigidini, o Gae Aulenti. Abbiamo già avuto occasione di parlare, per l’opera di Canella, di una «angry
architecture»187. I motivi presenti nel progetto di concorso per il centro direzionale di Torino e nel centro
civico di Segrate si appoggiano, tuttavia, a una teorizzazione che ha al suo attivo un originale impegno didattico e di ricerca sul ruolo delle attrezzature nella struttura urbana: per Canella, servizi e infrastrutture sono
sigilli di un’intenzionalità capace di opporsi all’ambiguità dispersa della città attuale, alla dissoluzione dei
nessi provocata dalla perdita di valori contestuali188. La
ricerca tipologica si concentra cosí su gangli vitali, investendo la loro organizzazione e contestando ogni modello lineare di localizzazione. Si tratta, per Canella, di
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coniugare in modo integrato i servizi relativi all’amministrazione, all’istruzione, allo scambio, alla cultura:
veri e propri plessi a funzioni multiple vengono da lui
proposti come strutture consolidate ed emergenti, atte
a triangolare polemicamente organismi urbani.
L’aggressività delle immagini canelliane è conseguente
a tale impostazione programmatica. Nel centro civico
del quartiere Incis a Pieve Emanuele (1968-81), –
meteora che si introduce nel complesso spiazzandone la
compostezza – la complessità delle funzioni è calata in
un linguaggio provocatoriamente «sporco», contaminato, fatto di disarmonici assemblaggi. Le eleganze
inquiete degli arredi della fase neoliberty si trasformano nell’antigrazioso cui si ispira il grande guscio cementizio montato su cilindri e coronato da un frontone
ricurvo memore dei pastiches di Gaudì, che caratterizza la scuola elementare di quel centro civico. La
provocazione e il montaggio esasperato, qui come nel
progetto del ’72 per una scuola secondaria a Saronno,
e nel Palazzo Municipale e scuola media inferiore a
Pieve Emanuele (1971-81), informano sia la ricerca di
consolidamento funzionale che i modi del linguaggio.
Lo sfacciato eclettismo di Canella, Achilli e Brigidini
distorce forme finite, ricorre a memorie lacerate, inquina volumi troppo definiti, fa cozzare in modo stridente immagini difficilmente accostabili. Ma anche questo
è un esito in qualche modo implicito nell’atteggiamento polemico dei «giovani di Casabella» alla fine degli
anni cinquanta: il messaggio che dovrebbe conquistare
a nuovi comportamenti collettivi è affidato a un «rimar
petroso», in bilico fra la costrizione alla dissonanza, l’evocazione e l’amore per classiche compostezze, come
dimostra anche la scuola elementare e materna di
Noverasco (1971-76).
Le distorsioni formali di Canella assegnano cosí all’architettura un compito preciso: quello di pronunciare
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«invettive civili», ricaricandosi di un pathos erede a
suo modo degli insegnamenti dei padri contestati.
Nulla di tale ansiosa evocazione è invece nell’opera
di Gae Aulenti, l’unica del gruppo neoliberty a proseguire sulla via di rarefatte eleganze destinate a un preciso ceto, anche culturalmente caratterizzato189. Il geometrismo estenuato della Aulenti può cosí entrare in sintonia perfetta con gli oggetti e le immagini «pop» che
abitano la sua Casa di un Collezionista a Milano
(1968-69), si presenta ermeticamente monumentale nei
volumi componibili progettati per la mostra del design
italiano al Museum of Modern Art di New York del
’72190, si piega a un geniale effetto di «straniamento»
dell’oggetto-automobile nei saloni d’esposizione Fiat a
Torino, Buenos Aires (1967), Bruxelles e Zurigo (1970),
percorsi da una galleria artificiale che crea un’ambigua
sospensione dello spazio. Il design della Aulenti non
intende però rimanere nel suo ambito specifico: suo
obiettivo è raggiungere la città, porsi come sua componente interna. A scale variabili, ciò è perseguito sia nel
progetto di concorso per il centro direzionale di Perugia (1971, con Sandra Sarfatti e Giovanni Da Rios), che
con il complesso scolastico a Cinisello Balsamo (1973),
che con l’originale proposta di «arredo globale» di Milano progettata nel 1972-74. L’operazione non oltrepassa i limiti di un’elaborata scenografia per un’improbabile città come teatro collettivo: l’abilità della Aulenti
non casualmente si rivela compiutamente negli allestimenti scenici realizzati per la regia di Luca Ronconi191.
9. Il «caso» Aldo Rossi.
Gabetti e Isola, Canella, Gae Aulenti portano cosí,
per vie diverse, ad estenuazione i materiali del linguaggio, toccando gli estremi della sgradevolezza e dell’intellettualistica sensiblerie. Fra le strade lasciate aperte
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dalle tematiche agitate nell’ambito rogersiano rimane la
ricerca sugli elementi primi del fare architettura: una
ricerca che obbliga a svincolarsi da definiti contesti e a
trasmigrare verso una linea di orizzonte in cui il passato privato e quello collettivo si fondono. È Aldo Rossi
il protagonista di una simile ricerca: un architetto che si
pone oggi come il «caso» italiano e internazionale piú
seguito e discusso, l’unico «caposcuola» capace di alimentare di continuo, intorno alla propria opera e alla
propria figura, una polemica e un interesse che investono, alla fine, lo stesso concetto di architettura. Abbiamo già incontrato Rossi fra gli allievi di Rogers, attivo
nel gruppo redazionale di «Casabella continuità» e autore di uno dei più polemici progetti presentati al concorso per il centro direzionale di Torino. Ma la complessità
e l’eccezionale coerenza della sua ricerca lo pongono
ben presto al di fuori delle polemiche contingenti: con
esse Rossi non intende sporcarsi; la sua poiesis resiste ad
ogni compromesso con il reale, poiché il ritorno alla
«antica casa del linguaggio» è possibile solo con un’affermazione di scontrosa indifferenza192.
Che tuttavia nella poetica di Rossi esista una segreta reazione al desengaño subito dagli architetti italiani
negli anni sessanta è indubbio: anche questo significa il
suo interesse per temi e figure rimosse dalla ventata
moralistica dei primi anni del dopoguerra193. Alla XII
Triennale di Milano, insieme a Polesello e Tentori, Rossi
espone un progetto per la ristrutturazione della zona di
via Farini: si tratta di un progetto ottimistico, di un’ipotesi tesa a ricomporre un volto per la periferia194. Ma
siamo nel 196o: quell’ottimismo si rivela ben presto
ingiustificato. Nello stesso anno, la sua villa ai Ronchi,
in Versilia, appare come una conseguenza della «scoperta» di Adolf Loos, da lui celebrato in un articolo del
’59 su «Casabella»195. Inizia cosí, per Rossi, una ricerca
di forme primarie cui non è estranea la riflessione sul-
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l’opera di Adolf Loos ma anche su quella di Max Bill;
di forme, comunque, esiliate dal luogo urbano, ma che
di tale esilio intendono parlare, per proporre una teoria
della città come locus della memoria collettiva. Nel ’64
il progetto di concorso per il Teatro Paganini a Parma,
nel ’65 il monumento ai Partigiani a Segrate, nel ’66 il
progetto di concorso per un complesso residenziale a San
Rocco (Monza), in collaborazione con Giorgio Grassi, e
un libro, L’architettura della città: da un lato, il tentativo di ridefinire la scienza urbana incontrandosi con la
geografia della scuola francese; dall’altro, l’essicazione
dell’immagine alla ricerca del punto nevralgico in cui
dalla memoria si riesca a far scaturire una vera e propria
epifania dei segni. Il triangolo, il cubo, il cono: ossessive, queste figure scarnificate ricompaiono, sempre e di
nuovo, nel progetti rossiani; ma non finalizzate a un’astratta ricerca elementarista, bensí per accerchiare, con
giri sempre piú stretti, la scaturigine della forma. Il
desengaño è divenuto eloquente. Ai «rumori del mondo»
sarà necessario voltare le spalle, per contemplare i luoghi di un’estraneazione divenuta sacrale – le periferie
auratiche, memori di quelle di Sironi, che appaiono nei
disegni di Rossi – o quelli in cui la vita appare sospesa
– il progetto per il nuovo cimitero di Modena (1971)196,
ma anche il metafisico cortile della scuola De Amicis a
Broni (1970). Eppure, i progetti di Rossi affondano in
un nuovo immaginario che ha come radici lo sguardo
immoto di De Chirico su spazi abbandonati dal tempo
e la «visione infelice» di Böcklin. Il blocco del Gallaratese, la scuola elementare a Fagnano Olona (1972), i
progetti per il Municipio di Muggiò (1972) e per Villa
Bay a Borgo Ticino (1972) vanno confrontati con i disegni, i collages, e gli oli degli anni settanta. Le forme che
si aggregano rimandano alla stupita fissità degli oggetti
di Giorgio Morandi: un occhio nascosto esplora l’atto
che dà forma, spia la mano e la mente dell’artista, e non
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incontra, nella profondità dei ricordi, che parole già
dette, allineate sinistramente o accatastate alla rinfusa.
Né ha importanza che la ricerca di un’essenza primigenia venga costantemente frustrata. Anzi, ciò spinge a rinnovare senza posa il gioco di trasformazione dei
materiali ridotti al loro grado zero: lo dimostrano le successive rielaborazioni del progetto per il cimitero di
Modena, il tornare di Rossi sulle forme già sperimentate per farle colloquiare fra loro, le diverse edizioni
della sua «città analoga»197, l’insistenza con cui assemblaggi architettonici – con o senza «oggetti domestici»
– sono minacciati dalla spettrale presenza di San Carlo
Borromeo. L’immaginario è nuovo bisogno collettivo
di un universo che tende ad espropriare il fare individuale di qualità fantastiche. Ma chi oggi si immerge in
esso – ben lo aveva avvertito Blanchot – è costretto ad
annullare spazio e tempo, a farli sprofondare nel nulla
dello «spazio letterario». Indecente e provocatorio, tale
annullamento. Esso non ha nulla a che fare con l’Entsagung classica; il suo principio è quello, amorale, dell’astensione. Non a caso, l’opera di Rossi provoca cori
di proteste indignate, insieme ad amori irriflessi. Eppure, Rossi ha il coraggio di contemplare quel «nulla»,
proiettandone i segni impalpabili in un’urna magica,
specchio di un sogno raccontato in pubblico. La mémoire di Rossi è erede dell’autobiografismo straripante dalla
cultura italiana degli anni cinquanta; ma all’opulenza
delle affabulazioni di Gadda essa preferisce un’arcaica
silenziosità. Per questo, la sua introspezione si esprime
in un’opera divertita e pensosa, il Teatrino scientifico
(1978). Il Teatrino, il cui orologio installato sul frontone triangolare è fisso alle ore cinque (della sera?), è
un tempietto in forma di «piccola casa» l’unica che
possa accogliere le architetture di Rossi, lí disposte
come scene stabili o mutevoli. Lo spazio della rappresentazione coincide con la rappresentazione dello spa-
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zio: di questo Rossi vuole convincerci con il suo metafisico teatrino.
Ma tale coincidenza non era stata già annunciata nel
«concitato silenzio» della corte interna della scuola di
Fagnano Olona, o nel «museo in forma di battistero»
che appare nel progetto di concorso per il centro direzionale di Firenze (1977)? La rappresentazione è tutto:
inutile affannarsi a cercarne significati secondi in regioni ad essa precluse. La città – malgrado ogni affermazione in contrario del Nostro – si rivela come semplice
pretesto. Ma anche: la rappresentazione presuppone
modelli, archetipi, figure di riferimento. La ricerca tipologica di Rossi confina non a caso con una autodescrizione: il tipo, immoto, non fa storia, il suo ripetere e il
suo ripetersi appartengono alla medesima volontà di naïveté che era stata di Tessenow. In tal modo, l’universo
rossiano può essere percorso come un labirintico paesaggio, in cui orme ingannevoli – impresse dalla memoria dell’artista – confondono il visitatore. L’architettura è posta paurosamente in bilico: la sua realtà, mai
negata, viene perversamente coniugata all’irreale. Il
Proun di Lisickij ha invertito la sua direzione di marcia,
ma in un universo ineffabile continua a fluttuare.
Specie negli ultimi progetti, disegni e incisioni, le
parole rossiane assumono la dignità di segni alchemici.
Nella Cabine dell’Elba (1973), nella Città copernicana,
nel Souvenirs de Florence, un alfabeto esoterico viene
manipolato da un mago ostinato nel suo rifiuto di guardare nel cannocchiale galileiano. Il rigorismo di Rossi è
condizione del suo immaginario: esso vuol mostrare che
l’estraneazione è raccontabile, che la condanna all’afasia è scongiurabile da chi sappia tornare bambino.
Appunto: un sublime irresponsabile. Ciò spiega il ricorso rossiano ad infantili grafie o a un’elementarietà geometrica che rimanda alle tavole del Durand: tipici, al
proposito, il progetto per il Palazzo della Regione di
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Trieste (1974), omaggio a un’Aufklärung senza tempo,
o il Teatro del mondo attraccato come fugace apparizione accanto alla punta della Dogana a Venezia
(1979)198.
Eppure: Dieses ist lange her | Ora questo è perduto.
Questo il titolo di un’incisione di Rossi del ’75, in cui,
come nell’acquarello L’architecture assassinée, egli presenta i suoi segni in sfacelo. Si tratta di uno sfacelo congelato, tuttavia; immobili sono i frammenti pencolanti
o proiettati nel vuoto. La perdita non è dolorosa: ad essa
il viandante era preparato. Il «ponte», figura metafisica sovrasignificante, che dal progetto per la Triennale
del ’64 al monumento di Segrate, al blocco del Gallaratese si proponeva come connessione di estremi indicibili – memoria e storia, segno e senso, soggetto e alterità
– ora si spezza e vola nello spazio, portandovi i frammenti di una dolorante volontà di conoscenza.
1o. Il rigorismo e l’astinenza. Verso gli anni ’8o.
Declinare l’alfabeto alchemico proposto da Aldo
Rossi come se si trattasse di un normale dizionario è possibile solo bloccando la sua ricerca alle soglie della tautologia. «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa...»:
la «costruzione logica dell’architettura» di Giorgio
Grassi si costringe alla pura reiterazione199. Se Rossi rappresenta la sua accorata esplorazione di «origini» non
rinunciando a confessare il rinnovarsi dell’insuccesso,
Grassi si acquieta nella ricerca di «essenze», di noumeni estratti a forza da un’immobile catena di forme primarie. La logica coincide per lui con il classico: ma non
si tratta del classico come rinuncia inappagante di
Goethe, bensí della perfezione atemporale di Winckelmann, identificata con le spettrali reiterazioni della Langestrasse di Weinbrenner a Karlsruhe e con le immagi-
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ni laconiche di Hilberseimer. Tangente ai suoi inizi con
la ricerca di Rossi, quella di Grassi, dopo alcuni progetti
in collaborazione con questi – per un albergo al passo
Monte Croce Comelico (1963), per un quartiere Ises a
Napoli (1968), per il quartiere San Rocco a Monza
(1966) – se ne distacca per una volontà di conoscenza
ripiegata su se stessa. I progetti per un laboratorio per
la fabbricazione di apparecchiature per ricerche biologiche a Paullo (1968), per il restauro del castello visconteo di Abbiategrasso (1970), per un’unità residenziale
ancora ad Abbiategrasso (1972), per residenze sul fiume a Pavia (1970-73), per la scuola media di Tollo,
interrogano, senza ricevere risposta, moduli tipologici ed
elementi primi quali la corte, il portico, la simmetria, la
costanza ritmica: l’aspirazione sembra essere quella alla
pagina bianca; la polemica contro ciò che Grassi chiama
lo «sconnesso parodismo» si risolve in una ostentazione di depauperate certezze.
Il fatto che ipotesi come quelle di Grassi possano
essere giudicate in contrasto con la cattiva città contemporanea è significativo. Certo, il silenzio può essere
fragoroso là dove domina il frastuono: rimane da vedere
se quel silenzio riesce a far veramente conoscere qualcos’altro che non sia la semplice volontà di conoscere, e
se la testimonianza che esso offre è capace di oltrepassare il semplice valore di sintomo.
Che il metodo di Aldo Rossi e quello di Grassi riescano a fare «scuola» non può meravigliare. Chi ad essi
si appella è in genere ansioso di ritrovare una grande
madre, di riposarsi tornando al ventre dell’Architettura,
di isolarsi dalle miserie del contingente. Il successo
didattico dei due va quindi considerato come cartina di
tornasole dell’angoscia e dei «vuoti di valori» che stringono dappresso le giovani generazioni, ma non giustifica il tentativo di costruire una «tendenza» accomunando i vaganti segni rossiani alle ricerche di Leon Krier,
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all’eclettismo di Aymonino, alle eloquenze di Dardi, al
macchinismo di Ludwig Leo o ai «monumenti continui»
di Adolfo Natalini, come si è avuto modo di fare, sotto
la formula «Architettura razionale», alla XV Triennale
di Milano del ’73200. Per Rossi, responsabile del settore
internazionale di architettura di quella Triennale, si
trattava di un grande collage virtuale, nei cui frammenti era letta la presenza di un surreale tecnicamente organizzato; per i facili esegeti, di una nuova chiesa in cui
bruciare incensi; per gli oppositori, di una «mostra
modello Starace», di un ritorno a etimi pericolosamente
memori della retorica dei regimi totalitari.
In realtà, non solo a Rossi, a Grassi o alle loro cerchie immediate appartiene il tentativo di far parlare
l’architettura con i soli suoi strumenti e solo di essi. Se
gli sviluppi degli aderenti al Grau, dopo il progetto per
gli Archivi fiorentini, appaiono deludenti201, le ricerche
di Purini e Thermes, del gruppo romano Labirinto e di
Paolo Martellotti in particolare, o di alcuni allievi di
Quaroni si rivelano perlomeno parallele nello sforzo di
definire un universo che si specchi nei limiti della forma,
per raggiungere, nei casi migliori, una autonomia della
lingua dialetticamente rapportata all’altro da sé, nei casi
peggiori, a una segregazione presuntuosamente paga
della propria immobilità202.
Un’istanza inappagata di rigore, compensata da
improvvisi abbandoni lirici, si deposita nelle montagne
di carta disegnata prodotte da questi nuovi puristi. E sia
che essi – come Purini – si concentrino nella configurazione di «eventi» che saggiano la consistenza dei
materiali del comporre, con l’occhio fisso a quanto da
quest’ultimo non è controllabile, o che – come il Labirinto nella ristrutturazione della Calcografia Nazionale
a Roma (1973-75)203 – sperimentino le valenze insite
nella calcolata distorsione delle strutture visive, quell’istanza si rivela espressione di un «contegno» autoim-
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postosi, al limite del moralismo. «Per mettere fuori
gioco una generazione – hanno scritto Purini e Thermes204 – basta fare in modo che i giovani coltivino il mito
di una totale «integrità» morale: così non sapranno
accettare e praticare il compromesso, non certo quello
spicciolo, ma quello nel quale si realizza la definizione
della politica come arte del possibile, come dialettica del
reale». Rituale diviene la puntigliosa indagine delle leggi
costitutive della forma. Del resto, un’«integrità» senza
scopo, e per di piú senza sbocchi sociali, non può non
colorarsi di mistico. Il rigore delle «parole» confina con
il «frivolo»: solo al disegno esso fa appello. L’astinenza
professionale cui, per ragioni oggettive e soggettive, tale
generazione sembra condannata, sollecita viaggi della
ragione ai confini del lecito: nell’«architettura disegnata» – approdo e prigione di chi vorrebbe poter esclamare
«e anch’io son Piranesi» – si ammassano pratiche narcisiste ma anche appelli a una totalità di valori altrimenti
inattingibile. Le atmosfere kafkiane di questi talvolta
raffinati universi grafici hanno qualcosa di coerente (di
troppo coerente): nel vuoto, si fanno risuonare parole e
si enunciano superflue leggi.
Che tutto ciò, tuttavia, sia capace di creare un clima
atto alla riproduzione e alla vita autonoma di quei rituali è dimostrato dall’impostazione di progetti come il
piano particolareggiato della nuova Università di Cagliari (1977-78), del gruppo coordinato da M. Luisa
Anversa e Marcello Rebecchini, o dal risultato di concorsi come quelli per il centro direzionale di Firenze
(1977) e per la realizzazione di una piazza nell’area dell’ex panificio militare di Ancona (1978). L’occasione fiorentina non dà piú luogo a filosofemi sul destino del
«terziario» o ad organismi preoccupati di comprimere in
sé nuclei di ristrutturazione territoriale. Marco Porta,
insieme a Purini, Emilio Battisti, Cesare Macchi Cassia
e collaboratori, tenta con il suo progetto di entrare in
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sintonia sia con il sistema universitario di Gregotti,
adiacente all’area del nuovo centro direzionale, sia con
le tracce incise nel territorio dalla memoria. Ne emerge
una sommatoria di temi: la rotazione degli assi, la variazione del confine murato, i caposaldi emergenti da un
ideale centuriatio. E che gli etimi desumibili dalle ricerche di Rossi, di Gregotti, di Purini possano essere connessi a formare un lessico lo dimostrano i progetti del
gruppo Vernuccio, del gruppo Rosa - Cornoldi - Sajeva
- Manlio Savi, del gruppo Polesello, e in qualche modo
anche del gruppo Angelini-Dierna-Mortola-Orlandi.
Rispetto ai grandi concorsi italiani del dopoguerra, in
definitiva, quello per il centro direzionale di Firenze –
caratterizzato da un bando che sembra redatto appositamente per consigliare ai concorrenti la via dell’astrazione205 – non dà luogo a un dibattito fra ipotesi
divergenti, né a significativi ripensamenti metodologici
o linguistici: alla «maniera» di se stessi ricorrono i concorrenti piú prestigiosi, come Giuseppe e Alberto
Samonà, Aymonino e Rossi, Fiorentino e Anversa, e
persino James Stirling, che appare qui associato al gruppo Castore.
Invero, persino l’architettura disegnata è un abito
troppo stretto per contenere gli universi della totalità
della forma cui mira un umanesimo nato dalla forzata
accettazione della marginalità della lingua206.
Si può certo andare piú in là con la coerenza rispetto ai propri assunti, si può fare delle forme architettoniche un paesaggio immaginario libero dal peso della
materia, si può esprimere con gli strumenti tradizionali
dell’incisione, dell’acquarello, dell’olio, la segreta aspirazione a rivivere – necessariamente nel sogno – mitiche stagioni governate dalle parole degli dèi. Ed ecco che
con indubbia maestria Massimo Scolari mette in scena
le proprie sublimazioni207, mentre con maggior o minore abilità grafica una schiera di giovani invade di fogli
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onirici le gallerie private italiane, subito ad essi aperte
nella speranza di formare un nuovo circuito di mercato.
A Roma, a Bologna, a Milano (ma anche a New York),
le mostre di disegni e incisioni di Rossi, Purini, Scolari, Martellotti, Dario Passi si susseguono, mentre gli
«Incontri d’Arte» possono addirittura giungere, nel
1977-78, a indire un concorso – «Roma interrotta» –
con cui si invita la nuova internazionale dell’immaginario a misurare le proprie disseminazioni fantastiche con
i luoghi memorizzati dalla pianta del Nolli208. Il «bisogno di architettura» sopravvive cosí in un vuoto pneumatico, stimolando abili collages (pensiamo a un Nicola Pagliara), sperimentalismi impazienti, inni a contegni
«classici», canti all’effimero, «postume» disinibizioni209.
Costretti ad «azioni parallele», i protagonisti della
recente vicenda architettonica rimangono cosí in bilico
sul crinale che separa il «locus solus» destinato all’autoriflessione dall’agorà risonante di frastuoni. Ma il
risultato del loro suddividere, del loro estenuare o del
loro aggredire i materiali della forma e della storia non
è senza conseguenze. L’antica disciplina chiamata
«architettura» vede disporre i propri frantumi su un
tavolo da gioco intorno al quale nuovi giocatori si accingono a dare concretezza, con quei lacerti disseminati, a
«nuove tecniche». Nessuna disperazione, di fronte al
cumulo di macerie che rimane dopo la dissoluzione delle
certezze che avevano aiutato a mantenere insieme modi
di intervento capaci solo di riprodurre se stessi. Il problema è come controllare le divaricazioni che spezzano
quella disciplina, evitando di considerarle baratri da
osservare con occhi allucinati o in cui sprofondare con
angoscia. Di fronte a un «potere» che si articola parlando più dialetti, nessuna «sintesi» tiene piú; tanto
meno quella che dal tema della forma punta direttamente al problema della riforma. Non «rifondando»,
quindi, né confondendo il piacere con il gioco, la domus
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aurea del Bauen è recuperabile. «Senza casa» è necessario procedere.
Giunti agli inizi degli anni ottanta, tutto ciò che ha
costituito l’oggetto di questa storia appare, rispetto ai
nuovi compiti che si profilano, come un prologo «in
negativo», di cui è necessario spezzare le resistenze. Le
«costruzioni deliranti» di cui abbiamo tentato di narrare la vicenda si sono diffratte in piú linguaggi – gestione urbana, tecniche di riuso, economia edilizia, modellistica alle varie scale, giochi linguistici. L’enfasi inizialmente posta sul «progetto» si è mutata in «critica del
progetto», in crisi dei modelli, in ineffettualità delle
parole d’ordine: anche questo è un risultato non trascurabile dei travagli intellettuali della cultura architettonica italiana degli ultimi decenni.
Il ciclo storico che ci apprestiamo ad analizzare non è stato ancora fatto oggetto di costruzioni critiche di sufficiente ampiezza. Limitandoci ai testi di carattere generale apparsi dopo il 1968, ricordiamo
comunque l’agile e orientata sintesi di v. gregotti, Orientamenti nuovi
nell’architettura italiana, Milano 1969; il volume di aa.vv., Il dibattito
architettonico in Italia 1945-1975, Roma 1977; il saggio di a. belluzzi, Il percorso dell’architettura, in aa.vv., L’arte in Italia nel secondo
dopoguerra, Bologna 1979; il catalogo ’28-’78 Architettura. 5o anni di
architettura italiana, Milano 1979; il saggio di g. canella, Figura e funzione nell’architettura italiana dal dopoguerra agli anni Sessanta, in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 48 sgg.; il volume di C. de seta, L’architettura del Novecento, Torino 1981. Cfr. inoltre aa.vv., Architettura italiana anni sessanta, Roma 1972 e il numero monografico Italie ’75
della rivista «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181. Esistono peraltro bilanci e cataloghi relativi a singole città o regioni, come, per
Milano, il catalogo Milano 70/70, Milano 1972; m. grandi e a. pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Bologna 198o, e il volume
di e. bonfanti e m. porta, Città, museo e architettura. Il gruppo BBPR
nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Firenze 1973, che, pur
essendo una monografia sul gruppo milanese, costituisce un notevole
sforzo di connessione critica dell’opera dei Bpr al contesto italiano e
internazionale. Per Roma, cfr. g. accasto, v. fraticelli e r. nicoli1
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ni, L’architettura di Roma capitale, 1870-1970, Roma 1971 e i. de guittry, Guida di Roma moderna, Roma 1978. Sulla situazione toscana, cfr.
g. k. könig, Architettura in Toscana 1931-1968, Torino 1968 e Itinerario di Firenze moderna, Firenze 1976. Per Venezia cfr. p. maretto,
L’architettura a Venezia nel xx secolo, Genova 1969. Una storia del
dibattito urbanistico è nel volume di m. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra, Bari 1975.
2
Cfr. Sistemazione delle Cave Ardeatine, in «Metron», 1974, n. 18
(progetto finale, dopo il concorso del 1944 e il concorso di secondo
grado); ivi, 1952, n. 45, pp. 17-23, e l. quaroni, Il mausoleo delle
Ardeatine, in «Il cittadino», 2o aprile 1949. La cancellata d’ingresso è
di Mirko Basaldella, il gruppo scultoreo di Francesco Coccia. Sul
monumento dei Bpr, cfr. e. peressutti, Dedica, in «Casabella», 1946,
n. 193, p. 3, e bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 1o9
sgg. Il monumento dei Bpr del ’46, deteriorato, viene sostituito nel ’50
con una struttura bronzea e basamento in marmo di Carrara: nel 1955
il monumento viene reintegrato nei suoi caratteri originari.
3
Ibid.
4
Al Convegno (14-16 dicembre 1945) sono presenti l’Apao, il
gruppo Pagano di Torino, l’Msa di Milano, l’Inu. Fra le relazioni lette
ricordiamo m. ridolfi, Appunti sui provvedimenti urgenti per la ricostruzione e sull’orientamento della unificazione e tipizzazione nell’edilizia; p. l. nervi, Per gli studi e la sperimentazione nell’edilizia; b.
zevi, L’insegnamento delle costruzioni di guerra americane per l’Italia,
in Atti, fasc. 3. Nello stesso fascicolo è l’intervento del cattolico f.
vito La demanializzazione delle aree fabbricabili, che avanza un’ipotesi tesa all’eliminazione della rendita edilizia urbana. Cfr. anche, a
cura dell’Inu, Relazione a cura della Commissione per lo studio dei problemi del piano regionale, ibid., fasc. 1, pp. 30 sgg. Cfr. inoltre e. n.
rogers, Introduzione al tema «Provvedimenti urgenti per la ricostruzione», ibid., pp. 1 sgg. ora in Esperienza dell’architettura, Torino
1958, pp. 109 sgg.
5
g. de finetti, Della proprietà delle aree nei riflessi delle costruzioni,
in Atti, fasc. 6, pp. 9 sgg. De Finetti si mostra qui coerente con le proprie riflessioni sulla città e su Milano iniziate negli anni venti. Era però
difficile, nel ’45-50, seguire gli studi di De Finetti sulla fisiologia urbana, specie quando questa si esprimeva nel progetto della «Strada Lombarda» (vedila in «La città. Architettura e politica», 1946, n. 2), o in
quelli per la Fiera e per le piazze Beccaria e Fontana a Milano, piú volte
rielaborati fra il ’46 e il ’51. (Cfr. la raccolta della rivista cit., dal n. 1
del 1945 al n. 3-4 del 1946, e il testo di di g. de finetti, Milano risorge, scritto fra il 1942 e il 1951, ora in Milano. Costruzione di una città,
Milano 1969). Cfr. aa.vv., Giuseppe de Finetti. Progetti 192o-1951, Milano 1981 e renato airoldi, «Forma urbis Mediolani»: una illusione ari-
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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
stocratica, in «Casabella», 1981, n. 468, pp. 34-43. De Finetti, che non
risparmia le sue ironie né a Le Corbusier né a Bottoni, non poteva
comunque essere accusato, per il suo gusto «neoclassico», di connivenze
con il passato regime: antifascista già negli anni trenta, è iscritto, insieme alla moglie Thelma, al Partito d’Azione. Cfr., oltre allo Zibaldone
di De Finetti (Archivio De Finetti, Triennale di Milano), l’intervista
a Thelma Hauss del 29 ottobre 1981 di Marisa Macchietto (Dipartimento di Storia dell’Architettura, Venezia). Si noti che fra gli scritti
di Loos tradotti in italiano da De Finetti è Gli inutili (in «Paese libero», 2 giugno 1947), contenente, com’è noto, un violento attacco al
Werkbund; e si cfr., dello stesso De Finetti, La Triennale e l’utilità, in
«24 ore», 23 e 26 giugno 1951.
6
Cfr. a. della rocca, s. muratori, l. piccinato, m. ridolfi, p.
rossi de paoli, s. tadolini, e. tedeschi e m. zocca, Aspetti urbanistici ed edilizi della ricostruzione, Roma 1944-45.
7
p. gazzola, Le vicende urbanistiche di Milano e il piano A.R., in
«Costruzioni-Casabella», 1946, n. 194, pp. 2 sgg.; c. perelli, Studi per
il nuovo piano regolatore di Milano, in «Metron», 1946, n. 1o, pp. 1849). Vedi anche bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp.
104-5 e scheda 72. Del gruppo ar fanno parte Albini, Bottoni, i Bpr,
Gardella e Mucchi.
8
Per il centro direzionale di Milano viene bandito un concorso nel
1946, cui partecipa anche il gruppo italiano dei Ciam. cfr. «Metron»,
1948, n. 30, pp. 15 sgg., con articoli dell’assessore all’urbanistica, M.
Venanzi (p. 15), e di l. piccinato, il concorso di idee per il centro direzionale di Milano, pp. 14-17.
9
Cfr. ivi, n. 23-24 e i. insolera, Roma moderna, Torino 19763, p.
18o, nota 3.
10
Cfr. m. visentini, Presentazione del Piano Piemontese e g. astengo, m. bianco, n. renacco e a. rizzotti, Piano Regionale Piemontese,
nel fascicolo monografico di «Metron», 1947, n. 14.
11
Cfr. könig, Architettura in Toscana cit., pp. 50 sgg.
12
b. zevi, Saper vedere l’architettura, Torino 1948. La rivista
«Metron» inizia le sue pubblicazioni nell’agosto 1945 con la direzione di Luigi Piccinato e Mario Ridolfi. Nello stesso 1945 esce il volume di L. piccinato, Urbanistica, per le edizioni di «Metron», mentre
nel 1946 Carlo Pagani, Lina Bò e Zevi dànno vita a un rotocalco di
divulgazione, «A-Attualità, Architettura, Abitazione, Arte». Per le
posizioni di Zevi in quegli anni, si veda anche il suo articolo L’architettura organica di fronte ai suoi critici, in «Metron», 1947, n. 23-24. Cfr.
inoltre, per il dibattito fra il ’43 e il ’46, d. borradori e m. porta,
Architettura e politica italiana 1943-46, Milano 1966.
13
Cfr. b. zevi, Architettura e storiografia, Milano 1951; Benedetto
Croce e la riforma architettonica della storia architettonica, in «Metron»,
Storia dell’arte Einaudi
161
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
e in Pretesti di critica architettonica, Torino 196o; Uno storico ancora vitale: Franz Wickhoff, in «Annuario dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia» e in Pretesti cit.; Il rinnovamento della storiografia
architettonica, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», vol.
XXII, serie II, 1954, fasc. 1-2. Cfr. inoltre il volume autobiografico
Zevi su Zevi, Milano 1977.
14
Dichiarazione programmatica dell’Associazione per l’architettura organica, in «Metron», 1945, n. 2, pp-75-76.
15
L’indice della «Domus» di Rogers (redattore capo Marco Zanuso) è significativo: vi si legge uno sforzo costante di legare l’attualità
alla storia e l’architettura ai temi piú complessi della cultura in tutti i
campi. In essa appaiono articoli di Lionello Venturi (1946, n. 205) sull’arte astratta, di Dino Risi sul cinema, di Malipiero sulla musica, di
Dorfles sulla pittura contemporanea, di Ballo, di Ragghianti, di Elio
Vittorini, di Starobinski (Le rêve architecte, les intérieurs de Franz Kafka,
1947, n. 217), di Roberto Rebora, di Sergio Solmi. Nel 1948, con il
n. 226, la direzione passa a Gio Ponti, che non annulla la curiosità culturale della rivista, pur procedendo a renderla piú salottiera.
16
Un’autentica storia del neorealismo architettonico italiano non è
ancora stata scritta. Cfr. comunque, oltre alla bibliografia su Ridolfi e
Quaroni, che diamo a parte, l. quaroni, Il paese dei barocchi, in «Casabella», 1957, n. 215 (autocritica a proposito del Tiburtino); p. portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty, in «Comunità», 1958, n. 65; id.,
La scuola romana, ivi, 1959, n. 75; m. manieri-elia, Il dibattito architettonico degli ultimi venti anni, I: Il primo decennio dalla Liberazione,
in «Rassegna dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», 1965, n. I,
pp. 76-96; accasto-fraticelli-nicolini, L’architettura di Roma capitale cit., pp. 523 sgg.; g. de giorgi, Breve profilo del dopoguerra: dagli
anni della ricostruzione al «miracolo economico», in aa.vv., Il dibattito
architettonico in Italia cit., pp. 23 sgg.; g. massobrio e p. portoghesi,
Album degli anni Cinquanta, Roma-Bari 1977, pp. 201 sgg.; canella,
Figura e funzione cit.
17
Sul concorso per la stazione di Roma e il progetto Quaroni-Ridolfi, cfr. giuseppe samonà, I progetti per il completamento frontale della
stazione Termini, in «Metron», 1947, n. 21 (nello stesso fascicolo, l.
piccinato, La stazione di Roma); v. fasolo, Il concorso per la nuova stazione di Roma, in «L’Urbe», 1947, n. 2 (interessante come voce di un
esponente della cultura accademica); s. muratori, Concorso per il completamento del fabbricato viaggiatori della nuova stazione di Roma-Termini-Motto: UR, in «Strutture», 1947-48, n. 3-4, pp. 56-61 (analisi del
progetto Quaroni-Ridolfi: in esso appaiono già i motivi di «critica al
moderno» che caratterizzeranno le successive posizioni di Muratori);
m. tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell’architettura moderna in
Italia, Milano 1964, pp. 87-89; accasto-fraticelli-nicolini, L’archi-
Storia dell’arte Einaudi
162
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
tettura di Roma capitale cit., pp. 521-23; r. nicolini, Il concorso per stazione Termini, in «Controspazio», 1974, n. 1, p. 93.
18
Cfr. l. quaroni, Perché ho progettato questa chiesa, in «Metron»,
1949, n. 31-32.
19
Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 83-85 e a. de carm, La
chiesa di Francavilla a Mare, in «L’architettura cronache e storia»,
196o, n-52.
20
Il concorso (di primo e secondo grado) per l’Auditorium di via
Flaminia a Roma (cfr. «Metron», 1951, n. 43, e «Architetti», 1952,
n. 12-13), costituisce un’ulteriore occasione di confronto fra gli architetti italiani, anche se con esiti assai meno clamorosi di quello per la
Stazione Termini. L’esibizionismo strutturale dei progetti del gruppo Morandi-Carrara-Maruffi e del gruppo Favini-Pallottini (primo
grado) è certo superato dall’elaborato di Muratori, la cui organicità
si stempera nel progetto di secondo grado. Va notato che i due progetti di Muratori appartengono al medesimo clima di ricerche documentato dal progetto quaroniano per la chiesa di Francavilla: la vecchia collaborazione fra Quaroni e Muratori dà qui ancora i suoi frutti. Come testimonianza di una scolastica fedeltà agli etimi elementaristi, vanno piuttosto letti i progetti di Pio Montesi presentati al
medesimo concorso.
21
Cfr. g. muratore, L’esperienza del Manuale, in «Controspazio»,
1974, n. 1, pp. 82-92.
22
A cura di M. Ridolfi, M. Fiorentino, B. Zevi, C. Calcaprina, A.
Cardelli. Cfr. anche m. ridolfi, Il «Manuale dell’architetto», in
«Metron», 1946, n. 8, pp. 35 sgg.
23
i. diotallevi e f. marescotti, Il problema sociale costruttivo ed
economico dell’abitazione, Milano 1948, su cui vedi g. ciucci, Dalla casa
dell’uomo alla casa popolare, in g. ciucci e m. casciato, Franco Marescotti e la casa civile, 1934-1956, Roma 198o, pp. 7-20.
24
c. ceccucci, i. diotallevi e f. marescotti, Relazione sui problemi dell’edilizia, in aa.vv., Il Piano del Lavoro, Conferenza economica
nazionale della Cgil, Roma 1950, pp. 3-35.
25
Sull’opera di Marescotti, cfr. e. tadini, Storia e realtà del primo
Centro Sociale Cooperativo «Grandi e Bertacchi», in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 13, pp. 482-89; il Quaderno 9, 1979, dell’Istituto dipartimentale di architettura e urbanistica dell’Università di
Catania; ciucci-casciato, Franco Marescotti cit., con la bibliografia precedente. Cfr. anche il resoconto dell’incontro con Marescotti tenuto
nel maggio 1976 al Politecnico di Milano in «Hinterland», 198o, n.
13-14, pp. 10-19.
26
La prima idea del qt8 è già in un progetto del 1934 di Bottoni,
Pagano e Pucci per un quartiere sperimentale della VI Triennale di
Milano. L’intera vicenda del qt8 viene seguita costantemente da
Storia dell’arte Einaudi
163
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
«Metron»: cfr. QT8: un quartiere modello, ivi, 1946, n. 6, pp. 76-79;
il numero speciale del 1948, n. 26-27; Il quartiere sperimentale della
Triennale di Milano, ivi, 1951, n. 43, pp. 56-61. Cfr. inoltre e. n.
rogers, Esperienza dell’ottava Triennale, in «Domus», 1947, n. 221.
Cfr. anche gli articoli di g. canella e v. vercelloni, Cronache di 1o
Triennali, in «Comunità», 1956, n. 38, pp. 44-52 e di f. buzzi ceriani e v. gregotti, Contributo alla storia delle Triennali, 2: Dall’VIII
Triennale del 1947 alla XI del 1957, in «Casabella», 1957, n. 216, pp.
7-12. Sull’opera di Piero Bottoni si veda il fascicolo monografico di
«Controspazio», 1973, n. 4.
27
Per comprendere la politica urbanistica e edilizia dell’Ina-Casa è
importante risalire ai due fascicoli Ina-Casa. Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e presentazione dei progetti. Bandi di concorso,
Roma 1949, e Ina-Casa. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica. Progetti tipo, Roma 195o. L’azione di Arnaldo Foschini, alla presidenza dell’ente, è determinante. Le opere di Foschini nel
dopoguerra – progetti per la sede della Banca d’Italia a Napoli
(1949-55), per la chiesa dell’Immacolata all’Eur (1955), ecc. – rimangono legate a formule accademiche, ma nella sua gestione dell’Ina-Casa
è determinante un’ideologia paternalista che si salda al riscatto degli
etimi popolari rivendicato dal neorealismo. (Cfr. aa.vv., Arnaldo
Foschini. Didattica e gestione dell’architettura in Italia nella prima metà
del Novecento, Faenza 1979). Adalberto Libera dirige l’ufficio tecnico
dell’Ina-Casa, e Foschini incarica Mario De Renzi, Cesare Ligini e
Ridolfi di elaborare progetti-tipo sulla base degli schemi prescelti. Il
quartiere Italia a Terni (1948-49), di Ridolfi e Frankl, è fra i primi
modelli compiuti. Sull’Ina-Casa cfr. l. beretta anguissola, I 14 anni
del piano Ina-Casa, Roma 1963; Ina-Casa, in Per l’Italia. Atti e documenti
della ricostruzione italiana, vol. IV: Politica sociale, a cura della Democrazia cristiana, Roma 1953, pp. 87-118; f. gorio, Un parere sul Piano
Fanfani, in «Urbanistica», 1950, n. 3, ora in Il mestiere di architetto,
Roma 1968; f. tentori, Dieci anni della gestione Ina-Casa: necessità di
un dibattito costruttivo, in «Casabella», 1961, n. 248, pp. 52 sgg.; l.
benevolo, L’architettura dell’Ina-Casa, in «Centro sociale», 196o, n.
30-31, pp. 59 sgg., ora in L’architettura delle città nell’Italia contemporanea, Bari 1968.
28
Sull’opera di Quaroni, dagli anni trenta fino al ’64, cfr. tafuri,
Ludovico Quaroni cit., dove si prendono in esame anche i progetti elaborati insieme a Ridolfi, e a. bandera, s. benedetti, e. crispolti e p.
portoghesi, Omaggio a Cagli. Omaggio a Fontana. Omaggio a Quaroni,
catalogo della mostra (l’Aquila), Roma 1962. Scritti di Quaroni sono
stati raccolti nel volume La città fisica, a cura di A. Terranova,
Roma-Bari 1981. Sull’attività di Fiorentino negli anni quaranta e cinquanta, cfr. f. gorio, Dieci anni di produzione coerente: opere dell’ar-
Storia dell’arte Einaudi
164
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
chitetto romano Mario Fiorentino, in «L’architettura cronache e storia»,
1959, n. 45. Su Ridolfi, cfr. i numeri 1 e 3, 1974, della rivista «Controspazio», a lui dedicati, e il catalogo Le architetture di Ridolfi e Frankl,
a cura di Francesco Cellini, Claudio D’Amato e Enrico Valeriani,
Roma 1979. Cfr. inoltre g. canella e a. rossi, Architetti italiani: Mario
Ridolfi, in «Comunità», 1956, n. 41, pp. 50-55; g. de carlo, Architetture italiane, in «Casabella», 1957, n. 199, pp. 19-33; portoghesi,
Dal neorealismo cit.; Una mostra e un convegno su Ridolfi e Frankl (relazioni al convegno del novembre ’79), in «Contropazio», 1979, n. 5-6,
pp. 63 sgg.; f. cellini e c. d’amato, Il mestiere di Ridolfi, in La presenza del passato, La Biennale di Venezia, Milano 198o, pp. 68-71. L’interesse per l’opera di Ridolfi ha ripreso solo recentemente quota, fino
a vederlo incluso fra i «padri» del Post-Modernism nella mostra
organizzata dalla Biennale di Venezia nel 198o alle Corderie dell’Arsenale. Citeremo piú in là gli articoli dedicati alla sua produzione piú
recente. Sugli anni del Tiburtino, cfr. g. muratore, Gli anni della ricostruzione, in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 6-25, e g. monti, Le palazzine romane, ivi, pp. 2635. Sul Tiburtino, oltre all’articolo di quaroni, Il paese dei barocchi cit., cfr., sullo stesso n. 215, 1957, di «Casabella», c. aymonino, Storia e cronaca del quartiere Tiburtino; c. chiarini, Aspetti urbanistici del quartiere Tiburtino; f. gorio, Esperienze d’architettura al Tiburtino. Cfr. anche, per le conseguenze di quell’opera,
m. girelli, Dal Tiburtino a Matera, ivi, 1959, n. 231 e c. conforti,
Carlo Aymonino: l’architettura non è un mito, Roma 198o, pp. 15 sgg.
29
È importante ricordare che Ridolfi e Frankl avevano progettato
in ogni blocco di viale Etiopia ambienti, ricavati a metà altezza, per
attrezzature scolastiche e nidi d’infanzia. Le logge continue che interrompono le prime tre torri costituiscono la sola traccia di tale intento
progettuale.
30
Cfr. de giorgi, Breve profilo del dopoguerra cit., p. 33.
31
Cfr. v. gregotti, Alcune opere di Mario Ridolfi: case Ina a Cerignola, case Ina a Terni, casa di città a Terni, palazzina in via Vetulonia a
Roma, in «Casabella», 1956, n. 21o.
32
Cfr. m. coppa, Il piano regolatore di Terni: parte seconda, in «Urbanistica», 1962, n. 35, pp. 59 sgg.; v. fraticelli, Terni: progetto e città,
in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 74-79.
33
Cfr . g. muratore, Le nuove carceri di Nuoro, ivi, pp. 44-49.
34
L’attività di Carlo Mollino costituisce indubbiamente un «caso»
unico dell’architettura italiana. Aviatore acrobatico, disegnatore di
aerei e di auto, appassionato di automobilismo e di fotografia, autore
di «invenzioni» brevettate, designer, Mollino ha di continuo contaminato fra loro i suoi svariati interessi, compiacendosi di un ruolo di
enfant terrible dell’architettura. Nei suoi arredi, nei suoi mobili, nei
suoi oggetti, nelle sue foto, sperimenta una lingua che assorbe la lezio-
Storia dell’arte Einaudi
165
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
ne surrealista – quella di Man Ray ma anche quella di Mirò – insieme
a suggestioni da Gaudì, Mackintosh, Eames. Come architetto, dopo la
Stazione per slittovia, progetta a Torino il nuovo Teatro Regio, la
Camera di Commercio e la sala da ballo Lutrario, dove l’omaggio
all’immaginario non disdegna l’incontro con il Kitsch. Su Mollino,
negli anni cinquanta, cfr. massobrio-portoghesi, Album degli anni Cinquanta cit. e c. borngräber, Stilnovo. Design in den 5oer Jahren. Phantasie und Phantastik, Frankfurt 1979, pp. 14 sgg. Un rapido excursus
dell’archivio Mollino è negli articoli di g. brino, Architettura a tempo
perso. Hobby a tempo pieno, in «Modo», 1977, n. 4, pp. 43 sgg., e Carlo
Mollino, in «Lotus», 1977, n. 16, pp. 122 sgg.
35
g. c. argan, Progetto e destino, Milano 1965, p. 90.
36
Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 1oo sgg. Prima di aderire al movimento di Comunità, Quaroni collabora ad organizzazioni
quali il Movimento di collaborazione civica e la Scuola per assistenti
sociali, con l’obiettivo di integrare la sociologia all’analisi urbana. Cfr.
l. quaroni, Le indagini urbanistiche del centro di ricerche sociali, relazione al I Convegno nazionale dei tecnici socialisti, Milano, giugno
1947 (inedito). Sull’atteggiamento negativo della sinistra italiana nei
confronti della sociologia, almeno fino al convegno su «Marxismo e
sociologia», organizzato nel 1959 dall’Istituto Gramsci, vedi l. balbo
e v. rieser, La sinistra e lo sviluppo della sociologia, in «Problemi del
socialismo», 1962, n. 3. Cfr. inoltre l. quaroni, m. l. anversa e altri,
Indagine edilizia su Grassano, in Inchiesta parlamentare sulla miseria,
Roma 1954, vol. XIII. Sintomatici, rispetto alle posizioni di Quaroni
in questi anni, i suoi scritti, L’urbanistica per l’unità della cultura, in
«Comunità», 1952, n. 13; La città, ivi, 1954, n. 26; L’architetto e l’urbanistica, in aa.vv., L’architetto d’oggi, Firenze 1954.
37
Sulle relazioni fra le ideologie olivettiane e l’architettura, cfr. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit.; Politique industrielle
et architecture, numero monografico di «L’architecture d’aujourd’hui»,
1976, n. 188. Cfr. inoltre b. caizzi, Gli Olivetti, Torino 1962 e le due
testimonianze, rese a distanza di sedici anni di tempo l’una dall’altra,
di c. l. ragghianti, Adriano Olivetti, in «Zodiac», 196o, n. 6, e di l.
quaroni, L’expérience de la Martella, in Politique industrielle cit., pp.
46-47. Cfr. inoltre g. berta, Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la
fabbrica e la Comunità, Milano 198o.
38
Cfr. a. restucci, La dynastie Olivetti, ibid., pp. 2-6; id., Un rêve
américain dans le Mezzogiorno, ibid., pp. 42-45. Cfr. inoltre, come documento di idee meridionalistiche vicine a quelle di Olivetti, r. musatti, La via del Sud, Milano 1955.
39
Cfr. f. g. friedmann, Osservazioni sul mondo contadino nell’Italia meridionale, in «Quaderni di sociologia», 1952, n-3, e Un incontro:
Matera, Untra-Casas, Roma 1953, oltre ai fascicoli della Commissione
Storia dell’arte Einaudi
166
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
per lo studio della città e dell’Agro di Matera pubblicati nel 1956 a cura
dell’Unrra-Casas: f. friedmann, r. musatti e g. isnardi, Saggi introduttivi; r. tentori, Il sistema di vita nella comunità materana; f. nitti,
Una città del Sud.
40
g. baglieri, La controriforma fondiaria, in «Comunità», 1959,
n. 6o.
41
Sul «caso» dei Sassi di Matera, cfr. n. mazzocchi alemanni e e.
calia, Il problema dei Sassi di Matera, relazione per il Consorzio della
media valle del Bradano, 1950; f. aiello, Dai Sassi alla borgata, in
«Nord e Sud», 955, n. 5, pp. 62-88; r. giura longo, Sassi e secoli,
Matera 1966; m. fabbri, Matera, dal sottosviluppo alla nuova città,
Matera 1971; gruppo «il politecnico», Rapporto su Matera. Una città
meridionale fra sviluppo e sottosviluppo, Matera 1971; m. tafuri e a.
restucci, Un contributo alla comprensione della vicenda storica dei Sassi,
Ministero dei Lavori Pubblici, Matera 1974; a. restucci, Città e Mezzogiorno: Matera dagli anni ’5o al concorso sui «Sassi», in «Casabella»,
1977, n. 428, pp. 36-43; id., Gli intricati destini di Matera, in «Spazio
e Società», 1978, n. 4, pp. 93 sgg.; fascicolo monografico di «Storia
della città», 1978, n. 6.
42
Sulla Martella, cfr. g. de carlo, A proposito di La Martella, in
«Casabella», 1954, n. 200; f. gorio, Il villaggio La Martella, autocritica, ivi; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 105-16; quaroni, L’expérience de la Martella cit.
43
Cfr. l. piccinato, Matera: i Sassi, i nuovi borghi e il piano regolatore, in «Urbanistica», 1955, n. 15-16. Sui progetti per i nuovi quartieri materani, che in vario modo si collegano alla linea neorealista, cfr.
l. quaroni, I concorsi nazionali per il quartiere Piccianello a Matera e per
il Borgo di Torre Spagnola, in «L’architettura cronache e storia», 1955,
n. 2. Il quartiere Spine Bianche, realizzato nel 1954-57 da Aymonino,
Chiarini, Girelli, Lenci e M. Ottolenghi rappresenta un tentativo di
razionalizzazione degli etimi populisti, che avrà conseguenze sull’opera dello stesso Aymonino: insieme ad altre opere contemporanee della
«scuola romana», esso è indice di una maniera largamente diffusa negli
anni cinquanta. Cfr. anche conforti, Carlo Aymonino cit., pp. 19-22.
44
Sul tema della «palazzina» romana cfr. i. insolera, Lo spazio
sociale della periferia romana, in «Centro sociale», 1959-6o, n. 30-31,
pp. 33-34; id., Roma moderna cit., pp. 98-99; p. portoghesi, Palazzina romana, in «Casabella», 1975, n. 407.
45
Sull’opera di Ugo Luccichenti, che esemplifica un’intera stagione del professionismo romano, si veda m. manieri-elia, Ugo Luccichenti architetto, Roma 198o.
46
Su Moretti, cfr. g. ungaretti, 50 immagini di architettura di Luigi
Moretti, Roma 1968; r. bonelli, Moretti, Roma 1975. Non è un caso
che l’opera morettiana venga oggi rivalutata dagli ambienti statunitensi
Storia dell’arte Einaudi
167
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
piú intellettualistici ed europeizzanti. Cfr. r. stevens, Introduction to
l. moretti, The Values of Profiles and Structures and Sequences of Spaces, in «Oppositions», 1974, n. 4, pp. 110-11 (con la traduzione dei
due testi di Moretti sulla modanatura e la struttura spaziale pubblicati
originariamente in «Spazio», 1951-52, n. 6 e 1952-53, n. 7).
47
Cfr. g. c. argan, Gardella, Milano 1956, poi in Progetto e destino cit., pp. 353-73. Sull’opera di Samonà negli anni quaranta e cinquanta cfr. g. ciucci, La ricerca impaziente: 1945-.r96o, in aa.vv., Giuseppe Samonà. Cinquant’anni di architetture, Roma 198o2, pp. 57 sgg.
48
Sul palazzo dell’Ina a Parma cfr. e. gentili, La sede dell’Ina a
Parma, in «Casabella», 1954, n. 2oo e gio ponti, Lezione di una architettura, in «Domus», 1952, n. 266. Sull’opera di Albini in generale , si
veda e. gentili, Franco Albini, in «Comunità», 1954, n. 28; g. samonà,
Franco Albini e la cultura architettonica in Italia, in «Zodiac», 1958, n. 3,
pp. 83-115; v. viganò, Franco Albini. Trente ans d’architecture italienne,
in «Aujourd’hui», 1961, n. 33; f. menna, Albini o l’architettura della
memoria, in La regola e il caso, Roma 1970; m. fagiolo, L’astrattismo
magico di Albini, in «Ottagono», 1975, n. 37, pp. 20-53; Testimonianza
su Franco Albini, a cura di F. Helg, in «L’architettura cronache e storia», 1979, n. 288, pp. 551 sgg.; aa.vv., Franco Albini. Architettura e design 1930-1970, Firenze 1979 (con bibliografia completa).
49
La bibliografia sull’opera di Michelucci è vasta. Limitandosi alle
sole opere del dopoguerra di carattere generale, vedi almeno e. detti,
Giovanni Michelucci, in «Comunità», 1954, n. 23, pp. 38-42; l. ricci,
L’uomo Michelucci, dalla casa Valiani alla chiesa dell’autostrada, in
«L’architettura cronache e storia», 1962, n. 76, pp. 664-89; Giovanni
Michelucci, a cura di Franco Borsi, Firenze 1966; l. lugli, Giovanni
Michelucci. Il pensiero e le opere, con introduzione di Fernando Clemente e selezione di scritti, Firenze 1966; m. cerasi, Michelucci, Roma
1968; könig, L’architettura in Toscana cit.; «Quaderni dell’Istituto di
Elementi di Architettura», Facoltà di Architettura di Genova, 1969,
n. 2; Michelucci, il linguaggio dell’architettura, a cura di M. C. Buscioni, Roma 1979, con testi di Michelucci, regesto e bibliografia. Oltre
alle antologie di scritti michelucciani citate, vedi g. michelucci, La
nuova città, a cura di R. Risaloti, Pistoia 1975.
50
Interessanti, al proposito, gli articoli pubblicati da Michelucci nel
1946 in «La nuova città»: Architettura vivente, n. 1-2, pp. 4-8; Architettura vivente. Della collaborazione, n. 3, pp. 5-13; Architettura vivente. Della città, n. 4-5, pp. 4-12; La nuova città?, n. 8, pp. 1-4; Troppa
arte, n. 9-10, pp. 5-9.
51
Cfr. id., Come ho progettato la chiesa della Vergine, in «L’architettura cronache e storia», 1957, n. 16, pp. 709-13, e l. lugli, La chiesa della Vergine (SS. Maria e Tecla) a Pistoia nel quadro della tradizione
creativa di Giovanni Michelucci, ivi, pp. 704 sgg.
Storia dell’arte Einaudi
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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Cfr. g. michelucci, Considerazioni sull’architettura. La nuova
sede della Cassa di Risparmio di Firenze, in «Il Ponte», 1957, n. 11, pp.
1663-73 e l. lugli, La Cassa di Risparmio a Firenze, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 31, pp. 8-16.
53
Cfr. g. samonà, Premesse alla nuova urbanistica, in «Accademia»,
1945, n. 1, pp. 35-38, in cui è pubblicato il progetto per il quartiere
del Lavinaio, e ciucci, La ricerca impaziente cit., pp. 59-6o.
54
Cfr. «Casabella», 1957, n. 216, pp. 16--35 e r. bonelli, Edilizia
economica: politica dei quartieri, in «Comunità», 1959, n. 70, pp. 52-54,
con una critica sostanzialmente negativa.
55
Cfr. g. astengo, Falchera, in «Metron», 1954, n. 53-54, pp. 13-63.
56
Si veda, per tali due quartieri, e. gentili, Unità residenziale «Villa
Bernabò Brea» a Genova, in «Casabella», 1955, n. 204, pp. 49 sgg.; M.
zanuso, Unità d’abitazione orizzontale nel quartiere Tuscolano a Roma,
ivi, n. 207, p. 30; a. libera, Il quartiere Tuscolano a Roma, in «Comunità», 1955, n. 31, pp. 46-49.
57
Cfr., ancora, gli articoli cit. di A. Restucci; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 116 sgg.; r. olivetti, La Società Olivetti nel Canavese, in
«Urbanistica», 1961, n. 33; e. n. rogers, L’unità di Adriano Olivetti,
in «Casabella», 1962, n. 270, pp. 1-9; g. ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1976, n. 18, pp.
7-12; berta, Le idee al potere cit.
58
Sull’opera di Figini e Pollini, cfr. e. gentili tedeschi, Figini e Pollini, Milano 1959; c. blasi, Figini e Pollini, Milano 1963; j. rykwert,
Figini and Pollini, in «Architectural Design», 1967, n-7, pp. 369-78;
Luigi Figini e Gino Pollini / architetti, a cura di Vittorio Savi, Milano
198o (con la bibliografia precedente). Sui due architetti a Ivrea cfr.
anche ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs cit. e l. quaroni, Due
opere di Luigi Figini e Gino Pollini, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 48, pp. 390 sgg.
59
Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 15o-51.
60
Cfr. g. accasto, L’asilo di Canton Vesco, in «Controspazio»,
1974, n. 3, pp. 51-52.
61
Sul programma di Adriano Olivetti, cfr. la testimonianza di Aldo
Garosci, in Ricordo di Adriano Olivetti, Milano 196o e restucci, Un
rêve américain cit. Sulla fabbrica e il quartiere di Cosenza cfr. m. labò,
Lo stabilimento e il quartiere Olivetti a Pozzuoli dell’ing. L. Cosenza, in
«Casabella», 1955, n. 2o6; r. guiducci, Appunti dal giornale del direttore dei lavori, ivi; ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs cit., p. 12.
62
p. fossati, Les translormations de l’image du produit, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1976, n. 188, p. 50.
63
b. huet, Des magasins pour ne rien vendre, ivi, p. 54.
64
Si noti che anche la succursale Olivetti di Barcellona è affidata
ai Bpr (196o-64), che colgono l’occasione per dar vita ad un edificio a
suo modo simbolico, mentre per gli edifici industriali in Argentina – a
52
Storia dell’arte Einaudi
169
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Buenos Aires, 1954-62 – e in Brasile – a San Paolo, 1954-59 – la ditta
si affida alla sicura competenza di Marco Zanuso. Zanuso ed Edoardo
Vittoria realizzeranno poi anche le officine Olivetti a Marcianise (1969)
e Crema (1970). Cfr. m. zanuso, Les machines à travailler, ivi, p. 66
65
Solo sei dei dodici fascicoli programmati vengono pubblicati dal
gruppo tecnico per il coordinamento urbanistico del Canavese. Sul
piano di Ivrea cfr. n. renacco, Il piano regolatore generale di Ivrea, in
«Urbanistica» 1955, n. 15-16; olivetti, La Società Olivetti cit.; c.
doglio, Il piano della vita, in «Comunità», 1963, n. 109; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 116 sgg.
66
Produzione: La Meridiana Film. I soggetti dei tre cortometraggi
sono di G. De Carlo, C. Doglio, M. Gandin, M. L. Pedroni, L. Quaroni e E. Vittorini.
67
g. de carlo, Intenzioni e risultati della mostra di urbanistica, in
«Casabella», 1954, n. 203, p. 24.
68
Cfr. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit., pp. 64
sgg. e m. allione, L’esperienza italiana di pianificazione, in Atti del Seminario sulla programmazione economica e l’assetto territoriale, in «Quaderni dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», Facoltà di Ingegneria, Bologna 1968.
69
Per il quartiere di Quaroni, cfr. r. bonelli, Quartiere residenziale di S. Giusto presso Prato, in «L’architettura cronache e storia», 1958,
n. 3, e tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 152-54. Cfr., inoltre, l. quaroni, Politica del quartiere, in «La casa», 1957, n. 4. Si noti che tale
saggio è contemporaneo a quello, autocritico anch’esso, Il paese dei
barocchi cit.
70
Cfr. id., Due chiese per Genova, in «Architettura cantiere», 1957,
n. 15; e. n. rogers, Architetti laici per le chiese, in «Casabella», 196o,
n. 238; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 138-42.
71
Cfr. f. gorio, Idee in margine a via Cavedone, in «Casabella»,
1962, n. 267, pp. 24 sgg., ora in Il mestiere di architetto cit., pp. 59 sgg.
e m. vittorini, Produttività edilizia nello studio del progetto, in «Casabella», 1962, n. 267. Per l’atteggiamento di Benevolo, cfr. benevolo,
L’architettura dell’Ina-Casa cit.
72
Cfr. h. selem, Opere dell’architetto Luigi Carlo Daneri: 1931196o, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 56, che, oltre ai
quartieri Villa Bernabò Brea e Forte di Quezzi, pubblica le principali
opere di Daneri, mostrandone la coerenza con i lavori dell’anteguerra.
Fra queste, notevoli appaiono, per rigore linguistico, le case a gradoni
sulla collina di Quinto (1952), il complesso condominiale al Lido
(1952), il complesso La Foce (1934-58), il Palazzo Fassio, tutti in
Genova.
73
Già nel ’49 Argan, facendo propri i temi espressi da Dewey in
Art as Experience, indicava come strada da percorrere quella che pone
Storia dell’arte Einaudi
170
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
a contatto museo e mondo della produzione. Cfr. g. c. argan, Il museo
come scuola, in «Comunità», 1949, n. 3. Cfr. anche, sul tema, bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 150 sgg. Cfr. inoltre
a. piva, La fabbrica di cultura. La questione dei musei in Italia dal 1945
ad oggi, Milano 1978.
74
Cfr. g. c. argan, La Galleria di Palazzo Bianco a Genova, in
«Metron», n. 45, pp. 25 sgg.; c. marcenaro, The museum Concept and the
Restauration of the Palazzo Bianco, Genova, in «Museum», 1954, n. 4.
75
m. labò, Il Museo del Tesoro di San Lorenzo in Genova, in «Casabella», 1956, n. 213, p. 6; g, c. argan, Il Museo del Tesoro di S. Lorenzo a Genova, in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 14, pp.
557 sgg.; p. a. chessa, Il Museo del Tesoro di S. Lorenzo, in «Comunità», 1957, n. 47; b. zevi, Museo di S. Lorenzo a Genova. Quattro tholos moderne per un tesoro antico, in Cronache di architettura, Bari 1971,
vol. II, n. 109; Franco Albini, architettura per un museo, Roma 198o.
76
Cfr. fagiolo, L’astrattismo magico di Albini cit., p. 52.
77
Cfr. f. calandra, Uffici comunali a Genova, in «L’architettura
cronache e storia», 1956, n. 11; r. viviani e g. k. könig, Gli uffici
comunali di Genova di Franco Albini, in «Comunità», 1958, n. 64. Un
piccolo capolavoro albiniano a Genova è la sistemazione della valletta
Cambiaso (1955-61), mentre piú di maniera appare il progetto di concorso (in collaborazione con Mario Labò) per il Palazzo dell’Arte genovese (1957).
78
Cfr. g. mariacher, Il nuovo allestimento del Museo Correr, in
«Comunità», 1953, n. 21, pp. 62 sgg., che sottolinea il carattere provocatorio della sistemazione di Scarpa e g. mazzariol, Opere di Carlo
Scarpa, in «L’architettura cronache e storia», 1955, n. 3, pp. 340 sgg.,
che rimprovera a Scarpa l’eccessiva raffinatezza dispiegata al Correr.
79
Fra gli articoli a favore dell’opera dei Bpr al Castello, m. labò,
A favore del Museo, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 33,
p. 154 e g. samonà, Un contributo alla museografia, in «Casabella»,
1956, n. 211, pp. 51-53. Critico è l’articolo di r. pane, Riserve sul
Museo, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 33, pp. 162-63,
violentemente polemico è a. cederna, Il regista invadente, in «Il
Mondo», 9 ottobre 1956. Cfr., per gli intenti degli autori, belgiojoso, peressutti e rogers, Carattere stilistico del Museo del Castello, in
«Casabella» cit., pp. 63 sgg. Cfr. inoltre le acute pagine critiche di bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 15o sgg.
80
e. n. rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, in «Casabella», 1954, n. 204, ora in Esperienza dell’architettura
cit., pp. 304 sgg.; id., Il problema del costruire nelle preesistenze ambientali, relazione al Comitato nazionale di studi dell’Inu, marzo 1957, ibid.
81
Sulla Velasca, cfr. g. samonà, Il grattacielo piú discusso d’Europa,
la Torre Velasca, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 40, pp.
Storia dell’arte Einaudi
171
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
659-74; p. c. santini, Deux gratte-ciel à Milan, in «Zodiac», 1957, n.
1, pp. 200-5; g. m. kallmann, Modern Tower in old Milan, in «Architectural Forum», 1958, n. 2, pp. 109-11; r. gardner-medwin, A flight from Functionalism, in «The Journal of the Riba», 1958, n. 12, pp.
408-14; CIAM ’59 in Otterlo, a cura di O. Newman, Stuttgart 1961,
pp. 92-97, per la presentazione di Rogers della Torre a Otterlo e per
la polemica lí sollevata; bonfanti-porta, Città, museo e architettura
cit., pp. 156 sgg. Sull’opera dei Bpr cfr. anche l. belgiojoso, Intervista sul mestiere d’architetto, a cura di C. De Seta, Roma-Bari 1978.
82
A tali opere va aggiunto il padiglione italiano all’Expo di Bruxelles del 1958, per il quale i Bpr collaborano con Quaroni, A. De Carlo,
Gardella e Perugini: in esso, il tema del «villaggio» viene razionalizzato in un’interpretazione polemica del tema e con intenti critici rispetto agli stilemi dell’International Style dominanti a Bruxelles. L’opera
è importante perché segna un momento di convergenza degli architetti italiani proprio quando le diverse ricerche stanno per divergere
irrimediabilmente. Sul padiglione di Bruxelles cfr. Inchiesta sul Padiglione italiano a Bruxelles, in «L’architettura cronache e storia», 1958,
n. 36, pp. 399 sgg.; r. pedio, La crisi del linguaggio moderno all’Esposizione Universale di Bruxelles, ivi, pp. 384-95; b. zevi, Successo dell’ultimo minuto, in «L’Espresso», 1o giugno 1958; tafuri, Ludovico
Quaroni cit., pp. 154-58.
83
Sulla devozione di Rogers per Scotellaro è testimonianza l’editoriale Le responsabilità verso la tradizione, in «Casabella», 1954, n. 202,
pp. 2-3. È in esso che Rogers parla della saldatura in un’unica tradizione della cultura popolare (spontanea) e di quella di élite, come di un
«dovere»: autenticità e capacità critica, in tale ipotesi, verrebbero a
fondersi. L’articolo è di grande importanza: esso esplicita tendenze già
vive nell’architettura italiana dando ad esse fondamenta teoriche, ed
è indice dei modi in cui la cultura settentrionale vive l’afflato populista. Dentro tale ottica – populismo come garanzia di autenticità per un
linguaggio teso all’interpretazione critica – opere come quelle di Gardella, di Bpr, di G. De Carlo negli anni cinquanta divengono assai piú
comprensibili.
84
Cfr. g. samonà, Una casa di Gardella a Venezia, in «Casabella»,
1958, n. 220, p. 7; g. mazzariol, Umanesimo di Gardella, in «Zodiac»,
1958, n. 2, pp. 91-110; r. pedio, Due nuove opere di Ignazio Gardella,
in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 29, pp. 729-41.
85
argan, Progetto e destino cit., p. 370.
86
e. n. rogers, Continuità 0 crisi, in «Casabella», 1957, n. 215.
Nello stesso fascicolo, insieme alla lettera a Gregotti che accompagna
i grafici e le foto della Bottega di Erasmo (r. gabetti e a. iso la, L’impegno della tradizione), viene pubblicato l’articolo di risposta di v. gregotti, L’impegno della tradizione. In una lettera al direttore, interven-
Storia dell’arte Einaudi
172
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
gono Gabetti e Isola («Casabella», 1957, n. 217), cui risponde Rogers
nella stessa rivista (Risposte ai giovani), che invita a una «vigile modestia» e a «una chiara delimitazione dei nostri atti», prendendo comunque le distanze dai difensori del «formalismo modernistico». Tutti questi testi sono stati ripubblicati in «Controspazio», 1977, n. 4-5, pp. 84
sgg., insieme agli articoli di c. d’amato, La «ritirata» italiana dal Movimento Moderno: memoria, storia e questioni di stile nell’esperienza del neoliberty, pp. 50-51 e di f. cellini, La polemica sul neoliberty, pp. 52-53.
Per l’opera del gruppo torinese, fino al 1971, cfr. Gabetti, Isola, Raineri, Chiasso 1971.
87
È ancora interessante, al proposito, l’articolo di m. bellini, r.
orefice e l. zanon dal bo, I baroni rampanti del movimento moderno.
3 generazioni di architetti nel dopoguerra italiano, in «Superfici», 196o,
numero speciale, pp. 23-30; poi ivi, 1961, n. 1, pp. 7-9. L’articolo e la
rivista, oscillanti fra il pensiero di Adorno, quello fenomenologico, e
quello del cattolicesimo progressista, sono indici del nuovo clima che
informa i giovani milanesi, oltre che di un’impazienza nei confronti del
cenacolo di «Casabella». È comunque interessante che in quel saggio
si parli di «tonalità manomessa» e di «inimitabile perfidia» per le recenti esperienze milanesi, novaresi e torinesi.
88
e. n. rogers, Ortodossia dell’eterodossia, in «Casabella», 1957, n.
216, pp. 2 sgg.
89
Cfr. a. rossi, Il passato e il presente della nuova architettura, ivi,
1958, n. 219, in cui si ilIustra la casa a Superga di Giorgio Raineri,
un’abitazione con scuderia a Milano di Gae Aulenti e le case in duplex
a Cameri di Gregotti, Meneghetti e Stoppino.
90
Cfr. e. n. rogers, Auguste Perret, Milano 1955, e v. gregotti,
Classicità e razionalismo di Auguste Perret, in «Casabella», 1959, n.
229, pp. 6-11.
91
Va però notato che una prima lettura dell’apporto di Muzio è nel
saggio di canella-rossi, Architetti italiani: Mario Ridolfi cit. La produzione di Muzio nel dopoguerra non raggiunge piú i risultati conseguiti nelle opere degli anni venti e trenta: il maestro della Ca’ brüta
sopravvive a se stesso nella Basilica dell’Annunciazione a Nazareth
(1959-69) e nell’Albergo Casa Nova a Betlemme (198o). Ma nell’edificio della Banca Commerciale in via Borgonuovo a Milano (1959-69)
si assiste a un exploit singolare: nella facciata del corpo aggiunto su via
dei Giardini, una leggera struttura metallica, sovrapposta al prospetto
in pietra, viene modulata con soluzioni che sembrano fare il verso a
motivi ridolfiani. Cfr. Giovanni Muzio, opere e scritti, a cura di G. Gambirasio e B. Minardi, Milano 1982. Fra gli scritti di Muzio del dopoguerra particolarmente interessante è Ricostruzione e architettura
(discorso inaugurale tenuto il 5 novembre 1947 al Politecnico di Torino), ora in Giovanni Muzio cit., pp. 261-81.
Storia dell’arte Einaudi
173
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
r. banham, Neoliberty. The Retreat from Modern Architecture, in
«The Architectural Review», 1959, n. 747. Contro Banham insorge
Rogers con l’editoriale L’evoluzione dell’architettura, risposta al custode
dei frigidaires, in «Casabella», 1959, n. 228, mentre a piú riprese interviene Zevi (L’andropausa degli architetti moderni italiani, editoriale di
«L’architettura cronache e storia», 1959, n. 46, e Torniamo al Liberty,
in «L’Espresso», 24 maggio 1959), contro le ricerche del nuovo
ambiente settentrionale. A Banham rispondono anche Portoghesi, in
«Comunità», 1959, n. 72 e i giovani della rivista «Superfici». Cfr. m.
bellini, r. orefice e l. zanon dal bo, Cavalieri, libertini e Frères
Maçons sulla scena milanese, ivi, 1961, n. 1, pp. 39-40; r. orefice, Parabola di intermezzo su Cavalieri e Baroni, ivi, pp. 40-41; id., Trucchi e galateo di un «Aufklärung» milanese, ivi, pp. 41-46. I tre articoli citati erano
raccolti sotto un unico, significativo titolo: Un inquisitore da passeggio.
Sul fenomeno neoliberty cfr. anche il dibattito pubblicato in «Casabella», 1967, n. 318.
93
Cfr. Nuovi disegni per il mobile italiano, catalogo della mostra,
Milano 196o, con articoli di Gregotti, Rossi, Gabetti, Isola e Canella.
Il piú significativo è quello di g. canella, La prova del nove, in cui si
rivendica il poter «curiosare nel mondo poetico dei novecentisti» e si
osserva che i «padri» che avanzano rimproveri di ateismo sono gli stessi che avevano praticato la via della rappresentazione, in questo solo
«sopravanzati» da «figli amorevoli, riconoscenti e comprensivi».
94
portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty cit., ma anche id., L’impegno delle nuove generazioni, in Aspetti dell’arte contemporanea, catalogo
della mostra (L’Aquila), Roma 1963. All’articolo di Portoghesi del ’58
risponde quello di c. melograni, Dal neoliberty al neopiacentinismo?,
in «Il Contemporaneo», 1959, n. 13. Cfr. anche f. tentori, D’où
venons nous? qui sommes nous, où allons nous?, in Aspetti dell’arte contemporanea cit.
95
Cfr. p. portoghesi, Architettura e ambiente tecnico, in «Zodiac»,
196o, n. 7.
96
Si veda il volume autobiografico di p. portoghesi, Le inibizioni
dell’architettura moderna, Roma-Bari 1979. L’opera architettonica portoghesiana, concentrata su una ricerca di modulazioni geometriche
variamente intrecciate, punta su una semantica della ridondanza che
ha i suoi vertici in casa Papanice a Roma (1964-67), nella chiesa della
Sacra Famiglia a Salerno (1968-73), nella biblioteca e centro culturale di Avezzano (1970), fino a sposarsi con il Kitsch nel progetto per
la Moschea e il Centro islamico a Roma (1977). Per tutte tali opere,
è collaboratore di Portoghesi Vittorio Gigliotti (per la Moschea ha collaborato Sami Mousawi). Se ha senso parlare di neobarocco per Portoghesi, esso va letto come gusto dell’eccesso privo di tensioni: nelle sue
architetture, la fluenza dei vortici o delle affabulazioni è comunque
92
Storia dell’arte Einaudi
174
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
spoglia di storicismi ostentati, e si risolve in una labirinticità controllata e accattivante di segni reificati malgré soi. Le opere di Portoghesi sono raccolte nel volume, ricco di sconsiderati richiami al pensiero
di Heidegger, di c. norberg-schulz, Alla ricerca dell’architettura perduta. Le opere di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, 1959-1975, Roma
1975 e nel catalogo Paolo Portoghesi. Progetti e disegni 1962-1979,
Firenze 1979.
97
Cfr. s. muratori, Architettura e civiltà in crisi, Roma 1963.
98
Cfr. id., Studi per un’operante storia urbana di Venezia, Roma
196o; s. muratori, r. e s. bollati, g. marinucci, Studi per un’operante
storia urbana di Roma, Roma 1963; s. muratori, Civiltà e territorio,
Roma 1967. Cfr., come esempio di estrapolazione muratoriana dall’analisi urbana, i progetti presentati al concorso per il quartiere Cep alle
Barene di San Giuliano, Venezia. Ma si vedano anche i progetti della
scuola muratoriana: l’edificio alla Trinità dei Pellegrini in Roma, di
Gianfranco Caniggia, o i progetti dello stesso Caniggia e del gruppo
Bollati per i nuovi uffici della Camera dei Deputati a Roma (cfr. m.
tafuri, Il concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati, Venezia
1968, pp. 69-72). Il metodo analitico di Muratori è stato approfondito nei volumi di g. caniggia, Lettura di una città: Como, Roma 1963 e
Strutture dello spazio antropico, Firenze 1976. Cfr. inoltre g. caniggia
e g. l. maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia, vol. I,
Venezia 1979.
99
Cfr. I piani regionali. Criteri di indirizzo per lo studio dei piani territoriali di coordinamento in Italia, Ministero dei lavori pubblici, Roma
1952, e La pianificazione regionale, Inu, Venezia 1952. Cfr. inoltre fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit., pp. 55 sgg.
100
La storia del piano regolatore di Roma è stata tracciata con
estrema minuzia nel n. 28-29, 1959, di «Urbanistica», e in particolare nei saggi di l. benevolo, Le discussioni e gli studi preparatori al nuovo
Piano Regolatore, di l. piccinato, L’esperienza del Piano di Roma, e di
m. valori, Fare del proprio peggio. Cfr. inoltre l. benevolo, Osservazioni sui lavori per il P.R.G. di Roma, in «Casabella», 1958, n. 21o e
insolera, Roma moderna cit. Un’antologia degli interventi del gruppo
comunista al consiglio comunale è in p. della seta, c. melograni e a.
natoli, Il Piano regolatore di Roma, Roma 1963. Cfr. inoltre, per gli
eventi fra il ’59 e il ’63, il n. 40, 1964, di «Urbanistica», e in particolare gli articoli di m. coppa, La lunga strada per il piano di Roma, di i.
insolera e m. manieri-elia, Tre anni di cronaca romana e di m. girelli, Il piano per l’attuazione della 167 a Roma.
101
Il Cet è formato da E. Lenti, R. Marino, L. Piccinato, V. Monaco, L. Quaroni, S. Muratori, G. Nicolosi ed E. Del Debbio.
102
In «Urbanistica», 1959, n. 27. Vedilo ora in l. quaroni, Immagine di Roma, Bari 1969.
Storia dell’arte Einaudi
175
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Cfr. i. insoltra, Il concorso per la Biblioteca Nazionale di Roma,
in «Casabella», 1960, n. 239, pp. 35-36; r. giura-longo, Una biblioteca per Roma, in «Il Contemporaneo», 196o, n. 23; b. zevi, Biblioteca Nazionale a Roma. Tutti hanno superato tutto, in «L’Espresso», 6
marzo 1970, ora in Cronache di architettura cit., vol. III, n. 304, pp.
486-89.
104
Cfr. v. gregotti, La nuova sede dell’Inail a Venezia, in «Casabella», 196o, n. 244, pp. 4-13.
105
Cfr. conforti, Carlo Aymonino cit., pp. 30 sgg.
106
Cfr. r. pedio, «Brutalismo» in lorma di libertà; il nuovo Istituto
Marchiondi a Milano, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 40,
e «The Architectural Review», 1961, n. 771, pp. 304 sgg. Un breve
profilo di Viganò è in p. c. santini, Incontri con i protagonisti: Vittoriano Viganò, in «Ottagono», 1975, n. 39, pp. 72-77.
107
Cfr. id., L’architettura «milanese» di Caccia-Dominioni, in «Ottagono», 1967, n. 6, pp. 91-94.
108
Sull’opera di Zanuso fino al ’57 cfr. v. gregotti, Marco Zanuso
un architetto della seconda generazione, in «Casabella», 1957, n. 216, pp.
59 sgg. e r. guiducci, Appunti sulla fabbrica di São Paulo in Brasile, ivi,
pp. 66 sgg., che analizza uno dei piú notevoli progetti elaborati da Zanuso per la Olivetti. Su Mangiarotti, vedi e. d. bona, Angelo Mangiarotti: il processo del costruire, Milano 198o, con ampia rassegna della sua
opera, dalla chiesa di Baranzate (1957) alla mensa Snaidero a Maiano
(1978).
109
Cfr. j. rykwert, Tbe Work of Gino Valle, in «Architectural Design», 1964, n. 3, pp. 112 sgg.; f. dal co, Gino Valle, la necessità dell’architettura, in «Lotus», 1976, n. 11, pp. 172 sgg,; Gino Valle architetto, 1950-1978, Milano 1979 (con bibliografia).
110
L’opera di Libera, nel dopoguerra, rimane coerente alle premesse tracciate negli anni precedenti il conflitto, segnate da una tendenza
all’«astrazione magica»: pensiamo al cinema Airone a Roma, al progetto
di concorso per la sede della Dc all’Eur, al Palazzo della Regione a
Trento (in collaborazione con Sergio Musmeci). Il purismo di Libera
mantiene comunque qualcosa di inattuale, in bilico fra una distaccata
raffinatezza e il «troppo semplice». Libera e De Renzi non a caso
rimangono fra i maestri romani meno ascoltati, negli anni cinquanta,
dalle nuove generazioni, e su cui solo di recente è iniziata un’opera di
ripensamento. Su Libera cfr. Adalberto Libera (1903-1963), a cura di
A. Alieri, M. Clerici, F. Palpacelli e G. Vaccaro, in «L’architettura
cronache e storia», 1966, nn. 123-26 e 128-33; g. c. argan, Libera,
Roma 1975; v. quilici, Adalberto Libera. L’architettura come ideale,
Roma 1981.
111
Il ruolo svolto da Pier Luigi Nervi nella cultura architettonica italiana rientra solo parzialmente nella linea storica qui costruita. Il suo
103
Storia dell’arte Einaudi
176
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
strutturalismo andrebbe studiato alla luce dei modi di produzione condizionati dai monopoli del cemento e del ferro, e in un ambito di considerazioni capace di connettere all’uso politico del ritardo tecnologico, cui si aggancia l’edilizia di massa, l’esibizione tecnologica di «eccezione» nelle attrezzature pubbliche. Comunque, è da sottolineare la
capacità inventiva rivelata da Nervi per strutture di grandi dimensioni: l’intuizione tecnologica prevale sempre in lui su ogni pretesa di
oggettività. I suoi saloni al Palazzo delle Esposizioni di Torino
(1948-50), il Lanificio Gatti a Roma (1951-53), la via Olimpica sopraelevata (1959), il Palazzo del Lavoro di Torino (196o) riscattano a livello di «invenzione» una staticità che rimaneafona nelle opere in collaborazione, come il grattacielo Pirelli, il Palazzetto dello Sport (1956-57,
con Annibale Vitellozzi), il Palazzo dello Sport all’Eur (1958-59, con
Piacentini). Si veda, di p. l. nervi, Arte o scienza del costruire?, Roma
1954; Costruire correttamente, Milano 1955; Nuove strutture, Milano
1963. Cfr. inoltre g. c. argan, P. L. Nervi, Milano 1955; j. joedicke,
P. L. Nervi, Milano 1957; a. l. huxtable, P. L. Nervi, Milano 196o;
Pier Luigi Nervi, a cura di P. Desideri, P. L. Nervi jr e G. Positano,
Bologna 198o. Lo strutturalismo italiano ha inoltre offerto con la ricerca di Riccardo Morandi un contributo di eccezionale interesse, specie
per le applicazioni del cemento precompresso, che, in opere come le
autorimesse e i cinema a Roma, le aviorimesse a Fiumicino, e principalmente una serie di ponti e cavalcavia, raggiunge livelli di notevole suggestione formale. Cfr. g. boaga e b. boni, Riccardo Morandi, Milano 1962; l. vinca masini, Riccardo Morandi, Roma 1974.
112
Cfr. m. manieri-elia, Roma: Olimpiadi e miliardi, in «Urbanistica», 196o, n. 32, pp. 105-19.
113
Cfr. sau, Una discussione sui problemi di architettura e di urbanistica, Roma 196o, che raccoglie molti scritti dei membri dell’associazione.
114
Cfr. b. zevi, La morte del Ciam e la nascita dell’Istituto Nazionale di Architettura, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 51;
id., Prospettive In/Arch anno II, ivi, 196o, n. .58; id., Sul «corporativismo» dell’In/Arch, ivi, 1961, n. 72.
115
Il primo progetto per La Rinascente di Roma viene pubblicato
in «Casabella», 1959, n. 233. Si veda, per la realizzazione, e. n.
rogers, Un grande magazzino a Roma, in «Casabella», 1961, n. 257; p.
portoghesi, La Rinascente in piazza Fiume a Roma, in «L’architettura
cronache e storia», 1962, n. 75, pp. 602-18; b. zevi, La Rinascente
romana di Albini, in Cronache di architettura cit., vol. IV, n-386; r.
banham, The Architecture of the Well-Tempered Environment, London
1969, trad. it. Roma-Bari 1978, pp. 252-56; f. menna, La Rinascente
di piazza Fiume, in «Palatino», 1963, n. 1-4, ora in La regola e il caso
cit., pp. 101-12.
Storia dell’arte Einaudi
177
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Cfr. i testi della tavola rotonda di Lecce in «Urbanistica», 196o,
n. 32, pp. 6-8.
117
Cfr. b. zevi, La figlia di Venezia, in «L’Espresso», 17 aprile
196o; id., Viatico alle psicopatie lagunari, in «L’architettura cronache
e storia», 196o, n. 57; l. benevolo, Un consuntivo delle recenti esperienze urbanistiche italiane, in «Casabella», 196o, n. 242; f. tentori,
Un piano urbanistico per Mestre, in «Il Contemporaneo», 196o, n.
27-28, pp. 124-37. Sul progetto di Quaroni (la cui relazione è in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 57), cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 158-69. Cfr. inoltre i. insolera, L’insegnamento delle città:
la periferia di Venezia, in «Comunità», 196o, n. 83. Sono i tre progetti del gruppo Muratori a presentare un’alternativa al progetto del gruppo Quaroni. I due vecchi collaboratori si trovano ora in antitesi. Eppure, sia Muratori che Quaroni si appellano a letture della struttura urbana di Venezia: Pertagli sincronici, Muratori; per sintesi diacronica
Quaroni. Il progetto del gruppo Muratori venne preso seriamente in
considerazione quasi solo da tentori, Un piano urbanistico per Mestre
cit., pp. 132 sgg.
118
Cfr. ilses, Nuova dimensione della città. La città-regione, atti del
Convegno di Stresa, Milano 1962. Il punto della cultura urbanistica di
quegli anni viene fatto al IX Congresso nazionale dell’Inu (Milano
1962), specie nelle relazioni di G. De Carlo e S. Lombardini. Cfr. g.
de carlo, Proposte operative, in «Urbanistica», 1963, n. 38 (che contiene anche le altre relazioni) e in «Casabella», 1962, n. 270. Cfr. anche
l. semerani, Il IX Congresso Inu a Milano, ivi. Tra i commenti e le reazioni al Convegno di Stresa, cfr. b. zevi, Neotecnico a posteriori o progetto dinamico?, in «L’Espresso», 1961, ora in Cronache di architettura cit., vol. IV, n. 405, pp. 363-65; f. tentori, Stasi e dinamica nel panorama italiano 1962, in «Casabella», 1962, n. 268; portoghesi, L’impegno delle nuove generazioni cit.; g. piccinato, v. quilici e m. tapuri, La città-territorio, verso una nuova dimensione, in «Casabella», 1962,
n. 270.
119
Cfr. ivi, 1963, n. 282, con gli articoli di s. tintori, Lo stato attuale degli studi, e di g. de carlo, Realtà e prospettive del primo schema; id.,
La pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, Padova 1966;
v. vercelloni, Dal piano del ’53 al piano intercomunale, in «Casabella», 1979, n. 451-52, pp. 52-55.
120
Cfr. La città territorio. Un esperimento didattico sul Centro direzionale di Centocelle in Roma, a cura di C. Aymonino, Bari 1964, e la
recensione di f. tentori, in «Casabella», 1964, n. 289. Per il clima di
quegli anni, cfr. a. samonà, Alla ricerca di un metodo per la nuova dimensione, in «Casabella», 1963, n. 277; id., Il dibattito architettonico-urbanistico oggi in Italia, in «Comunità», 1963, n. 115, pp. 68 sgg.; il fascicolo n. 82-83, 1964, di «Edilizia moderna», dedicato a Architettura ita116
Storia dell’arte Einaudi
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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
liana 1963; i numeri 289 e 291, 1964, di «Casabella», dedicati alle tendenze delle nuove generazioni. Come testimonianza del clima di speranza dei primi anni sessanta, si veda l’appello del consiglio direttivo
dell’Inarch del 15 aprile 1962 e b. zevi, L’alienazione e la politica di
centrosinistra, in «L’architettura cronache e storia», 1962, n. 81, pp.
146-47, e id., Gli architetti e la programmazione economica, ivi, 1962,
n. 86, pp. 505-7. Sul tema dei centri direzionali, cfr. anche «Casabella», 1962, n. 264, con gli articoli di A. Rossi, G. Amorosi, C.
Aymonino, M. Tafuri, L. Calcagni e C. Carozzi; e g. canella, Vecchie e nuove ipotesi per i Centri Direzionali, ivi, 1963, n. 275.
121
p. ceccarelli, Urbanistica opulenta, ivi, n. 278, pp. 5 sgg. Nel
medesimo fascicolo sono i progetti presentati al concorso per il centro
direzionale di Torino.
122
Cfr. c. aymonino e p. l. giordani, I centri direzionali, Bari 1967,
e m. de michelis e m. venturi, Il centro direzionale di Bologna: la gestione del problema urbano nel PCI, in «Contropiano», 1968, n. 3.
123
Cfr. r. banham, Megastructures. Urban futures of the recent past,
London 1976, trad. it. Roma-Bari 198o.
124
Cfr., oltre alla bibliografia generale di cui a p. 451, nota 49,
aa.vv., La chiesa dell’Autostrada del Sole, Roma 1964; p. portoghesi,
La chiesa dell’Autostrada del Sole, in «L’architettura cronache e storia»,
1964, n. 101, pp. 198-8o9; j. m. fitch, Church of the Autostrada, in
«Architectural Forum», 1964, n. 1, pp. 101-9; b. zevi, Un compromesso
tra Medioevo e Wright, in «L’Espresso», 5 aprile 1964; «Chiesa e quartiere», 1964, n. 30-31, con articoli di L. Figini, G. Trebbi, G. Gresleri e G. Michelucci.
125
Per le ultime opere di Michelucci, cfr. aa.vv., La chiesa di Longarone, Firenze 1978, e Michelucci, il linguaggio dell’architettura cit.
126
Cfr. könig, Architettura in Toscana cit.
127
Cfr. b. zevi, Michelangiolo in prosa, in «L’architettura cronache
e storia», 1964, n. 99, p. 651; p. portoghesi, Mostra critica delle opere
michelangiolesche al Palazzo delle Esposizioni in Roma, ivi, 1964, n. 104,
pp. 90-91; r. bonelli, La mostra delle opere michelangiolesche, in «Comunità», 1964, n. 122, pp. 22 sgg.; aa.vv., Michelangelo Pop, in «Marcatré», n. 6-7, pp. 125 sgg. Sul significato e i limiti della «critica operativa», cfr. m. tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Roma-Bari
198o5, pp. 161 sgg.
128
b. zevi, Architettura e comunicazione, in «L’architettura cronache e storia», 1965, n. 122, p. 493 e cfr. r. pedio, Edificio per abitazioni, uffici e negozi in via Campania a Roma, ivi, pp. 496-522.
129
I cinque esperti nominati nel novembre 1961 sono M. Fiorentino, P. M. Lugli, V. Passarelli, L. Piccinato e M. Valori.
130
Sull’Eur sono interessant, le analisi compiute nei primi anni sessanta negli articoli di g. piccinato, Luci e ombre dell’Eur, in «Super-
Storia dell’arte Einaudi
179
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
fici», 1963, n. 6, pp. 30-41 e L’Eur: una struttura direzionale in una vecchia dimensione, in La città territorio cit., pp. 34-38.
131
Cfr. l. moretti, Nuovo quartiere Incis, nella zona Eur, in «La
Casa», 1962, n. 7, pp. 109-22.
132
Cfr. m. petrignani, Le cento città d’Italia: Roma, 2: Gli edifici
pubblici: la lunga attesa del compromesso, in «Controspazio», 1970, n.
1-2, pp. 27-33.
133
Le ricerche e gli elaborati dello studio Asse sono raccolti in
«L’architettura cronache e storia», 1975, n. 4-5, con saggi di L. Quaroni, L. Passarelli, G. Scimemi, e un Itinerario cronologico urbanistico
dal 1962 al 1975, di Edgardo Tonca, oltre alle relazioni tecniche e
descrittive.
134
Una sintesi storica di tali avvenimenti è in l. bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia. Proprietà, imprese edili e lavori pubblici dal primo dopoguerra ad oggi (1919-197o), Roma 1978. Cfr. anche a.
acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi,
Padova 198o.
135
Il quartiere Vigne nuove (piano di zona n. 7, Iacp), di Lucio Passarelli (capogruppo), Fausto e Vincenzo Passarelli, Alfredo Lambertucci, Paolo Cercato, Enrico Censon, Valerio Moretti, Emilio Labianca e Claudio Saratti (1972-8o) è uno dei complessi piú riusciti della
«nuova Roma» anche se con soluzioni figurativamente «facili». Da
segnalare, anche, il manieristico complesso di Vigna Murata a Roma,
di Gianfranco Moneta e collaboratori (su una primitiva idea dello studio Aua). Sull’attuazione della «167» a Roma, cfr. p. samperi, Il piano
per l’attuazione della legge 167 a Roma, in «Urbanistica», 1964, n. 40,
ma si veda anche piú avanti e sopra, p-48o, nota 28. Cfr. inoltre gli
articoli Il problema edilizio a Roma, in «Parametro», 1979, n. 76-77,
pp. 16 sgg., e, nello stesso fascicolo, la relazione del quartiere Laurentino, di Pietro Barucci, Alessandro De Rossi, Luciano Giovannini,
Camillo Nucci e Americo Sostegni, pp. 36 sgg.
136
bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., p. 177.
137
m. tafuri, Les «muses inquiétantes», ou le destin d’une génération de «Maîtres», in «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181,
pp. 14-33.
138
Le opere di Gardella degli ultimi anni sessanta e degli anni settanta sembrano voler recuperare l’olimpicità con cui le sue «revisioni»
si erano confrontate con le lingue del costruttivismo e del surreale nella
mensa Olivetti. Assai piú degli edifici per la Kartell a Binasco
(1971-75), sono indicativi al proposito il progetto di concorso per il
Teatro Comunale di Vicenza (1968) e l’edificio per gli uffici tecnici dell’Alfa Romeo ad Arese (1968-72) in cui Gardella colloquia con finezza con un ulteriore pre-testo, la lingua dell’assolutismo geometrico. La
maestria dell’organizzazione tipologica e la raffinatezza del dettaglio
Storia dell’arte Einaudi
180
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
rimangono, insieme all’ascolto delle sollecitazioni della memoria, i
«materiali» di Gardella, che si impegna anche in un progetto di ristrutturazione dell’antico tessuto genovese con un piano particolareggiato
per i nuovi insediamenti universitari. Cfr. i. gardella e s. larini,
Genova: un progetto per la città antica, in «Controspazio», 1974, n. 2,
pp. 5 sgg.; p. c. santini, Incontri con i protagonisti: Ignazio Gardella, in
«Ottagono», 1977, n. 46, pp. 42-49; g. c. argan, Il teatro di Gardella. Un progetto monumentale per Vicenza; in «Lotus», 1979, n. 25, pp.
92 sgg.; Gardella (testo di un incontro del 1976 al Politecnico di Milano), in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 20 sgg.; p. farina, Il lascino del presente, in aa.vv., La presenza del passato cit., pp. 50-57;
samonà, Ignazio Gardella cit.
139
Cfr. r. pedio, Edificio in piazza Meda a Milano, in «L’architettura cronache e storia», 1970, n. 176, pp. 76-85. Sul clima milanese
cfr. anche v. vercelloni, L’autoritratto di una classe dirigente: Milano
186o-1970, in «Controspazio», 1969, n. 2-3, pp. 11-28.
140
Si veda il commento fattone nell’articolo di p. portoghesi, Presenza di Ridolfi, ivi, 1974, n. 1, pp. 6-8. Può essere interessante ricordare che Ridolfi afferma di aver tratto ispirazione, per questo progetto, da una colonna tortile del Tempio di Salomone.
141
È proprio a partire dai lavori ridolfiani successivi all’incidente
automobilistico del 1961, che costituisce per l’architetto l’occasione per
il suo ritiro a Terni, che la critica italiana ha iniziato un recupero di
questo maestro, anche se in vario modo strumentalizzato. Cfr. v. vercelloni, L’occasione di una ricerca: l’ultimo lavoro di Mario Ridolfi, in
«Controspazio», 1969, n. 1, pp. 38-43 (Casa Lina alle Marmore);
numeri monografici di «Controspazio», 1974, cit.; a. anselmi, Logos
ed Eros, ivi, 1977, n. 3, p. 16 (a p. 2 dello stesso fascicolo una lettera
di Ridolfi, alle pp. 3-15, il progetto per la casa a Norcia); Le architetture di Ridolfi e Frankl cit.; cellini-damato, Il mestiere di Ridolfi cit.;
Ridolfi (testo di un incontro tenutosi nel febbraio 1977 al Politecnico
di Milano), in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 30-35.
142
Cfr. ciucci, La ricerca impaziente cit.
143
Sull’opera di Costantino Dardi, cfr. il volume Semplice, lineare,
complesso, Roma 1967. Vedi inoltre il saggio dello stesso c. dardi, Il
gioco sapiente. Tendenze della nuova architettura, Padova 1971.
144
Cfr. m. sacripanti, Il Totalteatro, in «I problemi di Ulisse»,
luglio 1969, pp. 32-34. Per una valutazione del teatro di Sacripanti
all’interno delle poetiche teatrali contemporanee, cfr. Architettura e teatro, numero monografico di «Sipario», 1966, n. 242, e m.
manieri-elia, Il teatro moderno, in «Bollettino del Cisa Andrea Palladio», 1975, pp. 379-89.
145
Si veda «Casabella», 1964, n. 290, con gli articoli di e. n.
rogers, La Triennale uscita dal coma (p. 1), di g. dorfles, La XIII Trien-
Storia dell’arte Einaudi
181
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
nale (pp. 2-17), di g. u. polesello, Questa Triennale e l’architettura
discoperta (pp. 33-42), di g. canella, e. mantero e l. semerani, La
Triennale dei giovani e «L’ora della verità» (pp. 45-46), di f. tentori,
Unità delle arti (pp. 48-50).
146
polesello,Questa Triennale cit., pp. 40-42.
147
Il tema del Convegno Inu di Trieste è «Città e territorio negli
aspetti funzionali e figurativi della pianificazione continua», il n. 87-88,
1966, di «Edilizia moderna» è dedicato alla «forma del territorio», con
saggi di V. Gregotti, P. Caruso, R. Orefice, P. L. Crosta, E. Battisti
e S. Crotti, C. Norberg-Schulz, C. Guarda, D. Borradori, C. Pellegrini, V. Di Battista, S. Bisogni e A. Renna, G. Piccinato. Molti dei temi
lí dibattuti trovano una sistemazione nel volume di v. gregotti, Il territorio dell’architettura, Milano 1966.
148
L’opera di Semerani e Tamaro comprende peraltro progetti di
notevole interesse, come l’Ospedale Generale di Trieste (Luciano Semerani e Gigetta Tamaro, con Carlo e Luciano Celli e Dario Tognon (1965
sgg.), progetto definitivo di Semerani e Tamaro) o l’unità residenziale in
collina a Trieste, 1969 e 1970. Cfr. c. aymonino, Progetti dello studio
Semerani-Tamaro 1965-1971, in «Controspazio», 1971, n. 7-8, pp. 18 sgg.
Cfr. inoltre, di l. semerani, Progetti per una città, Milano 198o.
149
Cfr. g. k. könig, Montecitorio valle di lacrime, in «Casabella»,
1967, n. 301; b. zevi, Dodici Parlamenti per una Repubblica, in «L’Espresso», 1967, n. 33, pp. 29 sgg.; tafuri, Il concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati cit.; l. benevolo, Una linea piú precisa nella
ricerca architettonica, in «Rinascita», 26 aprile 1968.
150
Cfr. g. chiari, Il grattacielo Peugeot, architetto Maurizio Sacripanti,
in «L’architettura cronache e storia», 1963, n. 87, pp. 602-7.
151
Fra i progetti piú recenti di Sacripanti, ricordiamo quello per il
nuovo teatro di Forlì, risultato vincitore nel 1977 al concorso nazionale – oggetto mutante che funge da ermetico foro per la città – e quello per l’aggressiva scuola secondaria a Sant’Arcangelo di Romagna, terminata per un terzo nel 198o. Cfr. m. tafuri, Un teatro per Forlì, in
«Paese Sera / Arte», 5 febbraio 1978, p. 20, e r. pedio, Scuola a
Sant’Arcangelo di Romagna, in «L’architettura cronache e storia», 198o,
n. 302, pp. 678-89. Fra gli scritti di Sacripanti, cfr. Città di frontiera,
in «L’architettura cronache e storia», 1971 n. 187. Si veda, inoltre, m.
garimberti e g. susani, Sacripanti-architettura, Venezia 1967.
152
Cfr. grau, «Isti Mirant Stella». Un progetto per il Concorso Nazionale per l’Archivio di Stato di Firenze, in «Controspazio», 1974, n. 2,
pp. 52-61.
153
Un bilancio dei concorsi di architettura italiani, che coinvolge
anche quello per i nuovi uffici del Parlamento, è nell’articolo di v. de
feo, Les concours d’Architecture. L’arme ultime de l’intellectuel?, in
«L’architecture d’aujourd’hui», n. 181, pp. 57-62.
Storia dell’arte Einaudi
182
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Cfr. p. navone e b. orlandoni, Architettura radicale, Segrate 1974.
Cfr. v. de feo, Il piacere dell’architettura, Roma 1976.
156
Un’acuta critica del Progetto 8o e dei progetti politico-economici degli anni settanta è nel saggio di a. asor rosa, La felicità e la politica, in «Laboratorio politico», 1981, n. 2, pp. 5 sgg.
157
Cfr. e. salzano, Potere politico e tecno-struttura nella politica
della casa, in «Servizio sociale», 1972, n. 3, pp. 74-84.
158
Sulle vicende dell’edilizia e sul problema della casa in Italia, cfr.,
fra la vasta pubblicistica specializzata, f. sullo, Lo scandalo urbanistico, Firenze 1964; a. carrassi, Casa e urbanistica, bilancio e prospettive,
in «Critica marxista», 1971, n. 1; aa.vv., Lo spreco edilizio, a cura di
F. Indovina, Padova 1972; p. cacciari e s. potenza, Il ciclo edilizio,
Roma 1973; b. secchi, Il Settore edilizio e fondiario in una prospetttiva
storica, in «Archivio di studi urbani e regionali», 1975, n. 1-2, p. ceri,
Casa, città e struttura sociale, Roma 1975; r. stefanelli, La questione
delle abitazioni in Italia, Firenze 1976; Il secondo ciclo edilizio, a cura
di A. Barp, Milano 1976; aa.vv., La situazione della casa in Italia,
Milano 1976; bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia cit.;
acocella, L’edilizia residenziale pubblica cit.
159
Cfr. b. cillo, L’uso capitalistico del territorio e la nuova città
nolana, in «Parametro», 1972, n. 12-13; e La «città nolana» nell’area
metropolitana di Napoli, intervista con F. Di Salvo, di R. Pedio, in
«L’architettura cronache e storia», 1971, n. 190.
160
Cfr. m. de michelis e a. restucci, Le Bâtiment: hypothèses sur
la transformation de la commande, in «L’architecture d’aujourd’hui»,
1975, n. 181, pp. 7-10.
161
Cfr. s. bracco, Les coopératives et la construction de logements en
Italie, ivi, pp. 11-13.
162
Su Scarpa manca una monografia completa e un catalogo dei
suoi disegni, fra i piú autonomamente significativi nella storia dell’architettura contemporanea italiana. Si veda almeno, su di lui, mazzariol, Opere dell’architetto Carlo Scarpa cit.; f. tentori, Progetti di
Carlo Scarpa, in «Casabella», 1958, n. 222, pp. 9-14; c. l. ragghianti, La «Crosera de Piazza» di Carlo Scarpa, in «Zodiac», 1959,
n. 84, pp. 128-50; s. bettini, L’architettura di Carlo Scarpa, ivi, 196o,
n. 6, pp. 140-187; m. bottero, Carlo Scarpa il veneziano, in «The
Architectural Review», 1965, n. 2; S. los, Carlo Scarpa architetto
poeta, Venezia 1967; m. brusatin, Carlo Scarpa architetto veneziano,
in «Controspazio», 1972, n. 3-4, pp. 2-85; s. cantacuzino, Carlo
Scarpa architetto poeta, catalogo della mostra Riba, London 1974;
Carlo Scarpa, catalogo della mostra di Vicenza, 1974; fascicolo monografico di «sd», Tokyo 1977, n. 153; fascicolo monografico della
rivista «Architecture, mouvement, continuité», 1979, n. 50; p. portoghesi, In ricordo di Carlo Scarpa, in «Controspazio», 1979, n. 3,
154
155
Storia dell’arte Einaudi
183
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
pp. 1-5; fascicolo monografico di «Rassegna», 1981, n. 7, a cura di
A. Rudi.
163
Cfr. p. c. santini, Il nuovo negozio di Carlo Scarpa a Bologna, in
«Zodiac», 1962, n. 1o.
164
Cfr. g. mazzariol, Un’opera di Carlo Scarpa: il riordino di un antico patazzo veneziano, in «Zodiac», 1964, n. 13.
165
Cfr. l. magagnato, La nuova sistemazione del Museo di Castelvecchio, in «Marmo», 1965, n. 4; p. c. santini, Il restauro di Casielvecchio a Verona, in «Comunità», 1965, n. 126, pp. 70-78.
166
Cfr. p. bucarelli, Mostra di Piet Mondrian a Roma, in «L’architettura cronache e storia», 1957, n. 17.
167
Si veda il volume di g. samonà, L’unità architettura urbanistica.
Scritti e progetti 1929-1973, a cura di P. Lovero, Milano 1975.
168
Sulla piú recente attività di Samonà, cfr. p. lovero, Progetti dello
studio Giuseppe e Alberto Samonà 1968-1972, in «Controspazio», 1973,
n. 2, pp. 43-53; f. dal co, Il gioco della memoria: 1961-1975, in aa.vv.,
Giuseppe Samonà cit., pp. 105 599.; tafuri, Les «muses inquiétantes» cit.
169
Cfr. a. quistelli, Progetti dello studio Quaroni: dieci anni di esperienze didattiche e prolessionali, in «Controspazio», 1973, n. 2, pp. 8 sgg.
Quaroni ha raccolto le sue recenti riflessioni, oltre che in La città fisica cit., nei volumi La torre di Babele, Padova 1967 e Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, Milano 1977, ma il suo saggio piú significativo degli anni settanta rimane Le muse inquietanti: riflessioni su trenta anni di architettura in Italia, in «Parametro», 1978, n. 64-65, pp.
44-57, che costituisce, a suo modo, una storia dell’architettura dal
Medioevo ad oggi, una confessione autocritica, un «memento» per le
giovani generazioni, e un progetto naïf per il futuro.
170
Sull’opera di De Carlo, cfr. aa.vv , Giancarlo de Carlo, Milano
1964; il numero monografico di «Forum», 1972, n. 1; G. De Carlo. La
Réconciliation de l’architecture et de la politique, in «L’architecture
d’aujourd’hui», 1975, n. 177, pp. 32 sgg. (numero dedicato al Team X).
Sull’opera di De Carlo come membro del Team X, si veda k. frampton,
Les vicissitudes de l’idéologie, ivi, pp. 62 sgg. Per il piano di Urbino, cfr.
g. de carlo, Urbino, Padova 1970; per il piano di Rimini, cfr. «Parametro», 1975, n. 39-40. Cfr. inoltre f. brunetti e f. gesi, Giancarlo De
Carlo, Firenze 1981 (con bibliografia). Fra gli scritti di De Carlo, segnaliamo, oltre ai volumi Questioni di architettura e urbanistica, Urbino 19652
e La piramide rovesciata, Bari 1968, il recente saggio Corpo, memoria e
fiasco, in «Spazio e società», 1978, n. 4, pp. 3-16, come uno dei piú rappresentativi del suo pensiero. Va inoltre segnalata la linea della rivista
«Spazio e società» diretta da De Carlo, che inizia nel ’78 le sue pubblicazioni con non comune coerenza. Nello stesso anno, G. Canella inizia a dirigere la rivista «Hinterland», mentre «Controspazio», diretta
da Portoghesi dal ’69, dirada sempre piú le sue uscite.
Storia dell’arte Einaudi
184
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Cfr. g. de carlo, An Architecture of Participation, Melboume
1972 e L’architettura della partecipazione, in L’architettura degli anni ’70,
Milano 1973.
172
Cfr. s. bracco, Un banco di prova nella conduzione della città, in
«Casabella», 1977, n. 421, pp. 13-16, e g. de carlo, Alla ricerca di un
diverso modo di progettare, ivi, pp. 17-19.
173
Fra la vasta pubblicistica di Aymonino sul tema, si veda almeno
La città di Padova, a cura di C. Aymonino, Roma 1970; Origini e sviluppo della città moderna, Padova 1971; L’abitazione razionale. Atti dei
congressi Ciam 1929-1930, Padova 1971; Il significato delle città, Bari
1975; Lo studio dei fenomeni urbani, Roma 1977.
174
Su tale fase dell’attività di Aymonino, cfr. conforti, C. Aymonino cit., pp. 41 sgg.
175
Cfr. c. dardi, Abitazioni nel quartiere Gallaratese a Milano, in
«L’architettura cronache e storia», 1974, n. 226; Monte Amiata Housing, in «A + U», 1974, n. 7.
176
Cfr. 1977: Un progetto per Firenze, Roma 1978; c. conforti,
1977: un progetto per Firenze, in «Casabella», 1979, p. 444, e i testi citati oltre, p. 548, nota 7.
177
Cfr. c. aymonino, Materia e materiali, in «Lotus», 1977, n. 15,
e Campus scolastico a Pesaro, a cura di F. Moschini, Roma 198o.
178
Collaboratore di Fiorentino, per tali progetti, è Gabriele De
Giorgi già collaboratore dello studio Asse: non a caso essi mostrano una
qualche affinità con quelli del gruppo romano Metamorph. Nei progetti
del gruppo – concorsi per motel Agip (1968), per le Università di
Firenze e Cosenza – il «pittoresco macchinista» celebra una tecnica
invocata come daimon. Cfr. c. conforto, g. de giorgi, a. muntoni e
m. pazzaglini, Città come sistema di servizi, Roma 1976, con introduzione di C. Dardi. Sull’opera di Fiorentino fino al 1970, cfr. l. quaroni, Itinerario dell’architetto Mario Fiorentino, 1958-1970, in «L’architettura cronache e storia», 1970, n. 182. Cfr. inoltre il volume autobiografico di m. fiorentino, La casa, Roma 1982. Per un inquadramento del Corviale, di Vigne nuove e degli altri quartieri della nuova
periferia romana nell’attuale politica edilizia, cfr. v. fraticelli, I piani
di zona: 1964-1978, in «Casabella», 1978, n. 438, pp. 22-24 e g.
rebecchini, La progettazione dei piani di zona, ivi, pp. 25 sgg. con critiche da noi pienamente condivise.
179
Cfr. v. gregotti, Quartiere Zen a Palermo, in «Lotus», 1975, n.
9. Sull’opera recente di Gregotti cfr. m. scolari, Tre progetti di Vittorio Gregotti, in «Controspazio», 1971, n. 3, pp. 2-6; 0. bohigas, Vittorio Gregotti, in Once Arquitectos, Barcelona 1976, pp. 67-82; numero monografico di «A + U», 1978, n. 77; m. tafuri, Le avventure dell’oggetto: architetture e progetti di Vittorio Gregotti, e e. battisti, Architettura come problema, in Il progetto per l’Università della Calabria e altre
171
Storia dell’arte Einaudi
185
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
architetture di Vittorio Gregotti, Milano 1979. Fra gli scritti teorici di
Gregotti, ricordiamo Avanguardia come professione (firmato insieme a
Oriol Bohigas e Gae Aulenti), in «Lotus», 198o, n. 25.
180
Il lavoro di Franco Purini appare fra i piú interessanti e promettenti delle giovani generazioni anche se ancora costretto a rimanere teorico. Su Purini cfr. p. melis, Il «timore» e il «bisogno» dell’architettura. Una nota sulle incisioni di Franco Purini, in «Controspazio»,
1977, n. 4-5, pp. 61-63 e m. tafuri, Natural-Artificial. The Architecture of Franco Purini, in «A + U», 198o, n. 8, pp. 35-40. I testi di Purini sono fra i piú lucidi prodotti dagli architetti operanti nell’ultimo
decennio. Cfr. i volumi, Luogo e progetto, Roma 1976 e il recente L’architettura didattica, Reggio Calabria 198o. Quest’ultimo, che raccoglie
riflessioni e lezioni dal ’77 in poi, mostra un esemplare equilibrio nel
distinguere motivi della poiesis e analisi sul corpo storico dell’architettura, ricongiunti poi nei disegni e nei paesaggi teorici dell’autore.
181
Sui problemi relativi alla localizzazione dell’Università fiorentina e sul concorso, cfr. a. montemagni e p. sica, La politica urbanistica fiorentina e il concorso internazionale per la nuova Università, in «Urbanistica», 1974, n. 62.
182
Cfr. j. rykwert, La nuova università della Calabria, in «Domus»,
1974, n. 540, pp. 13 sgg. e Il progetto per l’Università delle Calabrie cit.
183
L’attività di Gabetti e Isola non ha goduto, dopo le polemiche sul
«neoliberty», dei favori della critica: all’atteggiamento schivo dei due
torinesi ha corrisposto una distrazione generalizzata, rotta solo da alcune «cronache» di Zevi (Cronache di architettura cit., nn. 451, 481, 610,
780, 933), e da occasionali presentazioni di opere. Giustamente Portoghesi nel ’77 richiama l’attenzione su Gabetti e Isola con un numero di
«Controspazio» (n. 4-5), che documenta la loro opera dal 1965 al 1976.
Cfr. p. portoghesi, Dentro la storia e fuori delle «storie», ivi, pp. 16 sgg.
e g. accasto, La complessità dell’essenziale: riflessioni sugli ultimi lavori di
Gabetti e Isola, ivi, pp. 34 sgg., che tuttavia lasciano in diverso modo
insoddisfatti. Nello stesso fascicolo, cfr. r. gabetti e a. isola, «Sulla
schiena del drago», p. 2, e gli articoli di D’Amato e Cellini già citati sul
fenomeno neoliberty. Cfr. anche Gabetti, Isola, Raineri cit.
184
Cfr. p. portoghesi, Oggettività e contraddizione: una casa sulla collina torinese, in «Controspazio», 1969, n. 3, p. 30.
185
Cfr. zevi, Cronache di architettura cit., n. 933; r. pedio, Residenziale ovest a Ivrea, in «L’architettura cronache e storia», 1973, n.
212-13; accasto, La complessità dell’essenziale cit.
186
Vicina a quella di Gabetti e Isola è la poetica di Giorgio Raineri, come s’è visto, associato ad essi per alcuni lavori. Anche Raineri trae
una sicurezza sintattica da un «mestiere» forbito e da un’attenta esplorazione del contesto storico che forma il paesaggio piemontese: un raffinato trattamento della materia si integra, in lui, a un’altrettanto raf-
Storia dell’arte Einaudi
186
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
finata manipolazione della geometria, cosí da fare del «parlar sommesso» un pretesto linguistico ricco di infiniti sviluppi. Opere come la
scuola materna di Mondoví (con Lorenzo Mamino, 1969-72), la casa
sulla collina torinese del 1968-72, il restauro e la ristrutturazione del
castello neogotico di Miradolo (1975-78), la scuola materna di Collegno (1975-77) si pongono come episodi di alta sapienza formale, proporzionale all’attenzione che Raineri dedica al «dettaglio». Cfr., oltre
a Gabetti, Isola, Raineri cit., r. cabetti, Intimismo, dieci opere in dieci
anni, in «Casabella», 1969, n. 338, pp. 7-21; v. gregotti, 1954-1979:
Architetture di Giorgio Raineri. La strategia dell’invenzione e la poesia del
mestiere, in «Controspazio», 1979, n. 3, pp. 26-3o, e r. gabetti, Una
lettera a Giorgio Raineri, ivi, p. 46.
187
La critica non ha ancora affrontato l’opera di Canella con la
serietà che le è dovuta. La bibliografia al proposito è cosí sparsa in articoli di presentazione di opere: cfr. b. zevi, in «L’Espresso», 1967, n.
50; l. berni, in «Panorama», 1977, nn. 561 e 6o6, 1979, n. 668; a.
cristofellis, Scuole materne come case del popolo, in «L’architettura
cronache e storia», 1976, n. 252, pp. 294-307.
188
Fra le ricerche tipologiche canelliane, ricordiamo i volumi Il
sistema teatrale a Milano, Bari 1966; Il carcere come modello di decongestione, Milano 1967; Università. Ragione, contesto, tipo (con Lucio
D’Angiolini), Bari 1975. Cfr. anche, di g. canella, Dal laboratorio
della composizione, in aa.vv., Teoria della progettazione architettonica,
Bari 1958 e Critica di alcune correnti ideologie, in «Controspazio»,
1970, n. 1-2, pp. 34-41.
189
Su Gae Aulenti, cfr. g. drudi, The Design of Gae Aulenti, in
«Craft Horizons», febbraio 1976; p. c. santini, Gae Aulenti: Architettura, scene, design, in «Ottagono», 1977, n. 47; Gae Aulenti, Milano 1979, catalogo della mostra al Pac, con introduzione di V. Gregotti, il saggio di e. battisti, Architettura è donna (pp. 7-11), quello di f.
quadri, Teatro come trasgressione (p. 12), e frammenti di conversazione della Aulenti con Quadri (pubblicata in Il Patalogo uno, Milano
1979, pp. 317-30).
190
Cfr. Italy: The New Domestic Landscape, a cura di E. Ambasz,
New York 1972, pp. 150-59.
191
Cfr. g. aulenti, Teatro e Territorio. Il laboratorio di Prato, in
«Lotus», 1977, n. 17, pp. 4 sgg.
192
La bibliografia su Aldo Rossi è sin troppo vasta: di questo maestro del segno trattenuto, del confine, della «laconica eloquenza», si
tenta di fare un fenomeno alla moda, di pronta assimilazione. Cfr.,
comunque, e. bonfanti, Elementi e costruzione. Note sull’architettura di
Aldo Rossi, in «Controspazio», 1970, n. 1o, pp. 19 sgg.; m. steinmann,
Architektur, in Aldo Rossi, Bauten Projekte, Zürich 1973, pp. 3-5; r.
nicolini, Note su Aldo Rossi, in «Controspazio», 1974, n. 4, pp. 48-49;
Storia dell’arte Einaudi
187
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
numero monografico di «Construcción de la ciudad 2c», 1975, n. 2;
v. savi, L’architettura di Aldo Rossi, Milano 1976; «A + U», 1976, n.
65, pp. 55 sgg. (numero monografico); f. dal co, Criticism and Design.
For Vittorio Savi and Aldo Rossi, in «Oppositions», 1978, n. 13, pp.
2-16; Aldo Rossi progetti e disegni 1962-1979, Firenze 1979; p. eisenman, Preface, e The House of the Dead as the City of Survival, in Aldo
Rossi in America: 1976 to 1979, cat. 2, Iaus, New York 1979; numero
monografico di «Construcción de la Ciudad 2c», 1979, n. 4; m. tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni
’70, Torino 198o, pp. 330 sgg.; d. vitale, Ritrovamenti, traslazioni, analogie. Progetti e frammenti di Aldo Rossi, in «Lotus», 198o, n. 25, pp.
55-58; p. portoghesi, Dopo l’architettura moderna, Roma-Bari 198o,
pp. 182 sgg. Come voce contraria, cfr. b. zevi, Con Piacentini in nome
di Lenin, in «L’Espresso», 14 ottobre 1973. Fra gli scritti di Rossi,
ricordiamo L’architettura della città, Padova 19733, e Scritti scelti sull’architettura e la città 1965-1972, a cura di R. Bonicalzi, Milano 19752
193
E si tratterà della «metafisica», con i suoi debiti a Max Klinger
e Arnold Böcklin, del «novecentismo», del neoclassicismo lombardo,
di Giovanni Muzio, di Loos, e persino di alcuni aspetti di Marcello Piacentini: tutti i temi, in sostanza, censurati dalla cultura «progressista»
degli anni quaranta e cinquanta. Di qui anche l’apprezzamento dell’architettura cosiddetta «stalinista» o della Stalinallee a Berlino. Un
apprezzamento, quest’ultimo, avanzato in un articolo scritto da Rossi
insieme a Canella e rimasto inedito: nessuna rivista di sinistra si sentí
di pubblicarlo agli inizi della destalinizzazione.
194
Cfr. g. u. polesello, a. rossi e f. tentori, Il problema della periferia nella città moderna, in «Casabella», 196o, n. 241, pp. 39-55.
195
a. rossi, Adolf Loos 1870-1933, ivi, 1959, n. 233, pp. 5-12.
196
Cfr. id., L’azzurro del cielo, ivi, 1972, n. 372 e in «Controspazio», 1972, n. 10; r. moneo, Aldo Rossi: the idea of architecture and the
Modena cemetery, in «Oppositions», 1976, n. 15, pp. 1-30 e vitale,
Ritrovamenti, traslazioni, analogie cit.
197
Cfr. a. rossi, La arquitectura análoga, in «Construcción de la ciudad 2c», 1975, n. 2, pp. 8-11, e m. tafuri, Ceci n’est pas une ville, in
«Lotus», 1976, n. 13, pp. 10-13.
198
Cfr. id., L’éphémère est éternel. Aldo Rossi a Venezia, in
«Domus», 198o, n. 602, pp. 7-8; f. dal co, Ora questo è perduto, in
«Lotus», 198o, n. 25, pp. 66 sgg.; p. portoghesi, Il teatro del mondo,
in «Controspazio», 1979, n. 5-6, pp. 2 e 9-1o; s. planas, El Teatro del
Mondo de Aldo Rossi, o el «lenguaie de las cosas mudas», in «Carrer de
la Ciudat», 198o, n. 12, pp. 5-15; j. j. lahuerta, Personajes de Aldo
Rossi, ivi, pp. 16-27.
199
Su Grassi, cfr. a. monestiroli, Teoria e progetto. Considerazioni
sull’architettura di Giorgio Grassi, in «Controspazio», 1974, n. 2, pp.
Storia dell’arte Einaudi
188
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
72-91. Si veda, anche, g. grassi, La costruzione logica dell’architettura,
Padova 1967, e L’architettura come mestiere e altri scritti, Milano 198o.
200
aa.vv., Architettura razionale. XV Triennale di Milano. Sezione
internazionale di architettura, Milano 1973. Fra gli articoli pesantemente
critici contro l’iniziativa, vedi g. gresleri, Alla XV Triennale di Milano,
in «Parametro», 1973, n. 21-22, pp. 6 sgg., e j. rykwert, XV Triennale, in «Domus», 1974, n. 530, pp. 1-15. A favore, cfr. r. nicolini, Per
un nuovo realismo in architettura, in «Controspazio», 1973, n. 6, pp.
12-15. Un demerito di quella mostra comunque, è stato quello di aver
artificiosamente unificato nello sciagurato termine della «tendenza»
architetture di opposte tendenze: in questo, quella mostra e quella di Portoghesi per la Biennale di Venezia 198o concordano perfettamente.
Segnaliamo pertanto a chi mostra di aver ancora caro il termine «tendenza», che Massimo Scolari, responsabile di essa, interrogato oggi,
afferma di aver compiuto, nel 1973, un ironico «gesto» dadaista.
201
Sul gruppo Grau, cfr. p. portoghesi, Architettura del Grau, in
«Controspazio», 1979, n. 1-2, pp. 2 e 96; c. d’amato, 1964-78: Storia e logica nella progettazione del Grau, ivi, pp. 4 sgg.; grau, Isti mirant
stella. Architetture 1964-198o, Roma 1981.
202
Sulle ricerche dei giovani romani, cfr. g. muratore, I gruppi
romani tra neoavanguardia e neomanierismo, in «Casabella», 1979, n.
449, pp. 10-17, e Architetti romani: un dibattito, ivi, pp. 18 sgg.
203
Cfr. Progetti dello studio Labirinto, in «Controspazio», 1975, n.
4, pp. 8o sgg.
204
f. purini e l. thermes, La ricerca dei giovani architetti italiani.
Una generazione ritrovata, ivi, 1978, n. 5-6, p. 8.
205
Cfr. m. mattei, Crisi dell’urbanistica, urbanistica della crisi. Note
in margine al concorso per l’area direzionale di Firenze, ivi, 1977, n. 6,
pp. 23-28, che affronta la carenza di impostazione delle scelte di localizzazione e delle ipotesi funzionali. Sui risultati del concorso, vedi,
nello stesso fascicolo, la nota di p. portoghesi, Ancora paura dell’architettura, p. 2. Cfr. g. gresleri, Depressione su un concorso di architettura moderna, in «Parametro», 1978, n. 63, pp. 11-12 (alle pp. 15
sgg. i progetti e stralci delle relazioni).
206
In tale ambito, tentativi di definire tendenze in base a formule
rischiano di confondere piú che di illuminare: cosí è accaduto alla
mostra organizzata nel 1977-78 a Bologna dal titolo – mediato da un’ipotesi critica di Renato Barilli, ma di ascendenza heideggeriana –
«Assenza-Presenza», in cui alle neoavanguardie «radicali» si contrapponevano, come «assenti», figure eterogenee come Dardi, Isozaki,
Moore, Scolari, Purini, Rossi, Sartogo, Heiduk, ecc. Cfr. il catalogo
Assenza/Presenza, un’ipotesi di lettura per l’architettura, Ascoli Piceno
1979, e l’articolo, puntualmente critico, di l. thermes, Bologna: una
mostra e un convegno, in «Controspazio», 1977, n. 6, p. 58.
Storia dell’arte Einaudi
189
Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981
Cfr. m. gandelsonas, Massimo Scolari. Paesaggi teorici, in
«Lotus», 1976, n. 11, pp. 57-63; m. tafuri, The Watercolors of Massimo Scolari, in Massimo Scolari: Architecture between Memory and Hope,
Iaus, New York 1980, pp. 2 sgg.; Massimo Scolari, acquarelli e disegni
1965-198o, a cura di F. Moschini, Firenze 1981.
208
Cfr. il catalogo Roma interrotta, Roma 1978; l. thermes, Il
Nolli, dodici architetti e una città, in «Controspazio», 1978, n. 4, pp.
4-24; p. ceccarelli, La Messa per Moro, la Pianta del Nolli e l’immaginazione ibernata, in «Spazio e società», 1978, n. 4, pp. 89-92.
209
Cfr. n. pagliara, Architetture e progetti, 196o-1979, in «Controspazio», 1979, n. 3, pp. 6 sgg., con il commento di p. portoghesi,
Materia e spazio: il lavoro di Nicola Pagliara, ivi, p. 19 e g. k. könig, Italian ecleticism, quant’è wunderbar, in «Modo», 1979, n. 17, pp. 29-33.
Interessante, come testimonianza degli stati d’animo degli anni sessanta
in relazione alle «lingue paterrie», il volumetto di n. pagliara, Appunti su Otto Wagner, Napoli 1968. Che poi il percorso di Pagliara – dal
costruttivismo esasperato delle prime opere, alla matericità esuberante della chiesa di Tursi (1967), agli ironici montaggi di Casa Crispino
a Melito (1978) e dei progetti piú recenti – sia tutt’altro che segnato
dai maestri viennesi del linguaggio non deve meravigliare. Va piuttosto segnalata la «perversità» con cui molti dei nati all’architettura
negli anni sessanta guardano alle loro fonti di elezione. Non rende
omaggio, comunque, ai fermenti vivi nelle nuove tendenze, l’azione
promozionale svolta da Portoghesi nell’organizzare la mostra della
Biennale di Venezia del 198o Presenza del passato (vedine il catalogo cit.,
ma anche, come sua base teorica, il volume di portoghesi, Dopo
l’architettura moderna cit.). Non a caso, critiche penetranti all’ideologia «post-moderna» sono state pronunciate da Purini, pur presente alla
mostra di Venezia (cfr. purini, L’architettura didattica cit., p. 41, nota
14, e pp. 93 e 120).
207
Storia dell’arte Einaudi
190