I intervento 18.11_Sarti_Matilde

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I intervento 18.11_Sarti_Matilde
Primo intervento del 18 novembre riguardante “A Portrait of the Artist as a Young Man”. Matilde Sarti Le poetiche di Joyce e D’Annunzio a confronto: l’evoluzione del romanzo di formazione Questo lavoro si basa essenzialmente sulle opere di Umberto Eco e di Walton Litz, i quali analizzano nelle loro opere la poetica di Joyce e la sua evoluzione nel tempo. Nello specifico ci si occuperà di quello che è stato il percorso effettuato dall’autore irlandese all’interno dell’opera A portrait of the Artist as a Young Man, uno dei primi romanzi di Joyce, la cui stesura comprende un arco di dieci anni fra il 1904 e 1914, date poste in calce alla versione ultima dell’opera, vista come un’apparente rivisitazione dello Stephen Hero che in realtà pone differenti punti di rottura rispetto a quest’ultimo, com’è del resto abituale nell’intero lavoro Joyciano. A portrait appartiene alla tradizione del Bildungsroman, il romanzo della crescita e dello sviluppo, che ha le sue origini nell’interesse romantico per la confessione e l’auto-­‐analisi. Iniziata con le Confessioni di Rousseau e il Wilhelm Meister di Goethe, questa forma racconta l’iniziazione di un giovane che entra nel mondo e la sua ricerca di identità. Il Bildungsroman propone i grandi temi del rapporto dell’individuo con la società e dell’individuo con se stesso. Tuttavia anche in questo caso Joyce tende ad allontanarsi da quella che è la tradizionale personalizzazione del Bildungsroman, concentrandosi invece su alcuni momenti della vita di Stephen che potevano essere generalizzati per mezzo del mito e del simbolo in modo da poter parlare sia dell’educazione dell’artista sia di quella di ogni individuo. Come osservò Theodor Spencer nello sviluppo di Stephen Dedalus, ci sono cinque temi principali, tutti strettamente in rapporto con il tema centrale che è Sthepen medesimo. I temi sono: la famiglia di Stephen, i suoi amici di ambo i sessi, la vita di Dublino, il cattolicesimo e l’arte. Lo sviluppo di Stephen come individuo può descriversi come un processo di eliminazione dei primi quattro per mettere in evidenza il quinto. Quando ciò accade, e viene definita l’arte, l’artista può tornare ai primi quattro come contenuto. Difatti deve tornare ad essi se vuole adempiere alla sua funzione d’artista; ma prima di far questo deve determinare che genere d’uomo è l’artista e anche che cos’è l’arte: le due cose, agli effetti autobiografici, sono per molti aspetti la stessa cosa. Difatti il quinto capitolo del Portrait, dedicato all’estetica, al ruolo dell’arte nella vita dell’uomo e a quello dell’artista come tramite fra questi due termini, costituisce il fulcro dello sviluppo del protagonista, come asserì anche lo studioso Northrop Frye all’interno della sua opera Anatomia della critica. Su questa teoria estetica agiscono tre grandi linee di influenza: da un lato l’influenza filosofica di San Tommaso, espressa esplicitamente più volte dallo stesso Stephen in parte accattandola ed in parte, soprattutto sul finale, contrapponendosi ad essa; dall’altro lato con Ibsen si ha un richiamo a più stretti rapporti tra arte e impegno morale; e infine, frammentaria ma pervasiva, respirata nell’aria oltre che assimilata nei libri, l’influenza delle poetiche simboliste, tutte le seduzioni del decadentismo, l’ideale estetico di una vita votata all’arte e di un’arte sostitutiva della vita; da qui uno stimolo a risolvere i grandi problemi dello spirito nel laboratorio del linguaggio. Ciò che afferma Umberto Eco nella sua opera Le poetiche di Joyce è che “tutta l’armatura scolastica che Stephen aveva callidamente eretto a sostegno della sua prospettiva estetica, ad altro non serviva che a sostenere una nozione romantica della parola poetica come rivelazione e fondazione lirica del mondo, e del poeta come colui che solo può dare una ragione alle cose, un significato alla vita, una forma all’esperienza, una finalità al mondo”; il poeta è dunque colui che in un momento di grazia scopre l’anima profonda delle cose; ma è anche colui che pone quest’anima e la fa essere solo attraverso la parola poetica. L’epifania è dunque un modo di scoprire il reale e insieme un modo di definirlo attraverso il discorso, vale a dire che la claritas dell’Aquinate altro non è che l’epifania stessa, intesa come quidditas, l’essenza delle cose in quanto tale. La successiva evoluzione sta nel passaggio dall’impersonalità ed oggettività dell’arte e dell’opera artistica, la quale non deve essere espressione dell’io dell’artista, alla definizione di arte come “modo umano di disporre la materia sensibile o intellegibile ad uno scopo estetico”; la locuzione ad uno scopo estetico modifica nella sostanza la definizione di arte, non più identificata con la nozione greco-­‐latina di techne-­‐ars, bensì con quella moderna di Arte Bella. Ed è proprio questa l’evoluzione principale all’interno della teoria estetica di Joyce: da un concetto di art pour l’art insito nell’oggettività ed impersonalità scolastica si è passati ad uno maggiormente legato ad un piacere che non è più dato dalla pienezza di una percezione oggettiva, ma dalla percezione soggettiva di un momento imponderabile dell’esperienza e della traduzione in termini di strategia stilistica di questa esperienza, dalla formazione di un equivalente linguistico del reale. L’artista medievale era servo delle cose e delle loro leggi, servo della stessa opera da farsi secondo regole date: l’artista di Joyce, ultimo erede della tradizione romantica, trae significati da un mondo che altrimenti sarebbe amorfo, e nel farlo si impossessa del mondo e ne diviene il centro. Nel Portrait la gioia estetica e la stasi delle passioni diventano the luminous silent stasis of aesthetic pleasure; questo piacere statico non è purezza di contemplazione razionale, ma è fremito di fronte al mistero, tensione della sensibilità ai limiti dell’ineffabile: Walter Pater, i simbolisti e D’Annunzio hanno sostituito Aristotele. Ed è proprio da qui che può iniziare l’analisi di confronto fra la poetica di Gabriele D’Annunzio e quella di James Joyce, e più precisamente da due assunti che accomunano i due artisti: la soluzione decadente della dissociazione, la negazione della vita nell’arte o meglio l’affermazione che si abbia vita vera solo sulla pagina dell’artista da una parte, e dall’altra la visione dell’artista che “come Dio nella creazione, rimane entro o al di là o al di sopra del suo lavoro, invisibile, indifferente, come se stesse limandosi le unghie”, per citare direttamente Joyce. Da una parte dunque la nozione di intreccio permanente fra arte e vita secondo un processo non più scindibile, dall’altra una visione quasi superomistica dell’artista, il cui vaticinio, sempre per rimanere sul terreno del linguaggio Dannunziano, rimane però fine a se stesso, come se il poeta a conti fatti vanificasse i suoi sforzi per cogliere l’essenza, per usare qui invece un termine Joyciano, rimanendo “invisibile ed indifferente” nonostante tutto; qui giace il fallimento del protagonista, l’incapacità di ottenere ciò a cui aspira: Andrea Sperelli ad esempio, ne Il piacere, alla fine sceglierà Elena Muti, simbolo della presa totalizzante del piacere, nonostante la vocazione dello spirito e dell’arte lo avessero naturalmente portato in un frangente iniziale ad amare Maria Ferres, simbolo dell’esperienza dell’arte e della poesia. La resa al piacere dei sensi porterà il protagonista verso una terribile consapevolezza di impotenza poiché la bellezza e la grazia dell’arte e della vita sono in un pericolo mortale; l’artista vive dunque in una condizione di disadattamento, disperazione, sfida e malattia. Allo stesso modo anche Stephen si arrenderà a questa sua condizione di disadattamento con la quale lotta dall’inizio del romanzo; la sua scelta però, al contrario di quella di Andrea Sperelli, non risulta definitiva, perché la sua formazione è quella di un artista da giovane che dunque ha ancora la possibilità di evolvere le proprie teorie e le proprie passioni, proprio come accadrà nel principio dell’Ulisse in cui ritroviamo uno Stephen Dedalus diverso da quello del ritratto, o che comunque sta effettuando un cammino spirituale successivo. Parlando però delle influnze di D’Annunzio sulla poetica di Joyce, vediamo come l’opera più suggestiva per l’autore irlandese sia stata Il fuoco, sia perché è il romanzo più autobiografico di D’Annunzio e rappresenta in qualche modo un punto molto avanzato sia stilisticamente che contenutisticamente parlando nell’evoluzione della sua poetica, sia perché è stata l’opera che Joyce ha preferito insieme con Le vergini delle rocce, tanto da spingere il poeta a recarsi a Londra per vedere una performance di Eleonora Duse, alter-­‐ego della protagonista femminile de Il fuoco. Nancy Zingrone, nei suoi studi, tende a sottolineare il sostanziale parallelismo tra Il fuoco ed A portrait: entrambi marcatamente autobiografici ed entrambi interessati ai conflitti dell’espressione artistica e sessuale nei confini di un ambiente culturale ben delimitato. Ma il concetto che meglio definisce qusto parallelismo è quello di epifania: sia Stephen che Stelio vivono dei momenti di illuminazione che implicano sentimenti profondi e intuizioni inaspettate; le due principali sono l’episodio cosiddetto della “Bird Girl” in Joyce, a seguito del quale vi è una presa di coscienza da parte del protagonista di ciò che lui vorrà essere e fare in fututro. Per quanto riguarda invece le vicende di Stelio Effrena, la sua epifania riguarda il suo lavoro e la sua poesia ed avviene a seguito di una visita a quella che si credeva fosse la tomba di Atreidae in Mycenae, evento tra l’altro narrato dal protagonista ad un suo amico Daniele Glauro in modo analogo a quello che sarà il dialogo tra Stephen e Lynch nel quinto capitolo. Inoltre sia Stephen che Stelio alla fine del romanzo scelgono una fuga, se così si può definire, da quello che è il luogo dove si svolge l’intera scena e quindi dove ha luogo la loro apparente crescita; Stephen lascia Dublino mentre Stelio lascia la Foscarina e progetta un viaggio a Roma. E’ importante infine notare come alcuni studiosi come Giorgio Luti, abbiano descritto la progressione di D’Annunzio come un “processo distruttivo della sintassi narrativa”, definita ancora prima da Croce come “dilettante di sensazioni”, specie nella prima parte de Il fuoco, dove i rapidi e inaspettati cambiamenti spaziali e temporali contribuiscono alla fluidità della narrazione in un modo molto simile ai momenti finali dei Dubliners o del Portrait. Tuttavia complessivamente in D’Annunzio rimarrà sempre una fondamentale armonia, contro la quale lavorerà sempre lo stesso Joyce, seppure in tempi e maniere differeneti. Per concludere si può quindi affermare che la poetica Joyciana giovanile del ritratto, pur prendendo vari spunti dall’opera decadentista, non può essere definita tale, anche perché l’evoluzione dell’epoca di Joyce, seppure a distanza di non molti anni, porta ad una soluzione in cui non solo l’arte è vita, ma l’arte è un momento fondativo da cui parte un’ulteriore formazione, che essa sia al positivo o al negativo, dell’artista stesso. Bibliografia: -­‐U. Eco, Le poetiche di Joyce. -­‐A.Walton Litz, James Joyce. -­‐Gregory L. Lucente, D’Annunzio’s IL FUOCO and Joyce’s PORTRAIT OF THE ARTIST: from allegory to poetry -­‐M. Praz, James Joyce e T. S. Eliot: due maestri a confronto. -­‐Giorgio Barberi Squarotti, Invito alla lettura di D’annunzio. Matilde Sarti