INCIPIT di Cinzia Zungolo Tutto comincia ieri. Testo in inglese e

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INCIPIT di Cinzia Zungolo Tutto comincia ieri. Testo in inglese e
INCIPIT
di Cinzia Zungolo
Tutto comincia ieri.
Testo in inglese e reading comprehension. Dovevamo studiarlo per casa, ma sono accadute troppe cose e addio compiti.
Insomma c’era questa foto proiettata sulla LIM: una grande sala, come la mia maglietta di cotone, bianchissima.
All’improvviso, mi appare quella scritta. Enorme. Sulla parete. Solo io potevo vederla. E non ho potuto più fermarmi.
Tutto comincia ieri, ma anche prima.
Il regalo di mio padre, la bomboletta di vernice spray. Che cosa me ne faccio, non so disegnare, mi mancano il tratto, la velocità,
la potenza. Giustamente, gli amici me l'hanno fregata subito. Eravamo nel parco. L'hanno svuotata sulla panchina color carne.
Li fissavo, con un prurito alle mani, intrappolate in tasca. Poi, non ho potuto più gettarla via. La bomboletta. È rimasta sul fondo
dello zaino, come un passeggero che si addormenta nella pancia di una nave. Così mi sentivo anch'io, fino a ieri: uno che dorme.
(In mezzo, la telefonata di Pablo. Sì, addirittura una telefonata, non gli bastava un SMS. Il segnale era disturbato e la
comunicazione si è interrotta subito. Pensavo a uno scherzo, a un modo per farsi notare. Pablo ci prova gusto ad attirare
l'attenzione. Provoca, invece di essere un po' discreto e mimetizzarsi nel gruppo. La sua è la colpa più grave: distinguersi.
Ti condannano. E sei finito. Punito, se insisti. È come una Santa Inquisizione. L'Inquisizione degli Uguali.)
Tutto comincia ieri, ma la parete bianca non era più bianca. C'era il mio film sopra. Il mio cortometraggio. La storia.
L'ho vista e la racconterò. È vero, disegno da cani, ma le immagini le sento vive, le afferro da dove sbucano, le accompagno,
lascio che si muovano. Mi basta una fotocamera da due soldi per creare un mondo. Perché le cose non sono mai cose morte,
pezzi essiccati di un racconto vecchio, pietre dure che gli altri ci mostrano, orgogliosi di tante collezioni da museo.
Le cose sono sempre vive. Vive come voglio essere io. Ma io, io chi sono?
(Tipo a posto, educato, portato per certe materie e meno per le altre, studioso ma non troppo. Prendo anche
qualche voto okay, come pentole e posate al supermercato, con la tessera punti fedeltà. Eppure, a volte, non capisco
il senso. Mi manca la prospettiva. Non ce l'ho con la scuola. Non ce l'ho con i genitori. Non ce l'ho con il Tribunale
degli Uguali. Semplicemente è arrivato il momento di scrivere la mia storia.
E mi serve dare un senso alle cose che faccio.)
Tutto comincia ieri ed è molto strano, perché il motorino non parte e sono costretto a tornare a casa in autobus. Scendono due
ragazzine luccicanti di piercing e sale Ines. Sì, proprio quella che abita attaccato a scuola. Lei e la sua gonna lunga verde militare
se la fanno a piedi tutte le mattine, spazzano l'asfalto, da un portone all'altro. Che cosa ci fa sull'autobus? Dove sta andando?
Dalla madre, dal padre, dal nonno, guardiano notturno dall'altra parte della città? Mi sfila davanti. Mi ignora con precisione,
per lei sono sempre stato trasparente. Si siede in fondo. Fà come ti pare, chi ti guarda, io penso ai fatti miei, scorro la playlist sullo
smartphone. E mi reggo agli appositi sostegni.
(Tutto comincia ieri. Appena chiudo gli occhi, le immagini tornano vive sotto le palpebre.
La foto sulla LIM. La reading comprehension. Era un testo sugli Shakers, ramo dei quaccheri: nella foto della sala bianca,
le sedie appese a testa in giù contro le pareti sembrano giacconi svogliati che aspettano l'inverno per scendere tra i vivi.
L’autobus sbanda di nuovo, svolta, mi reggo più forte. Rivedo la scritta gigantesca, la telefonata di Pablo sul display,
la gonna di Ines, tutti i miei voti in fila nel registro elettronico, la panchina nuda ora coloratissima, la bomboletta in fondo
al mio zaino. La domanda io chi sono. E il mio film.)
Nella calca dell’autobus, qualcuno mi strattona. Mi divincolo e il telefono cade, rimbalzando tra le sneakers di tanti colori.
Lo raccolgo a fatica. Sollevo lo sguardo. L’espressione di Ines è indecifrabile. Mi stringe il braccio con forza, non posso credere
che mi stia toccando. Osservo la sua mano e il polso: la pelle porta impressa la scritta B612. È un tatuaggio scuro, come una vena
gonfia di sangue. Mi fa segno di seguirla, attraverso le porte dell’autobus spalancate. E io mi lancio fuori. Ho smesso di pensare.
Sono tornato ieri notte, dopo che tutto è accaduto. Ho preso la bomboletta dallo zaino (non era esausta, le cose non lo sono mai)
e ho scritto la mia firma sopra questa storia. Perché da oggi voglio sentire ed essere. Perché da oggi capire non sarà abbastanza.