Conoscere la nostra autonomia e superarla
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Conoscere la nostra autonomia e superarla
CRESCERE LA NOSTRA AUTONOMIA CONOSCENDO I PROPRI LIMITI di Andrea Canevaro 1. Le “buone prassi” L’espressione “buone prassi” è entrata nell’uso comune in Europa per indicare quelle azioni necessarie a trasformare le organizzazioni culturali, sociali, istituzionali, perché tengano conto di una realtà completa e non della realtà che potremmo definire amputata. Amputata di cosa? Della parte che spesso non viene ritenuta l’elemento a cui fare riferimento per costruire le organizzazioni, la parte che esce e non entra nel concetto di normalità. Sembra quasi un discorso scontato ma non è così. Il modello di riferimento nel costruire la rete dei trasporti, la rete dei servizi bancari, postali, le stazioni ferroviarie, gli accessi alla cultura, alle biblioteche, non è fatto tenendo presente il reale di una società che contiene delle differenze; tra queste le disabilità. La possibilità di seguire un percorso di buone prassi è quindi la necessità di mettere in moto progressivamente la costruzione di un modello più reale e che si perfeziona in itinere. Le stazioni ferroviarie ne sono un esempio. Più volte abbiamo rilevato, con l’aiuto delle studentesse e degli studenti, che il personale delle ferrovie ha una disposizione d’animo molto positiva, ed è quindi capace di risolvere molte situazioni difficili. Lo fa avendo indicazioni di un modello organizzativo che non è presente in tutte le stazioni ma, laddove è presente, è costruito secondo l’idea di un percorso differenziato. Chi ha una disabilità dovrebbe segnalarsi in anticipo, prendere contatto, possibilmente con un certo numero di ore di anticipo, per potere avere a disposizione una buona organizzazione personalizzata: accesso ai binari attraverso vie diverse da quelli che tutti gli altri viaggiatori percorrono, possibilità di accesso ad un bagno attrezzato, abitualmente chiuso per non deteriorarne l’uso, ecc.; molte particolari condizioni che, a guardar bene, possono essere utili non solo per chi ha una disabilità in termini conclamati ma anche per coloro che per l’età, per un periodo di transizione che può comportare sia una gravidanza che una gamba ingessata, per una particolare situazione che è propria – parliamo di stazioni ferroviarie - di chi viaggia, molti bagagli, un bambino piccolo da sorvegliare in qualche modo e portare con sé nel viaggio, o condizioni culturali, ad esempio difficoltà di comprendere perché si parla un’altra lingua, si appartiene ad un’altra cultura, gli stessi sportelli per fare il biglietto non sono molto adatti a offrire un servizio che sia accogliente per tutte queste ipotesi e le altre che si possono fare.Cambiare una stazione ferroviaria non è cosa che si realizza in un momento, però avere in testa un modello e utilizzare tutte le situazioni che si presentano di ammodernamento, di manutenzione, per conseguire quel modello è possibile. Questa è la dinamica delle buone prassi, e dunque una dinamica che ha come elemento di fondo quello di riconoscere una realtà nel suo complesso e non la realtà che abbiamo definito ‘amputata’.Ma questa non è un’operazione semplicissima. Perché? Le stesse persone disabili potrebbero avere come riferimento per la risposta ai propri bisogni il modello che non è delle buone prassi, e quindi richiedere, forse con l’elemento urgenza, come quello che fa scattare la richiesta, percorsi speciali non integrabili nella riorganizzazione: ottenere sostegni, ausili particolari, piste facilitate, straordinarie, e quindi far sempre riferimento alla eccezionalità e non alla buona prassi normale; quindi le persone handicappate hanno bisogno di essere coinvolte nella progettazione delle buone prassi, della comprensione della logica che sta sotto le buone prassi, e devono diventare protagoniste di una realizzazione che va un po’ oltre la soddisfazione immediata del bisogno, perché esige non tanto il superamento quale che sia dell’ostacolo, in qualsiasi modo dell’ostacolo, quanto l’organizzazione che consenta di ridurre o eliminare gli ostacoli organizzativi. Questa disponibilità a costruire un progetto è necessaria in tutti, quindi, negli stessi disabili che a volte potrebbero ritenere più urgente la soluzione in qualsiasi modo del proprio problema contingente, più che la costruzione delle buone prassi. Esige anche, naturalmente, la stessa capacità di conversione delle attitudini, delle abitudini, da parte di molte professioni, si potrebbe dire di tutte, perché è evidente, o dovrebbe esserlo, che la dizione “buone prassi” non è riservata, non è un elemento che rivolge le proprie attenzioni e ha bisogno unicamente degli specialisti, dei professionisti che si occupano di disabilità ma riguarda un’organizzazione sociale nel suo complesso, più completa, e quindi tutti coloro che ne fanno parte, con altre professioni che non ritenevano, nello sceglierle o nel trovarsi a svolgerle, di doversi occupare di persone disabili e handicappati, di riduzione di handicap; ritenevano che tutto ciò sarebbe stato lontano dalle loro competenze, e invece devono essere implicati e farsi competenti. Questo comporta una riorganizzazione delle attitudini di competenza e, elemento molto importante, comporta la possibilità di riconoscere che le competenze che per una certa abitudine culturale vengono definite ‘grezze’, cioè non accademiche, siano un arricchimento perché si trovano diffuse in tutte le situazioni umane e hanno bisogno di un collegamento con le competenze accademiche formate professionalmente e più specificamente dedite a una professionalità in un campo. Facciamo un esempio: può capitare che in una situazione familiare vi sia stato un caso di una persona colpita da ictus. La famiglia si è resa partecipe di questa situazione e ha appreso alcune cose, dei comportamenti, delle attitudini di cura, ha organizzato le proprie competenze aggiungendo nuove competenze. La vita domestica ha dovuto assumere delle dimensioni diverse. Qualora un membro di questa famiglia – pensiamo a un bambino o a una bambina – entri in un contesto scolastico e trovi un altro bambino, un’altra bambina che viene indicato ed è un disabile o una disabile. E’ possibile collegare le competenze domestiche derivare dalla presenza di una persona colpita da ictus con la disabilità del compagno o della compagna? Dipenderà dalla disabilità ma è possibile, solo che non sempre questo collegamento viene fatto e quindi si creano quelle competenze ben delimitate, negli specialisti, delle competenze ‘grezze’ molto dipendenti dalle indicazioni degli specialisti e non incoraggiante a rivedersi e riformularsi in funzione di un nuovo contesto che si crea attorno a un nuovo bisogno. Questo è un modo molto dissipatorio, è uno sperpero. Vi sono molte risorse che vengono buttate via perché non costruite da un tessuto che le rivalorizza, le riutilizza, le riconverte; sono monete scadute, buone da mettere nel fuoco. E invece si potrebbe andare avanti. Questa possibilità è legata allo stabilirsi delle “buone prassi” che quindi non è unicamente legata a delle architetture istituzionali rivisitate, riviste, aggiornate, ma anche molto a un imprinting culturale che vorremmo si diffondesse, quello della assunzione di responsabilità che cerca nelle proprie vicende umane le competenze da riconvertire in funzione di una rete sociale a cui apparteniamo, e quindi nelle buone prassi troviamo questa necessità di stabilire una linea di continuità tra colui che ha un ruolo di cittadinanza senza apparenti competenze e colui che è specialista, una linea di continuità che è la ricostruzione o la costruzione di rete sociale complementare alla funzione del tecnico, dello specialista, del professionista. Ma anche costui, costei, deve aderire a un processo di cambiamento perché anche lo specialista, o la specialista, deve capire che il proprio specialismo non ha un perimetro chiuso ma ha una frontiera aperta, uno scambio, si arricchisce perché non è totalmente ricco, non è un assoluto, non ha una competenza tale da potersi ritenere ormai compiuta; è sempre incompiuta ed ha bisogno di uno scambio con coloro che sono attivi in un’esperienza diretta. Ed è indispensabile, quindi, fare in modo che l’esperienza avuta in un determinato contesto non sia esaurita e buttata ma sia riformulata e utile per essere perfezionata, completata, in un nuovo contesto. Questa linea di continuità è la dinamica delle buone prassi. Certamente le buone prassi hanno bisogno di rivedere leggi, regolamenti, strutture organizzative, ma hanno anche grande bisogno di costruire questa linea di continuità. E la fase che abbiamo vissuto di deistituzionalizzazione dovrebbe essere la premessa per questo. Nella prima fase della deistituzionalizzazione è stato proprio il momento più interessante quello che ha visto i tecnici e le altre professioni, i ruoli sociali più disparati, alleati insieme per costruire una realtà diversa. Il termine deistituzionalizzazione contiene un equivoco che tuttora permane: non si tratta tanto di cancellare le istituzioni quanto di trasformarle. Di istituzioni abbiamo bisogno: la riorganizzazione delle istituzioni, non la cancellazione, questo è il dovere. Spariti, se sono spariti davvero, i grandi contenitori che mascheravano le differenze all’interno delle categorie e costruite delle piccole realtà - si pensi per quello che riguarda una regione come l’Emilia Romagna le realtà dei piccoli centri per handicappati adulti – va verificato se questa revisione dell’organizzazione istituzionale ha davvero comportato, è stata davvero accompagnata dalla linea di continuità degli specialisti, competenti, aperti e raggiunti dalle competenze grezze. Questo probabilmente è stato fatto, ma non forse con una piena coscienza e non ancora costruendo il – chiamiamolo così – modello culturale delle buone prassi. Questo è da costruire. La possibilità, quindi, di raggiungere un abbattimento delle barriere organizzative è legato ad un riconoscimento di una realtà ampia e non amputata, e questo significa potere individuare in una condivisione di base dei bisogni l’elemento di appartenenza: apparteniamo a un gruppo umano che ha bisogni simili, e questo nel “noi” vi è tanto la persona disabile che la persona atleticamente prestante, tanto la persona performante - come oggi viene detto – quanto la persona che ha una età avanzata, delle difficoltà a realizzare tutti i compiti in autonomia, e ha bisogno degli altri. La persona molto capace di far da sé e la persona molto bisognosa dell’aiuto degli altri hanno dei bisogni comuni. E’ la larga base di una piramide che ha più punti, probabilmente, perché la base comune, poi, permette di alzare le punte verso dei bisogni più individualizzati, ma in comune vi è una base. E allora vediamola: BISOGNI CULTURALI BISOGNO DI REALIZZARE SE STESSI Sviluppo del proprio potenziale- Bisogno di realizzare la propria vita Crescita personale BISOGNO DI STIMA DAGLI ALTRI Riconoscenza, dignità Bisogno di essere riconosciuto/a BISOGNO DI AUTOSTIMA Sentimento di essere utile, di sentirsi Autonomo/autonoma BISOGNO DI APPARTENENZA Essere con chi si cura - con amici Bisogni secondari Amore - Affezione - Accettazione - Relazioni calorose significative BISOGNO DI SICUREZZA Protezione dal pericolo fisico e dalle minacce psicologica - liberazione dal dolore BISOGNI FISIOLOGICI Bisogni primari Respirazione - Temperatura corporea Alimentazione - Digestione ed evacuazione - Sonno e riposo - Attività Stimolazioni - Sessualità Piramide dei bisogni di A. Maslow Bisogno di amare e di essere amati 2. I ritmi di base Prendiamo come riferimento la cosiddetta Piramide dei Bisogni di A. Ma slow. Alla base di questa costruzione che Ma slow non intese in un senso geometrico e neanche stratificato, ma che rappresentò secondo uno schema che ha tutte le caratteristiche dello schema: va scomposto, riorganizzato, per capire che la realtà non è uno schema, ma alla base vi sono quelli che vengono chiamati i bisogni fisiologici; e sotto questo termine leggiamo la respirazione, la temperatura corporea, l’alimentazione, la digestione e l’evacuazione, il sonno e il riposo, le attività corporee, le stimolazioni, la sessualità. La respirazione è fatta di un ritmo, è fatta di un’alternanza di pieni e di vuoti dei nostri polmoni, e un neonato, bambina o bambino, respira e ha quindi un ritmo, un’alternanza di pieni e di vuoti. E poi si alimenta, e quando deve succhiare il latte deve combinare la respirazione e l’alimentazione. In questa combinazione deve imparare a fare qualcosa che noi chiamiamo controllo: deve controllare la propria respirazione in rapporto al suo bisogno di alimentazione, al suo appetito. L’alimentazione è determinata da un vuoto e, attraverso l’alimentazione, il vuoto sparisce, si colma un bisogno, rimane, però, il gusto dell’alimentazione che potrebbe andare oltre il bisogno e creare una situazione di saturazione. Occorre che quel bambino, quella bambina, abbia una capacità di essere controllato da un adulto, la figura materna, e poi pian piano assuma il controllo dell’operazione dell’alimentazione e non mangi troppo, altrimenti fa una piccola indigestione. Ma anche nella digestione e nell’evacuazione entra la parola controllo, perché l’evacuazione segue un percorso che va dalla possibilità di non avere un controllo della evacuazione alla costruzione di ritmi e di controllo dei ritmi; e viene il giorno in cui quel bambino, quella bambina, non ha più bisogno del pannolino, nella nostra organizzazione di civiltà. Anche il sonno e il riposo hanno un ritmo e hanno un controllo: il controllo è svolto da una figura adulta, il sonno ha bisogno forse di una protezione e gli adulti possono controllare che questa protezione vi sia. Si tratta, per esempio, di creare una penombra, di avere cautela nel non fare dei rumori; quando il sonno ha raggiunto una quantità giusta la figura materna provvede a considerare che il riposo è avvenuto e quindi è ora di svegliare un bambino: si aprono le finestre, si dicono delle parole con la voce più alta, si riprende un contatto con quel bambino, con quella bambina, che piano piano comincia ad assumere il controllo del proprio sonno, del proprio riposo. Diventa, così, una persona più grande che utilizza una sveglia per potere alzarsi all’ora giusta, ecc. Tutti i bisogni fisiologici della base larga hanno un rapporto con questa parola molto importante che è controllo. Anche il secondo strato dello schema di Ma slow, il bisogno di sicurezza, che contiene la protezione dal pericolo fisico, dalle minacce psicologiche e la liberazione dal dolore, ha un rapporto con la parola controllo. Noi abbiamo bisogno di controllare i rischi per evitare di metterci in pericoli fisici eccessivi. Dobbiamo, per esempio, ragionare in rapporto a quel bisogno fisiologico che è la temperatura corporea anche in rapporto al pericolo di scottare la nostra pelle entrando in contatto con delle fonti di calore ustionante; la temperatura corporea aveva, in un bambino, in una bambina piccola il controllo dovuto al fatto che un abito pesante è in rapporto a una temperatura rigida, un abito leggero a una temperatura esterna più calda. Il rapporto, quindi, tra la temperatura dell’ambiente e i bisogni della temperatura corporea, è tenuto in conto per mantenere una buona, utile, vitale, temperatura corporea. E’ un elemento talmente vissuto da non avere, ovviamente, una riflessione da parte di quel bambino, di quella bambina, mentre, probabilmente, la protezione dal pericolo fisico di una scottatura ha già una rappresentazione in parole. Le parole possono accompagnare anche la temperatura corporea, perché vi può essere un adulto – una mamma – che dice a un bambino: “Ti tolgo la coperta perché non è più la stagione perché tu dorma sotto una coperta.” … “Ti tolgo il golf”… ecc. E’ un’operazione di parola che accompagna dei gesti: più forti sono le parole che ammoniscono: “Non ti avvicinare, non toccare quella pentola perché ti scotti!”. E’ già una rappresentazione in cui le parole significano una possibilità di controllo. Come sono importanti le parole per il controllo delle nostre azioni! Come sono importanti le parole per pensare e prevedere se le azioni che vorremmo fare avranno una possibilità di raggiungere la finalizzazione che vogliamo! Come sono importanti i tempi che potremmo avere, come potremmo non avere, per pensare le parole, per scambiare le parole, per le parole! Come è importante usare bene le parole, e non dissipare un patrimonio di parole facendole diventare delle chiacchiere! Tutto questo ha un rapporto con il controllo. La base larga delle buone prassi è legata alle parole con cui pensiamo un progetto. Ma per questo abbiamo bisogno di qualcosa di molto importante: è il bisogno di appartenenza. L’organizzazione dell’appartenenza è legata anche alla nostra visione del mondo e non è un elemento stabile, duraturo, costante. Noi potremmo sentirci di essere parte di tutta l’umanità in certi momenti della nostra storia, della nostra cultura, di fronte a certi avvenimenti e in altri giorni, in altri tempi, di fronte ad altri avvenimenti, sentire un’appartenenza a un circoscritto numero di persone. Certamente, quindi, il termine appartenenza si declina in molti modi: in un piccolo paese la morte di una persona anziana svela un’appartenenza per gli abitanti di quel paese: chi non conosceva quella persona, chi non conosceva quel paese, chi non ha passato del tempo in quel paese vive quella morte con un senso di rispetto, ma di rispetto estraneo, si sente un po’ fuori da questa situazione. E così molte delle situazioni che si vivono, in cui il contesto scenico è pregnante di un’appartenenza sedimentata giorno dopo giorno, che si è costruita attraverso le abitudini. In una delle commedie di Goldoni più delicata, più struggente anche per la capacità di rappresentare con gioia malinconica le quotidianità, il personaggio che in qualche modo è Carlo Goldoni stesso conclude la commedia ritenendo che la festa attivata dalla fine delle baruffe, dalla riconciliazione, non possa vederlo tra i protagonisti, non si sente di appartenere al popolo che fa festa. Perché? Perché è di un’altra categoria sociale, perché esercita una professione intellettuale che lo mette in un angolo rispetto a una scena di gioia popolare; le appartenenze, e non l’appartenenza. Ma la base larga della Piramide di Ma slow può permettere di far sentire tutti gli umani con un’appartenenza. E’ un elemento che non può rimanere, però, nella base; è qui che lo schema non tiene. Deve salire e deve fare una visita alla punta della piramide, a quei bisogni culturali che sono di ciascuno di noi e sono diversi per ciascuno di noi; hanno come dotazione l’individualità. I bisogni fisiologici sono anche individuali e nello stesso tempo comuni. C’è bisogno di culturalizzare, termine che non è elegantissimo, i bisogni fisiologici, per capire che contengono la nostra appartenenza, o meglio per partire, per capire che ciascuno è parte di un’appartenenza molto ampia, quasi senza confini; ma bisogna fare un passaggio attraverso i bisogni culturali. E quel personaggio che ricordavamo delle “Baruffe Chiozzotte” che si tiene in disparte mentre il popolo fa festa non sente il diritto di appartenenza anche perché è arrivato dopo e non si fermerà. E questo ci spiega qualche cosa a proposito del rapporto tra appartenenza e controllo. 3. Controllo, scelta, finalizzazione Abbiamo incontrato un bambino la cui vicenda si divide su due paesi: una prima parte della sua vita è stata vissuta in un paese, ha vissuto in un istituto perché la sua famiglia di origine non era in grado, per ragioni che non conosciamo, di crescerlo e di assicurarne l’educazione; ha quindi perso i contatti con i suoi genitori di origine, è stato posto in stato di adattabilità ed è stato adottato con successo, si è molto bene integrato con quelli che bisogna considerare i suoi genitori veri e tutto è proceduto bene sul piano dei legami affettivi più importanti, più radicali. Non ha avuto un buon successo scolastico, anzi la scuola ha rappresentato un punto di difficoltà: apparentemente e inizialmente i rapporti con i coetanei sono stati buoni ma con dei piccoli episodi che ne rompevano la qualità, episodi di aggressività. Improvvisamente quel bambino era aggressivo senza una ragione comprensibile e tirava i capelli o dava dei colpi nella pancia di altri bambini, dava dei calci ai suoi coetanei, bambini e bambine – per l’età dovremmo dire ragazzini e ragazzine, perché l’età era attorno ai nove anni. Gli apprendimenti non erano brillanti, ma non per una incapacità manifesta di usare l’intelletto, quanto proprio in rapporto a quei momenti di aggressività che prendevano il sopravvento anche come immagine di quel bambino. Come comportarsi, come cercare di capire quel bambino? La prima operazione che fu tentata era di trovare delle relazioni causali ai suoi comportamenti aggressivi, e vi furono due modi di ragionare, uno che cercava di trovare le cause nelle relazioni: quel bambino aveva usato un’azione di violenza nei confronti di una coetanea, di un’altra bambina e gli adulti cercavano di capire se vi fosse stato, volontariamente o involontariamente, qualcosa che avesse motivato quel tipo di atteggiamento da parte del bambino. Quella bambina aveva forse fatto uno sgarbo inavvertitamente o volutamente nei giorni precedenti: la ricerca della causa legata a qualcosa interno alla relazione con colui, o colei, che era aggredita. L’altro modo di cercare le ragioni era quello di ipotizzare qualcosa che fosse avvenuto nell’altro paese, nell’altra parte della vita di quel bambino. E le ipotesi non potevano andare oltre al fatto di essere ipotesi, non vi erano possibilità di accertamenti, ma allora si poteva genericamente ipotizzare che nell’altra parte della vita di quel bambino vi fossero state delle violenze, violenze di vario tipo: abbandono, prepotenze da parte di altri bambini. Questo poteva essere anche letto nei comportamenti di quel bambino, ma solo come ipotesi. Cercando di mettere il tempo su questa analisi si trascurava qualcosa che accadeva anche nella vita di quel bambino, e quindi trascurandolo fu scoperto in ritardo, o perlomeno fu valorizzato con ritardo, e cioè solo dopo un certo periodo che si pose l’attenzione sul fatto che quel bambino partecipava a un laboratorio di falegnameria, che non è una delle attività centrali di una scuola, è collaterale, e quindi non veniva all’attenzione immediatamente; non era né svilita né esaltata, era semplicemente un fatto che - si dice – del pomeriggio, mentre la scuola che conta è più quella della mattina. Nelle attività del laboratorio di falegnameria quel bambino mostrava una grande capacità di autocontrollo: avrebbe avuto strumenti per realizzare delle violenze ancora maggiori, e più pericolose, e questo non era assolutamente mai accaduto, anzi, vi era una capacità di lavorare con precisione, con calma, con l’energia giusta, e controllare, quindi, le proprie forse e anche di compiere dei lavori che esigevano una destrezza, un equilibrio, non presente nei suoi coetanei. Non andava, quindi, d’accordo con l’immagine del bambino che emergeva dalle tante preoccupazioni del corso della giornata nelle altre attività. Una certa abitudine fa pensare che chi ha delle difficoltà intellettive ha maggiori possibilità quando si tratta di azioni concrete, ed è in difficoltà con l’astratto, ma non è convincente questa spiegazione; abbiamo piuttosto ragionato in termini di controllo; abbiamo, cioè, formulato un’ipotesi - e come tale la manteniamo, non è una realtà, è un’ipotesi – che ha permesso di avanzare con un’azione educativa. L’ipotesi è la seguente: quel bambino aveva la possibilità di entrare in relazione con un ambiente – il laboratorio di falegnameria – in cui tutto cominciava con il suo ingresso; le regole, le indicazioni, i materiali da utilizzare, gli attrezzi da utilizzare, i comportamenti, tutto aveva inizio con l’ingresso suo insieme agli altri, non entrava in una storia già iniziata ma la storia cominciava con lui; non così per altre situazioni che avevano molto più collegamento con le trasmissioni informali che ciascun bambino, che ciascuna bambina ha accumulato per sedimentazione da quando è nato. Giorno dopo giorno sono entrate negli occhi, nelle orecchie, nella pelle di quel bambino, di quella bambina, una quantità innumerevole di informazioni informali che hanno costituito una sorta di telaio su cui poteva innescarsi la trasmissione di informazioni formali. Quel bambino, forse, riteneva – lo diciamo con queste parole, non era certamente un suo pensiero con queste parole, ma è nella nostra ipotesi – di non avere il controllo delle informazioni per potere scegliere, selezionare, individuare, quelle utili per finalizzare le proprie azioni. Questa operazione era per lui ritenuta impossibile. Nello stesso tempo aveva bisogno di essere controllato, forse. Il rapporto tra controllare e essere controllato è un rapporto che ricorda le coppie di muscoli per cui uno tende e l’altro flette. E così: “Io sono controllato e poi aumenta la mia capacità di controllare quindi mi libero dalla necessità di essere controllato da altri. Io so controllare quindi non ho bisogno che altri controllino per me”. Quel bambino avrebbe potuto dire: “Io non so controllare quindi chiedo che altri controllino” e quindi l’aggressività poteva diventare un elemento che rompesse la falsa supposizione: “Tu sei in grado di vivere come gli altri”. “No, non è vero, io ho bisogno di qualcosa di più. Ho bisogno di capire di più, di controllare meglio quello che sta accadendo intorno a me che non capisco, che mi confonde”. Questa è l’ipotesi. Ha permesso, però, di lavorare su qualcosa, per esempio di contrassegnare meglio i tempi di lavoro attraverso delle piccole ritualizzazioni che scandivano meglio la giornata, e quindi fornivano degli elementi di controllo del tempo. La possibilità di controllare il tempo è di grande importanza, e abbiamo già avuto occasione di marcarla come una delle indicazioni più forti dell’azione educativa. Possibilità, anche, di controllare le informazioni per finalizzare quelle giuste, alla realizzazione di quello che è il proprio compito; capacità, quindi, di riprendere una indicazione nel modo giusto, e non lasciarsi confondere dalla molteplicità di sollecitazioni che sembrano, a chi le formula, andare tutte nello stesso senso ma che forse creano non poca confusione nella testa di chi non ha, o crede di non avere, il filtro che le metta in ordine, che le discrimini, perché per agire correttamente bisogna sapere discriminare, tra le tante informazioni che ci raggiungono, quelle utili alla nostra azione. E nella nostra ipotesi quel bambino sembrava non essere capace di discriminare le informazioni utili per il raggiungimento dei compiti a cui era tenuto e che voleva poter fare. Nel laboratorio di falegnameria il campo è molto ben delineato, le indicazioni sono funzionali e possono essere quindi organizzate discriminando quelle giuste per raggiungere un certo risultato e lasciando cadere - mettere da parte naturalmente, perché potrebbero poi essere utilizzate in altri momenti – quelle che in quel momento non servono. L’ipotesi del controllo si collega, quindi, a una capacità di inibire costruttivamente alcune nostre azioni, rinviarne l’esecuzione perché non sono in quel momento quelle giuste. La capacità inibitoria è legata a dei processi di attenzione. Nel 1973 un filmato canadese del Quebec spiegava la Trisomia 21. Il filmato aveva un titolo: “La leçon des Mongoliens” e mostrava, in un certo momento, il modo con cui venivano imboccati – si dava da mangiare – due bambini: un bambino normale e un bambino trisomico. L’organizzazione del film metteva in rilievo una differenza che allora poteva sembrare senza conseguenze ma che oggi, a distanza di un certo numero di anni, ci fa riflettere: il bambino normale era tenuto in braccio da una persona, un figura materna, vestita in abiti borghesi normali; il bambino trisomico era tenuto in braccio da una figura materna, però poteva non essere la madre, ed era una professionista perché stava con un camice bianco, tipo un’infermiera, una differenza di immagine che partiva da una netta delimitazione dei bisogni speciali messi in braccio – in questo caso è proprio vero – al personale particolare, mentre i bisogni normali sono messi in braccio alle persone che fanno parte del contesto naturale di un bambino, di una bambina. Ma quello che interessa rilevare è il dato, che viene consegnato allo spettatore come tale. Il bambino normale ama molto la purea di patate, non ama un puré che potrebbe essere di spinaci. I colori differenziano i due puré, e gli occhi possono rendersi conto di quello che arriverà alla bocca: il cucchiaio con il puré di patate trova la bocca ben spalancata perché gli occhi hanno dato un segnale, hanno avvisato la bocca: “è quello buono”, mentre gli occhi segnalano il pericolo del nemico, il puré verde di spinaci; la bocca non si apre, rimane ben chiusa, convinta di difendersi, visto che è stata avvisata dagli occhi. Dentro la bocca c’è il sapore, il sapore aveva segnalato agli occhi: “Attenzione! Quando arriva questo che è il sapore buono ed è legato al bianco, tu dimmelo che faccio aprire la bocca.” Il sapore aveva segnalato il messaggio contrapposto agli occhi: “Attenzione! Quando arriva il verde dillo alla bocca che si tiene chiusa.” Il bambino trisomico ha sentito il sapore buono, ha sentito il sapore cattivo, e sembra che il sapore non abbia avvisato gli occhi e gli occhi non abbiano avvisato la bocca, per cui i circuiti sensoriali - è questa la spiegazione del film – non sono integrati tra loro, e quindi il controllo degli occhi, la vedetta, non si fa; arriva il nemico, non è controllato, la bocca è sempre spalancata ed è invasa tanto dal buono che dal cattivo. La conseguenza è che quando è invasa dal cattivo vi è una smorfia e un piccolo pianto, perché il bambino trisomico ha lo stesso gusto del bambino non trisomico, ama il purè delle patate e non ama il puré degli spinaci. Il dato non è convincente se rimane inerme, e il compito di chi è educatore di quel bambino trisomico è quello di permettere un’integrazione di quei circuiti sensoriali che sembrano incapaci di entrare in contatto e di collaborare tra loro; e quindi possiamo immaginare una revisione della scena che abbiamo descritto e, cambiando anche l’abito e mettendo un abito borghese alla persona che tiene in braccio il bambino trisomico, la immaginiamo capace di fermare il cucchiaio col purè, sia esso di patate o di spinaci non importa, farlo osservare per un istante dagli occhi del bambino, quindi richiamare gli occhi alla loro funzione, forse anche dire quella parola che permette di far sentire un suono che piano piano coinciderà con un senso, per cui dire: “Buono il puré!” o dire: “Ti piace questo puré?”, e gli occhi devono vederlo, si ferma il cucchiaio e poi prosegue la sua corsa verso una bocca che può essere avvisata. Il gusto si collega e piano piano, ma forse neanche tanto piano, incomincia ad esserci una collaborazione tra occhi, gusto e bocca, e quel bambino trisomico supera l’incapacità di controllo con l’aiuto di un gesto più competente e più attento alla sua realtà. Sviluppa, quindi un’autonomia che è capace di accogliere le informazioni giuste, metterle insieme finalizzandole al suo gusto. Il termine controllo in questo caso significa capacità di inibire costruttivamente l’apertura della bocca quando si ritiene che arrivi un cibo che non è gradito: inibizione costruttiva. 4. Inibizione costruttiva E’ stato rivisitato uno degli esperimenti più noti di Piaget, quello che si riferisce alle quantità: i bambini vengono posti di fronte a due mucchietti di bastoncini, chiedendo loro qual’è il mucchietto che ha più bastoncini, indicano senza esitazioni il mucchietto composto dai bastoncini che sono più lunghi, che hanno come numero un numero minore rispetto agli altri che sono più piccoli di lunghezza; sono maggiori i più piccoli, sono minori i più lunghi ma la risposta dei bambini è riferita al mucchietto dei bastoncini più lunghi. Questo portò Piaget a fare l’ipotesi che a quell’età i bambini non abbiano la percezione del numero. La rivisitazione modifica questa ipotesi perché fa riferimento al fatto che a quell’età i bambini non abbiano la capacità di trattenere quella che è l’istintiva prima risposta e quindi si affidino a un’immediatezza che si appoggia su quello che colpisce di più. Colpisce di più la massa - i bastoncini più lunghi compongono una macchia maggiore - e quindi diventa quella la prima risposta non controllata con una capacità di inibirla per riprendere la domanda e controllare se il rapporto tra domanda e prima risposta è quello giusto, è quello che mi viene richiesto. Manca quindi quella che abbiamo chiamato una inibizione costruttiva. La rivisitazione dell’esperienza piagetiana porta a mettere in luce quanto sia importante la possibilità di avere un interlocutore che riprende il senso della domanda; questo interlocutore può essere esterno oppure il soggetto stesso può essere interlocutore di sé stesso, quindi diventa interessante capire se nella crescita, o anche una volta cresciuto un soggetto che abbia cambiato alcune delle sue condizioni – per esempio per un evento traumatico – conquisti questa capacità di riprendere la prima risposta e verificarne l’esattezza in rapporto alla domanda. Questo significa avere una capacità di un controllo più esteso nel tempo di elaborazione, che non sta quindi nell’istante; e questo significa anche avere una capacità di trattenere per sé le conclusioni senza consegnarle immediatamente al committente: non avere fretta, si direbbe con termini molto semplici. Ma non è solo la fretta, è anche l’ansia, è anche la capacità di auto-organizzare un proprio percorso che tenga conto di un tempo di verifica. Le parole sembrano complicare qualche cosa che invece avviene molte volte in noi con un processo che non sappiamo descrivere. Quando abbiamo bisogno, invece, di descriverlo, di farne emergere le componenti? Quando vi sono degli elementi che ne distruggano l’immediatezza, che ne rendano più complicata l’immediatezza: dicevamo, proprio, un evento traumatico, oppure una difficoltà connaturata a un individuo che ha bisogno di non sviluppare per conto proprio le capacità che definiamo di inibizione costruttiva ma ha bisogno dell’aiuto dell’altro, quindi torniamo all’immagine del bambino trisomico che mangia il puré che non gli piace deve essere messo nella possibilità di un controllo visivo che comunichi internamente a quel bambino che è quello cattivo. Ci vuole un’azione che permetta di mettere in ordine alcune sequenze abitualmente sviluppate in una sorta di scatola nera che non si apre che contiene i processi senza che vengano individuate le componenti dei processi. Bisogna invece individuare le componenti dei processi quando questo non avviene con quella spontaneità, istintività, che in molti casi è realizzata. Allora si può capire come questo abbia una difficoltà maggiore perché contiene qualcosa che potremmo definire di innaturale. L’altro, che è nella funzione educativa o riabilitativa rieducativi, deve avere una grande capacità di non prendere una posizione dominante stabile, non essere quello che tiene sempre in mano le chiavi del comando ma deve in qualche modo prevedere una trasmissione delle chiavi del comando al soggetto stesso. Vi è la necessità, quindi, che non si metta come elemento indispensabile la conquista di una totale organizzazione autonoma ma anche la possibilità che l’organizzazione autonoma significhi: io, soggetto da riabilitare, soggetto che ha bisogno dell’aiuto degli altri, indico agli altri le operazioni da fare, non gli altri le fanno senza le mie indicazioni ma aspettano le mie richieste. Questa può essere una situazione che ha bisogno di molti esempi per non cadere in una sorta di indicazione generale che non sembra adattarsi mai alle singole situazioni che sono molto differenziate. Per esempio, un bambino cerebroleso crescendo bisogna che incontri persone adulte capaci ma non competenti con lui, a cui lui deve chiedere cosa devono fare, ed è necessario, quindi, che chi ha in mente un percorso già organizzato in termini di efficienza accetti che vi sia una fase transitoria in cui le cose verranno disordinatamente, poco perfette, perché quel bambino, o ragazzino, crescendo deve imparare a fare degli errori costruttivi, darà quindi delle indicazioni non esatte a chi deve accudirlo, a chi deve fare in modo che lui riesca a fare certe cose se è disposto in un ambiente, se è disposto in una certa postura, ecc. ecc. Darà delle indicazioni lui, queste indicazioni si riveleranno non del tutto esatte; chi assistesse e conosce l’esattezza dei compiti deve trattenersi, deve evitare di intervenire a correggere subito, perché tranne nel caso di errori catastrofici è bene che quel bambino si accorga di come le esecuzioni dovute a sua inesattezza gli provochino qualche difficoltà che deve aggiustare lui, non che deve essere aggiustata dagli altri, altrimenti ricade nella situazione di dipendenza. Questo trasferimento delle chiavi, simbolico:- prima le chiavi le ha un adulto, una mamma, una riabilitatrice, un riabilitatore, un educatore, e poi le hai tu soggetto, ragazzo, ragazza, adulto; questo accade anche nel traumatizzato adulto, la possibilità che arrivi il momento in cui bisogna che sia lui o lei ad avere la regia della situazione vuol dire anche attraversare un periodo in cui la regia compie degli errori ma li correggerà. Bisogna essere attenti a che non ci siano errori talmente catastrofici da provocare dei disastri ma gli altri errori bisogna tollerarli: tolleranza dell’errore nel percorso educativo o riabilitativo. Questo è molto importante e riconduce a un’immagine che abbiamo spesso utilizzato anche per capire cosa funziona e come funziona nel maternage, che è la ‘scuola guida’; anche l’istruttore di scuola guida deve consentire una autonomia, sorvegliata certamente, per evitare che una manovra sbagliata provochi una catastrofe, ma le altre manovre, pur sbagliate senza esiti catastrofici, devono essere eseguite accorgendosi dell’errore e correggendolo. E’ solo così che si acquista non l’autonomia intesa come saper fare anche quello che non saprò mai fare: se le gambe non mi funzionano non avrò modo di farle funzionare in futuro ma avrò modo di fare un conto autonomo delle necessità di cui ho bisogno e quindi di indicare agli altri che cosa devono fare perché le mie esigenze vengano assolte. In questo caso la discriminazione costruttiva è tanto più importante perché devo costruire un rapporto tra il contesto in cui sono, gli elementi che mi circondano, e che non so usare direttamente, e gli intermediari che devo fare agire. 5. Gli oggetti-calamita Gli studiosi di matematica, e in particolare di didattica delle matematica, hanno sovente descritto delle procedure di pensiero sbagliate che vengono deviate dalla logica, dalla richiesta che viene fatta ponendo un problema, da qualche elemento disturbatore. Ad esempio, in uno studio ripreso da una studiosa il cui nome è Emmanuelle Yanni, viene descritto un problema in cui vi sono un certo numero di ceste che devono essere vendute ma una cesta non è in vendita e il problema pone la necessità di stabilire a che prezzo devono essere vendute le ceste per avere un certo ricavo. Ora, la questione della cesta non in vendita attira talmente l’attenzione di molti di coloro che affrontano questo problema da depistare, mandare fuori strada la ricerca della soluzione. Diventa un elemento, se si può dire, disturbatore, ma è anche un oggetto-calamita. Riteniamo che molte volte vi siano nelle nostre organizzazioni mentali parole che vengono ad essere dei veri e propri oggetti-calamita; noi portiamo un’attenzione molto forte nei confronti di determinati elementi che possono essere oggetti materiali, parole, altre persone, che in qualche modo sembrano dover organizzare tutto il percorso di ragionamento e, in realtà, diventano elementi disturbatori del ragionamento. Questa operazione, quindi, potrebbe però avere l’altro riscontro, positivo, e cioè che noi abbiamo degli oggetti attorno a cui organizziamo correttamente il pensiero. E’ evidente che abbiamo la possibilità di delineare dei percorsi di pensiero con risultati positivi attorno a un oggetto e delineare organizzazioni che vanno fuori dal seminato attorno allo stesso oggetto. Come risolvere, quindi, questo problema di avere degli oggetti-calamita che permettano di non essere oggetti distruttori o depistatori della ricerca delle soluzioni – parliamo sempre in termini di problemi anche quando non sono poste le nostre situazioni con la definizione “problema” ma affrontiamo qualcosa di cui dobbiamo trovare una soluzione. Anche il semplice atto di servirsi da un piatto di portata della parte di minestra che deve essere poi mangiata, e quindi mettere nel piatto, potrebbe diventare un problema e potrebbe essere combinato da azioni mentali come il prevedere quanta io ho bisogno di mangiare, quindi quanta parte di quella minestra deve essere nel mio piatto, da azioni fisiche: devo fare dei gesti, devo impugnare le posate, e devo fare in modo che questi gesti siano corretti in modo tale da non macchiare la tovaglia. Questa serie di operazioni potrebbero essere disturbate dal fatto che c’è una particolare minestra, o un particolare condimento della minestra – ragù, sugo, ecc. – che attira talmente la mia attenzione da esagerare nel mettere minestra nel mio piatto, e dal portare anche a un gesto non corretto perché troppo entusiasta, troppo agitato, per cui macchio anche la tovaglia. Un’operazione che non sa fermare perché è troppo tirata è quindi un’operazione che si svolge attorno a quello che abbiamo chiamato oggetto-calamita che invece di organizzare disturba l’organizzazione; allora devo avere un autocontrollo: ragionare un po’ di più, soffermarmi sul vero obiettivo che è quello di mangiare ma probabilmente anche quello di condividere, se sono a tavola con altri, il cibo che viene offerto in modo tale che ciascuno ne abbia un po’. L’oggetto-calamita pone molti problemi di percezione, nel senso che quando noi abbiamo un marciapiede o un portico che è anche il marciapiede pedonale e nel bel mezzo di questo marciapiede c’è una motocicletta posteggiata, lasciata lì per un giorno, una notte, ecc. ecc., abbiamo una possibilità di pensare - in questi termini è quasi ridicolo pensarlo – che il proprietario o la proprietaria di quella motocicletta abbia avuto una percezione che è stata dominata da un oggettocalamita in maniera tale da disordinare i suoi comportamenti in rapporto al contesto, perché non ha pensato che quello è un transito pedonale ed ha pensato unicamente alla propria motocicletta e alla propria – se si può dir così – comodità di metterla in quel punto. Quindi oggetti-calamita, a dire il vero, ne troviamo ad ogni istante, tanto è vero che potrebbe anche essere questo un punto su cui esercitare una certa critica circa questa definizione di oggettocalamita perché diventa talmente onnipresente nelle nostre giornate da costituire quasi una banalità. Però noi li incontriamo davvero per cui dobbiamo realmente pensare a come utilizzare gli oggetticalamita in senso positivo e non in senso negativo. Ed è un elemento dell’apprendimento, questo, è la possibilità che vi sia una decontrazione, una possibilità di spostarsi senza muoversi fisicamente per capire che cosa accade se… E’ il procedimento ipotetico o esplorazione ipotetica: noi abbiamo bisogno di capire che cosa accade se evitiamo di fare un gesto e ne facciamo un altro, cosa succede se invece facciamo quel gesto le conseguenze quali sono per noi, per gli altri, per gli attori di una certa scena. Questa operazione è più difficile se una persona vive in quella condizione che chiamiamo assistenziale, cioè vive di assistenzialismo. Che cosa significa in termini molto succinti questa parola assistenzialismo nel contesto in cui la troviamo, nel nostro contesto di riflessione? Significa che altri pensano al mio posto, altri pensano che io ho sete e mi procurano da bere, altri pensano che ho fame e mi danno da mangiare, altri pensano che io debba essere alzato da dove sono sdraiato e mi mettono a sedere in una poltroncina, ecc. ecc. Altri pensano che io debba imparare questo e non quell’altro, che io debba procedere secondo determinate tappe, senza sbalzi, tutto è nelle mani degli altri. Abbiamo già utilizzato l’espressione “passare le chiavi” in mano al soggetto che deve agire, soggetto che deve avere le chiavi della casa, del motore, dell’automobile, per potere procedere. Questa operazione è un apprendimento; questa operazione di decentramento per vedere le conseguenze del gesto è un apprendimento e ha bisogno di un esercizio. Come tutti gli apprendimenti gli esercizi più interessanti sono quelli che fanno la spola - fanno la navette - tra le quotidianità più banali che vengono fatte senza neanche troppo pensarci e le operazioni applicate a degli scenari inediti, inusuali. Scenari inediti, inusuali che hanno a che fare con la logica dell’oggetto-calamita sono i romanzi gialli o i film gialli, i film o i racconti in cui vi è un enigma da risolvere. Nella maggior parte degli enigmi da risolvere vi è una sorta di oggetto-calamita che attira l’attenzione del lettore o dello spettatore in termini tali da nascondere il vero colpevole, per cui vi è una concentrazione di indizi che porta a un certo personaggio del racconto, dell’azione e a sorpresa – e questo è il buon giallo – costituire una sorpresa credibile e non semplicemente l’amore per il colpo di scena; non è il personaggio che raccoglie tutti gli indizi il vero colpevole ma è un altro che spunta fuori in genere nelle ultime scene del racconto, sia visivo che uditivo, che narrativo scritto. Ora, questo è uno degli esercizi che potremmo immaginare di fare appassionando e appassionandoci, in modo tale da capire quale può essere il percorso organizzato attorno a un oggetto-calamita, positivamente o negativamente. Certo, esige un interlocutore che abbia una capacità di leggere visivamente, auditivamente, un’azione complessa, ma vi sono anche delle operazioni molto più semplici che possono essere rappresentate da quello che viene chiamato ‘Il gioco del kim’ nelle attività che fanno parte dell’educazione attiva, in particolare di un certo settore dell’educazione attiva che è lo scoutismo, il gioco del kim è utilizzato riprendendolo da una azione narrativa che è dello scrittore Keepling e l’esercizio di memoria per ricordare gli oggetti che sono su un tavolo, avendo potuto vederli solo per un istante, o ricordare i colori che sono contenuti in un certo quadro avendolo visto solo in un istante, ci può fare capire quanto l’oggetto-calamita può attirare l’attenzione occultando o organizzando: o eclissa gli altri oggetti – oggetto vuol dire anche parole – oppure organizza la memoria degli altri oggetti attorno a lui stesso, a quell’oggetto. Se per esempio noi ricordiamo i numeri di telefono a volte li ricordiamo perché abbiamo determinato un oggetto organizzatore di quella sequenza attorno a un elemento che potremmo ancora una volta chiamare oggetto-calamita, ci organizza. Però è anche vero che a volte non ricordiamo con precisione un numero di telefono perché un certo numero, una certa sequenza, è disturbante e falsa il ricordo, e quindi c’è anche proprio la prova che va nella direzione opposta. Tutta questa riflessione sugli oggetti-calamita ha una certa importanza quando si tratta di guidare un apprendimento che ha avuto delle difficoltà per diverse ragioni. Le ragioni possono essere una situazione traumatica accaduta, un cambio di contesto che ha provocato in maniera forse meno visibile una piccola situazione traumatica, un’insufficienza mentale che accompagna la vita di un soggetto o altre situazioni in cui la difficoltà a utilizzare gli intermediari materiali o mentali per ragioni che possono essere anche legate a difficoltà di movimento, a impedimenti nel movimento. E’ per questo che abbiamo bisogno di capire che cosa significano e che importanza possono avere i campi percettivi. 6. I campi percettivi Il nume tutelare di questo paragrafo è Wygotskyj. La sua intuizione molto importante e spesso troppo poco approfondita è quella dello spazio potenziale di sviluppo, una zona che si colloca secondo delle possibilità originali di ciascun soggetto. Collegato a questo elemento vi è il lavoro di chi educa. Intanto chi educa è anche il soggetto che si educa e che, a volte in maniera che chiamiamo ‘naturale’ prova a comportarsi con gli oggetti che lo circondano, anche con le parole, secondo quelle che sono le proprie abilità, riconosce le proprie abilità rispetto a certi oggetti e capisce, intuisce, vive, alcune difficoltà o disabilità rispetto ad altri oggetti. E questo è un elemento che caratterizza anche i primi mesi di vita di un bambino o di una bambina, gli apprendimenti non seguono delle strade tutte uguali ma vivono a seconda dello sviluppo originale che ciascun bambino, ciascuna bambina, ha in rapporto all’esplorazione della realtà e sviluppa meglio gli elementi che rinforzano la propria capacità. E’ per questo che un bambino, una bambina, rispetto a un altro o a un’altra, impara prima a camminare che non a sviluppare il linguaggio, o viceversa. L’esplorazione: a volte l’esplorazione deve essere organizzata, aiutata, da un altro: lo chiamiamo il lavoro degli educatori, che può essere a volte anche il lavoro dei riabilitatori, può essere il lavoro degli insegnanti, ciascuno con una caratteristica propria e in un contesto istituzionale che gli è proprio. In cosa consiste questo lavoro? Nell’esplorazione delle possibilità e dei campi percettivi. A volte vi sono delle situazioni in cui una persona traumatizzata è conosciuta per le proprie abilità, professionali, artistiche, sociali, precedenti al trauma, e questo può facilitare il compito di chi organizza la riabilitazione perché può permettere di fare esplorare campi percettivi più vicini alle competenze pregresse, alle competenze che vi erano e si erano organizzate secondo un certo ordine di capacità, che viene sconvolto e a volte amputato dal trauma, ma si riorganizza meglio perché ha la possibilità di esplorare qualcosa che era già noto. Però vi può essere anche la controindicazione, proprio perché quel campo percettivo, quel campo di esperienza era quello in cui il soggetto mostrava delle grandi capacità; il sentirsi incapace di riprenderlo può determinare un aggravamento della propria situazione di traumatizzato, e quel soggetto potrebbe essere incoraggiato meglio a esplorare campi nuovi con strumenti forse già noti. E’ la situazione che si può verificare quando si tratta di riorientare una persona adulta in una competenza vitale e anche professionale dopo avere avuto un trauma che impedisce di sviluppare un percorso così come era abituata a fare. I campi percettivi hanno un nume tutelare, si diceva, che è Wygotskyj, il quale non si accontenta di stabilire una competenza o una incompetenza ma vuole aggiungere che quella competenza vi è se - e dopo seguono le condizioni anche materiali e anche psicologiche in cui la competenza può svilupparsi – o non vi è se – e seguono le descrizioni delle condizioni che impediscono. Allora, sembra consequenziale che l’impegno degli educatori – e ancora questa parola racchiude diverse attitudini professionali – è la moltiplicazione delle prove. E’ esplorare cosa viene dopo il se. Cosa viene? Cosa può venire? Un soggetto, bambino, bambina, adulto, uomo, donna, non sa utilizzare una matita che viene messa accanto al soggetto stesso con un foglio di carta bianco. Possiamo fermarci a questo e stabilire che non sa utilizzare una matita e un foglio? O non dovremmo fare una esplorazione di tutte le possibili variabili: la matita possono essere le matite, può essere sostituita quindi da molte matite di diversa morbidezza, diverso colore, diversa foggia; le matite possono essere anche i pennarelli, le penne; il foglio, invece di essere bianco, può essere di diverse sfumature, di diverse paste di carta; abbiamo una serie di combinazioni quasi infinita. La buona qualità di chi educa è anche data dal fatto che anziché sottoporre questa esplorazione a un meccanismo ripetitivo procura di introdurla in variabili scenografici, cioè procura di collegarla a degli elementi che rendano queste prove non afflittive ma con qualche possibilità di essere o lievi, cioè non entrare tutte in una sequenza unica ma essere distribuite nel tempo, pochi minuti alla volta, oppure essere collegate a qualcosa che permetta diverse finalizzazioni. Abbiamo spesso a che fare con delle prove che sembrano realizzare o voler realizzare una sorta di fusione a freddo, una possibilità che due atomi si fondano senza energia esterna – e si sa che questo è molto complicato – il calore è l’energia; e così nelle prove educative, nell’esplorazione, l’energia è necessaria e viene da due direzioni che spesso non sono combinate tra loro: da una parte la motivazione, cercare unicamente questa a volte vuol dire cercare senza successo, e dall’altra la finalizzazione; ora, la finalizzazione è a volte contenuta in parole molto semplici: “fammi questo regalo, fammi un sorriso, fammi uno scarabocchio”, cioè “regala a me qualcosa, visto che ci vogliamo bene, che siamo amici, che siamo in un buon rapporto. Abusare di una semplice finalizzazione per diventare ripetitivi è quello che non funziona perché allora è come se l’energia, il calore, non avesse un’alimentazione e quindi non fosse più tale, si raffredda; e la fusione a freddo è un elemento di difficoltà, di impossibilità, a volte. Allora, questa esplorazione va fatta tenendo conto della possibilità che campi percettivi diversi procurino risultati diversi. Perché usiamo questa espressione campi percettivi? Perché ci rifacciamo ad una letteratura particolare. Intanto abbiamo bisogno di rinviare ad alcune pagine che inseriamo nel nostro percorso come una piccola antologia. Abbiamo bisogno di riferirci a tre autori, diversi tra di loro: Olson, Affolter e Bronfenbrennen. Olson tratta di una questione, ripresa poi da molti altri autori, e lui stesso lavora su un’ipotesi che ha molti precedenti; privilegiamo un autore per fare riferimento ad alcune pagine in particolare. Si tratta di capire l’importanza dei mediatori o media, e sapere che quella ricerca delle matite, dei pennarelli, della carta, della pasta di carta, del colore della carta, altro non è che lo sviluppo di una proposta che ha in Olson uno degli autori di riferimento possibile; l’attenzione, quindi, agli strumenti mediatori per realizzare un certo processo. La possibilità che un individuo utilizzi meglio le parole o meglio i gesti fa sì che noi scegliamo i mediatori che hanno la possibilità di collegarsi all’uso delle parole oppure all’uso dei gesti, ecc. Secondo autore, in questo caso autrice, Affolter: Affolter ha un campo di esperienza legato a traumi e ad afasici, persone che hanno perso la possibilità di organizzare i loro percorsi attraverso la voce e le parole. E una delle sue descrizioni di prove, di percorsi riabilitativi, fa riferimento proprio alla progressiva riorganizzazione dei campi percettivi, in modo tale che un problema sia posto – siamo sempre nell’ordine dei problemi che non hanno solo una formulazione come i problemi della scuola elementare di un tempo – con una possibilità di essere tutto sotto una percezione nello stesso tempo tattile e visiva. E’ chiaro che questa è una scelta, potremmo anche variare e utilizzare una percezione che può essere sonora. Tattile e visiva è l’esempio da cui parte Affolter. La possibilità è che poi questo campo di percezione tutto esplicito abbia invece delle modificazioni e quello che era esplicito, visibile e immediatamente a contatto del tatto sia invece riposto, in un cassetto ad esempio, e quindi si vada a un’esplorazione che comporta un passaggio più complesso per poi arrivare, in tappe successive, a una rappresentazione che è iconica, ad esempio – rappresentare il problema con delle immagini – o con delle parole, e a quel punto abbiamo una possibilità di utilizzare una rappresentazione più evocativa e meno presente, più rappresentata e meno in atto. Ecco che quindi la possibilità è quella di far percorrere una serie di tappe che anche chi cresce percorre, avendo come primo contatto gli elementi che sono nel campo percettivo immediato e immediatamente dopo, quasi subito, è possibile che chi cresce, un bambino, una bambina, introduca nel campo percettivo qualche cosa che non è presente, che è evocativo: evocare, saper che esiste qualcosa anche se non è sotto il mio diretto controllo percettivo è l’elemento che si collega al linguaggio. Linguaggio è anche pensiero:si può pensare il linguaggio, si può evocare dicendo ad alta voce, scrivendo, dipingendo, e si può anche evocare anche chiamando, con un gridolino, qualcuno che permetta all’oggetto evocato di essere presente in maniera concreta, o che giustifichi l’assenza. Il rapporto tra un bambino o una bambina piccola e la figura materna è spesso fatto di una serie di attività spontanee che dicono, fanno, realizzano quello che adesso stiamo rappresentando in una maniera un po’ artificiosa, un po’ argomentata. Bronfenbrennen è un autore importante per tutta la materia densa dell’ecologia umana e ha la possibilità di indicarci una sequenza di contesti in cui l’elemento singolo abbia un rapporto con un altro elemento singolo e si creino successivamente contesti concatenati che arrivano al sistema di contesti. Bronfenbrennen non si è direttamente occupato dei problemi che noi affrontiamo ma ci suggerisce qualche cosa di molto interessante che riguarda la possibilità di avere delle procedure. Le “definizioni” di Bronfenbrennen Definizione 1 L’ecologia dello sviluppo umano implica lo studio scientifico del progressivo adattamento reciproco tra un essere umano attivo che sta crescendo e le proprietà, mutevoli, delle situazioni ambientali immediate in cui l’individuo in via di sviluppo vive, anche nel senso di definire come questo processo è determinato dalle relazioni esistenti tra le varie situazioni ambientali e dai contesti più ampi di cui le prime fanno parte. Definizione 2 Un microsistema è uno schema di attività, di ruoli, e relazioni interpersonali di cui l’individuo in via di sviluppo ha esperienza in un determinato contesto, e che hanno particolari caratteristiche fisiche e concrete. Definizione 3 Un mesosistema comprende le interrelazioni tra due o più situazioni ambientali alle quali l’individuo in via di sviluppo partecipi attivamente (per un bambino, ad esempio, le relazioni tra casa, scuola e gruppo di coetanei che abitano nelle vicinanze di casa sua; per un adulto, quelle tra famiglia, lavoro e vita sociale). Definizione 4 Un ecosistema è costituito da una o più situazioni ambientali di cui l’individuo in cui l’individuo in via di sviluppo non è un partecipante attivo, ma in cui si verificano degli eventi che determinano, o sono determinati da, ciò che accade nella situazione ambientale che comprende l’individuo stesso. Definizione 5 Il macrosistema consiste delle congruenze di forma e di contenuto dei sistemi di livello più basso (micro- meso- ed ecosistema) che si danno, o si potrebbero dare, a livello di subcultura o di cultura considerate come un tutto, nonché di ogni sistema di credenze o di ideologie che sottostanno a tali congruenze. Definizione 6 Si verifica una transizione ecologica ogniqualvolta la posizione di un individuo nell’ambiente ecologico si modifica in seguito ad un cambiamento di ruolo, situazione ambientale o di entrambi. Definizione 7 Lo sviluppo umano è un processo attraverso il quale l’individuo che cresce acquisisce una concezione dell’ambiente ecologico più estesa, differenziata e valida, e diventa motivato e capace di impegnarsi in attività che lo portano a scoprire le caratteristiche di quell’ambiente, e ad accettarlo o ristrutturarlo, a livelli di complessità che sono analoghi o maggiori, sia nella forma che nel contenuto. Definizione 8 Per validità ecologica intendiamo il grado in cui l’ambiente del quale i soggetti hanno esperienza in una determinata indagine scientifica ha proprio le caratteristiche che il ricercatore suppone o assume. Definizione 9 Per dimostrare che si è verificato uno sviluppo è necessario stabilire che la modificazione prodotta nelle concezioni e/o attività di un individuo è trasferibile ad altre situazioni ambientali e a momenti diversi. Chiamiamo ciò validità evolutiva. Definizione 10 Chiamiamo esperimento ecologico una ricerca che ha come oggetto l’adattamento progressivo tra l’organismo umano in via di sviluppo e il suo ambiente attuata per mezzo di un contrasto sistematico tra due o più sistemi ambientali o componenti strutturali di questi ultimi, cercando di controllare accuratamente altre fonti di influenza o con l’assegnazione casuale (esperimento strutturato) o con l’abbinamento (esperimento naturale). Definizione 11 Un esperimento di trasformazione implica l’alterazione sistematica e la ristrutturazione dei sistemi ecologici esistenti in modi che rimettono in discussione le forme di organizzazione sociale, i sistemi di credenze, egli stili di vita che sono prevalenti in una particolare cultura o subcultura. Un esperimento di trasformazione altera in modo sistematico alcuni aspetti di un macrosistema. L’alterazione può essere effettuata ad ogni livello dell’ambiente ecologico, dal micro- all’esosistema, eliminando, modificando o aggiungendo elementi e interconnessioni. Vi è un principio generale che pervade tutti i concetti di base propri di una ecologia sperimentale dello sviluppo umano: tale principio viene formulato come la prima di una serie di proposizioni che descrivono le caratteristiche distintive dei modelli di ricerca adeguati all’indagine dello “sviluppo del contesto”. Avere delle procedure potrebbe sembrare a qualcuno irrigidire il nostro operato, togliere al nostro operato quell’elemento di spontaneità che nel rapporto educativo sembra così importante, addirittura sostanziale. E questo è vero, avere delle procedure in un primo tempo può fare questo effetto, ma avere delle procedure, metabolizzarle e farle diventare un rigore che riconquista la propria spontaneità è l’elemento di avanzamento nelle proprie competenze professionali. E quindi percorrere, le indicazioni che fornisce Bronfenbrennen significa capire come le nostre interazioni possano essere organizzate avendo cura di riprendere i due autori precedenti; l’attenzione quindi ai mezzi che utilizziamo, agli strumenti, agli intermediari (Olson) e l’attenzione alla possibilità che i campi percettivi forniscano o meno uno sviluppo nell’azione, e nel pensiero naturalmente, del soggetto e arrivare a capire che vi può essere un rapporto a due che garantisce una certa possibilità, ma questo non va fermato, va collocato all’interno di quella che sarà la definizione n. 11, anzi, consigliamo di partire dalla definizione n. 11 di Bronfenbrennen per capire quale è l’organizzazione complessa e poi di ripercorrere le varie definizioni per capire come l’organizzazione complessa è organizzata all’interno; e tutto questo col nume tutelare di Wygotskyj, quindi questa riorganizzazione di alcuni autori in un’ipotesi di lavoro diventa la tappa fondamentale di un lavoro educativo che si prepara attrezzandosi mentalmente, e anche materialmente, per poter affrontare le differenze e per potere quindi realizzare un’educazione che segua la dinamica delle buone prassi. 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