SAGGIO DI SCAVO SULLO SPERONE NORD DI S. MARIA IN

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SAGGIO DI SCAVO SULLO SPERONE NORD DI S. MARIA IN
SAGGIO DI SCAVO SULLO SPERONE NORD DI S. MARIA IN CASTELLO
Nell’estate 1987 i lavori di restauro alla Chiesa di S. Maria in Castello condotti dalla
Società Tarquiniense d’Arte e Storia, che prevedevano fra l’altro la sistemazione di quella
ristretta area a Nord dell’edificio sacro - tra questo e le mura castellane - fecero
intravvedere proprio in questo settore dove si stavano effettuando movimenti di terra una
situazione archeologica “intatta” con una complessa stratigrafia. Questa circostanza
indusse la Soprintendenza a sospendere temporaneamente i lavori in attesa di poter
eseguire indagini scientifiche - che si sono purtroppo potute effettuare solo nel Settembre
dello scorso anno ma il cui risultato giustifica ampiamente la prudenza usata nel procedere
delle operazioni.
Come è noto il sito ove è situata la Chiesa di S. Maria in Castello corrisponde
all’estremo lembo occidentale del colle dei Monterozzi che precipita a strapiombo nella
sottostante valle del Marta. Il luogo, per la sua evidente posizione strategica di
sbarramento della valle del fiume per chi volesse risalirlo dalla foce verso l’entroterra,
dovette fin dalle origini aver assunto un ruolo chiave nella storia del popolamento della
regione. Pertanto, anche quando l’annosa questione circa l’ubicazione della Tarquinia
etrusca fu definitivamente risolta in favore del Pian di Civita, nessuno studioso potè
sottovalutare l’importanza strategica del luogo che comunque, sia prima della fase urbana
di Tarquinia - in epoca protostorica che durante l’esistenza della stessa città dovette
senz’altro ospitare una qualche forma di insediamento il cui rapporto con l’abitato
principale solo future indagini archeologiche potranno chiarire.
La scoperta, nel 1953, della necropoli villanoviana delle Rose sulle pnedici sudorientali Monterozzi a non più di 500 m. in linea d’aria da S. Maria in Castello ed il
rinvenimento, anni più tardi, di frammenti ceramici protovillanoviani (età del Bronzo
finale) nelle immediate vicinanze della Chiesa, hanno confermato quella che prima poteva
essere solo una suggestiva ipotesi.
E’inutile infine soffermarsi sull’importanza, nota a chiunque si sia avvicinato al
problema, di questo estremo sperone occidentale dei Monterozzi per le origini e lo sviluppo
della medioevale Corneto.
Tutte le ragioni sopraesposte evidenziano l’interesse dei saggi archeologici condotti
a Settembre dalla Soprintendenza che, anche se del tutto preliminari, lasciano già
intravedere spiragli di luce su alcuni dei momenti della storia dell’insediamento umano del
sito, e che per questo si spera di poter continuare e completare al più presto.
Essendo previste solo due settimane di scavo, è stato necessario limitare l’area
d’intervento. Sono state aperte quindi due trincee, una a monte (trincea A) di m. 7,50 x 2 e
una più in basso (trincea B) di m. 5,50 x 2: ambedue, partendo dal fianco settentrionale
della Chiesa giungono fino alle mura castellane.
Durante il periodo di lavoro nella trincea A si è scavato sino a quota - m. 2 e nella
trincea B sino a quota - m. 2,50.
Nella campagna di scavo sono state individuate 37 unità stratigrafiche databili a tre
periodi storici: epoca moderna, medievale e protostorica.
Epoca Moderna
A questo periodo sono databili una serie di strati composti in prevalenza da ossa
umane e da resti di corredo (fibbie ed altri frammenti metallici). Dovrebbe trattarsi di uno
svuotamento di fosse comuni collegate con l’uso di Santa Maria in Castello.
Epoca Medievale
Riferibili a questo periodo sono alcuni muri e abbondanti frammenti ceramici.
I resti di epoca medievale sino ad ora individuati sono pertinenti a due fasi: una più
recente, databile probabilmente dalla metà del XII secolo agli inizi del XIII, e una più
antica, scavata solo in parte, che sembra databile ai secoli XI-XIII.
Alla prima fase (XII-XIII sec.) sono riferibili muri di notevoli dimensioni, costruiti
con blocchi sia squadrati che no, disposti in modo da creare un parametro regolare anche
con l’aggiunta che in parte poggiano sulla roccia, e alcuni filari dell’elevato.
Alla seconda fase (XI-XII sec.) sono relativi altri due muri individuati sul lato nord
della trincea A. Questi sono costruiti con blocchi squadrati nella parte alta, che è l’unica
visibile al termine dello scavo.
Le classi ceramiche attestate sono: acroma grezza, acroma depurata, ceramica
dipinta in rosso e invetriata.
L’acroma grezza è la classe più rappresentata. Numerosi i frammenti di olle dagli
orgli estroflessi e con anse complanari all’orlo. Non mancano frammenti pertinenti a testi e
tegami.
L’acroma depurata è anch’essa abbastanza attestata; i frammenti sono per lo più
pertinenti ad anforacei (anfore con anse a nastro e anforette).
La ceramica dipinta in rosso o bruno presenta due tipi di decorazioni, o semplici
bande di diverso spessore o linee ondulate. I frammenti sono in prevalenza di anforacei.
Rari, invece, i frammenti di ceramica a vetrina pesante e di ceramica a vetrina
pesante a macchie.
Inoltre molti materiali da costruzione (mattoni, tegole, coppi) sono stati trovati
negli strati di abbandono e si segnalano anche frammenti di intonaco dipinto.
Le strutture individuate dovrebbero essere relative a costruzioni precedenti la
fondazione di Santa Maria in Castello, alcune delle quali sembra abbiano continuato a
vivere durante l’edificazione della chiesa, prima di essere abbandonate. Purtroppo
l’esiguità dell’area scavata e il poco tempo a nostra disposizione non hanno permesso al
momento altri risultati, che solo la continuazione dello scavo e la totale esplorazione
dell’area a nord di Santa Maria in Castello potrebbero dare.
Epoca Protostorica
Le strutture medioevali sopra descritte poggiano, in ambedue le trincee, su strati di
terreno in forte pendenza verso il ciglio settentrionale del colle, nerastri, con evidenti
tracce di bruciato e ricchi di numerosi frammenti ceramici. Tali strati, appena intaccati in
superficie e ancora tutti da indagare, sembrano comunque non solo confermare ma
ampliare l’orizzonte cronologico indicato dai rinvenimenti di superficie di qualche anno fa:
Infatti mentre la maggior parte del materiale sembra effettivamente riferibile al periodo
protovillanoviano, alcuni frammenti sono forse databili alle fasi più antiche dell’età del
bronzo mentre altri dovrebbero scendere all’età del ferro (villanoviano). La forte pendenza
degli strati suggerisce l’ipotesi che essi siano scivolati, forse in relazione alla sistemazione
del terreno per l’impianto di strutture di epoca successiva, dalla sommità del colle dove è
logico ipotizzare che dovesse situarsi l’eventuale insediamento.
Maria Cataldi
Valeria Bartoloni
CORNETO NEGLI APPUNTI
DI UN VIAGGIATORE FRANCESE
DEL PRIMO SETTECENTO
Poco dopo il meriggio del 22 aprile 1711, era un mercoledì, una piccola schiera di
cavalieri varcò la Porta della Valle e discese le pendici della collina su cui sorge la città.
Raggiunse il piano e si fermò là dove si incontravano - e ancora oggi si incontrano - a
distanza di circa un miglio dal perimetro delle mura, le due strade che provengono da
Civitavecchia. Si preparavano a rendere omaggio al cardinale Giuseppe Renato Imperiali,
prefetto della Congregazione del Buon Governo, che, come ogni anno, all’inizio della
primavera, si era concesso un soggiorno di ferie e di lavoro nella città capoluogo del
Distretto, cui Corneto era stata aggregata dalla Costituzione di Innocenzo XII del 1963.
In una delle carrozze che componevano il convoglio partito alla volta di Corneto
sedeva un frate domenicano grassoccio e arguto, ormai prossimo alla cinquantina, che il
potentissimo prelato aveva voluto accanto a sé, perché gli rallegrasse le due ore del viaggio.
Fin dal primo incontro, avvenuto nel marzo dell’anno precedente, l’Imperiali aveva potuto
sperimentare la vivacità di quella conversazione e ad essa volentieri fece ricorso nei sei
anni in cui Jean Baptiste Labat fu ospite del convento dei Domenicani, che officiavano la
chiesa di S. Maria, allora unica parrocchia di Civitavecchia.
Se la nobiltà dell’origine e l’enorme prestigio del cardinale genovese ci impediscono
di pensare che si fosse costituito un rapporto di amicizia, come comunemente intendiamo,
possiamo certamente affermare che il destino aveva fatto incontrare due personaggi che
avevano vissuto esperienze, nella loro diversità, egualmente straordinarie e capaci di
alimentare quella lunga frequentazione.
Erano già trascorsi ventuno anni da quando il figlio di Michele Imperiali, principe di
Francavilla e marchese d’Oria, e di Brigida Grimaldi, sorella del principe di Monaco, era
stato elevato alla porpora e quindici da quando, con grande autorevolezza, presiedeva la
Congregazione
del
Buon
Governo,
cui
competevano
le
funzioni
di
controllo
sull’amministrazione delle Comunità dello Stato della Chiesa.
L’Imperiali aveva un particolare motivo per far visita, sul finire di quel mese di
aprile, alla Comunità di Corneto. Egli intendeva controllare l’andamento dei lavori per la
costruzione dell’acquedotto, dopo avere, con ogni probabilità, effettuato una visita
preliminare alla stipula del contratto. 1) In queste occasioni, i poteri del cardinal prefetto
erano pressoché assoluti e l’insistenza con la quale richiese al Labat di accompagnarlo può
trovare una motivazione valida anche nelle competenze tecniche del domenicano francese,
il quale era architetto e stava dirigendo i lavori di restauro e di completamento della
facciata e del chiostro di S. Maria.
Sul finire del breve soggiorno nella nostra città, la mattina del 28 aprile, accadde
l’avvenimento che gli avrebbe offerto l’opportunità di apparire per la prima volta sulla
1)
In calce ed in margine alla lettera del 13 febbraio 1708, con la quale notificava l’approvazione della Congregazione
del Buon Governo all’ultimazione dei lavori dell’acquedotto, il Soprintendente de Carolis preannuncia in questi termini
una imminente visita dell’Imperiali: “Soggiungo che spero di poter condurre e servire l’Em° Sig. Cardinal Imperiali
costì per loro servigio che però le strade sieno bene accomodate. Stimo bene che habbino di scrivere con atti di sincieri
ringraziamenti all’Em° Sig. Cardinal Imperiali Pref° del B. G° per la detta grazia ricevuta”. Documento in Arch. Stor.
Comune di Tarquinia, serie Acquedotti, anno 1708. Sull’argomento rinvio a G. TIZIANI, L’acquedotto, la fontana di
piazza e altri episodi del settecento Cornetano, Tarquinia, 1981. Sulla lunghissima attività di “committente” sviluppata
scena della grande storia: un messo venne espressamente da Roma ad annunciargli la
morte dell’Imperatore Giuseppe I e, di lì a pochi mesi, proprio al cardinal Imperiali venne
affidato l’incarico di legato pontificio presso il fratello del defunto, Carlo re di Spagna, di
passaggio a Milano per ricevere l’investitura a Imperatore d’Asburgo. Questa legazione,
accuratamente descritta dal Labat, sanzionò il grande prestigio raggiunto dall’Imperiali e
pose le premesse alla sfortunata candidatura al pontificato del 1724. 2)
Ma il 1724 è anche, nella nostra storia municipale, l’anno in cui viene realizzata la
fontana monumentale, almeno questa è la data che leggiamo nella epigrafe, la quale
attribuisce all’Imperiali, senza alcun riferimento al pontefice regnante, la paternità
dell’opera. Di eguale segno, ma ben più suggestivo, è il messaggio che ancora vorrebbero
trasmetterci le quattro aquile minuziosamente previste e descritte dal terzo capitolo del
contratto di appalto, collocate alla base della colonna e richiamanti lo stemma
dell’Imperiali: esse sembrano sovrastare e surclassare l’aquila scaccata contrassegnate, per
un gioco della sorte, anche l’arme di Michelangelo de’ Conti, che sotto il nome di
Innocenzo XIII nel marzo di quell’anno concludeva la sua vita. 3)
Di un così autorevole personaggio erano in attesa i maggiorenti cornetani alla piana
degli Oliveti. Ma non poté certamente passar loro inosservato quel curioso
accompagnatore che, nel corso dei quattro giorni di permanenza in città, si fece condurre
ovunque, investigò e prese appunti, come era sua inveterata abitudine. Egli aveva lasciato
Parigi, la città dove era nato nel 1663, il suo convento di rue S. Honoré, all’età di trent’anni
e si era imbarcato per le isole francesi d’oltre Atlantico. Come, un secolo dopo, avrebbe
fatto un ben più famoso viaggiatore suo connazionale, Francois René de Chateaubriand, il
Labat varcò l’Atlantico prima ancora di attraversare le Alpi. 4)
Quella permanenza, protrattasi per circa dodici anni, lo vide passare di isola in isola,
impegnato ben al di là delle funzioni proprie di un missionario: costruttore di un torchio
ad acqua per la produzione dello zucchero, ingegnere miilitare, impavido direttore
d’artiglieria in occasione dell’assalto inglese alla Martinica del 1703, amico dei filibustieri,
dall’Imperiali si veda A. GAMBARDELLA, Architettura e committenza nello Stato Pontificio tra Barocco e Rococò,
Napoli, 1979.
2)
In occasione di quel conclave la candidatura proposta dai cardinali zelanti avrebbe ricevuto l’opposizione della
Spagna e della Francia proprio perché l’Imperiali era considerato l’esponente più autorevole del partito filoasburgico.
3)
Questi due personaggi ci appaiono ancora contrapposti in un passo del tomo VI dei Voyages in cui L. sottolinea la
tracotanza dimostrata dal card. de’Conti, allora vescovo di Viterbo, nel corso di una visita pastorale a Civitavecchia,
fino al 1854 compresa in quella diocesi: egli giunse a forzare il Monte di Pietà, non sottoposto alla sua giurisdizione e
fondato dall’Imperiali, “un Cardinale la cui carità eguaglia la saggezza e surclassa il lustro della porpora”.
4)
Riporto da Y. HERSANT, Italies, Anthologie des Voyageurs français aux XVIII et XIX Siècles, Paris, 1988, pp. 10721073 lo straordinario elogio che Chateaubriand dedica a L.: “Je ne sache aucun voyageur qui donne des notions plus
exactes et plus claires sur le gouvernement pontifical. Labat court les rues, va aux processions, se mêle de tout et se
moque à peu près de tout”.
guaritore, egli entrò in una straordinaria sintonia con la mentalità degli indigeni, di cui
divenne l’ossequiato protettore.
Tornato in Europa sul finire del 1705, scese per la prima volta in Italia all’inizio
dell’anno seguente, soggiornando a Genova, Livorno, Firenze e Bologna dove si teneva il
capitolo generale dell’Ordine domenicano. Gli anni del secondo viaggio in Italia (1709 1716) vengono trascorsi quasi per intero a Civitavecchia, di cui il Labat ci fornisce una
descrizione straordinariamente preziosa. Dal convento di S. Maria egli si allontanò
soltanto episodicamente, per completare la conoscenza del nostro paese con puntate a
Napoli, Messina e in Toscana, oltre che, come nel nostro caso, nelle località più vicine alla
sua abituale residenza.
Non gli mancavano dunque gli argomenti per interessare e divertire il cardinal
Imperiali, quando questi soggiornava a Civitavecchia e ce lo confessa candidamente, quasi
lanciando un grido di vittoria, quando ci riferisce del primo colloquio: “on peut croire que
je ne m’endormis pas, je lui dis tout ce que je crus propre à piquer sa curiositè!”.
Il 19 maggio del 1716 Jean Baptiste Labat fece ritorno al Couvent des Jacobins di rue
S. Honoré, di cui divenne procuratore, ed impiegò buona parte dei ventidue anni che gli
restavano da vivere a riordinare e pubblicare i numerosi taccuini di remarques riempiti nel
corso dei suoi viaggi. Con la pubblicazione, nel 1722, del Voyage aux Iles francaises de
l’Amérique ed, otto anni più tardi, dei Voyages en Espagne et en Italie egli si inserisce
pienamente in un genere letterario assai fiorente fin dal XVII secolo, che avrebbe
continuato ad offire anche nell’ottocento una produzione molto interessante, in grado di
istituire un saldo legame tra la Francia e il nostro paese, come ampiamente dimostra la
citata antologia di Yves Hersant. Il soggiorno civitavecchiese di Stendhal, giusto un secolo
dopo, può, in fondo, apparirci come una suggestiva replica della vicenda di cui ci stiamo
occupando.
Alla base di questa volontà di racconto c’è - procalamata in Prefazione - la polemica
contro i Voyageurs de Cabinet (i viaggiatori di biblioteca che “all’ombra di uno stile fiorito
e di una facile narrazione si credono in diritto di dire tutto e di imporlo a tutti”), la scelta di
raccontare esclusivamente ed esattamente soltanto quello che ha visto di persona,
rinunciando a qualsiasi sfoggio di erudizione. Il risultato è una miscela straordinaria di
registrazioni puntuali fino alla pignoleria, di narrazioni e di giudizi che perseguono
l’intento di demistificare ogni conformismo mentale, di vigorose sopravvivenze barocche e
di lucidità cartesiana.
Vorrei richiamare brevemente l’attenzione del lettore sugli elementi che mi
sembrano più interessanti in questo ritratto della città ricco di informazioni riguardanti
l’urbanistica, il clima, le condizioni di vita e la “mentalità” della popolazione, soprattutto
nella classe più elevata, con la quale il Labat fu più direttamente a contatto.
Il primo di questi è senza dubbio costituito dalle notizie di carattere archeologico. Le
pagine in cui vengono descritte le Grotte possono essere considerate l’atto di nascita della
nostra
letteratura
archeologica,
perché
forniscono
la
più
antica
descrizione
sufficientemente organica e precisa della prima necropoli venuta alla luce.
La casuale scoperta si verificò in occasione dei lavori di scavo per il completamento
dell’acquedotto. 5) Così testimonia l’architetto Labat, il quale non volle (e forse non avrebbe
potuto) esimersi dall’ispezionare con cura questi lavori, ripresi e condotti a termine, come
ho già detto, sotto il diretto e periodico controllo dell’Imperiali. La descrizione che ne
deriva può proficuamente integrare la ricca documentazione conservata nel nostro
Archivio Storico.
C’è infine un terzo elemento che mi ha incuriosito e sollecitato a qualche
approfondimento: la notizia relativa all’origine del nome della località in cui quella ventina
di gentiluomini cornetani attendeva il piccolo convoglio proveniente da Civitavecchia.
Les Oliviers, gli Oliveti (toponimo, come spesso accade, conservato nell’ambito
religioso dalla denominazione della Chiesa di S. Maria dell’Olivo e trasmesso al quartiere
di recente edificazione) furono impiantati - racconta il Labat - dai Genovesi che, avendo
avuto la terra di Corneto in pegno per il prestito concesso ad un papa, introdussero, alcuni
secoli addietro, questa coltura allora non presente nel territorio, certi dell’insolvenza
pontificia.
L’elogio della laboriosità dei Genovesi, a cui i Cornetani dovevano “una buona parte
del commercio e della ricchezza della Città”, è certamente accentuato dall’origine del
cardinale Imperiali e spinge il Labat a scagliare accuse molto dure contro l’indolenza dei
Sovrani Pontefici. Ma ciò che più direttamente ci interessa è la rappresentazione di un
quadro economico caratterizzato dalla crisi della coltura del grano, non più risorsa
principale, e dal parallelo affermarsi dell’allevamento ovino accanto ed a discapito del
tradizionale allevamento bovino. 6) E’ in particolare, la possibilità di ricostruire una pagina
della storia del paesaggio agrario cornetano, integrando questa notizia con quella
proveniente dagli Annali di Genova del Giustiniani: nel 1386 papa Urbano VI contrasse
5)
L’altrettanto casuale scoperta di Carlo Avvolta nell’inverno del 1823 aprì, come è noto, la grande stagione degli scavi
di Tarquinia (L. DASTI, Notizie Storiche e Archeologiche di Corneto e Tarquinia, Roma, 1878, pp. 63 - 70). La
descrizione di L. anticipa di molti decenni quella dell’inglese J. Byres, fin qui considerata la più antica.
6)
Su tutta questa vicenda rinvio a due pubblicazioni di B. BLAsi in “Bollettino della Soc. Tarquiniense di Arte e
Storia”, XI, 1982: Gli Statuti Agrari della città di Corneto (pp. 59 - 76) e Il bue aratore (pp. 103 - 123).
con la repubblica ligure un debito di settantamila ducati per l’armamento di dieci galere e
concesse in pegno, con altri possedimenti, anche la terra di Corneto. 7)
Mi piace pensare che quanto rimane dei rigogliosi oliveti descritti dal Labat e
raffigurati dalle carte del tempo possa vantare una origine così antica e così avventurosa.
Ma ecco, in una traduzione che ho cercato di mantenere il più possibile fedele alla
narrazione dello scrittore francese, le pagine del Voyage à Cornette restituite alla memoria
storica della nostra città. 8)
Partimmo il Mercoledì intorno alle dodici con due carrozze da sei cavalli e tre o
quattro uomini a cavallo. Sua Eminenza mi fece sedere alla sua sinistra nella parte più
interna della carrozza, il signor Marchese, suo fratello, e Padre Dally, Religioso del nostro
Ordine, di un’antichissima famiglia nobile d’Irlanda, erano nella parte anteriore.
Ci sono dieci miglia da Civita Vecchia e Corneto, due strade vi ci portano, una è
lungo il litorale fino al ponte sul fiume chiamato Mignone, l’altra è sulla destra della prima
a circa un miglio e mezzo. Si congiungono all’altezza degli Oliveti che si trovano un
po’prima di arrivare alla Città.
Questa è situata su una collina di modesta altezza a tre piccole miglia dal mare.
E’separata da una vallata non molto profonda da un’altra collina coperta di alberi, sulla
quale era costruita la Città di Tarquinia, che fu rivoltata da cima a fondo, quando furono
cacciati i Tarquini da Roma intorno all’anno del mondo 495 e 505 dalla nascita del Messia.
7)
Nell’Arch. Stor. di Tarquinia, serie Brevi, Patenti e Privilegi è conservata una copia cartace risalente alla seconda
metà del ‘700 della pag. 152, libro IV degli Annali citati in testo: “Et l’hanno di mille trecento ottanta sei, sotto il
Ducato di Antoniozzo adorno la Repubblica haveva i pegno la terra di Cornetto da Papa Urbano per sessanta millia
ducati per le spese fatte in l’armamento delle dieci galere sopradette, et per pagamento di questa somma il papa diede
al commune il castello et il borgo della Pietra con le sue ville, la villa di Borzoli et di Varacci, il Castello et il borgo di
Giustenesi, il borgo o sia la terra di Toirano con le ville nominate Patarello, Bojrano et Braja, che erano del
Vescovato di Albenga, la fortezza et il luogo di Berzezzi del vescovato di Novi, la fortezza et il borgo di Spotorno con
le ville della costa di Vado di Teazano, di Varesca et di Morosi del Vescovato di Savona, et fu ricevuto il giuramento
della fidelità di tutte queste terre”. Le Croniche del Polidori (pp. 204-206), nelle quali la notizia è inserita in margine
da altra mano, gettano luce su questa lontana vicenda riferendo di tre sollevazioni di Corneto contro Urbano VI, negli
anni 1383, 1385 e 1386, e della liberazione del pontefice, assediato a Nocera da Carlo di Durazzo, ad opera di “dieci
Galere della Repubblica di Genua, commandate da Clemente di Fabio, a quest’effetto chiamate”. Era l’anno 1385 e
sono certamente queste le dieci galere a cui si riferisce il Giustiniani. Urbano VI, imbarcatosi su di esse, “lasciato ogni
altro Porto si conduce a Corneto, et di qui a Genua”, dove nel modo che abbiamo già visto, salderà il suo debito con la
Repubblica. E’infine da notare la corrispondenza della storpiatura del nome della città che troviamo nel racconto del
Giustiniani (Cornetto) e in quello del Labat (Cornette).
8)
Ho potuto utilizzare il testo - da tempo introvabile e, di fatto, inedito per la nostra città - nella edizione di Amsterdam
del 1731, fortunosamente recuperato a Parigi, nell’estate del 1988, dal collezionista e studioso di storia locale Adelmo
Covati, che ringrazio sentitamente. Ringrazio altresì Lidia Perotti e Piera Ceccarini per avermi agevolato con la
consueta gentilezza nel compimento dei necessari riscontri presso l’Arch. Storico del Comune di Tarquinia. Il Voyage à
Cornette costituisce il terzo capitolo del V tomo. Ho voluto riportare anche la relazione della visita a Montalto, inserita
nel medesimo capitolo, per non interrompere la continuità del racconto e, soprattutto, per offrire un saggio più ampio e
vario dello stile e degli interessi culturali del L.
Sembra che l’Abate Baudran si sia divertito a ingannarsi o a ingannare gli altri
quando dice nel suo Dizionario alla pagina 1724 che la Città di Tarquinia è a due miglia da
Corneto. A meno che la situazione di queste due Città non sia del tutto cambiata, non c’è
mai stato un miglio di distanza dall’una all’altra. 9)
Il fiume Marta, tra i più notevoli della regione, passa quasi ai piedi della collina dove
è edificata Corneto. La sua collocazione la rende ben visibile da lontano, ed oltre a questo
vantaggio è piena di torri quadrate molto alte, che gli antichi abitanti avevano cura di
innalzare a fianco delle loro abitazioni, come un segno che essi e i loro antenati erano stati
onorati della prima Magistratura della Città.
Questa Città è molto antica. Si potrebbe credere che è costruita con i resti di
Tarquinia, non osando gli abitanti di questa stabilirsi sulle rovine della loro patria, che i
Romani guardavano pressappoco come gli Ebrei guardavano Gerico, e non volendo d’altra
parte allontanarsene troppo, per non essere obbligati ad abbandonare le loro terre che
erano nei dintorni. Si stabilirono il più vicino possibile alla loro patria ruinata e
costruirono la Città, che portò dapprima il nome di Castrum Novum e che in seguito si
chiamò Corneto.
La ragione di questo cambiamento di nome non è giunta fino a noi, benché io mi sia
data gran pena di scoprirla. Ho pensato talvolta che il nome Castrum Novum, che le si
addiceva durante i primi tempi della fondazione, le era tornato a vergogna in capo a
qualche secolo, come se le rimproverasse senza posa questa sua novità, benché essa
potesse ornarsi del titolo di antica e di vecchia che fa tanto onore a una Città quanto
dispetto a una donna. Ho pensato inoltre che il gran numero di Torri che oggi si vede qui, e
che non è niente in confronto di quello che si vedeva un tempo, le quali somigliano
abbastanza a dei corni, potrebbe avere in qualche modo influito sulla nuova
denominazione e averla fatta chiamare Castrum Cornutum, da cui col passare del tempo, è
derivato quello di Corneto. Ecco il mio pensiero, lo lascio alla discrezione del pubblico. Gli
abitanti sono chiamati Cornetani, o per abbreviazione Cornuti 10) e si vedono in molti
luoghi queste quattro lettere iniziali S.P.Q.C. che significano Senatus Populusque
Cornetanus. Ho visto un discorso, che si pretendeva essere composto a lode di questa città
9)
L. misura la distanza in linea d’aria. Il Baudran è l’abbé Baudrand noto geografo e cartografo del XVII secolo, cui L.
fa riferimento anche nella Prefazione.
10)
L’equivoco in cui qui cade L. è provocato, con ogni probabilità, dalla forma epigrafica abbreviata, per l’eliminazione
della sillaba in nasale, CORN: TI per CORNETANI. Nel periodo precedente, come si vede, L. estende a tutta la città il
nome del terziere di Castrum Novum, mettendo erroneamente in rapporto l’aggettivo novum con la città di Tarquinii
invece che con il centro altomedioevale di Cornetum.
e dei suoi abitanti, nel quale erano stati raccolti tutti i passi letterari in cui si è parlato di
corna. Comincia con queste parole: Nolite extollere in altum cornu vestrum. 11)
La Città di Corneto non è così piccola, né così malsana, né semideserta come dice
l’Abate Baudran nel suo Dizionario alla pag. 505. E’ vero che non si avvicina a Roma né a
Parigi, ma è di una grandezza ragionevole, abbastanza popolata rispetto alla sua grandezza.
La sua posizione la fa godere di un’aria più pura che se fosse costruita nella pianura e ciò
che mi persuade che l’aria non è così cattiva come si dice che è che gli uomini e le donne
hanno colorito vivo e animato, che i bambini vengono allevati senza fatica e che i tetti delle
case sono puliti e privi di qualsiasi formazione di muschio, segno evidente di un’aria
pesante, sporca, densa e di cattiva qualità. Il Centro della Città è occupato da una Piazza
più lunga che larga, di cui un lato è formato dal Municipio e dal Palazzo del Cardinal
Vitelleschi, che era nato in questa Città che ha onorato la sua patria e le ha fatto molto del
bene. 12) Ha fatto anche da culla a Papa Gregorio V e non c’è bisogno d’altro per dare molto
lustro a una Città 13) Il Municipio è molto antico, bello, grandioso e di buon gusto nella
distribuzione delle sue parti. Ho visto iscrizioni e marmi antichi, qualche affresco e il
modello in gesso dell’acquedotto al quale allora si lavorava per far arrivare acqua nella città
in maggiore abbondanza, benché questa ne fosse già fornita di una quantità più
considerevole di quanta ce ne sia a Parigi, fatte tutte le proporzioni e senza considerare il
fiume Senna che l’attraversa.
Quasi tutte le strade sono molte ben dritte e aperte. La posizione della Città non ha
consentito di farle molto larghe. Ma lo sono abbastanza perché nelle più strette ci possano
passare due carri in senso inverso; le case sono ben costruite, provviste di buon gusto,
eleganza, ordine e simmetria; per lo più sono a tre piani. C’era anticamente una Sede
Episcopale che è stata unita a quella di Montefiascone, situata a sole diciotto miglia. Il
motivo di questa unione è alquanto difficile da comprendere, perché sicuramente Corneto
è più grande e più antica di Montefiascone. Si trova inoltre in una regione almeno
altrettanto favorevole. Può darsi che, avendo le scorrerie e le razzie dei Saraceni e degli
altri barbari nell’ottavo e nono secolo desolato Corneto, che era più alla loro portata di
Montefiascone, si sia trasportato là il titolo episcopale, per impedire che il Prelato e il suo
Clero cadessero nelle mani di quei pirati, come sono stati uniti i titoli episcopali di
Toscanella e Civita Vecchia a quello di Viterbo, quelli di Sutri e di Nepi e una quantità di
11)
Si tratta di un carme che evidentemente si inserisce nalla tradizione celebrativa inauguarata dal Vitelli ed alimentata,
al tempo della visita del L., dal ceto dominante cornetano (cfr. POLIDORI, o.c., pp. 1 -22 e 379-385).
12)
La Place plus longue que large descritta da L. non era stata ancora divisa nelle attuali piazze Cavour e Trento e
Trieste dalle numerose costruzioni del XIX secolo che realizzarono lo stretto passaggio di Corso Vittorio Emanuele.
13)
Anche POLIDORI, o. c.p. 50, riferisce dell’origine cornetana di Gregorio V.
altri Episcopati in Italia: cosa che dimostra che il gran numero di Vescovati che ci sono
nella regione non sono stati creati dai Papi per essere più forti nelle votazioni durante i
Concili, come il volgo ignorante crede prestando fede ai novatori, poiché, se fosse così, non
si vedrebbero tanti Vescovati riuniti come ce ne sono. 14)
Ci sono molti Nobili a Corneto, un gran numero di famiglie di una Borghesia antica,
che è passata nelle Cariche della città, artigiani in numero sufficiente per non aver bisogno
di quelli delle Città vicine, e Mercanti che mi sono sembrati ricchi e ben vestiti. Il più
grande commercio della città consiste nell’olio d’oliva.
Si è debitori ai Genovesi delle piante d’olivo che si vedono attorno a questa città. Un
Papa era stato costretto ad impegnarsi con il suo territorio ai Genovesi, a garanzia delle
somme prese in prestito in un bisogno pressante della Chiesa. Queste popolazioni
laboriose vi si stabilirono e, non pensando che i Papi sarebbero stati in grado di rimborsare
loro quelle somme, lavorarono come sulla loro proprietà e ricavarono dalla terra tutto ciò
che credettero che potesse produrre. Benché non vi fossero affatto degli olivi per largo
tratto nei dintorni e la pigra popolazione si nascondesse dietro al pretesto che il terreno
non era adatto a questo tipo di alberi, i Genovesi non rinunciarono a tentare la fortuna, li
piantarono e riuscirono a meraviglia e, benché vecchi di qualche secolo, producono ancora
oggi considerevolmente e sono una buona parte del commercio e della ricchezza della
Città.
Ho spesso citato questo esempio agli abitanti di Civita Vecchia e ho dimostrato
scientificamente che il loro territorio era migliore di quello di Tivoli e di Corneto e che essi
potevano arricchirsi piantandoci degli olivi. La loro indolenza e la loro inoperosità ha
giustificato nel mio animo la pigrizia dei Negri del Senegal, che non vogliono ricavare dalle
loro terre che quanto producono naturalmente o che i loro padri hanno ricavato. Perché, se
delle persone ricche di spirito e di ragione come i sudditi del Papa agiscono secondo gli
stessi principi dei Negri che non ne hanno affatto, non bisogna convenire che la pigrizia è il
vizio più difficile da distruggere in un popolo e che non c’è che una violenza estrema che
possa farlo uscire da questo stato infelice? Ne abbiamo un esempio in casa nostra. Le
popolazioni della Franca Contea non erano ricche nel tempo in cui erano sotto i Re di
Spagna e, benché non pagassero alcuna taglia né imposizione a questi Principi e
approfittassero di somme notevoli che vi erano inviate per il pagamento delle Guarnigioni
e degli Ufficiali, erano povere da far pietà; poi hanno cambiato padrone, si sono trovate
obbligate a pagare delle Imposte, è stato necessario obbedire e pagare. Hanno aperto gli
14)
L. è qui tratto in inganno dalle vicende della diocesi di Centumcellae - Civitavecchia, con le quali vuole istituire una
occhi, hanno riconosciuto la bonta delle loro terre, le hanno fatte fruttare e hanno ricavato
dal loro seno non solamente di che soddisfare il Principe ma di che arricchirsi. La stessa
cosa accadrebbe ai sudditi del Papa, se si vedesse sulla Cattedra di San Pietro un Principe
che volesse risvegliarli dal lungo assopimento in cui si trovano da tanto tempo,
obbligandoli, loro malgrado, al lavoro e aprendo i commerci in questi Stati. L’ho già
sottolineato in un altro passo. Gli stati del Granduca di Toscana non valgono neppure
lontanamente quelli della Chiesa, eppure quel Principe ne ricava somme che sembrano
esorbitanti e tutti i suoi Sudditi sono ricchi; perché questa differenza? Da dove deriva?
E’che il Principe ha saputo risvegliare i suoi Sudditi dal peccato di pigrizia mentre i Sovrani
Pontefici ce li lasciano marcire.
Oltre al commercio d’olio, gli abitanti di Corneto ne fanno anche uno abbastanza
considerevole di frumento. Il loro terreno è eccellente. Ogni qualità di grano e di legumi vi
cresce alla perfezione. Hanno frutta molto buona e in quantità. Le coste del mare sono
straordinariamente adatte all’allevamento di montoni e capretti. Ne allevano di pregiati da
lana e da pellame, i pascoli lungo la Marta forniscono loro buoi grassi da latte e da
formaggio a cui non manca che un po’ più di cura per eguagliare quelli che godono la
migliore reputazione. Hanno inoltre dei buoni vigneti. Si vede in tutta questa Città un’aria
di agiatezza: è il segno che gli abitanti se la passano bene. Sono entrato in molte case, per
lo più di borghesi, le ho trovate ben ammobiliate, hanno calessi o cavalli, sono ben vestiti,
hanno gusto per i quadri. La città è pulita e ben pavimentata e il Municipio è così ricco che
ha intrapreso la costruzione di un acquedotto che gli costa più di ottantamila scudi romani,
benché, come ho già detto, abbia acqua in misura sufficiente e anche più del necessario.
Arrivammo a Corneto verso le 14 e avremmo potuto arrivarci prima perché gli
attacchi erano molto buoni. Erano cavalli napoletani di una grande bellezza e di una
vivacità straordinaria. Non hanno la taglia dei cavalli di cui ci si serve a Parigi, ne sono ben
lontani; ma sono infinitamente più eleganti e di una bellezza ammirevole. Tutto ciò che
possono fare i cocchieri e i postiglioni è di trattenerli. A un miglio dalla città trovammo una
ventina di cavalieri: erano i personaggi più in vista che venivano incontro a S.E. Egli fu
ricevuto dal Priore degli Agostiniani alla testa della Comunità. Il Cardinale Imperiali è il
protettore di tutto l’ordine degli Agostiniani e sicuramente un vero protettore, che non
lascia scappare alcuna occasione di fare del bene a questi Padri, ma che domanda loro sia
rispetto della regola che ciò che hanno promesso a Dio.
improbabile analogia.
Mentre Sua Eminenza ricevette i complimenti, io mi preparai a dire Messa, al
termine della quale la seguii alla casa di uno dei maggiorenti della Città, dove era stato
preparato il suo alloggio: questa casa era molto elegante. 15) Il Cardinale alloggiò al terzo
piano per godere dell’aria e della vista che era molto bella ed estesa. Dopo pranzo, due di
quei Signori che erano venuti incontro a Sua Eminenza si offrirono di farmi vedere la Città.
Io andai con loro e vidi quanto ho già annotato sopra e quanto dirò nel seguito.
Andammo dagli Agostiniani, dove avevo detto Messa all’arrivo. Il Priore ci fece
molte cortesie e ci fece vedere il Convento. Il Chiostro è tra i più singolari, si compone di
cinque arcate da ciascuna lato, alte, ornate di pilastri all’esterno e all’interno, tagliati
elegantemente, d’ordine dorico. L’interno del Convento è comodo e molto curato; è
ridente, di buon gusto e ha una bella vista. La Chiesa è grande e tuttavia non ha che una
navata piuttosto larga con delle Cappelle sui due lati, un Altare alla Romana e il Coro dietro
l’Altare.
Ci entrammo tornando dalla casa di uno dei nostri accompagnatori, che ci fece
vedere qualche quadro originale, che avrebbe potuto far onore allo studio di un Principe. Ci
fece assaggiare del vino di sua produzione che trovammo molto buono.
Monsignor Cardinale mi disse che voleva farmi vedere i lavori dell’acquedotto e che
aveva chiesto dei cavalli per portarci là. Poco dopo fu portata una carrozza per Sua
Eminenza e dei cavalli per tutti quelli che l’accompagnavano. Mi preparavo a montare a
cavallo dopo averlo visto salire nella carrozza, quando mi chiese dove andassi. “Sto salendo
a cavallo - dissi - per avere l’onore di accompagnare Vostra Eminenza”. “No, no - mi disse salite sulla mia carrozza, ci intratterremo strada facendo”.
Andammo così in carrozza fin dove quella poteva spingersi senza rischio; quindi
scendemmo e, mentre si rendeva conto al Cardinale del lavoro e delle spese fatte e da fare,
egli mi fece montare a cavallo con uno degli appaltatori e con alcuni di quelli che lo
avevano accompagnato e andammo fino a tre miglia di distanza dal luogo dove erano i
lavori. Ne fui molto soddisfatto. Si era preferito far passare il canale seguendo il profilo
della montagna piuttosto che fare delle arcate per andare da un punto all’altro. C’erano
tuttavia, in qualche punto, dei tratti costruiti solidamente e di bell’aspetto. Mi fermai più a
lungo di quanto avrei dovuto e andai troppo lontano, cosicché era trascorsa più di un’ora
dal tramonto del sole quando ci unimmo di nuovo a Monsignor Cardinale- “Vi stiamo
aspettando - mi disse”. Il rimprovero era giusto e molto garbato. Io gli risposi che la
curiosità mi aveva fatto dimenticare il mio dovere e che le belle cose che avevo visto ne
15)
E’facile pensare che si tratti del Palazzo dei Conti Falzacappa, allora la più illustre famiglia cornetana.
erano la causa. “Torniamo in città - mi disse - mi racconterete cammin facendo quel che
avete visto”. Io lo intrattenni ed egli ritenne opportuno che vi tornassi l’indomani, cosa
che feci.
Ebbi il piacere di vedere i lavori molto meglio di quanto non avessi fatto la
sera precedente. E’vero che non potei andare fino al luogo dove si prendeva l’acqua: era
troppo lontano. Ma vidi abbastanza per accontentare la mia curiosità.
In seguito ai lavori, a mezza costa della collina dove era la Città di Tarquinia, sono
state trovate le antiche sepolture della stessa Città. Si deve questa scoperta al caso e alla
necessità di scavare per fare il letto del Canale. I sepolcri, o le Grotte, sono a mezza costa
della collina, sulla quale era questa Città sfortunata, distrutta da tanti secoli che non se ne
aveva più quasi alcuna memoria. Si sapeva solamente per tradizione che era stata in questa
località o poco lontano: questo era tutto ciò che si era conservato. La scoperta delle grotte
fece trovare qualche altro monumento che non lasciò più luogo al dubbio che essa si fosse
trovata realmente in questa località.
Le Grotte, che sono servite da sepolcri agli Eroi di quel tempo, sono scavate nel tufo
di cui la montagna è composta. Sono per lo più delle camere da dieci a dodici piedi,
quadrate, alte sui nove, dieci piedi. Le porte sono al centro delle coste opposte e aprono
una successione di numerose Grotte, che danno le une nelle altre. Le aperture o porte
erano chiuse da un muro meno spesso dei muri che separavano le Celle tra loro. Si era
supplito alla mancanza di tufo, quando ciò era capitato, con muri di mattoni larghi, lunghi
e più spessi di un terzo di quelli che si fanno oggi. In alcuni si vedevano i resti di pitture,
cioè, del rosso, del blu, del nero, che sembravano marcare dei riquadri piuttosto che delle
figure, perché l’umidità aveva cancellato quasi tutto.
Ogni Cella aveva due grandi banchi o ripiani tagliati e praticati nel tufo, o fatti di
mattoni, di circa quattro piedi di larghezza su tutta la lunghezza della Cella: era là che si
stendevano i corpi. Lo si può dire con sicurezza dopo che si sono trovati sui banchi le ossa
grandi che sono scampate al trascorrere del tempo, il quale ha consumato interamente le
piccole e le medie; erano disposte in modo che si vedeva che esse erano nel posto che
occupavano quando il corpo intero vi era stato deposto; ma non si sono trovate che le ossa
delle cosce e delle gambe, qualche resto di vertebre e dei crani la cui straordinaria
grandezza testimonia che avevano fatto parte di corpi estremamente grandi.
Sugli stessi banchi, accanto ai corpi si sono trovate delle armi che la ruggine aveva
quasi consumato, come spade molto larghe e lunghe, ferri di partigiane 16) lunghe più di
due piedi, larghe da sette o otto pollici e molto spesse. Lame di coltelli o di pugnali grandi e
16)
E’una sorta di alabarda, munita di un’asta di legno e di una lama triangolare
forti ma talmente mangiate e consunte dalla ruggine che non potevano tenersi dritte.
Sembrava che fossero di filigrana. Ne ho viste alcune. Quanto ai manici e alle aste, non
rimaneva nulla. Non c’era la minima apparenza che lì ci fosse stato altro che delle semplici
iscrizioni: apparentemente la moda del paese e dei tempi non era di fare epitaffi, benché se
ne siano trovati in altri paesi di più antichi di quanto si ritenga che quelli potessero essere.
Ciò che si è ritrovato di più integro e in più grande quantità sono vasi di terracotta di
ogni specie. Alcuni erano ai piedi e altri alla testa dei corpi, erano coppe, boccali o brocche
a una o a due anse, sottocoppe e altre simili stoviglie; ai piedi dei banchi c’erano fornelli,
pentole molto grosse, grandi vasi e altri utensili di casa. Tutto questo vasellame era integro.
Se ne è trovato in tutte le Celle che sono state aperte. In verità questi pezzi, e
particolarmente quelli che erano verniciati, erano coperti da una specie di talco biancastro,
che ne copriva tutta la superficie senza danneggiare la vernice né il colore, perché la
maggior parte di questi vasi era coperta da una vernice nera con ornamenti rossi
abbastanza ben lavorati.
Ne ho avuti parecchi. Ne ho regalati a dei collezionisti, ma me ne restano tuttavia
ancora due: il primo è una ciotola fatta quasi completamente come quelle di cui ci si serve
ancora oggi nella regione, che si chiama Scudella, è rotonda, senza orecchie, piuttosto
simile a una tazza svasata, sostenuta da una base rotonda. La vernice è nera con qualche
ornamento rosso al di fuori. L’altro pezzo è una sottocoppa di materiale e colore simile con
degli ornamenti rossi al centro. Li ho puliti in parte per far vedere i colori ed ho lasciato il
talco sul resto. Avevo un boccale che poteva contenere due pinte di una terra bianca così
leggera che il minimo soffio la spargeva. Tutto questo vasellame era fatto al tornio. L’ansa
del boccale era bene applicata come alcune decorazioni che lo coprivano e l’imboccatura
era ornata a baccelli. I fornelli che si sono trovati dentro queste Celle sono realmente della
stessa foggia di quelli che si fanno ancora oggi in Italia, in Francia, in Spagna e in molti
altri paesi. Essi possono servire a smentire quelli che osassero attribuirsene l’invenzione e
la forma.
Sia che la regione non fosse allora ricca d’oro e d’argento, sia che questo non fosse il
costume, benché molto antico, come si vede dai sepolcri di David e Salomone, sia che gli
operai che hanno aperto queste Celle si siano impadroniti di quello che hanno trovato e
siano stati tanto saggi da non dirne niente, è certo che non se ne è avuta conoscenza. Ho
avuto solamente tra le mani un anello che si credeva d’oro: sembrava tale sulla pietra; ma
essendo stato sondato con il bulino si è scoperto che era di rame rivestito da due foglie
d’oro o da una molto spessa. Non era rotondo come sono normalmente gli anelli, ma ovale.
Nel diametro maggiore misurava un pollice ed era spesso come le penne di corvo di
cui ci serve per disegnare.
Qualora si supponesse che i miei due vasi siano stati messi nel sepolcro, in cui sono
stati trovati, l’anno medesimo in cui la città di Tarquinia è stata distrutta, cioè
cinquecentocinque anni avanti la nascita del Messia, ne conseguirebbe che essi avrebbero
in questo anno 1726 duemiladuecentotrentuno anni d’antichità, ma se ne possono
attribuire loro, senza timore di ingannarsi, molti di più.
Andai a passeggiare sulla montagna di Tarquinia: è al presente un bosco, nel quale
non è agevole scoprire niente che possa far conoscere quale grandezza nè quale forma
avesse. Quelli che ebbero la commissione di distruggerla la eseguirono molto fedelmente.
Monsignor Cardinale andò a passeggiare verso sera. Ebbi l’onore di accompagnarlo.
Fece la sua preghiera nella Chiesa dei Francescani che si trova all’estremità della
Città a mezza costa; benché sia interamente nel vecchio stile gotico, cioè, nel peggiore, non
per questo è priva di qualcosa di buono. Lì ci mostrarono una vasca di marmo nella quale
anticamente si battezzava per immersione. Io non credo che sia stata fatta per quest’uso.
Era sicuramente un bacino di fontana sul quale si notano dei festoni di fiori e di frutti di
molto buon gusto. Ci sono nella Chiesa alcuni epitaffi che non ebbi il tempo di copiare.
Venerdì 24 aprile, dissi messa dagli Agostiniani, dopo la quale montammo in
carrozza per andare a Montalto. Poiché il Signor Marchese Imperiali aveva deciso di
andare a cavallo, volli sedermi davanti con il mio compagno. Monsignor Cardinale mi
domandò perché cambiassi posto, gli dissi che era per rispetto e affinché fosse più a suo
agio. “Mettetevi accanto a me - mi disse - quando saremo fuori della città, farete come
riterrete opportuno; ma io voglio che tutte queste persone vedano la stima che ho per voi”.
Che dire di una così grande cortesia? Forse Padre Feuillée si irriterà che io la
riferisca, come si è irritato perché non ho dimenticato quello che ho fatto alla Guadalupa.
Ma io la prego di considerare che quella mi fa troppo onore perché possa non
parlarne, tuttavia, per non nuocere alla sua salute, non ne dirò di più, anche se dovessi
esser tacciato di ingratitudine, potendo e dovendo riferirne ancora. 17)
17)
L’ironica riferimento alle critiche del R. P. Feuillée, appartenente all’ordine dei frati minimi e membro
dell’Accademia delle Scienze, finisce ovviamente per amplificare la “grande cortesia” del cardinale. L’inizio del cap.
XIV del t. IV chiarisce i termini della polemica: P. Feuillée aveva accusato il L. di abbandonare in riferimenti di
carattere personale e il nostro autore si difende affermando che i suoi Voyages altro non sono che un diario, un journal
du séjour qu’il a fait. P. Feuillée “dovrebbe considerare che un diario deve neccessariamente portare il nome di chi l’ha
fatto, è una narrazione di ciò che costui ha visto, fatto e detto, l’autore è obbligato a parlare di se stesso”.
Montalto è una città molto più piccola o un borgo, che fa parte del Ducato di Castro.
Dista dieci miglia da Corneto, circa tre miglia dalla foce del Fiora e dalla Torre di
guardia e circa quindici miglia dalla Città di Castro, che ha dato il nome al Ducato.
Questo Ducato apparteneva a casa Farnese, cui appartengono ancora oggi i Ducati
di Parma e Piacenza. La città di Castro era su un’altura circondata da precipizi, ai piedi dei
quali scorre il ruscello o piccolo fiume Olpita. Era sede Episcopale.
Accadde che nel 1641 il Papa Urbano VIII chiese con molta insistenza al duca
Odoardo Farnese di rimborsare i debiti che aveva fatto a Roma e, non avendo quel Principe
potuto o voluto farlo, il Papa lo minacciò di impadronirsi delle terre della Chiesa che aveva
in feudo e, poiché il Ducato di Castro era il più esposto e il più alla mercé del Papa, il
Principe vi fece fare con cura le fortificazioni necessarie, vi mise una guarnigione di
cinquecento uomini agli ordini di Delfino Angelieri con molte provviste da guerra e
vettovaglie. I suoi uomini fecero molte ostilità sulle terre della Chiesa e il Ducato divenne il
rifugio di una infinità di briganti. Il Papa, vedendo che il Duca si preparava alla guerra,
cosa che gli sembrava un crimine di Lesa Maestà, perché quello era suo vassallo, gli fece
fare diverse ingiunzioni dall’Uditore della Camera Apostolica, al fine di metterlo
completamente nel torto e, resosi conto che tutti i suoi gesti paterni erano inutili, arruolò
delle truppe che mise agli ordini di Taddeo Barberini, Prefetto di Roma, e fece assediare
Castro. L’assedio non fu lungo. Angelieri, sia che gli facesse difetto il coraggio, sia che si
fosse accordato, rese la Piazza dopo sei giorni e il Papa vi mise una guarnigione. La presa di
questa Piazza provocò grandi sconvolgimenti in Italia; molti Principi presero parte a
questa disputa. Si ebbe infine una pace nel 1644 in virtù della quale il Duca Farnese
rientrò in possesso di Castro. Ma riprese più apertamente che mai le antiche controversie,
che erano soltanto assopite e non spente. Nel 1649 si ripresero le armi e, avendo Innocenzo
X arruolato un esercito agli ordini dei conti Videman e Gabrielli, Castro fu assediata una
seconda volta.
Alle ragioni di interesse che si avevano per impadronirsi di questa
Piazza si aggiungeva l’uccisione di Monsignor Giarda, che ne era Vescovo, il quale fu
assassinato, e molte altre ragioni.
Se non ci fosse stata che l’uccisione del Vescovo, la città avrebbe dovuto essere
privata del titolo Episcopale per cento anni, questa era la disposizione dei Canoni; ma,
essendo stata rasa al suolo la Città, il titolo fu trasportato ad Acquapendente, città dello
Stato della Chiesa sulla frontiera della Toscana.
Sansone Asinelli, che era Governatore di Castro, si difese con molto vigore, l’assedio
fu lungo e vi furono molte perdite da una parte e dall’altra. Alla fine, essendo stata spinta la
trincea fino alla controscarpa ed essendoci una breccia considerevole al corpo della Piazza,
egli la consegnò e il Papa, invece di metterci una guarnigione, decise di togliersi questa
spina dal piede e di liberare per sempre gli Stati della Chiesa dalle rapine che i briganti vi
facevano sotto la protezione del Duca e dei suoi Ufficiali: si diede un tempo ragionevole
agli abitanti per portar via i loro effetti e tutto quello che vollero dalle loro case. Dopo di
che si appiccò il fuoco dappertutto, e quando l’incendio ebbe fine, si distrusse tutto ciò che
restava delle case, si rasero al suolo le mura e le torri della Città, si riempirono i fossati e si
eresse una colonna di pietra al centro della Piazza, sulla quale si incisero queste parole: Hic
fuit Castrum, qui fu Castro. Castel Franco, Castel Cretoso, Cortuosa, Penteccio, Quintiana,
Castel Ghezzi, Ulcia ed altri luoghi ebbero la stessa sorte per togliere ai briganti tutti i
luoghi dei loro rifugi.
L’anno seguente, il Papa riunì al suo Dominio il Ducato di Castro, malgrado tutte le
opposizioni che fece casa Farnese. Anche il Lago di Bolsena, in tutto o in parte, ne
dipendeva. Oggi appartiene interamente alla S. Sede.
Arrivammo a Montalto alle diciassette e mezza, vale a dire circa alle undici di
Francia. Gli Assentisti erano venuti a incontro a Monsignor Cardinale e lo condussero al
Castello che si chiama la Rocca. Il nome è ben appropriato, perché è costruito su un’altura
elevata e scoscesa quali da tutti i lati, che domina tutti i dintorni. Le costruzioni sono
vecchie; fatta eccezione per la grandezza, sono ben poca cosa. Si parlava di abbatterle e di
farne di nuove. Non so che cosa sia successo dopo la mia partenza dall’Italia, perché si va
lentamente a Roma, soprattutto quando si tratta di fare delle spese. La vista
dell’appartamento occupato da Sua Eminenza era molto bella ed ampia. Volle farsi rendere
conto dello Stato della Comunità appena ci si alzò da tavola ma, non essendosi trovati
pronti quelli che ne erano incaricati, concesse loro il resto del giorno e frattanto si fece
portare dei cavalli per andare a passeggiare lungo il fiume fino alla foce, presso la Torre di
Guardia che porta il nome di Montalto. Arrivarono subito con un calesse, sul quale ebbi
l’onore di salire con lui.
Il Fiora, che costeggiammo fino alla foce, non è un gran fiume; non è tuttavia
guardabile che in pochi punti che bisogna conoscere bene prima di azzardarcisi. I suoi
bordi sono poco alti e affiancati da ogni lato da un prato della larghezza di un miglio, al di
là del quale si vede una selva o delle brughiere che servono da pascolo per molti armenti di
diverse specie di animali.
Non ci sono che tre piccole miglia da Montalto alla riva del mare. Il caso, o il
riguardo degli Assentisti, vi fece trovare due Tartane di pescatori che diedero a Monsignor
Cardinale il divertimento della pesca nel mare e, in seguito, nel fiume; riuscirono molto
bene in entrambi i casi e riportarono molto buon pesce.
La torre non mancò di salutare Sua Eminenza con tutta la sua artiglieria, che
consisteva in tre pezzi di cannone di circa quattro libbre di palla, altrettante petriere 18) e
qualche grosso archibugio montato su dei cavalletti. Questa torre è più grande di un terzo
di quella che ho descritto nel tomo precedente ed è fatta sullo stesso modello. Il torregiano
vi è comodamente alloggiato con due uomini di guardia che è costretto a tenere.
Visitammo la torre dall’alto in basso. E L’ultima dello Stato Ecclesiastico. La vista è molto
ampiai dalla riva del mare, perché solo l’orizzonte la limita e si scopre a destra e a sinistra
da Civita Vecchia a Porto Ercole. Da lì si vedono tre diversi Stati. Quelli della Chiesa, di cui
il Ducato fa parte: quelli del Grand Duca di Toscana, come Sovrano dello Stato di Siena; e
quello di Orbetello, altrimenti delle guarnigioni chiamate Stato dei Presidi, che il Re di
Spagna si riservò quando cedette quello di Siena ai Gran Duchi di Toscana. 19)
Il Fiora viene dallo Stato del Gran Duca. Si unisce al fiume Timone a un miglio dalle
rovine di Ulcia; serve da confine, con il piccolo corso del Pescia, agli stati della Chiesa e del
Gran Duca.
Si contano dieci miglia dalla foce del Fiora a quella del Pescia. Tutto il litorale fino a
tre o a quattro miglia all’interno è a bosco e brughiera ed è questa, a quanto pare, la causa
della malaria della regione, perché l’aria del mare, permanendovi senza movimento, vi si
addensa e si corrompe così come l’acqua delle piogge che vi ristagna. Cosa che non
accadrebbe se queste, terre, d’altronde molto buone di per sé, fossero valorizzate. La
coltivazione di questi luoghi, se ci si potesse risolvere a intraprenderla, vi attirerebbe
persone che vi si stabiliribbero, la malaria cesserebbe ben presto, la regione si popolerebbe
e porterebbe un commercio considerevole.
Al di là di questa fascia incolta e abbandonata, si trovano terre a frumento di una
resa incredibile, il frumento che producono, e generalmente tutto ciò che se ne vuole
ricavare, è eccellente.
La passeggiata e il piacere della pesca ci trattennero tanto a lungo che erano quasi le
due di notte, quando arrivammo a Montalto. Sua Eminenza sistemò qualche affare priima
di mettersi a tavola per cenare.
Avevamo trovato tutte le siepi e le brughiere ai due lati della strada piene di lucciole.
Ho parlato a lungo di questi insetti e delle loro diverse specie nel mio Viaggio alle
Isole dell’America. Quelle che ho visto in questo territorio e in molti altri luoghi d’Italia
sono più piccole di quelle dell’America e più grandi di quelle dei paesi freddi.
18)
La petriera è un mortaio di grandi dimensioni usato per scagliare pietre.
Lo Stato dei Presidi era sotto il controllo della Spagna fin dal 1557 e passò all’Austria solo alcuni anni dopo la visita
del L. (trattati di Utrecht e Rastadt del 1713-1714).
19)
L’indomani mi alzai di buonora per andare a vedere la Città e quanto avrei potuto
dei dintorni, poiché sapevo che Monsignor Cardinale sarebbe tornato a Corneto lo stesso
giorno. Ebbi ben presto completato la visita della Città, perché è molto piccola. E’costituita
da un unico agglomerato, al di sotto dell’altura sulla quale è costruito il Castello: non
consiste che in un’unica strada abbastanza lunga e larga, tagliata da cinque o sei strade più
corte e meno larghe. Le case sono ben costruite e curate. C’è una chiesa Parrocchiale nella
quale dissi Messa e due fontane molto belle. Mentre leggevo l’iscrizione di una di queste
fontane, venne un asino caricato con due barili, che senza essere condotto da nessuno si
avvicinò a una delle cannelle, vi accostò uno dei barili all’imboccatura del quale c’era un
imbuto abbastanza largo e, quando lo sentì pieno, si girò e fece riempire nello stesso modo
il secondo barile. Dopo di che se ne ritornò a casa a passi misurati. Tornò un momento
dopo e fece ancora la stessa manovra con altrettanta destrezza che la prima volta; io lo
seguii per sapere a chi appartenesse un asino così bene indottrinato e vidi che apparteneva
al fornaio della Città. Costui mi fece molte cortesie, sia perché mi aveva visto al seguito di
Monsignor Cardinale che perché elogiavo il suo asino.
Mi disse che era suo padre ad averlo istruito così, che erano quaranta anni che se ne
servivano di padre in figlio in famiglia e che, quando suo padre lo comprò, era già un asino
fatto, a cui non si potevano dare meno di sei anni. Questa età così avanzata mi sembrava
difficile da credere; se ne accorse e mi giurò che il suo asino aveva quarantasei anni
suonati, aggiungendo che, se avessi voluto avere un po’ di pazienza, mi avrebbe mostrato
delle carte che me ne avrebbero convinto. Non volli spingere più lontano le mie ricerche,
l’asino fece ancora un viaggio durante la nostra conversazione, dopo di che si fermò alla
porta per essere liberato dei barili e del basto. “Perché - mi disse il fornaio - quando ha
fatto i viaggi che deve fare bisogna metterlo in libertà, altrimenti romperebbe i barili e si
sbarazzerebbe molto presto del suo basto”.
Vorrei proprio vedere i Cartesiani fare una macchina come quella o spiegarci in una
maniera ragionevole una meccanica così giusta e così ragionata di tutti questi movimenti:
credo che ne sarebbero imbarazzati, così come per la spiegazione di un fatto che riporterò
subito.
Salii al Castello e andai a vedere i pozzi dove si ripone il frumento che si vuole
conservare per molti anni; si trovano su un piano che serve da terrazza al Castello dal lato
del mare. E’ di un tufo schietto, nel quale si sono scavati dei pozzi, la cui apertura, o bocca,
non ha che circa tre piedi di diametro. L’apertura ha questo diametro all’incirca fino ad
una tesa di profondità; dopo di che il diametro dei pozzi aumenta fino a diciotto o venti
piedi, su una profondità di più di trenta piedi. 20) E’ una specie di cerchio scavato nel tufo,
la cui apertura è al centro del cono che la copre. Il tufo è così schietto e così compatto che le
piogge non lo possono mai penetrare. Si mette un letto di paglia ben secca sul fondo, si
tappezzano le pareti con delle stuoie e ci si mette il frumento ben secco e pulito. Man mano
che ci si mette il frumento si aumentano le stuoie, affinché non stia a contatto diretto con
le pareti e, quando il pozzo è riempito fino alla parete superiore, si chiude la bocca con una
pietra tagliata apposta, a misura, o con delle tavole di buon legno tagliate a misura e si
copre il sopra con un po’di calce e pietrisco a forma di cono. Ho visto alcuni pozzi vuoti e
altri che venivano vuotati. Mi è stato detto che quando si apriva un pozzo ne usciva un
vapore denso e un calore fortissimo, quasi come una fornace che si dissigilli. Uno degli
Ufficiali dell’Assentista ebbe la cortesia di farmi aprire un pozzo, affinché fossi assicuratoa
della verità di ciò che mi aveva appena detto; vidi in effetti uscire dal foro, dopo che fu
aperto, un fumo denso e molto caldo che durò a lungo. Si estrasse del frumento per
farmelo vedere, era caldo senza essere umido e così ben conservato come se fosse stato in
un granaio.
Mi si assicurò che il frumento era così bello e buono dopo essere rimasto in questi
pozzi come se fosse stato appena battuto e pestato.
Non mi stupisco più se i Mori d’Africa mettono tutti i loro raccolti di frumento in
pozzi quasi del tutto simili a questi, di cui chiudono le aperture con rami d’albero o con
della paglia, sulla quale mettono della terra che lavorano e seminano come se sotto non ci
fosse niente.
Salli poi all’appartamento di Monsignor Cardinale, mi aveva visto a colloquio con il
fornaio. Mi chiese l’argomento della conversazione e io glielo dissi; come sembrò dubitare
dell’età dell’asino, gli dissi che se voleva sarei andato a cercare il suo estratto di battesimo.
I presenti lo assicurarono: alcuni lo conoscevano da trenta anni, altri da
trentacinque anni, in modo che si decise di attenersi al rapporto del padrone e di
aggiudicare quarantacinque anni alla sua età, salvo dargliene di più se si trovassero nuove
prove.
Oltre al grano, che è la risorsa principale del Ducato di Castro, vi si alleva una gran
quantità di pecore. Il frumento vi attira i topi e le pecore vi fanno venire i lupi, che hanno
rifugi sicuri nelle selve e brughiere che sono in gran numero nella regione.
E’passato in consuetudine con forza di legge che l’Assentista debba pagare una
pistola per ogni lupo o testa di lupo che gli si porti, purché sia certo che la bestia è stata
20)
La “tesa” è una misura di lunghezza corrispondente all’apertura delle braccia.
uccisa nel Ducato. 21) Senza questa precauzione i lupi si moltiplicherebbero al punto che
non ci sarebbe più sicurezza per le pecore e le altre bestie e in seguito, forse, neppure per
gli uomini.
Un contadino scoprì, nel tempo in cui Monsignor Cardinale era a Montalto, la tana
di una lupa e agì così tempestivamente, malgrado il pericolo a cui si esponeva, da sottrarre
cinque cuccioli che vi si trovavano. Li portò ancor vivi all’Assentista, che pretese che,
avendoli presi tutti e cinque in una retata, aveva faticato come se ne avesse preso uno di
buona taglia e capace di fare del male. Il contadino non volle né lasciare i suoi lupacchiotti
né accettare la pistola che gli si offriva. Chiede udienza al Cardinale che, avendo sentito le
parti, condannò l’Assentista a prendere i cinque cuccioli ed a pagare cinque pistole al
contadino. Questo giudizio era stato più equo perché, oltre al pericolo estremo al quale
s’era esposto il contadino se la lupa l’avesse trovato in flagrante delitto o avesse seguito le
sue tracce, egli aveva liberato la regione dalle razzie che quei cinque lupacchiotti non
avrebbero mancato di fare e della posterità che vi avrebbero lasciato.
Ma non è così facile liberarlo dai topi. Il Signor de Seine, Libraio a Roma, dice nel
suo Viaggio in Italia, tomo III, pag. 416 che la Città di Cosa, che non è molto lontana da
Montalto, fu talmente infestata dai topi che i suoi abitanti furono obbligati ad
abbandonarla, come riferisce Rutilius Namatianus Gallus, nei versi che terminano con
questi due:
Dicuntur cives quondam migrare coacti
muribus infestos deseruisse lares 22)
Così il gran numero di ratti e topi non è una cosa nuova in questa regione; ma ciò
che è stato riferito al Sig. Cardinale mi è sembrato così straordinario che non sono stato in
grado di dimenticarlo. E’ che, avendo sezionato dei topi pregni, si era trovato che anche
quelli che si portavano dentro erano nello stesso stato, in modo che, venendo al mondo,
avevano partorito. Fu l’Assentista, uomo saggio che non avrebbe osato ingannare un
Signore come era il Cardinale Imperiali, che assicurò di aver visto ciò e di averlo notato con
una sorpresa che l’aveva obbligato a fare la dissezione con ogni cura e attenzione
immaginabili; in questo fatto non c’è niente che non sia molto verosimile, se è vero che uno
storico riferisce che nel 1672 una donna partorì una bambina che era incinta di un’altra
bambina che fu battezzata. Etrennes Mignones del 1728. 23)
21)
La pistola è una moneta d’oro spagnola del valore di due scudi.
Si dice che una volta i cittadini costretti ad emigrare / abbiano abbandonato ai topi i Lari infesti.
23)
Piccole strenne del 1728. E’il divertito commento del L. nel momento della revisione dei suoi appunti.
22)
Partimmo da Montalto verso le ventuno ed arrivammo a Corneto al tramonto del
sole. Monsignor Cardinale fu occupato fino all’ora di cena, e il giorno seguente quasi per
intero, a diversi affari, poiché, come ho già segnalato, è il capo della Congregazione del
Governo dello Stato Ecclesiastico, da cui dipendono tutti gli affari che hanno rapporto con
il Governo particolare delle città che compongono lo Stato; e quando fa la visita delle
piazze, da solo ha tanto potere quanto ne ha con tutta la Congregazione quando è riunita.
Il 28 ricevette di prima mattina a mezzo di un corriere espresso la notizia della
morte dell’Imperatore Giuseppe. Si prese la pena di scendere dal suo appartamento nel
nostro per darci la notizia; io gli dissi che era una gran perdita ma che ciò sarebbe stato un
grande avvio alla pace generale. 24) Partimmo verso le dodici e mezza e arrivammo a
Civitavecchia alle quindici. Dissi messa arrivando alla Cappella della Morte. Sua Eminenza
ci trattenne a pranzo e quindi ci congedò ricolmi delle sue cortesie.
Avevo notato sulla strada da Corneto a Civita Vecchia, e particolarmente tra la
Marta e il Mignone, una quantità di alberi da sughero. Ne ho fatto la descrizione nel mio
Viaggio in Spagna al quale il Lettore farà ricorso se vuole.
Giovanni Insolera
RINVENIMENTI DELL’ETA’ DEI METALLI
PRESSO TARQUINIA
Si presentano alcune schede topografiche, corredate dal catalogo e dall’illustrazione
dei reperti, relative a rinvenimenti di superficie delle età del rame, dal bronzo e del ferro
effettuati nel territorio comunale di Tarquinia nel corso della primavera del 1989. Si
rimandano ad altra sede lo studio dei materiali ed una analisi topografica più
approfondita, limitandosi qui alla presentazione dei singoli complessi e dei principali
problemi interpretativi ad essi collegati.
A. Cavone (fig.1, A; fig. 2-3)
Ubicazione: nella valle del fosso S. Savino, sul lato prospiciente il Piano della
Regina.
24)
In effetti, la morte improvvisa dell’Imperatore Giuseppe I (1705-1711) e la prospettiva che il fratello Carlo sedesse
su entrambi i troni di Spagna e d’Asburgo bloccarono definitivamente la politica di espansione di Luigi XIV,
provocando, in quello stesso anno 1711, la pace separata con l’Inghilterra e, in rapida successione (Utrecht, 1713 e
Rastadt, 1714), il nuovo assetto europeo.
Tipo e condizioni di rinvenimento: affioramento di frammenti d’impasto, riferibili
probabilmente ad insediamento; raccolta di superficie su terreno arato; buone condizioni
di osservabilità.
Topografia: i frammenti affiorano lungo il pendio posto tra la base della parete
calcarea - che delimita il pianoro del Cavone - ed il fosso S. Savino, in corrispondenza di
uno stretto terrazzo. L’area di affioramento si estende per circa mq. 500, con densità
variabili. Nelle immediate vicinanze sono presenti sorgenti d’acqua perenni.
Cronologia: reperti riferibili all’eneolitico (almeno i nn. 1 e 2), all’antica età del
bronzo (nn. 3,4,5, probabilmente con valenze cronologiche diverse); ad una fase non
evoluta del Bronzo medio (nn. 6,7,9, forse 8).
Catalogo dei reperti.
1) Frammento di parete di vaso decorato a “squame”; impasto grigio-bruno con
piccoli inclusi, superficie grigio-bruna.
2) Frammento di parete decorata a grossi punti profondamente impressi con una
cannuccia (si nota nel fondo dell’impressione l’impronta data un elemento cilindrico cavo);
impasto medio-fine con piccoli inclusi calcarei, superficie bruna.
3) Frammento di forma chiusa, con spalla piuttosto inclinata verso l’interno (si
tratta probabilmente di un’olla globulare) con larga scanalatura orizzontale al di sotto
dell’attacco del labbro; decorata sulla spalla con una sottile linea orizzontale incisa,
probabilmente delimitante superiormente una banda orizzontale campita da segmenti
obliqui a rotella dentata; impasto grigio fine con scarsi inclusi (calcare e quarzo) molto
piccoli; superfici grigio scura lucidata.
4) Frammento di parete con ansa verticale a nastro “a orecchia”; impasto grigio con
inclusi (calcare e quarzo) medio-grandi; superfici bruno-rossiccia.
5) Frammento di grande scodella (diam. allì’orlo circa cm. 46) con labbro
fortemente svasato curvilineo, bassissima parete obliqua e vasca a profilo convesso;
impasto bruno scuro medio-fine con inclusi calcarei; superficie arancio lisciata.
6) Frammento di ciotola carenata, parete concava decorata con cerchielli impressi;
impasto fine bruno con piccoli inclusi calcarei; superficie arancio liscia.
7) Frammento di scodella con bassa parete verticale o leggermente rientrante, orlo
piatto; sul labbro parte di una probabile ansa a maniglia orizzontale con prolungamenti
laterali; impasto bruno con abbondanti inclusi calcarei medio-piccoli; superficie grigia
lisciata.
8) Frammento di tazza con orlo arrotondato, labbro svasato rettilineo, spalla
arrotondata (l’inclinazione nel disegno è ipotetica); impasto grigio con grossi inclusi
calcarei, superficie bruna lisciata.
9) Frammento di parete probabilmente di scodella carenata, con parte di ansa a
rocchetto con foro passante obliquo; impasto rossiccio con scarsi grossi inclusi (selce e
quarzo); superficie rossiccia lisciata.
10) Frammento di piccolo olio probabilmente ovoide, il labbro è ingrossato e
ripiegato verso l’alto quasi a formare un accenno di colletto; l’orlo piatto è decorato sul
margine esterno con unghiate verticali; sotto l’orlo due cordoni plastici applicati a sezione
triangolare; impasto grigio scuro con scarsi inclusi (prevalentemente chamotte, ma anche
quarzo e calcare.
11) Frammento di olla, breve labbro leggermente svasato con unghiate sul margine
esterno; impasto grigio con scarsi inclusi calcarei, superficie grigia lisciata.
12) Frammento di parete con orlo piatto (inclinazione incerta) decorato con tacche
oblique, eseguite con stecca a margine piatto; impasto bruno con piccoli inclusi; superficie
nocciola.
13) Frammento di dolio (diam. all’orlo circa cm. 45) di forma probabilmente
cilindroide; orlo piatto decorato con tacche trasversali; impasto marrone scuro grossolano
con grossi inclusi calcarei; superficie marrone scura.
14) Frammento di grande scodella (diam. circa cm. 48); orlo piatto; impasto
marrone scuro con abbondanti inclusi (calcare e quarzo); superficie marrone scura.
B. Poggio Gallinaro (fig. 1, B; fig. 4, A - B; fig. 5, A-B)
Ubicazione: poggio situato immediatamente a Nord del Pian della Civita.
Tipo e condizioni di rinvenimento: affioramento di frammenti d’impasto, nell’area del
noto sepolcreto tardo-protostorico, orientalizzante ed arcaico; raccolta di superficie su
terreno arato; buone condizioni di osservabilità.
Topografia: Area 1: alle pendici dell’estremità occidentale del Poggio affiorano frammenti
della fase avanzata dell’età del ferro, riferibili a sepolture sconvolte. Aree 2 e 3: su due
piccoli dossi posti nella parte bassa della valle del Fosso degli Albucci affiora una scarsa
quantità di frammenti d’impasto di età pre/prostorica (frammisti, nel punto 2, ad
abbondanti resti di età arcaica). Area 4: lungo il pendio meridionale del colle si è rilevata
l’esistenza di due principali punti di affioramento: A: su un piccolo dosso situato a mezza
costa, insieme a scarsi frammenti d’impasto con decorazione a pettine e/o stampigliata di
tipo villanoviano sono stati raccolti alcuni frammenti eneolitici e/o del Bronzo antico (tra
cui un frammento di vaso a fiasco decorato a stralucido ed un frammento con banda incisa
orizzontale riempita da linee oblique dentellate); B: più in alto, in corrispondenza di un
piccolo terrazzo, affiorano frammenti di vasi biconici e scodelle d’impasto, con decorazione
di tipo villanoviano e protovillanoviano, riferibili probabilmente a sepolture sconvolte.
Area 5: presenza non concentrata di frammenti d’impasto con decorazione a pettine di tipo
villanoviano. Area 6: nel punto 6A si rinvengono frammenti di urne villanoviane con
decorazione a pettine, frammisti a frammenti di custodie di nenfro; nel punto 6B affiorano
frammenti di vasellame della fase avanzata della prima età del ferro (VIII sec. a.C.). Area 7:
scarsi frammenti di VIII sec. a.C., frammisti ad abbondanti reperti sepolcrali di età
orientalizzante ed arcaica.
Cronologia: reperti riferibili all’eneolitico (area 4A, nn. 1, 3, forse 2), al Bronzo
antico (area 4A, nn. 4-5), al Bronzo finale (area 4B, nn. 1-2), alla prima età del ferro (area
4A, n.6; area 4B n. 7; area 5, nn. 1-2; area 6A nn. 1-2).
Catalogo dei reperti.
Area 4, punto A:
1) Frammento di parete trattata con tecnica “a la barbotine”; impasto grigio scuro con
inclusi piccoli e medi, tra cui abbondante augite (molto fine).
2) Frammento di vaso (dolio?) con labbro rettilineo, orlo arrotondato con cordone plastico
con impressioni digitali applicato sul lato esterno; impasto grigio scuro con inclusi augitici
molto piccoli e calcarei di piccole e medie dimensioni; superficie esterna nocciola lisciata,
interna bruno-rossiccia con chiazza grigia, irregolarmente lisciata.
3) Frammento di probabile vaso a fiasco a bocca piuttosto larga e di forma compressa;
labbro leggermente ripiegato verso l’alto; orlo assottigliato arrotondato; decorazione a
motivi disegnativi ottenuti a stralucido, di color grigio scuro, che risaltano fortemente sulla
superficie opaca grigio chiara: sul labbro, sia sul lato interno che su quello esterno, fascia
orizzontale, da cui, sul lato esterno, pendono fitti segmenti verticali; sulla spalla motivo “a
pettine”; impasto grigio violaceo fine compatto.
4) Frammento di vaso di forma chiusa, con larga scanalatura sotto l’attacco del labbro;
sulla spalla motivo inciso: banda orizzontale campita a tratteggio obliquo, che si incontra al
di sotto con una linea quasi verticale (facente parte di un’altra banda verticale?); impasto
bruno chiaro, compatto, con piccoli inclusi; superficie a ingubbiatura nerastra
accuratamente lisciata.
5) Frammento di parete piuttosto spessa, decorata con motivo a linee dentellate a rotella:
fascia orizzontale campita a graticcio; impasto grigio scuro con piccoli inclusi; superficie
grigio-bruna lisciata.
6) Frammento probabilmente di collo di urna biconica; decorato con motivo stampigliato e
a pettine (a due punte): fascia orizzontale campita da motivo stampigliato a zig-zag e, al di
sotto, motivo meandriforme; impasto nerastro con inclusi medi (calcarei, silicei, augitici,
forse calcitici); superficie bruna dilavata.
Area 4, punto B:
1) Frammento probabilmente di urna biconica; collo troncoconico rigonfio, decorato con
motivo inciso ed impresso: fascio verticale a pettine, che si incontra con una grande
cappella ovale (da cui si diparte probabilmente un altro fascio orizzontale); alla base del
collo solcature orizzontali (eseguite singolarmente); impasto grigio con inclusi anche
grossi; superficie grigia lisciata.
2) Frammento di vaso di forma chiusa (vaso biconico?), con ingrossamento marcato,
probabilmente presso l’orlo; sulla spalla fascio orizzontale di tre linee incise poco
profondamente, e, al disopra, fila orizzontale di cuppelle; impasto compatto; superficie
grigia con sfumature in marrone lisciata.
3) Frammento di vaso a collo troncoconico, decorato con fasci orizzontali di linee
profondamente incise, ai cui margini, a contatto delle linee perimetrali, corrono file di
impressioni “a chicco di riso”; impasto grigio scuro compatto con rari inclusi; superficie
grigio scura lisciata.
4) Frammento di scodella a labbro rientrante curvilineo, orlo piatto; decorata sul labbro
con motivo geometrico (meandro?) ottenuto con fasci di linee a pettine, sopra le quali sono
impressi brevi segmenti obliqui a cordicella; impasto grigio con inclusi piccoli e medi;
superficie grigio scura lisciata.
Area 5.
1) Frammento di parete, decorata con fascio di linee a pettine, lungo il quale corre una fila
di punti impressi poco profondamente; dall’altro lato motivo non ricostruibile, in parte a
pettine e in parte a linee incise singolarmente; impasto grigio scuro compatto con pochi
inclusi; superficie grigia lisciata.
2) Frammento di parete, decorata con meandro ottenuto con doppia linea a pettine, con
motivo stampigliato a zig-zag all’interno e con grandi punti impressi poco profondamente
ad uno degli angoli; impasto nerastro compatto, superficie grigia lisciata.
Area 6, punto A.
1) Frammento di parete, decorata con motivo angolare ottenuto con fasci di linee a pettine;
impasto grigio-bruno con grossi inclusi; superficie bruna.
2) Frammento di parete (probabilmente spalla di vaso biconico), decorata con motivo
angolare ottenuto con doppia linea a pettine; impasto grigio con inclusi calcarei; superficie
nerastra lucida.
C. Fontanile delle Serpi 1) (fig. 1, C; fig. 5, C)
Ubicazione: a km. 1,5 a Nord-Est del centro abitato de Le Saline.
Tipo e condizioni di rinvenimento: affioramento di frammenti fittili nella sezione di un
canale (“Scolo dei Prati”) e nel terreno di risulta accumulato ai suoi bordi, attualmente
coltivati con l’aratro; buone condizioni di osservabilità.
Topografia: il giacimento archeologico è posto all’interno di una leggera
depressione, solcata dal canale denominato “Scolo dei Prati”, nell’ambito della pianura
costiera, a ridosso dell’area occupata dalle Saline. Area 1: affioramento di frammenti
d’impasto, prevalentemente rossastro, a bassa concentrazione, nel campo arato presso il
margine del canale (derivanti da terreno escavato dal canale ed accumulato ai suoi
margini, in seguito spianato ed arato). Area 2, punto a: affioramento di frammenti
d’impasto di tipo analogo nei cumuli di terreno accumulato di recente ai bordi del canale, e
nel tratto di campo arato adiacente; punto b: presenza di uno strato di terreno di colore
grigio scuro, contenente abbondanti frammenti d’impasto, nella parte più bassa del taglio
del canale, a circa m.2 di profondità dal piano di campagna attuale. Area 3: Presenza di
abbondanti frammenti nel terreno accumulato di recente sul bordo del canale.
Cronologia: mentre per i frammenti di olla nn. 1-5 la datazione può oscillare
genericamente tra Bronzo finale e prima età del ferro, il frammento n. 6 è l’unico per il
quale è possibile proporre una datazione più delimitata, compresa tra una fase piuttosto
avanzata del Bronzo finale - attribuzione che si ritiene maggiormente verosimile - ed una
fase antica dell’età del ferro.
Catalogo dei reperti.
Area 2, punto a:
1)
La località è citata come segnalazione del G.A.R. in M.A. Fugazzola Delpino, F. Delpino, “Il bronzo finale nel Lazio
settentrionale”, Atti della XXI riunione scientifica dell’I.I.P.P., Firenze, 1979, pp. 275-316, in particolare p. 288 n. 44.
1) Frammento di olla; sulla spalla cordone plastico orizzontale a sezione triangolare con
impressioni digitali; impasto bruno-rossiccio con abbondanti inclusi medi e grandi;
superficie bruna lisciata.
2) Frammento di parete con cordone plastico a impressioni oblique; impasto rossiccio con
abbondanti inclusi augitici e silicei; superficie esterna rossiccia, interna bruna, lisciata.
3) Frammento di olla con labbro svasato rettilineo con spigolo interno e ingrossamento in
corrispondenza dello spigolo; impasto grigio scuro nel nucleo, bruno-rossiccio presso la
superficie; superficie rossiccia dilavata.
4) Frammento di olla con labbro svasato curvilineo; accenno di spigolo interno; impasto
grigio chiaro nel nucleo, arancio presso la superficie, con inclusi grossi molto abbondanti
(un prevalenza quarzo e calcare; scarsa l’augite); superficie rossiccia lisciata.
5) Frammento di olla con labbro svasato con spigolo all’interno, spigolo sul margine
esterno dell’orlo; impasto grigio-bruno con abbondanti inclusi (tra cui quarzo ed augite);
superficie rossiccia.
6) Frammento di parete, decorata con fascio di linee a pettine inciso in modo molto
leggero, contornato da due linee a falsa cordicella ottenute con singoli elementi impressi
(con una rotella?) obliqui a forma di chicco, molto distanziati; impasto rossiccio con
abbondanti inclusi medi (in prevalenza augite); superficie bruno-rossiccia, all’interno
corrosa, all’esterno dilavata.
D. Casale S. Antonio (fig. 1, D; fig. 5, D)
Toponimo: Casale S. Antonio.
Ubicazione: circa 1 km. a Nord-Nord-Ovest della confluenza tra fiume Marta e fosso
Leona.
Tipo e condizioni di rinvenimento: alla fine degli anni ‘50 Quinto Velluti rinvenne il
frammento qui illustrato - a noi pervenuto per interessamento di Giovanna Velluti - in un
canale d’erosione (oggi interrato). Una presenza di reperti pre/protostorici è stata
verificata mediante un sopralluogo di controllo su campo arato; condizioni di osservabilità
buone.
Topografia: l’area di affioramento attualmente visibile - costituita da reperti fittili
pre/protostorici molto frammentati e corrosi, a bassa concentrazione - interessa un’area
molto ristretta (mq. 1000-1500) di un vasto pianoro attorniato da pendii ripidi su tre lati e
collegato da una sella alle colline retrostanti. Il pianoro si affaccia sulla valle del Leona, a
breve distanza dalla confluenza con il fiume Marta. Negli immediati dintorni del pianoro
sono presenti alcune sorgenti d’acqua perenni. Quote: intorno ai m. 100 s.l.m..
Cronologia: probabilmente il frammento n. 1 è riferibile alla prima età del ferro,
fase antica. 2)
Catalogo dei reperti.
1) Frammenti di olla con spalla lievemente convessa inclinata verso l’interno; colletto
distinto risega; labbro appiattito leggermente prominente verso l’esterno; decorata sulla
spalla con due larghi fasci di linee a pettine incrociantisi ad angolo retto (si intravvede
nell’angolo l’inizio di una decorazione a falsa cordicella); impasto grigio scuro fine;
superficie bruna lisciata.
Considerazioni
Considerazioni più approfondite sono rimandate ad un lavoro successivo; tra i principali
motivi di interesse dei ritrovamenti si segnalano:
a) la presenza di giacimenti databili tra l’età del rame e l’età del bronzo iniziale, che
riteniamo riferibili a insediamenti, posti su terrazzi a mezza costa lungo piccole valli
fluviali. La presenza di materiali distribuiti dall’età del rame al Bronzo medio nel sito del
Cavone potrebbe costituire la testimonianza non di una continuità ininterrotta di
insediamento, ma di una serie di cicli insediativi e di abbandoni, con ritorni periodici.
Queste forme di insediamento - probabilmente attualmente sottorappresentate a causa
della scarsa capillarità delle ricerche - potrebbero essere collegate a forme di controllo ed
utilizzazione del territorio non ancora pienamente stabilizzate.
b) il ritrovamento di frammenti protovillanoviani, probabilmente riferibili ad urne
biconiche, nell’area del sepolcreto dell’età del ferro di Poggio Gallinaro può costituire
l’indizio di un inizio del sepolcreto già nel corso dell’età del bronzo finale. L’esistenza di
sepolture protovillanoviane nella zona di Tarquinia è del resto da tempo indiziata dai due
tipici vasi protovillanoviani della collezione Bruschi. 3) Da segnalare a tale proposito il fatto
che Poggio Gallinaro è compreso tra i possedimenti della famiglia Bruschi-Falgari, benché
2)
La forma, insolita nel repertorio villanoviano, trova tuttavia un confronto puntuale nell’urna della tomba 54 del
Selciatello: H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, Cambridge, Mass., 1968, p. 40, fig. 29, d.
3)
Secondo F. di Gennaro la somiglianza di fattura dei due vasi farebbe pensare ad una provenienza da uno stesso
corredo: F. di Gennaro, “Contributo alla conoscenza del territorio etrusco meridionale alla fine dell’età del bronzo”, Atti
della XXI riunione scientifica dell’I.I.P.P., Firenze 1979, pp. 267-273, in particolare p. 270, fig. 3, 6-7; urna; Hencken,
cit., p. 410, fig. 410, fig. 410; askos; G. Bartoloni ed altri, Le Urne a capanna in Italia, Roma 1988, fig. 104 e.
la mancanza di qualsiasi dato sulla provenienza dei due reperti non consenta di andare al
di la’ di semplici illazioni.
Questo dato, da verificare con future ricerche più approfondite, è da collegare a
quelli relativi al rinvenimento di reperti protovillanoviani nell’area urbana di Tarquinii 4) ,
che sembrano documentare che l’inizio del processo di occupazione dei grandi pianori sui
quali si svilupperanno le città etrusche è da collocare già nel corso dell’età del bronzo
finale.
c) Appare interessante il rinvenimento di strati di insediamento nella piana costiera presso
il fontanile delle Serpi, a soli due km. dal mare; per una corretta interpretazione del
significato di questo giacimento appare importante una continuazione ed un
approfondimento delle ricerche, sia per una verifica delle ipotesi di attribuzione
cronologica, che apre delle prospettive nuove sulla variabilità delle scele tra la fine dell’età
del bronzo e l’inizio dell’età del ferro, sia per lo studio ricostruttivo delle condizioni
ambientali della pianura costiera nel corso della protostoria, la cui importanza ed il cui
ruolo insediativo e produttivo era certamente di notevole rilevanza, anche se con valenze
ancora da definire.
d) L’unico frammento tipico recuperato nel sito di Casale S. Antonio costituisce un indizio
di presenze archeologiche dell’età del ferro di scarsa consistenza, ed in quanto tali
probabilmente di difficile individuazione e definizione cronologica, distribuite al di fuori
della concentrazione insediativa protourbana di Tarquinii; questo dato si inserisce nella
problematica della modalità di utilizzazione del territorio pertinente alle grandi comunità
villanoviane. 5)
Alessandro Mandolesi
Marco Pacciarelli
I PAPI CHE ONORARONO CORNETO CON LA LORO PRESENZA NEL
CONTESTO STORICO DEL TEMPO
L’Archivio della Società Tarquiniense d’Arte e Storia è una miniera di notizie sugli
avvenimenti della nostra città.
4)
M. Bonghi Jovino (a cura di), Gli Etruschi di Tarquinia, Modena 1986, p. 83 ss.. Reperti protovillanoviani sono stati
rinvenuti in vari punti del pianoro urbano nel corso del lavoro sulla topografia protostorica di Tarquinia in corso di
svolgimento da parte di A. Mandolesi (segnalazione alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria meridionale in data
10-11-1989).
5)
Per tale problamatica v. F. di Gennaro, “Organizzazione del territorio nell’Etruria meridionale protostorica:
applicazione di un modello grafico”, Dialoghi di Archeologia, n.s. 4, 2, 1982, 102-112, in particolare p. 112.
Tra i tanti documenti compulsabili, c’è anche una “Memoria”, nel carteggio
Falzacappa, in cui vengono ricordati alcuni dei Pontefici che, in tempo di pace o in
travagliati periodi storici, sono venuti a Corneto o soltanto di passaggio o per risiedervi in
attesa degli eventi. Partendo da quanto scritto dallo sconosciuto estensore della “Memoria”
(“Nota dei Sommi Pontefici venuti in Corneto”) e approfondendo le motivazioni ed i
momenti storici in cui sono avvenute queste visite, si può avere, oltre che brani della storia
dei Pontefici Romani, anche una idea piiù precisa del ruolo di Corneto nel Patrimonio di
San Pietro.
I primi pontefici di cui si ha notizia, che restarono a Corneto per un breve periodo di
tempo, furono Giovanni XV (985-996) e Gregorio V (996-999). Era quello un periodo
particolarmente difficile per il Papato, il quale si trovava in uno stato di subordinazione
rispetto all’Impero. Ottone I di Sassonia (936-973) infatti con il “Privilegium Othonis”
aveva stabilito che il Pontefice doveva ricevere l’approvazione imperiale prima di essere
veramente tale e doveva poi prestare giuramento di fedeltà all’Imperatore. Ottone II aveva
proseguito nella politica del padre. Le cose sembrarono cambiare in senso positivo per il
Pontefice, con Ottone III (983-1002), il quale, inseguì il sogno di riportare Roma allo
splendore dell’antico impero romano.
Corneto in questo periodo, dopo le scorrerie dei Saraceni, stava riprendendosi e
fortificandosi, cercando di organizzarsi come Comune Autonomo.
Sono di questi anni i trattati di navigazione e di commercio con i Veneziani, i
Genovesi, i Pisani e i Ragusei. Giovanni XV, nel 995 fu costretto a fuggire da Roma, a
seguito di sollevazioni contro la sua persona, ad opera dei Crescenzi, e, dopo essere
transitato per Corneto (non vi sono però elementi probanti in merito) si rifugiò presso il
marchese Ugo di Toscana. Questa fuga fu di breve durata, perché, ritornò dopo pochi mesi
a Roma.
Qui, cadde prigioniero del potere dei Crescenzi e, prima che Ottone III potesse
giungere da Ravenna per liberarlo, morì nell’aprile del 996. Il pontefice quindi, al quale
Corneto dette asilo durante la sua fuga, era un uomo stanco che, per tutta la durata del suo
pontificato, aveva lottato contro le soperchierie del patriziato romano, di cui poi doveva
finire vittima.
Ottone III (15 anni soltanto) non perse tempo e scelse come successore di Giovanni
XV, il giovane cugino (24 anni) Brunone, che fu il primo papa di nazionalità tedesca e che
prese il nome di Gregorio V. Questo giovane Pontefice, dotato di una buona cultura e di
carattere fiero, si accinse all’opera di riformare la corrotta vita di Roma, ma i nobili di
questa città, non apprezzarono affatto le sue rigide idee, che rispecchiavano gli ideali del
monachesimo di Cluny. Il risultato fu che, ancora una volta, scoppiò una congiura ad opera
di Crescenzio, che riuscì ad impadronirsi di Castel Sant’Angelo, fortificandolo e
costringendo Gregorio V a fuggire per salvarsi, il 29 settembre del 996, ed a rifugiarsi a
Corneto. Perché proprio a Corneto? Questo interrogativo se lo sono posti molti storici, ma
le risposte che vengono date sono solo ipotesi e non certezze. Anche Gregorio V non avrà
una vita lunga, infatti, ritornato a Roma vi morrà a soli ventisette anni, il 18 febbraio del
999.
Passano gli anni. Le lotte fra l’Impero e il Papato riprendono più aspre. Grandi
personaggi del secolo XI saranno il Pontefice Gregorio VII e l’Imperatore Enrico IV di
Franconia, che si impegnarono in quella, che oggi conosciamo con il nome di “Lotta per le
investiture”, che si concluse con una soluzione di compromesso (Concordato dei Worms 1122), che non dava assolutamente una risposta a chi fosse, tra il pontefice e l’imperatore, il
capo della cristianità. Appena conclusa questa lotta, si riaccese in Germania quella tra i
grandi feudatari per accaparrarsi il titolo imperiale, mentre in Italia andava sempre più
prendendo piede il conflitto che opponeva i Comuni all’Impero. Dopo una lunga contesa,
in Germania ha la meglio la fazione dei duchi di Svevia (ghibellini) e verrà riconosciuto
imperatore Federico I Barbarossa (1122-1190). Con lui, più forte si fa il conflitto con i
Comuni italiani appoggiati dal Papato. L’imperatore è battuto a Legnano (1176) e deve
riconoscere ai Comuni autonomia politica e al Papato il primato spirituale sulla cristianità.
A Federico I succede Enrico VI il Crudele e quindi Federico II. Mentre accadono questi
fatti, Corneto prosegue nella sua vita. Deve subire, con molti danni per le campagne e per il
litorale, altre scorrerie dei Saraceni; partecipa (1056) insieme a Toscanella ad una
ribellione contro la Chiesa. E’un periodo, quello che segue, di lotte, che vanno avanti con
alterne vicende, al termine delle quali, ad opera di Goffredo il Gobbo, marito della
Contessa Matilde di Canossa, venuto in aiuto al pontefice, fu costretta a ritornare sotto il
dominio della Chiesa (1071). La vita interna di Corneto seguita però ad essere travagliata
per le lotte tra i fautori del papa (guelfi) e quell’imperatore (ghibellini). Nel 1134, la città
torna a ribellarsi al Pontefice Innocenzo II ed aderisce all’Antipapa Anacleto. Viene però
vinta dalle truppe papali e da quelle imperiali di Lotario III di Germania ed allora furono
bruciate e saccheggiate le case di quei cornetani che si erano ribellati (molti dei quali si
rifugiarono in Sicilia).
Il primo atto di ossequio verso un Pontefice, Corneto lo fece il 20 novembre 1144, a
Lucio II. Atto di ossequio, non di sottomissione in quanto la città era allora, e lo fu per vari
secoli, Comune indipendente, che si governò liberamente con le sue leggi per tutto il Medio
Evo.
La ricchezza delle sue campagne la fa diventare fornitrice di cereali, non solo per i
romani (horreum urbis), ma anche di tutti i sovrani e popoli delle rive italiche del
Mediterraneo, ottenendo per questo, sempre privilegi da Pontefici, Re e Imperatori. Nel
1173 rinnovò il trattato di navigazione, commercio nonché aiuto reciproco con Pisa,
trattato che venne siglato dai Consoli delle due città. Corneto è quindi in ascesa e sempre
più sicura della sua forza. E’in questa città che, dopo circa duecento anni, ritorna un
Pontefice: è Innocenzo III, uno dei Papi più significativi della storia della Chiesa di questo
periodo.
Lotario dei conti di Segni, figlio di Trasmondo e della romana Claricia Scotti, era
nato nel 1160 quindi, quando nel 1198 venne eletto Pontefice con il nome di Innocenzo III,
era giovane anche se non giovanissimo. Molto colto ed austero si pose come compito
precipuo, quello di difendere la fede dalle eresie, di riformare la Chiesa tanto nella moralità
che nella disciplina e di riconquistare i Luoghi Santi. Era un esponente convinto della
dottrina teocratica. Nel Medio Evo c’era la tendenza a riunire quelle che si era soliti
chiamare le “due spade”, cioè il potere temporale dei sovrani e il potere spirituale proprio
dei pontefici. Innocenzo III non aveva alcun dubbio in proposito: le “due spade” dovevano
essere attribuite a lui, e all’imperatore poteva solo concedere di usarne una, la temporale,
in qualità di braccio difensore e secolare della Chiesa (advocatus Ecclesiae). Agendo in
modo inflessibile, seppe non solo difendere il Papato, ma anche aumentarne il potere. La
personalità di questo pontefice si manifesta nei suoi diciotto anni di sovranità, nel sapersi
destreggiare con grande abilità nella complessa vita politica e spirituale del tempo. La sua
lotta contro le eresie fu volta principalmente contro i Valdesi e contro gli Albigesi (verso
quest’ultimi bandì anche una crociata). Quando nell’ottobre 1207 Innocenzo si fermò a
Corneto, dopo essere stato a Viterbo, Montefiascone e Toscanella, stava cercando di dare
una solida organizzazione al territorio della Chiesa, assicurandosi la fedeltà tanto dei
vassalli che delle varie città. Infatti poi attuò una restaurazione per la quale le province
risultarono raggruppate in questo modo: Patrimonium Beati Petri in Tuscia, Campania et
Maritima (o Comitatus Campaniae), ducatus Spoletanus, Marchia Anconitana e
Romandiola.
A Corneto il Pontefice, accolto festosamente dalle autorità e dalla popolazione, che
si sentivano onorati della sua presenza, prese dimora nel nuovo palazzo da lui fatto
costruire presso la Chiesa di San Niccolò. Durante la sua permanenza nella città,
Innocenzo visitò la Chiesa di Santa Maria di Castello, da poco consacrata e poi proseguì per
continuare il suo viaggio per le altre terre del Patrimonio. Oggi non esistono più né la
Chiesa di S. Niccolò nè il Palazzo Pontificio: dobbiamo accontentarci di sapere che, insieme
ad un convento, formavano uno dei complessi monumentali più significativi della Corneto
medievale
Quando Innocenzo III morì di malaria a Perugia, il 16 luglio 1216, mentre si stava
recando nell’Italia settentrionale per pacificare Pisa con Genova e convincerle a
partecipare alla crociata, non si può certo dire che lasciasse una situazione tanto politica
che religosa decisa e chiara, anche se per tutta la vita aveva inseguito questo scopo.
Il giovane imperatore Federico II, infatti, riprese ad inseguire il sogno di potersi
imporre ai Comuni ed unificare quindi il territorio italiano sotto il suo potere.
Benché di
origine tedesca, amava l’Italia più della Germania e cercò di forgiare il suo impero sul
modello classico dell’antico impero romano. Lunghe e continue furono le sue lotte con il
Pontefice e con le libere città comunali. Si inasprirono quindi i contrasti tra la fazione dei
guelfi e quella dei ghibellini. Più volte il suo esercito attraverserà il territorio del
Patrimonio, lasciando tracce di distruzioni, morti e saccheggi. Alla sua morte (1250)
possiamo considerare concluso il periodo più splendente della Casa Sveva. Corrado IV,
Manfredi, Corradino, dal 1250 al 1268, passarono come meteore, riuscendo anche,
specialmente il secondo, a suscitare entusiasmi e passioni, ma per gli Svevi non c’era più
posto nella storia dell’Impero. Il Pontefice Urbano IV aveva già trovato in Carlo d’Angiò,
fratello del re di Francia, la personalità politica da opporre a Manfredi. Questa scelta venne
confermata anche dal suo successore Clemente IV, il quale nominò Carlo re di Sicilia. Lo
scontro decisivo tra Manfredi e l’Angioino, avverrà nel 1266 a Benevento e si concluderà
con la morte del primo e la vittoria del secondo. I francei però non erano benvoluti nel
Regno di Sicilia e i Vespri Siciliani segneranno un momento della lotta degli isolani contro
gli angioini. Una lotta che si concluse con la Pace di Caltabellotta, che sancì il dominio
angioino sul napoletano e quello aragonese sulla Sicilia. La vita politica nel centro-nord
dell’Italia seguitò però ad essere condizionata dalle tensioni tra guelfi e ghibellini.
La rivalità tra il potere temporale e quello spirituale, è sempre più forte. Molti
furono i pontefici che si succedettero sul soglio di Pietro ma possiamo dire che il momento
più drammatico, che attendeva la Chiesa, avvenne dopo la morte di Bonifacio VIII, un Papa
che aveva avuto come programma politico il progetto teocratico già di Gregorio VII e di
Innocenzo III. Questa volta ad opporsi a questo disegno fu Filippo IV re di Francia, il quale
riuscì pure, dopo Bonifacio, a fare eleggere Papa un cardinale francese che prese il nome di
Clemente V. Questi nel 1305 stabilì la sede pontificia ad Avignone. Ha inizio così quel
periodo noto come “cattività avignonese”, che segnerà duramente la storia dei territori
dello Stato della Chiesa. Il primo Papa che cercherà di ritornare a Roma sarà Urbano V nel
1367.
In questo periodo così caotico, la vita di Corneto è quella di una libera città coinvolta
continuamente in guerre, la maggior parte delle volte, derivanti dai grandi avvenimenti
politici nazionali e internazionali. Durante le ricorrenti lotte tra Federico II di Svevia e il
Pontefice, Corneto visse una delle pagine più belle e più tristi della sua storia infatti il 4
novembre 1245, Vitale d’Aversa, per ordine dello stesso imperatore, fece impiccare sotto le
mura della città, trentadue ostaggi cornetani in località Monterana, lungo il fiume Marta.
Corneto soffrì per quanto venne fatto ai suo figli, ma non cedette alle pretese imperiali.
Qualche anno dopo, nel 1282, sarà una barca, approdata nel suo porto, a portare nel
Patrimonio di San Pietro, la notizia dello scoppio della rivolta dei Vespri Siciliani contro gli
angioini. Anche all’interno delle mura della città, la vita politica, però, era agitata: tumulti
si susseguivano a tumulti, una volta erano i sostenitori del papa contro quelli
dell’imperatore, un’altra era esattamente l’opposto. Una rivolta fu fatta anche contro il
Podestà Falcone di Pietro Enrico Romano, (1224), per i confini (discussi) della tenuta di
Montebello. Fu una sommossa violenta che vide anche morti inutili.
Nel 1298 entrò nel porto di Corneto con una flotta di trenta galee, il re Giacomo II
d’Aragona, il quale concedette molti privilegi commerciali. Dopo questo momento di pace,
ecco ancora sollevazioni, come quella che riporterà i guelfi nella città (1316). Comunque il
suo porto seguita ad essere punto di riferimento per re e principi. Nel 1327 l’imperatore
Ludovico il Bavero lo scelse come luogo del suo incontro con Don Pietro di Sicilia. Subito
dopo però ci fu un’altra rivolta che portò all’uccisione di Matteo Vitelleschi e dei suoi
sostenitori. Intanto a Roma sorgeva l’astro di Cola di Rienzo. I Cornetani con il loro Priore,
Manfredo Vitelleschi, parteggiano per lui e quindi sono pronti ad intervenire alle feste e
agli spettacoli che Cola, vincitore su Giovanni di Vico, organizzò a Roma. In questa
occasione, i cavalieri cornetani e quelli perugini “furono i più valenti e fecero miglior
mostra di abiti di gran valore che cambiarono due volte”.
Nel 1367 Corneto visse delle giornate indimenticabili, infatti il Pontefice Urbano V
scelse il suo porto per il ritorno a Roma.
Questo Pontefice non si sentiva più sicuro ad Avignone e, confidando nell’opera del
cardinale Albornoz in Italia, decise di trasferire la Santa Sede nuovamente a Roma. A
persuaderlo furono anche le reiterate esortazioni dei romani nonché quelle del Petrarca e
del figlio del re Giacomo d’Aragona, Pietro, che, fattosi frate dell’ordine di S. Francesco,
godeva fama di santità. Benché i cardinali francesi e il re Carlo V di Francia, osteggiassero
questa sua decisione, egli non si lasciò intimidire e partì, nel 1367, alla volta di Marsiglia,
accompagnato da otto cardinali, mentre altri sette per vie diverse si diressero in Italia.
Urbano V, non fidandosi dei nemici e più ancora degli amici, preferì prendere la via del
mare e non quella di terra. Nel porto di Marsiglia l’attendeva una flotta di ventitrè galee e
di molte altre navi, che la regina Giovanna di Napoli, e le città di Venezia, Genova e Pisa vi
avevano spedito per trasportare la corte pontificia e per fare scorta d’onore al Papa.
Urbano salì su una galea veneta e salpò il 30 maggio e giunse nella rada di Corneto il
2 giugno. Qui lo attendeva il fior fiore della nobiltà romana e gli esponenti più
rappresentativi della prelatura di Roma con a capo il cardinale Albornoz, legato pontificio,
il quale aveva predisposto e sistemato in Corneto l’alloggio del Papa e del seguito. Dal
Patrimonio di San Pietro, dalla Romagna, dalla Marca erano poi giunti numerosi
gentiluomini. Pisa, Firenze, Perugia, Siena e Orvieto avevano inviato i loro ambasciatori,
molti conti, baroni, abati e Vescovi erano poi convenuti a Corneto da tutte le città vicine. Il
beato Giovanni Colombini, con i suoi frati Gesuati, aveva trascinato con le sue parole una
grande moltitudine di persone, che ora si accalcava lungo la spiaggia per salutare il ritorno
del Pontefice, al quale i cittadini romani presentarono le chiavi di Castel S. Angelo. Il Papa
scese dalla galea percorrendo il magnifico ponte, costruito per lui dai Cornetani, e, sostò
sulla spiaggia, sotto un sontuoso padiglione, per celebrare una Messa solenne di
ringraziamento a Dio per il felice compimento del viaggio marittimo. Corneto non aveva
mai visto sulla sua spiaggia tanta moltitudine di popolo e un numero così grande di nobili e
prelati appartenenti ai vari stati stranieri. Fu una apoteosi di canti, di grida gioiose
osannanti al Pontefice, di vivi colori fra cui primeggiavano i bianchi veli, che coprivano le
tende delle milizie capitanate dall’Albornoz, e lo scarlatto dei cardinali. Terminato l’ufficio
divino, Urbano V montò a cavallo e, sotto un baldacchino, si diresse con il seguito verso
Corneto che attraversò fra gli osanna dei presenti. Andò verso il Convento dei Frati Minori
Osservanti, dove prese alloggio. Nel giorno di Pentecoste onorò poi la città, celebrando in
essa una Messa Solenne. Recatosi quindi a Viterbo, da lì concedette ai Cornetani il
privilegio di discutere e sancire pene in tutte quelle cause di prima istanza, tanto civili che
criminali, che li riguardavano, mentre prima dovevano essere chiamati in giudizio fuori
della loro città. Il Papa tornò a Corneto il 5 settembre 1370, per imbarcarsi nuovamente per
la Francia con 11 cardinali, su una delle navi mandategli per scorta dai re di Francia e
Aragona, dalla regina Giovanna di Napoli, dai Pisani e dai Provenzali. Scopo del viaggio era
la speranza di poter sedare la guerra sempre in atto tra l’Aragona e la Navarra, nonché
quella preesistente fra Francia ed Inghilterra. Partì sotto funesti presagi di morte e di
collera di Dio se si fosse azzardato a riportare la sede pontificia ad Avignone. La contessa
Brigida di Svezia gli fece recapitare, per dissuaderlo, una lettera in cui era scritto: “Te
taedet vivere, quo vadis ignoras, festinas ad mortem”. (Ti annoia vivere, ignori dove vai, ti
affretti verso la morte). Il Pontefice giungerà ad Avignone il 24 settembre ma, dopo appena
due mesi, il 19 dicembre 1370, lo coglierà la morte.
Quanto aveva detto la contessa Brigida si era avverato.
Dopo appena diciassette giorni, la cristianità gia aveva un nuovo pontefice, Pietro
Roger dei conti di Beaufourt (nipote di Clemente VI) che, semplice diacono, fu consacrato
sacerdote e Vescovo il 4 gennaio ed il 5 fu eletto Papa con il nome di Gregorio XI.
Tutto questo accadeva in un periodo di tempo, in cui l’Italia, indignata per l’atto di
Urbano V, che aveva riportato la sede pontificia ad Avignone, si era ribellata facendo
un’alzata di scudi contro il Pontefice Gregorio XI che, seppure di malavoglia, si era
insediato con la sua curia anch’esso ad Avignone. Fu Santa Caterina da Siena, che con
esortazioni e lettere, pur rispettando la personalità del Papa, in modo nudo e crudo gli
chiese di ritornare nella sede di Roma, se voleva riportare la pace nel mondo. Tre erano i
problemi da risolvere per questo scopo: riportare nel seno della Chiesa, onestà, umiltà,
pienezza della divina grazia, aprendo le braccia agli “agnelli” e scacciando i “lupi” famelici;
riportare la sede della Chiesa a Roma; drizzare il gonfalone della Croce Santa a refrigerio
dei cristiani. Gregorio XI accolse le esortazioni di Santa Caterina e, benchè fosse di indole
timido e irresoluto e fosse contrastato dai cardinali francesi, con l’aiuto della grazia divina,
stabilì il ritorno della Curia e del Papato a Roma. Partì nel settembre del 1376 da Avignone
con i cardinali e giunse a Marsiglia; da qui ripartì il 13 settembre 1376 da per Genova, dove
fu accolto da Santa Caterina con una folla festante accorsa da ogni parte. Dopo dodici
giorni di sosta, si imbarcò su una galea con un seguito di trenta navi, inviategli da tutti gli
stati d’Italia, e, dopo un viaggio per mare non piacevole, in quanto nel canale di Piombino
fu travagliato da una grande burrasca, giunse il 6 novembre a Pisa, accolto con un grande
entusiasmo dai pisani. Dopo alquanti giorni, rimessosi in viaggio, approdò nella rada di
Corneto, il 5 dicembre, e rimase in questa città con tutta la curia circa un mese,
trascorrendovi il Natale. Il suo cameriere Gilberto, ci descrive in un suo manoscritto,
questo approdo: “Il Papa disceso dalla triremi pontificia, prostratosi al suolo, pregò e rese
grazie a Dio per il suo ritorno alla romana sede... indi avviossi verso Corneto, città nobile e
antica.... i cittadini del luogo in gran numero e bene in arnese, su generosi destrieri,
precedevano il Pontefice. Gli addetti alla corte furono serviti di sì copiosi desinari, che
stanchi del viaggio si trovarono con grande amore ristorati dagli abitanti”. Il Papa nel
partire colmò la città di privilegi ed esenzioni. Però, come dice il Gregorovius”... Gregorio
XI celebrò tristemente a Corneto le feste natalizie. Aveva rimandato indietro tutte le navi
salvo tre o quattro galere provenzali, che trattenne per propria sicurezza personale, poiché
il Prefetto di Civitavecchia lo minacciava dal mare. Il primo gennaio (1377) mandò un
contingente di cavalieri contro Viterbo ma il Prefetto locale batté le truppe papali e fece
duecento prigionieri.... Finalmente dopo cinque penosissime settimane, il 13 gennaio
Gregorio mosse da Corneto, fece vela verso Civitavecchia che riconosceva la signoria del
Prefetto e il 14 gennaio prese terra ad Ostia”. I cittadini cornetani in gran numero lo
accompagnarono fino alle porte di Roma ma lì il pontefice li obbligò a ritornare nella loro
città. Oramai il loro posto sarebbe stato preso dai romani.
Il ritorno dei Papi a Roma, non riporta la pace in seno alla cristianità, prova ne è il
fatto che, alla morte di Gregorio XI (1378), con la nomina di Urbano VI, inizia il Grande
Scisma d’Occidente. Papi e Antipapi si combattono senza esclusione di colpi e in questa
lotta vengono coinvolte anche le città italiane.
Pure Corneto è investita da questo turbinio di avvenimenti: si ribella al Papa Urbano
VI, poi chiede perdono per tornare quindi nuovamente a ribellarsi per essere ancora
perdonata. Nel 1385 il Papa, non avendo il denaro necessario per le galee genovesi, che
aveva noleggiato per fuggire dal Regno di Napoli, giunto a Corneto, per sdebitarsi, cede la
città alla Repubblica di Genova. Così, per qualche tempo, Corneto dipese da questa
repubblica e prestò anche ad essa giuramento di fedeltà.
Ma la storia prosegue nella sua corsa: la città, di volta in volta vede al suo interno
prevalere la parte a favore del Pontefice di Roma o dell’Antipapa e quindi la vita politica è
confusa ed agitata. Le sue campagne vengono spesso saccheggiate dagli eserciti dei
contendenti. Comunque Corneto, malgrado tutto, riesce ad essere economicamente forte,
tanto da ricevere nel 1425 l’invito a mandare al Concilio di Costanza (dove si doveva
risolvere lo Scisma) un suo ambasciatore. Sotto il pontificato di Martino V, pontefice eletto
appunto in questo Concilio, comincia a farsi notare”..... un prelato.... molto fido, prudente,
ed esperto negli affari”: Giovanni Vitelleschi, appartenente ad una delle famiglie più vista
in Corneto. Il culmine della sua carriera lo raggiungerà sotto il pontefice Eugenio IV, che lo
nominerà cardinale, Legato Apostolico e Vicario Generale, ma la sua vita, nel 1440, si
concluderà tragicamente, vittima di un complotto ordito contro di lui dai suoi nemici.
Alla scomparsa del cardinale, seguono anni agitati, fino a quando, con la morte di
Eugenio IV, il nuovo Papa, Niccolò V, non riuscì a pacificare la situazione venutasi a
formare. Si cominciò a costruire un porto, che desse maggiore sicurezza alle navi, e questa
ristrutturazione venne portata avanti anche sotto Pio II. Il problema del porto è presentato
anche a Sisto IV che, nel 1476, visitò la città. Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere,
eletto pontefice nel 1471, era, secondo il cardinale Bessarione, una delle persone più
erudite del suo tempo ed anche uomo politico di prim’ordine, però non sempre fortunato.
Il suo pontificato avvenne in un periodo critico per la politica degli stati italiani, data la
discordia esistente fra di essi e l’incombente pericolo turco. Il popolo romano ricordò a
lungo il suo pontificato.
La figura di Sisto IV si presenta luminosa nelle sue relazioni con
le scienze e con le arti poiché egli contribuì grandemente allo splendore di Roma. Superò il
mecenatismo di Niccolò V.
Nell’anno 1476, Sisto IV, con una lettera, promette ai Cornetani di venire nella loro
città, con una gran comitiva di cardinali e baroni. Quando giunse fu accolto non solo con
gran giubilo dalla popolazione, ma gli furono elargiti splendidi doni. In quell’anno fu
distrutto dal fuoco il Palazzo dei Priori ed il Papa accordò allora l’uso gratuito di alcuni
pascoli della Camera, per aiutare la città a ricostruirlo. Nel 1478 Corneto fu travagliata
dalla peste, molti morirono e molti se ne andarono, per cui la città rimase con pochi
abitanti. S.S. allora concedette per quindici anni privilegi a tutti coloro che fossero venuti a
ripopolarla e si fossero dedicati ai lavori dell’agricoltura. Nell’anno 1481 Sisto IV tornò
nella città con la sua corte, sostando per alcuni giorni nel palazzo, che Giovanni Vitelleschi
aveva fatto costruire con grande magnificenza quando era papa Eugenio IV. Oltre al
Palazzo, visitò gli orti ubertosi per l’abbondanza delle acque. Vide ed ammirò l’insenatura
del mare, vicino alla città ed esaudendo il desiderio dei cittadini, che ne volevano fare un
porto, concesse per quest’opera diecimila scudi d’oro da elargire in dieci anni e comandò
che, inizialmente, ne fossero consegnati mille in acconto. Corneto accolse con gioia la
decisione di Sisto IV che, benevolmente, aveva concesso tali benefici ai suoi figli diletti.
Durante questa sosta (4 ottobre) concesse pure l’indulgenza plenaria a tutti i cornetani che,
pentiti e confessati, avessero visitato la Chiesa di Santa Maria di Castello in occasione della
Festività della Vergine in settembre e marzo.
Sisto IV concluse la sua vita nel 1484 ed il suo posto fu preso dal cardinale Cybo, che
divenne pontefice con il nome di Innocenzo VIII. Anche questo Papa assunse il potere tra
difficoltà enormi (tutti i poteri dello stato erano nelle mani dei cardinali e il Papa poteva
esercitare solamente il potere spirituale), aumentati dal fatto di aver avuto dei figli in
gioventù con una donna napoletana. Sotto di lui l’infuriare delle fazioni e la “congiura dei
Baroni” seminarono il disordine a Roma.
Durante questo periodo, Nicolò Orsini,
conte di Pitigliano, generale dei fiorentini, legato al re di Napoli nemico della Chiesa di
Roma, con un numeroso esercito di fanti e cavalieri, si portò sotto le mura di Corneto,
accampandosi vicino al ponte del Marta.
Il luogo era stato fortificato validamente dai Cornetani ma le sorti della battaglia
furono contrarie alla città assediata per cui i difensori dovettero indietreggiare e ritirarsi
entro le mura della città. Malgrado il pericolo, i rappresentanti di Corneto rifiutarono, per
la fedeltà al Pontefice, di esaudire le richieste di vettovagliamento avanzate dall’Orsini per
il proprio esercito. Il Conte allora rispose che li avrebbe considerati come nemici e devastò
le campagne facendo uccidere quasi tutto il bestiame, quindi si allontanò, rifugiandosi
nello Stato Fiorentino. Nell’anno 1491, Innocenzo VIII venne nella fedele Corneto, accolto
con grande entusiasmo dalla popolazione che lo gratificò di donativi e lo onorò con archi di
trionfo. Egli ricambiò con privilegi, elargendo un sussidio alle famiglie dei Lombardi, che si
erano stabiliti in città e lasciò le rendite, spettanti alla Camera, per sistemare la parte della
Torre del Porto diruta per le incursioni belliche. Questo Papa morì il 25 luglio 1492 ed ebbe
sepoltura in San Pietro.
Terminate le esequie di Innocenzo VIII, si procedette alla nomina del suo successore
nella persona di Rodrigo Borgia, che prese il nome di Alessandro VI. Nel 1492 il nuovo
Pontefice, perdurando la peste a Roma, scrisse un Breve ai Cornetani, con cui comunicava
che sarebbe venuto nella loro città con alcuni cardinali e la sua corte e che preparassero
quindi, alloggi e provvedessero ai viveri.
Egli giunse in Corneto il 5 dicembre, passando da Viterbo e Toscanella e alloggiò nel
Palazzo dei Vitelleschi. Il Magistrato ed il Cancelliere, in abiti curiali, si prostrarono a
baciare il suo piede e gli fecero dono di “300 capponi, 100 some d’orzo, 50 some di grano,
20 vitelle, 25 castrati, 300 some di fieno, 25 torce, 26 candele di cera, 25 scatole di confetti,
25 marzapani, 6 some di vino, e 100 some di legna. Ai cardinali fu fatto donativo di 2 some
di orzo, 4 scatole di confetti e 4 paia di capponi per ciascheduno. Addì 18 i Signori del
Magistrato, accompagnati da Vittuzio, Giulio, Mariano, e Lituardo, tutti dei Vitelleschi,
Pietro Ugolino ed Aurelio Mezzopane, insieme con Ludovico Leandri, cancelliere del
Comune, si presentarono a S.S. ed ottennero molte grazie e privilegi particolari”. (Dasti).
Corneto ebbe vari rapporti con il Borgia, non solo, ma anche con i suoi figli in
special modo con Cesare. Con lettera del 6 agosto, a forma di Breve, il Papa informa i
cittadini di Corneto, che una flotta francese con un forte esercito era in arrivo sulle rive
pontifice del Tirreno e li esorta a prepararsi a respingerli, a munire bene la spiaggia e a ben
usare di ogni fortificazione, armandosi adeguatamente, difendendo in tal modo non solo se
stessi ma anche la Madre Chiesa. Altri due Brevi il Papa invia a Corneto prima della fine
del secolo e precisamente il primo (1495) per avere dai Cornetani l’occorrente per il
vettovagliamento dell’esercito del re Carlo VIII che, a Roma, sta soffrendo per la carestia,
ed il secondo (1499) per comunicare agli agricoltori del luogo la concessione della libertà di
commerciare fino a ottomila moggia di grano con i paesi “esteri”. I diletti figli cornetani
sono chiamati in causa anche in occasione dei preparativi per le nozze di Lucrezia, figlia
del pontefice, con il primogenito del Duca di Ferrara, in quanto, prevedendo l’enorme
quantità di viveri occorrenti per far fronte al grande numero degli invitati, Alessandro VI
ordina loro di dedicarsi alla caccia e alla pesca e di mandare a Roma oltre alla cacciagione e
al pescato, capponi, pollastre, galline “in quella maggiore quantità che” potranno. Il tutto
deve giungere nelle cucine pontificie in tempo per il Natale (1501). Il Papa tornò a Corneto
nel 1503, durante il viaggio per andare a Piombino, recentemente conquistata dal
Valentino, e vi alloggiò tanto nell’andare che nel tornare, con grande accompagnamento di
nobili, cortigiani e servi. Si imbarcò su sei galee, con tutto il suo seguito, nel porto della
città, e si diresse presso Piombino. Durante il viaggio di ritorno una grande burrasca colpì
le navi mentre il Papa, dopo aver corso un serio pericolo, si rifugiò a Porto Ercole, il
Valentino riuscì ad approdare al porto di Corneto e da qui andò incontro al padre con
cavalli dati dai cittadini di questa città.
Ritornati a Corneto, per ringraziamento Cesare Borgia consegnò ai Cornetani un
salvacondotto da lui firmato in data 2 marzo 1502. La città però risentiva della pestilenza
che aveva decimato la popolazione ed allora, il 4 ottobre, Alessandro VI concesse privilegi e
indulti a quelle persone che fossero venute ad abitare nella città, stremata, impoverita e
spopolata. Corneto non fa nemmeno in tempo a riorganizzarsi che, con Breve del 10
gennaio 1503, il Papa incita i Cornetani a prepararsi a difendere il loro territorio ed i loro
averi, dall’Orsini che, a capo delle sue truppe, stava devastando la provincia marittima del
Patrimonio. Anche i Tolfetani avvertono la città che il duca sta avvicinandosi
pericolosamente, dopo aver devastato le zone vicine ai confini cornetani. Con una cruenta
ed eroica lotta le milizie cornetane riescono a battere gli armati dell’Orsini salvaguardando
così il proprio territorio. Quando il 19 agosto 1503 Alessandro VI morì improvvisamente a
Roma, da molte parti cominciarono a circolare voci di un suo possibile avvelenamento
nella villa del cardinale Adriano da Corneto (Castelleschi), avvenuto per un errore da parte
di un servo. Il suo successore, Giuliano della Rovere, con l’aiuto di Cesare Borgia, cui aveva
promesso di crearlo capitano generale della Chiesa, e di alcuni cardinali, suoi fautori, entrò
in conclave già come papa. Aveva 60 anni. Pensiero preponderante di questo Pontefice fu
quello di rinforzare lo Stato della Chiesa. Comunicò subito agli altri principi alleati della
Chiesa di voler abbattere i Turchi. Quindi esortò i vari regnanti a riappacificarsi fra loro in
modo, di fare, al momento giusto, un fronte compatto contro i Mori.
Il Valentino, contrariamente a quanto promessogli, non ebbe la carica di capitano,
anzi fu fatto arrestare dal Papa e condurre a Roma, dove fu rinchiuso nella Torre Borgia.
I rapporti di Corneto con Giulio II furono quasi sempre abbastanza buoni e la città
fu in questo periodo, più che in altri, il granaio di Roma. Già nel 1504 il Pontefice richiese
ai Cornetani di mandare ai romani 3000 moggi di grano, dato che essi ne avevano in
abbondanza e fa appello alla loro fedeltà verso la S. Chiesa ed offre e ricorda loro la sua
“benignità” nelle loro occorrenze”, in quanto già nel 1503, appena eletto, aveva con un suo
Breve, confermato gli Statuti e i Privilegi di Corneto e il condono della terza parte del
sussidio dovuto alla Camera per la restaurazione dei fiumi della città. Nel 1505, dopo la
richiesta di altri mille moggi di grano, nel mese di ottobre il Pontefice giunse a Corneto nel
giorno di San Francesco e celebrò solennemente la Messa nella Chiesa dedicata al Santo,
assistito da vari cardinali tra i quali anche il cornetano Adriano Castelleschi, e portò in
dono la testa d’argento di S. Agapito. L’anno dopo, in marzo, fece restaurare e ampliare la
Chiesa della Madonna di Valverde, fuori le mura. Nel 1509, Giulio II volle ritornare a
Corneto, con un seguito di alte personalità, di cui si premurò di notificare il nome ed il
numero affinché l’accoglienza fosse perfetta. Dopo essere passato da Viterbo a Toscanella,
egli giunse a Corneto accolto solennemente da un grande numero di cittadini e da dodici
giovanetti ben vestiti e portanti ramoscelli di olivo (un vecchio rito della città). In sedia,
sotto ad un baldacchino, fu portato, fra l’esultanza unanime, per tutto il territorio
cornetano. Si fermò poi nella Chiesa di Valverde e da lì, in corteo, si diresse verso la
Cattedrale. All’ingresso baciò il Crocefisso e fu incensato, e dette la sua benedizione ai
presenti, concedendo poi indulgenze per sette anni.
Ricevette in cambio doni e altre attestazioni di sudditanza. Si trattenne tre giorni,
ospitato nel palazzo Vitelleschi, e quando partì promise di tornare presto. Infatti il 9 di
marzo 1510, era di nuovo nella città, ed ancora il 15 agosto dello stesso anno. Al Lido lo
attendevano le galee veneziane, comandate da Girolamo Contarino, con il quale il Papa
desinò con grande familiarità. Quattrocento fanti cornetani si unirono allora ai veneziani,
per andare a combattere contro Genova. Giulio II onorò ancora Corneto con la sua
presenza, il 15 novembre del 1511, sempre accolto con entusiasmo e gioia. Per suo
interessamento, fu rifatto il ponte sul Marta, fu restaurato, quasi dalle fondamenta il
Palazzo Priorale e fu costruita la Nuova Torre (avendo fatto “discaricare” la torre del
Campanile antico). Dopo appena due anni da questa visita, Giulio II, pontefice generoso,
risoluto e forte, morì (1513). Il Gregorovius giudica questo Papa nel seguente modo: “Sulla
Cattedra di San Pietro fu uno dei più profani e antisacerdotali tra i pontefici, appunto
perché fu uno dei principi più eminenti del suo tempo”. Di Giulio II si disse che avesse
gettato nel Tevere le chiavi di San Pietro per non serbare che la spada di San Paolo. A
Michelangelo, che abbozzava la sua statua da erigere a Bologna, e che gli chiese cosa
mettere nella mano sinistra dato che la destra era in posizione benedicente, rispose: “Mai
un libro, non mi trattare da scolaro. Voglio una spada”.
Gli successe Leone X. Il cardinale Giovanni dei Medici, quando venne eletto papa
aveva trentotto anni, ma già ventiquattro di cardinalato, per quanto fosse ancora soltanto
diacono. Era figlio di Lorenzo il Magnifico e aveva avuto come maestri, Pico della
Mirandola, Ficino e Poliziano. Era malfermo di salute tanto che, quando ci fu il conclave,
dovette starsene a letto e subire anche delle operazioni. Fu quindi consacrato sacerdote e
vescovo ed il 19 marzo venne incoronato papa. L’11 aprile con pompa mai vista, prese
possesso di San Giovanni in Laterano. Le spese furono ingenti ed anche le elargizioni al
popolo alquanto cospicue. Di indole dolce e pacificatrice, perdonò ai cardinali a lui contrari
e scismatici, Carvayal e Sanseverino, che i fiorentini avevano imprigionato prima del
conclave. A Leone X stava a cuore più l’ingrandimento della sua famiglia che quello dello
Stato Pontificio. Non amò le guerre, ma si prodigò nella pacificazione dei vari principi e
delle varie case rivali. Non fu molto amato, tanto che fu fatta una congiura contro di lui dai
card. Petrucci, Bandinelli, Riario, e, successivamente Soderini e forse Adriano di Corneto.
Questi ultimi due si salvarono dopo aver pagato una multa di 25.000 ducati; il Soderini, il
chirurgo, che doveva avvelenarlo, e il segretario di Petrucci furono giustiziati fra atroci
tormenti. La cosa destò orrore e molto vuoto si fece attorno al Pontefice, che rimediò,
nominando, in una sola volta, trentun altri cardinali a lui familiari ed amici. Sorse in
quest’epoca il movimento del protestantesimo con a capo Martin Lutero. Il Papa,
comprendendo le gravi proporzioni di questa eresia che si espandeva sempre più, il 7
agosto 1518, convocò Lutero a Roma entro settanta giorni, ma, non essendo questi venuto,
lo scomunicò. Leone X durante il suo pontificato si recò molte volte a Corneto. Nel 1514 fu
accolto con archi trionfali, fuochi e con molti doni e fu condotto in Sedia, sotto baldacchino
per tutto il territorio. Tornò a dimorare nella città otto volte, dal 1514 al 1520, attratto sia
dalla bellezza del luogo che dalla possibilità di cacciare e pescare che offriva. Nel 1516,
essendosi alcune fuste di corsari mori, presentate, dopo aver fatto scorrerie lungo le
spiagge tirreniche, fin sotto il Porto di Corneto, vi fu grande timore nella città e fu avvisato
il Papa, che emanò subito un Breve affinché si facessero “diligenze e difese”.
Il cardinale Castelleschi imprestò alla città 250 ducati d’oro per provvigioni di armi
e di altre attrezzature belliche. Ma i Mori si limitarono a razziare presso l’Argentario delle
barche, facendo prigionieri gli occupanti cornetani. Nel 1517 caddero piogge copiose ed il
ponte sul fiume Marta ne fece le spese, così come la lega del Mulini. Il Papa raccolse il
grido di aiuto della città e fece molte concessioni in favore del Comune per rifare i mulini.
In quest’anno egli ritornò a Corneto, sempre accolto con entusiasmo, onori e regali e in
compenso privilegiò i cornetani col dare loro facoltà di tenere il medico ed il maestro di
scuola a spese della Camera, confermando, cioè, quanto già concesso dal papa Pio II.
Anche nell’ottobre e nel novembre del 1518, il Pontefice ritornò in Corneto, ricevuto
“trattato e regalato secondo il solito”, e poi ancora nel 1520, ricevendo sempre onori
conformi allo stile dei pontefici. Nel 1521, non venne, ma con un Breve da Roma, datato 8
febbraio, dopo averlo lodato la fedeltà e le benemerenze della nobile ed antica Corneto,
concesse grandissimi privilegi alla sua agricoltura. Fu l’ultima cosa che fece per questa
città, poiché morì il 1 dicembre 1521.
Tra il 1521 e il 1534, anno in cui di nuovo un pontefice giungerà a Corneto, lo Stato
Pontificio, deve superare una delle prove più tremende della sua storia: il Sacco di Roma
ad opera dei Lanzichenecchi (1527). Comunque da quel periodo tragico, la Chiesa riuscì ad
uscire, anche se vinta militarmente, quasi “purificata” dal sangue versato, e rafforzata
nell’idea di un rinnovamento spirituale, che porterà alla Controriforma. Ed il Concilio di
Trento (1545-1563), nel corso del quale tanto il Papa che i Vescovi fisseranno i principi
fondamentali della fede cattolica senza scendere a compromessi con le idee luterane,
calviniste, anglicane ecc., fu aperto dal Pontefice Paolo III, Alessandro Farnese, il quale
dopo un periodo, in cui i suoi predecessori avevano “dimenticato”, per motivi inerenti ai
vari momenti di lotta contro i signori ribelli e contro lo stesso imperatore Carlo V, la nostra
città, ritornò a Corneto per trovare quella tranquillità così lontana dalla corte pontificia.
Quando Paolo III fu eletto Papa, i Romani ne furono entusiasti perché, dopo 103 anni,
avevano finalmente avuto un papa loro concittadino. Questo pontefice tentò, ma sempre
invano, di far pacificare Carlo V ed il re di Francia, Francesco I, che speravano, ciascuno, di
tirarlo dalla propria parte. Ma Paolo III non si lasciò ingannare nè dall’uno nè dall’altro,
respingendo lusinghe e promesse. Il suo pontificato fu uno dei più importanti e benefici.
Con esso comincia la ripresa definitiva della Chiesa Cattolica verso la Restaurazione.
Paolo III prese a fare delle riforme, incominciando dalla Curia Romana.
Pubblicò numerosi decreti per emendare la vita licenziosa degli ecclesiastici e per
restaurare la vita religiosa dei monasteri. L’unica cosa, che gli si può rimproverare, fu la
sua tendenza al nepotismo. Creò i suoi nipoti cardinali. Desiderando poi elevare la propria
famiglia al rango di famiglia sovrana, incominciò la costruzione di un piccolo ducato,
incentrato nella città di Castro, nello Stato Pontificio, e lo diede in feudo (1537) al figlio
Pier Luigi ed ai suoi discendenti, a questo aggiunse il governo di Nepi e la contea di
Ronciglione e Caprarola. Era sinceramente affezionato a questo figlio violento e superbo e
provò grande dolore quando lo seppe assassinato. Paolo III, come dicevamo, venne più
volte a Corneto, città di cui era stato Vescovo per vari anni (1501-1519) e la cittadinanza lo
accolse sempre con grande entusiasmo, onori e regali, tanto nel 1534 che nel 1549, anno in
cui si concluse la sua vita terrena.
I successori di Paolo III, furono tutti impegnati, tra gli altri avvenimenti più
strettamente politici, a portare avanti il Concilio di Trento, che subì lunghe pause nei
propri lavori, proprio in conseguenza delle movimentate vicende storiche della Chiesa.
Finalmente, nel 1563, Pio IV riuscirà a condurlo a termine. Intanto Corneto
proseguiva la sua vita in una alternanza di pace e di lotte, di luci e di ombre.
Accanto
ad opere civili, quali l’erezione del Monastero delle Monache Benedettine all’interno delle
mura della città (1564) o la ricostruzione del grande ponte a quattro arcate sul fiume Marta
(1567), ad esempio, ci fu l’arrivo nella città, per ordine del Santo Pontefice Pio V, di un
nutrito numero di soldati che dovevano imbarcarsi nel suo porto, per andare a combattere
la crociata contro i Turchi, crociata che ebbe il suo momento più esaltante nella vittoria di
Lepanto (1571). Fu il successore di Pio V, Gregorio XIII, che ritornò a visitare Corneto.
Infatti nel 1574 dopo due anni dalla sua elezione, giunse nella città con la sua corte ed i
Cornetani furono pronti ad accogliere con calore e magnificenza anche questo pontefice
che, sulle orme dei suoi predecessori, cercò di estendere l’attuazione dei decreti tridentini
presso tutta la cristianità, pur non possedendo una virtù o una costanza d’azione simile alle
loro.
Anche se i papi seguenti non vennero personalmente nella città, pur tuttavia
influirono sulla sua vita inviandovi un proprio Governatore (Sisto V) o chiedendo
contributi per le guerre intraprese (Clemente VIII).
Il XVII secolo iniziò piuttosto bruscamente per il Comune cornetano, infatti mai
come nel 1618 il fiume Marta fece sentire la violenza delle sue acque, che non si limitarono
ad inondare le campagne limitrofe, ma trascinarono nel loro impeto distruttore greggi ed
uomini verso il mare. Numerose furono le vittime di questa furiosa piena e, tra le cose che
subirono ingenti danni, c’è da ricordare quella che il Dasti chiama “la fabbrica meravigliosa
delle Mole”. Il Comune non perse tempo e per rimetterla nuovamente a posto fu, non solo,
pronto a spendere settemila scudi, ma fece anche intervenire l’architetto più importante
della Roma di questo periodo: Carlo Maderno. Subito dopo, però, fu costretto a darne
diecimila al Papa Paolo V, per l’imperatore d’Austria. Quando poi Urbano VIII, nel 1641 si
trovò a lottare con il duca di Parma, Odoardo Farnese, signore di Castro, Corneto venne
scelta come luogo più idoneo per essere il centro delle provvigioni per l’esercito, malgrado
ciò, non poté esimersi dal contribuire alle spese sostenute dal Pontefice, con la solita
somma di diecimila scudi. Eppure quel denaro le avrebbe fatto molto comodo perché, dopo
circa due anni, il 7 agosto 1643, un furioso incendio, scoppiato per la sbadataggine di un
giovane prete, distrusse quasi completamente la Cattedrale, risparmiando solo il coro.
Andarono così perduti molti monumenti di famiglie e uomini illustri, tra i quali anche
quelli dei cardinali Giovanni e Bartolomeo Vitelleschi. Per la ricostruzione della sua
cattedrale, tutto il popolo cornetano fu pronto a concorrere con le proprie offerte.
Partecipò a questa “colletta”, con una somma considerevole, anche il Vescovo Cecchinelli.
Prima che si concludesse la prima metà del XVII secolo, nel 1645, Corneto fu ancora
una volta coinvolta nella guerra che il pontefice Urbano VIII portò ai signori di Castro, i
Farnese, guerra che si concluse con la sconfitta di quest’ultimi sotto il Pontefice Innocenzo
X. La città di Castro venne completamente rasa al suolo e a questo atto parteciparono
anche soldati cornetani.
Il secolo si concluse tra minacce di guerra e momenti di relativa quiete. E questa
quiete Corneto sembrò riuscire a mantenerla per molti anni, fino a quando la ventata della
rivoluzione francese non giunse sino ad essa. In questo periodo fu costruito all’interno del
Palazzo Comunale un Teatro pubblico, e, per ordine del Pontefice Benedetto XIII, anche
l’Ergastolo, ossia la “Pia casa di Penitenza” per quegli ecclesiastici che si fossero macchiati
di qualche colpa. Nel 1746 la città ha l’onore di accogliere Benedetto XIV, il quale, dopo
aver ricevuto l’omaggio delle autorità civili e religiose e la festosa accoglienza del popolo,
ripartiva, accompagnato dalla cavalleria cornetana verso Civitavecchia. Questo Pontefice
era molto amato dal popolo e la sua elezione era stata accolta con un unanime entusiasmo,
in quanto di lui si conoscevano tanto la vita, improntata a costumi seri e aderenti alla
spiritualità cristiana, tanto la pietà e la semplicità nei suoi rapporti con gli umili.
Nel 1757 Benedetto XIV tornò ad interessarsi della città, che l’aveva accolto con
tanto calore e, con un suo Breve, concesse la fascia d’oro al Gonfaloniere di Corneto,
motivandola con i meriti dei cittadini e con l’antichità delle città.
Ancora
qualche anno di pace, che vede la costruzione del Cimitero nella zona di San Giacomo, nel
1759, e, sempre nello stesso anno, la concessione dell’uso, da parte del Comune a S. Paolo
della Croce, di “quattro rubbia di terreno selvoso nella tenuta di S. Pantaleo per fondarvi il
Ritiro dei Passionisti” (Dasti).
Nel 1762 Clemente XIII riprese l’abitudine dei Pontefici di visitare Corneto. Papa
Clemente, umile, retto, di indole mite, dolce e candida, era zelante ed inflessibile nel
compiere ciò che reputava essere suo dovere. Tutta la sua forza la riponeva nel cielo e non
nei governi terreni, dai quali rivendicava i diritti nella Chiesa. Profondeva quanto aveva in
aiuto dei poveri e questo lo dimostrò apertamente quando a seguito della carestia che colpì
l’Italia nel 1763-64, cercò di sfamare tutti quelli che, spinti dalla fame, venivano a Roma.
Della visita che fece a Corneto il 4 maggio del 1762, nella “Memoria” presente nell’Archivio
Falzacappa troviamo una accurata e precisa testimonianza:
“Nell’anno 1762 il quattro maggio Clemente XIII Rezzonico, preceduto dalla sua
Croce Papale da Civitavecchia giunse in Corneto verso le 13. Era accompagnato da circa
100 persone tra Nobili e Guardie, col card. Guidobono Cavalchini e coi suoi nipoti il card.
Carlo Rezzonico e mons. Gio.Battista Rezzonico Governatore delle armi pontificie. Dalla
porta Maddalena ove gli furono dal Magistrato presentate le Chiavi della città e i comuni
ossequi, si portò, passando i due archi trionfali ed in mezzo agli evviva, spari e suoni di
campane della soldatesca urbana ed innumerabil Popolo alla Chiesa Cattedrale, ivi mons.
nostro Vescovo Saverio Giustiniani lo complimentò e sulla porta della Chiesa ove faceva ala
tutto il Clero secolare e Regolare, gli consegnò l’aspersorio dell’acqua benedetta. Andò poi
alla visita del SS. Sacramento esposto sull’altare maggiore (il Papa si trattenne una buona
ora genuflesso) osservò la Chiesa e a piedi andò all’Episcopio. Dopo breve riposo ammise al
bacio del sacro piede il clero secolare e regolare, il Magistrato che a nome pubblico gli offrì
un bel calice di argento dorato coi suoi consiglieri ed altri cittadini. Andò in appresso
dentro la porta della clausura delle monache Benedettine di S. Lucia ed ammise al bacio
del sacro piede quelle religiose ed educande ed altre Signore Cornetane, poi passò per la
Piazza e si fermò per un poco sul Portone dell’Ergastolo e fatto cammino per la strada di S.
Francesco alla Piazza del Pubblico, ritornò all’Episcopio e ricevette il trattamento fattogli
dallo stesso mon. Giustiniani; e dopo aver riposato data alla finestra che dall’Episcopio
corrisponde sulla piazza di S. Giovanni, la Benedizione Pontificia al numeroso Popolo, ivi
per tale oggetto accorso, vero le 22 ore partì per far ritorno a Civitavecchia”.
Corneto nel 1770 viene ad arricchirsi di un nuovo ospedale, quello delle Donne, nella
zona occidentale della città, vicino alle Mura; nel 1771, invece c’è la fondazione del
Monastero delle Passioniste, nel quale, inizialmente, entrano undici monache per seguire
la regola del nuovo Ordine Religioso, che ha la sua guida spirituale in San Paolo della
Croce.
Quando i francesi, dopo la rivoluzione del 1789, scenderanno in Italia, anche lo
Stato Pontificio sarà interessato dagli sconvolgimenti politici che ne deriveranno e quindi
anche Corneto, prima farà parte della Repubblica Romana, poi nel dipartimento di Roma
nell’Impero Francese. Prima di essere “ospitato” da Napoleone I nel castello di
Fointainebleau, il pontefice Pio VII dà modo alle Saline, poste lungo il litorale cornetano,
di svilupparsi e di migliorare la loro produzione.
Corneto resterà sotto la giurisdizione
francese fino alla caduta dell’Impero Napoleonico (1814), quando ritornerà sotto lo Stato
Pontificio. Si sta riorganizzando la vita all’interno della città, allorche S. Maria di Castello,
una delle opere architettoniche più insigni, viene ad essere particolarmente colpita dal
terremoto. La cupola, che per alcuni studiosi, poteva ritenersi la prima costruita nell’Italia
Centrale (1200-1207), a seguito della tremenda scossa, precipitò sul pavimento, rovinando
anche il mosaico cosmatesco che lo ornava.
E’ un terribile colpo per questa Chiesa che, già provata dall’incuria degli uomini,
rimase priva di qualsiasi difesa contro le profanazioni fino alla sua riconsacrazione
avvenuta, dopo la riparazione del tetto e delle porte, nel 1834. Si tenga presente, però, che
per vari anni, dal 1849 al 1869, verrà utilizzata insieme al vicino convento, dai soldati
francesi come stalla e caserma, con gravissimo danno per la sua parte artistica. Una
intensa giornata di gioia e di fede viene vissuta dai Cornetani in occasione della visita di
S.S. Gregorio XVI, il 22 maggio 1835. Questo Pontefice, molto pio ma poco esperto di
politica, durante il suo pontificato, si dimostrò amante dell’arte; fece infatti restaurare il
Palazzo Laterano per accogliervi il Museo Gregoriano Lateranense, che doveva ospitare
cimeli e sculture dell’antichità. Promosse anche opere pubbliche quali la rettifica del corso
del fiume Aniene, i lavori alla foce del Tevere e al porto di Civitavecchia, il compimento del
cimitero del Verano e la pavimentazione delle strade cittadine. Il periodo del suo
pontificato fu turbolento e instabile, in quanto lo spirito rivoluzionario prendeva sempre
più piede in Italia.
Della visita da lui fatta a Corneto, parlano tanto la “Memoria” già ricordata che
documenti dell’Archivio Storico Comunale.
A questo proposito, anche sul n.12 de “Il Procaccia”, giornale dell’Archivio Storico, si
riporta quanto segue: “.... Il Pontefice giunse a Corneto con la sua Corte e a breve distanza
dalla Porta Maddalena, il cui ingresso era stato decorato con spalliere di verdura, fu
circodanto da un drappello di giovani vestiti di nero e cinti con fasce di velluto cremisi, i
quali dopo aver chiesto ed ottenuto dal Santo Padre il permesso di staccare i cavalli della
carrozza, fra il rimbombo dei mortari e le acclamazioni della popolazione esultante, lo
condussero alla volta del Duomo, preceduti dalla civica banda musicale. Sulla piazza San
Marco era stato eretto un grande arco trionfale, decorato con gli stemmi papali e con
iscrizioni. Dopo aver visitato la Cattedrale, il Papa, preceduto da quattordici fanciulli vestiti
con tonache bianche orlate di giallo con palme e rami di olivo, si avviò a piedi all’Episcopio.
Dal balcone impartì la benedizione al popolo e più tardi ammise al bacio del piede le
Autorità ecclesiastiche e civili, i notabili della città e gli appartenenti alle diverse comunità
religiose. Uscito dall’Episcopio, Gregorio XVI visitò il monastero delle Benedettine e quello
delle Passioniste, nei quali ammise al bacio del piede le monache e varie signore della città.
Sua Santità ha voluto anche visitare la Pia Casa di penitenza fatta costruire nell’anno 1728
da Benedetto XIII e si è informato sullo stato e trattamento dei detenuti. Nel tardo
pomeriggio fece quindi ritorno a Civitavecchia”. Il giorno dopo “gran parte della
popolazione si è recata alla marina per accogliere il battello a vapore “Mediterraneo” con il
quale Sua Santità ha fatto scalo al Porto Clementino per andare a visitare lo stabilimento
delle Saline, formato sotto Pio VII con disegno ed esecuzione del cav. Giuseppe Lipari il
quale trovandosi nel luogo poté avere l’alto onore di corrispondere alle Sovrane ricerche.
Quindi il Papa fece ritorno al Porto Clementino e partì alla volta di Roma. La visita di
Gregorio XVI è stata particolarmente apprezzata in quanto sono passati ben 73 anni dalla
visita del Pontefice Clemente XIII. Chiara Memoria il quale venne a Corneto con la sua
Corte il 4 maggio 1762”.
Appena un anno dopo la visita pontificia, Corneto accoglie nella Chiesa delle
Monache Passioniste, le spoglie mortali di Madama Letizia, la madre di Napoleone, e
quindi, nel 1839, anche quelle del card. Fesch, zio del grande corso. Queste salme
resteranno nella raccolta chiesina della “Presentazione di Maria SS.” fino al 1851, anno in
cui vennero traslati in Corsica con tutti gli onori. Intanto c’è, nel 1848, la proclamazione
della Repubblica Romana ed anche Corneto si dà un governo repubblicano che, però, dura
poco perché, nel 1849, le armi francesi ristabiliscono il dominio pontificio. Anzi, come già
si è detto, nella città resterà dal 1849 al 1869, una guarnigione francese che aveva appunto
il compito di difendere il governo pontificio.
E’ del 1854, la Lettera Apostolica con la quale Pio IX istituisce il nuovo Vescovado di
Corneto e Civitavecchia, puntualizzando bene che “i canonici di Corneto avranno la dritta
nelle funzioni ecclesiastiche tanto dai canonici civitavecchiesi che dagli altri della diocesi, e
che due Vicari generali, risiederanno uno in Corneto, l’altro in Civitavecchia, indipendenti
fra di loro”.
Pio IX, il Pontefice che aveva iniziato il suo pontificato, riempiendo di speranza i
cuori dei liberali, emanando riforme, riconoscendo la libertà di stampa e di riunione,
amnistiando i detenuti politici, fu a Corneto il 15 ottobre 1857 con la sua corte.
Anche se l’accoglienza fu piena di rispetto ed il popolo fece ala festosamente al suo
passaggio, si cominciava a notare come le idee che erano state alla base della Republica
Romana del ‘48/’49, fossero ancora vive in parte della popolazione. La figura del Pontefice
però era tale che tutti si sentirono devotamente suoi sudditi: i clericali perché in lui
vedevano il Papa che aveva ristabilito, dopo un periodo agitato, il potere temporale dei
Pontefici, i liberali perché riconoscevano in lui, per quello che aveva fatto durante i primi
anni del suo pontificato, l’iniziatore di quei cambiamenti nella politica italiana che
avrebbero poi portato alle lotte risorgimentali per l’unificazione e l’indipendenza dell’Italia.
Pio IX è stato l’ultimo pontefice a visitare Corneto.
Finisce qui questo rapido excursus dedicato alle visite ed ai soggiorni pontifici nella
nostra città, excursus che non vuole essere niente più di questo: solo una memoria recente
di tanta storia passata.
Lilia Grazia Tiberi
BIBLIOGRAFIA
C. CASTIGLIONI - Storia dei Papi
A. GUGLIELMOTTI - Storia della Marina Pontificia
BUSSI - Storia di Viterbo
MURATORI - Antichità italiche
POLIDORI - Croniche di Corneto
DASTI - Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto
SUPINO - Margarita Cornetana
VILLANI - Storia fiorentina
ARCHIVIO STORICO COMUNALE
ARCHIVIO FALZACAPPA
GREGOROVIUS - Storia di Roma nel Medio Evo
CANCELLIERI - Storia dei Sommi Pontefici
BOSQUET - Gesta Urbani V
J. B. LABAT - Voyage en Espagne et en Italie
Storia del periodo medievale - Garzanti
VALESIO - Codice capitolino
CHIESA E CONFRATERNITA DI SANTA MARIA DEL SUFFRAGIO IN
CORNETO
Un’antica “Memoria” dice che sarebbe “difficil cosa voler ricercare l’origine primaria
della Venerabile Confraternita di S. Maria del Suffragio essendo del tutto sepolte le
memorie di essa, se non che la bolla dell’aggregazione che ebbe con la Venerabile
Arciconfraternita di Roma contrasse fin dall’anno 1622: eretta come dalla bolla si ricava
per ordinaria autorità nella chiesa parrocchiale di S. Antonio Abate di questa città...” 1)
“Ebbe principio la pia società chiamata del Suffragio,nell’anno 1617 nella chiesa
parrocchiale di S. Antonio dove alcune pie donne fecero un oratorio con un solo altare. Più
tardi Mons. Laudivio Zacchia Vescovo Cornetano con sua giurisdizione la eresse a
congregazione chiamata della Disciplina, che nel 1622 il 2 maggio, venne aggregata
all’Arciconfraternita del Suffragio in Roma”. 2)
“Alla nuova congregazione presto si ascrissero anche degli uomini che con lodevole
zelo ne rialzarono le sorti”. 3)
Dopo il 1622 e per lungo tempo, nel Sodalizio forse nacquero dei contrasti tra i
fratelli, Ufficiali ed esterni, poiché nei documenti antichi è detto che “Le diaboliche frodi...
tutto inventorono per debellarla e distruggerla... essendo solamente rimasta al curato pro
tempore l’ingerenza in detta cappella ed a terza persona l’elemosine che da particolar
cercante si raccoglievano affinché con mezzo di esse ne venivano in qualche parte
suffragate le già derelitte anime purganti....” 4)
1)
Origini e Fondazioni della Ven.le Confraternità di Santa Maria del Suffragio di Corneto, in Chiese, t.17 La Madonna
del Suffragio. Si crede che analogo o stesso manoscritto sia quello riportato al n° 3 di una Rubricella... di Brevi, Lettere
e Rescritti, con questa denominazione: Quinterno di Memorie sulla Origine e Fondazione della nostra Ven.
Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Corneto,p. 9.
2)
D. I. BENEDETTI, Ven. Confraternita di Maria SS.ma del Suffragio, Corneto- Tarquinia 1909, p. 4.
Al n°1 dei “Brevi, Lettere, e Rescritti”, è annotata la “Bolla di Aggregazione alla Ven. Arciconfraternita di Santa
Maria del Suffragio di Roma, in carta pecora, ottenuta il 2 maggio 1622”, ed al n° 2 la “Copia semplice di detta Bolla
scritta senza abbreviature” (Rubricella... cit..,p. 9).
Secondo il Falzacappa, “Questa Confraternita riconosce la sua istituzione sin dal 1592 sotto il Pontificato di Clemente
VII”, Chiese cit, nota 7, ripresa in Moroni , Dizionario di Erudizione..., t. II, p.309. Il Moroni, si riferisce
all’Arciconfraternita della Beata Vergine del Suffragio di Roma, allora “... presso la chiesa di S. Biagio della Pagnotta”.
ARCICONFRATERNITA “della B. Vergine del Suffragio. Riconosce la sua istituzione sino dal 1592, sotto il
Pontificato di Clemente VII, il quale colla costituzione, “ Ex debito, si legge nel tom. V, p. 11 del Bollario, l’approvò.
Allora risiedeva presso la chiesa di S. Biagio della Pagnotta, che al presente per concessione del Sommo Gerarca
Gregorio XVI è in possesso degli Armeni. Paolo V, nel 1620 la elevò al grado di Arciconfraternita. E’ di lei scopo
suffragare viemmaggiormente i fedeli defunti con le preghiere, elemosine e sacrifizi. Col progresso si edificò una
chiesa nalla strada giulia, e là appunto risiede. I Confrati vestono sacchi bianchi con mozzetta di sajo, cordone, bordone
e cappello nero, ad uso dè pellegrini hanno per istendardo l’immagine di Gesù Cristo colla beata Vergine e S.
Gregorio Magno”. ( Moroni cit.).
Al n°1, nei Brevi, Lettere e Rescritti della Rubricella... cit., è riportato l’oggetto di una Lettera inviata dalla Ven.
Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Roma, in data primo gennaio 1674 dove invita a “ portarsi la nostra
Confraternita a Roma all’acquisto del S. Giubileo nel prossimo futuro Anno Santo 1675” ( pp. 9-10).
Al n°2 di una Memoria si dice “che la nostra Confraternita si portò a Roma nel passato Anno Santo 1725” (pag. 10).
Il “ Valesio”, nelle sue Memorie Istoriche della Città di Corneto, manoscritto della prima metà del XVIII secolo, dice
che nella chiesa di S. Antonio Abate “... vi è l’altare della disciplina delle Donne,...”, p. 281.
La cappella è citata ancora a p. 25 nella Visita Vescovile di Mons. Giustiniani del 1755, dove è detto, che “oltre l’altare
Maggiore eranvi gli altari della Vergine del Suffragio appartenente alla Confraternita di questo nome, e quello di S.
Sebastiano ( S. Antonio Parrocchia, in Chiese t. 4).
Nella chiesa di S. Antonio Abate, nel 1856, esisteva ancora il vecchio altare della prima Confraternita, dedicato alla
Madonna del Suffragio: “ In Cornu Evangelj l’altare dedicato alla Madonna SS.ma del Suffragio, con in alto un quadro
di S. Barbara” (S. Visita Bisleti 1856).
3)
D.I. BENEDETTI, Ven. Confraternita... cit., p. 4.
Origini...cit.: cfr. Risposte ai Quesiti, fatti a questa Ven.le Confraternita di Santa Maria del Suffragio della Città di
Corneto, dall’E.mo e R.mo Signor Cardinal Filippo De Angelis Arcivescovo Vescovo di Corneto e Montefiascone, in
occasione della Sagra visita Pastorale delle suddette Diocesi Riunite, nell’anno 1840, in Chiese, cit., t. 17. La
4)
Tra gli altri prodigi si narra, che “non soffrendo alquanti malevoli il ristabilimento di
questa Confraternita, fecero nascere delle ombre nella mente dell’E.mo Vescovo
Aldovrandi, che gli furono poco dopo tolte da alcuni incogniti Forestieri disubito comparsi,
e nella stessa maniera poi partiti, alla presenza di esso Porporato, che in contanente si
protestò, e promise sia in pubblico, che in privato, che non solo avrebbe approvato il
ristabilimento della Confraternita del Suffragio di Corneto, ma che ne sarebbe ancor stato
il più fervido Protettore, e con tutto calore ne adempì in ogni occorrenza la promessa”. 5)
La prima congregazione dopo la parentesi dei “contrasti” fu tenuta dai fratelli della
Madonna del Suffragio nella chiesa di S. Antonio Abate di Corneto, ed è annotata nella
prima pagina del Registro delle Congregazioni della Venerabile Confraternita di S. Maria
del Suffragio in Corneto, registro che elenca le congregazioni dal 1745 al 1831:
“A di 25 aprile 1745. Fu tenuta Congregazione delli Fratelli del SS. Suffragio nella
Chiesa Parrocchiale di S. Antonio Abate alla qual Congregazione intervennero li quì
sottoscritti Fratelli cioè: Il Sig. Ten. Fabrizio Raffi, il Sig. Antonio Manti, il Sig. Tommaso
Rossi, il Sig. Lazzaro Nardeschi, Francesco Beretta, Francesco Valentini, Sebastiano
Pazzaglia, Simone Sensoni, Domenico Ferri, Pietro Pozzi, Giuseppe Turi, Giovan Battista
Buti, Curato D. Giuseppe Agostini, Filippo Antonio Giacchetti.
Da quali dopo intonato l’inno Veni Creator Spiritus, furono estratti per la prima
volta gli Ufficiali della Confraternita, e sono chiamati: Il primo Ufficiale Primicerio, il
secondo Primo Custode, il Terzo, Secondo Custode Il Camerlengo, o sia depositario, e
Priora, e prima fu estratto:
Primicerio = Il Sig. Tenente Fabrizio Raffi, Esattore Depositario
Primo Custode = Luca D’Alessio (certamente Luca Alessi come si dirà in appresso).
Secondo Custode = Giuseppe di Taddeo Mattioli.
Priora = Angela Marchetti.
Siamo adunati nel nome del Signore tutti i suddetti Fratelli alla presente Congregazione
per discutere alcune cose in vantaggio et augumento della medesima, et in onore e gloria
della B. Vergine del Suffragio, e per sollevare con maggior fervore l’Anime Sante del
confraternita, “durò in questo stato di languore fino al giorno 8 settembre 1745 festa della Natività di Maria SS.ma,
avvocata e Titolare della Confraternita medesime” (“Risposte...” cit.).
5)
Risposta ai quesiti... cit.
Il Vescovo Aldovrandi fu il più fervido protettore della Confraternita e dopo il ristabilimento di questa “fece subito per
sua memoria dipingere un Quadro Colla SS.ma Trinità colle Anime del Purgatorio in fondo”, per la loro cappella nella
chiesa di S. Antonio Abate “come tuttora si osserva in questo Episcopio” (Ibidem). Anche la Ven. Arciconfraternita di
Santa Maria del Suffragio di Roma, in data 7 febbraio 1750”... si rallegra del ripristinamento della nostra Confraternita;
ringrazia del Dono Mandatole di una torcia di libbra quattro; e promette all’occasione tutta quella assistenza, che
potrebbe occorrere alla stessa nostra Confraternita”. (Lettera annotata in “Brevi, Lettere e Rescritti”, in Rubricella...cit.
p. 10).
Purgatorio; ed in primo luogo si è venuto all’elezione degli Ufficiali, quali furono eletti di
comun consenso li Sigg. come sopra: In secondo luogo fu determinato che nel di 8
settembre festa della Natività della B.V. si celebri la festa da tutti i Fratelli con Messa
Cantata e Vesperi et in quell’istesso giorno si darà secondo la pietà de suddetti, qualche
elemosina in beneficio dell’Altare Stesso, o delle Suppellettile Sagri che bisogneranno per
la celebrazione delle Messe. Il Sig. Manti, et il Sig. Berretta Deputati approvorno in
compagnia di tutti i Fratelli radunati a quanto di sopra si è detto, e così intonato, et detto il
Te Deum, fu terminata la Congregazione.
Lazzaro Nardeschi Segretario”. 6)
Nel 1748, per mezzo del Cardinal Pompeo Aldovrandi, vescovo di Corneto e
Montefiascone (1734 - 1752), i confratelli ottennero “... una nuova ricognizione
dell’aggregazione all’Arciconfraternita di Maria SS.ma del Suffragio in Roma”. 7) Se si riuscì
ad ottenere la nuova aggregazione all’Arciconfraternita di Roma, fu anche per
interessamento del Sig. D. Lorenzo De Bonis Romano. 8)
Il “16 agosto 1748
Fu fatta, et antecedentemente intimata dal nostro sagrestano la Congregazione nella
nostra Cappella della Mad. SS.ma del Suffragio nella chiesa di S. Antonio Abbate, et alla
presenza dell’infrascritti Fratelli presenti e Congregati furono lette dal Rev. curato D.
Giuseppe Agostini, nostro Direttore, le infrascritte lettere con le quali, a tenore dell’istanza
fatta alla S. Congregazione de Vescovi e Regolari, mediante la Bolla esistente in questo
nostro Archivio, vien di nuovo approvata, e ristabilita la nostra Confraternita nel primiero
suo essere come chiaramente si legge, cioè:
All’Ill.mo, e R.mo Sig. Provicario Generale di Corneto.
6)
L. NARDESCHI, Registro delle Congregazioni della Ven.le Confraternita di Santa Maria del Suffragio in Corneto,
ms., p. 1.
LAZZARO NARDESCHI, Corneto 1716 - 1787, pittore architetto.
Così il Rettore della Cattedrale di Corneto D. Giacomo Serena si esprime nella pagina dove ha annotato il decesso
dell’artista; “... abitava in una casa in Parrocchia S. Leonardo insieme a sua moglie Amelia Scacchia. Per la singolare
bravura ed intelligenza nelle arti dell’architettura, pittura ed anche nella “aritmetica”, godeva in tutta la città la stima dei
suoi concittadini. Amato e rimpianto da tutti, dopo le esequie, fu sepolto nella nostra cattedrale Libro dei Morti dal
1736 al 1823).
Il Nardeschi, come segretario della Confraternita di S. Maria del Suffragio, firma la sua ultima Congregazione nello
stesso anno della sua morte (Registro... cit. pp. 111 r. e 112). Anche la Stima fatta agli arredi e quadri appartenenti alla
famiglia Costantini, posti nel loro palazzo di Piazza S. Giovanni in Corneto e portati poi nel Monastero delle
Passioniste porta la stessa data, 1787 del decesso dell’artista (Archivio Monastero delle Passioniste di Tarquinia). Le
successive pp. 112r e 113 del Registro...., non accennano all’avvenuta morte del Nardeschi. Di questo pittore si
conoscono a Tarquinia alcune opere, restauri, e stime fatte a Corneto durante l’arco del XVIII secolo. Dagli Inventari
1709-1830, (Fondo Serviti), si sa che nel 1744 restaura la tavola della “Madonna di Valverde” avendo alla destra della
Madonna ed in fondo i panneggiamenti alquanto patiti”.
7)
P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17.
Ill.mo Sig.re Per sollecitare all’Anime Purganti quei suffragi che potranno derivare
loro dalla nuova erezione di cotesta abbandonata Confraternita della Mad. SS.ma del
Suffragio comunico sollecitamente a V.S. quelle medesime facoltà che mi vengono concesse
nella compiegata lettera della S. a Congregazione de’Vescovi Regolari, affinché secondando
l’istanza delli fratelli della med.a Compagnia dia pronta esecuzione a quanto vien
prescritto, ed ordinato dalla stessa S.a. Congr. ne le auguro per fini veri contenti.
Roma 10 agosto 1748.
Aff.mo per servirla
Card. Aldovrandi
= Lettera dell’E.mo Sig. Card. Cavalchini all’E.mo Sig. Card. Vescovo di Corneto.
= E.mo e R.me Sig. mio Oss.mo = Essendosi riferito in S. Congregazione quanto
V.Em.nza si è compiaciuta rappresentante con lettera delli 7 del corrente ag.to in ordine
all’istanza de Fratelli della Compagnia della Mad.a SS.ma del Suffragio di cotesta Città,
questi E.mi Sig.ri hanno rimesso al di lei arbitrio, e prudenza conceder loro la richiesta
facoltà, con condizione però che le limosine che si raduneranno s’impieghino in onore di
M. Vergine, a suffragio delle Anime Purganti e se ne faccia il diposito in mano del Parroco
pro tempore, o di altra Pia, e sicura persona, e che ogn’anno sia tenuta render conto al
Vescovo pro tempore o suo vicario G.nle per riconoscere le dette Limosine siano state
erogate come sopra. Tanto mi dò l’onore di Significare all’E.nza Vescovo all’E.nza V.ra, e le
bagio umilmente le mani = D V E a = Roma 9 Ag.to 1748
Card. Cavalchini
Terminata la Congreg.ne con le solite orazioni, e cerimonie secondo il Rito e
consuetudine delle Confraternite si è stimato bene registrare le soprascritte Lettere alla
perpetua memoria dei Confratri, e poi furono restituite le sud.e Lettere originali in mano
del Sig.re Leonardo Querciola Cancelliere Vescovile perché le tenesse depositate nella
Cancelleria Vescovile secondo l’ordine de superiori
Lazzaro Nardeschi Seg.rio”. 9)
Dopo il riconoscimento della nuova aggregazione del 1748, i Confratelli lavorarono
per un solo scopo: l’erezione di una nuova e propria chiesa nella città, che non tardò a
venire. Il lavoro, le elemosine dei cittadini di Corneto, ed in primo luogo il sostegno e le
8)
Ibidem.
molte elargizioni fatte dai fratelli Fabrizio e Stefano Raffi, dal Primicerio Leonardo
Falzacappa e da tutta la sua famiglia, permisero di dare inizio alla desiderata chiesa.
Intanto, il 5 febbraio 1751 vi fu altra riunione della congrega esclusivamente per
l’erezione della nuova chiesa; ciò si può leggere:
“Congregati e Coadunati li sud. Fratelli, il Sig. Primicerio Abb. e Leonardo
Falzacappa insorse, et ad volta voce incominciò a dire = Volendo noi venire all’esecuzione
d’incominciare la nuova fabbrica della Chiesa nel sito ceduto dalli Sig.i Fratelli Ten.ti Raffi,
Marchese Serlupi, et altri comprati, esistenti nella piazza comune di questa nostra città
perché vadano tutte le cose con ogni buon ordine, e senza confusione si è determinato
eleggere i Deputati et ogni ufficio che occorre; e perchè vadano ripartite l’ingerenze a
quelle persone atte e profittevoli per li vantaggi della nostra Confraternita. Quindi è che
essendo in atto d’incominciare a fare lo sterro e ripolire li detti siti, e fare quelle provigioni
necessarie, ad incominciare la detta fabbrica, siamo oggi adunati perché tutti concorrono
con i loro voti ad eleggere i detti Deputati et assistenti acciò con fervore insistano a
quest’opera pia, et avendone scritta questa nostra volontà all’E.mo e R.mo sig. Card.
Aldovrandi nostro Vescovo, perché con la sua assistenza, et autorità voglia porgerci mano
in ciò che potrà occorrerci, egli benignamente si è compiaciuto di approvare, e permetterci
di venire all’effettuazione desiderata con la lettera che quì si descrive il tenore della quale è
come siegue.
Alli M.to Ill.ri Sig.ri li Sig.ri Primicerio, e Guardiani della Confraternita del Suffragio
di Corneto.
Molto Ill.mi Sig.ri = Lodo, non che approvo il desiderio che mi dimostrano Le Sig.rie
V.re per la costruzione di una nuova chiesa dedicata all’Anime Sante del Purgatorio, e mi
pregio di potere in qualche parte contribuire all’effettuazione della medesima come
riconosceranno dalla Compiegata Lettera, che scrivo a M.ro Angelo Ghirlanda Capo M.ro
Muratore affinché, egli non solo assuma l’impegno della suddetta fabbrica ma che ancora
procuri di servire al loro zelo con tutta l’esattezza, ed attenzione maggiore e mentre godo
meco stesso, e seco Loro mi congratulo della Commendabile premura che dimostrano nel
far risorgere in cotesta Città la divozione (per) l’Anime Sante del Purgatorio mi dichiaro
prontissimo a secondare questo loro pio desiderio in qualunque altra maniera mi sarà da
Loro somministrata, e resto Delle Sig.rie Aff.mo per servirli di cuore.
Roma 20 del 1751
9)
L. NARDESCHI, Registro... cit., pp. 6-7.
p: Card.Aldovrandi. 10)
Nella stessa congregazione furono assegnate, a quelle persone più idonee, le cariche
spettanti alle varie mansioni per dare inizio ai lavori della nuova fabbrica della chiesa. Così
vediamo che i Fratelli Stefano Raffi, Sisto Vipereschi, Saveriano Panzani e Felic’Angelo
Spinetti “furono proposti per Deputati assistenti allo sterro, et alla fabbrica”. Curzio
Bevilacqua e Domenico Ricci, “furono proposti deputati al Careggio della Rena”, mentre i
fratelli Lorenzo di Sebastiano Confalone fu “Deputato al careggio de’ sassi e calce”.
“Depositario per li denari dell’elemosine da impiegarsi nella fabbrica fu proposto il Fratello
Primicerio Leonardo Falzacappa”, “quale Depositario della roba” fu proposto il Fratello
Filippo Ponti, così “Esattori delle Elemosine” furono li Fratelli Nicola Donati e Fabrizio
Raffi. Le Sorelle Flavia Fracassa ed Angela Marchetti furono “Esattrici delle Sorelle”. 11)
Stabilito di dar principio alla fabbrica, “fu pertanto appoggiata come a valevole e
forte colonna l’incombenza di ciò alla somma vigilanza ed intendimento dell’Ill.mo Sig.
Leonardo Falzacappa”. Questi trovò il posto, dove doveva sorgere la nuova chiesa, non
molto idoneo qualora non si fosse provveduto alla già esistente area di aggiungerne altre;
le quali ultime furono le aree di due case, “che molto impedivano alla costruzione”,
comperata la prima dai RR. PP. Servi di Maria dallo stesso Falzacappa, e l’altra dalla
Confraternita, spettante al Rev.mo Capitolo della Cattedrale. 12)
10)
L. NARDESCHI, Registro... cit., pp. 20.-21; cfr. Brevi..., in Rubricella..., p. 11. Dentro la “Lettera esiste il
Memoriale in Copia, ossia lettera scritta dalla Confraternita al suddetto Vescovo” (Ibidem, p. 11).
11)
L. NARDESCHI, Registro... cit. p. 21.
STEFANO RAFFI, Corneto 1711 - 1769, pubblico Agrimensore.
Di lui si conoscono alcuni pregevoli disegni ed un prezioso Catasto illustrato del 1749, di tutti i “Beni Rurali et Urbani
spettanti alla Cappella di S. CRISPINO dell’Università dell’Arte dé CALZOLARI fatti in tempo del Camerlangato di
M° Marco Lottieri”, cfr. L. Marchese, Tarquinia nel Medioevo, Civitavecchia 1974, p. 27.
Nel frontespizio e nella pagina seguente di questa, a volte, spiritosa raccolta, fa spicco un prospetto di altare ed una
allegoria decorativa, disegnati ed acquarellati con la sicurezza di un provetto pittore, nella quale l’artista ha saputo ben
inserire, nel tutto, anche lo stemma della famiglia Raffi e la firma “STEFANO RAFFI” Agr.re.
FABRIZIO RAFFI, Corneto 1715 - 1786 è il fratello di Stefano, fu primo Primicerio della Confraternita subito dopo la
sua ricostituzione. Insieme al fratello Stefano, i Raffi, ebbero molti meriti per l’erezione della chiesa.
Il 6 agosto 1784 Fabrizio Raffi, essendo Confaloniere della Città di Corneto, prende parte alla benedizione della
Cappella o Chiesa pubblica, data dal Vicario Paluzzi, nel Palazzo Comunitativo della Città (P. Falzacappa, (Cappella)
della Comunità..., in Chiese, t. 21). La presenza della famiglia RAFFI, è annotata in Corneto sin dal 1639 (Falzacappa,
“Armi gentilizie delle famiglie di Corneto”).
12)
P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17.
“Rescritto del sud.o E.mo sig. Cardinal Vescovo Aldovrandi, che autorizza la Confraternita alla Compra, pel pezzo di
Scudi otto, di un piccolo Sito che impediva la fabbrica della nuova Chiesa, spettante al R.mo Capitolo della Cattedrale
“(Rubricella... cit., p. 13.
“Compra di un piccolo Sito che spettava a questo Rev.mo Capitolo cornetano, esistente nel luogo, ove al presente è
fabbricata la nostra Chiesa, fatta nell’anno 1751. Si dice però donato questo sito, in Testamenti ed Istrumenti..., in
Rubricella... cit., p. 23.
“Copia semplice d’istrumento di Compra della Casa, e Stalla, acquistate dalla nostra Confraternita dal Ven. Convento
dei Servi di Maria, nel giorno 5 aprile 1752, che impedivano la Fabbrica della nuova chiesa, quell’Istrumento fu rogato
per gli Atti di Leonardo Querciola Notaro e Cancelliere Vescovile. Appresso siegue altro Istrumento di quietanza finale
del Pagamento di detto stabile in scudi 250, sotto il 29 aprile 1758. Il tutto è stato trascritto dal Processetto Civile
esistente nell’Archivio della Curia Vescovile nella cassetta del Convento dei Servi di Mari al n°12.” (Ibidem).
La Chiesa ebbe inizio il 12 marzo 1752 e data la morte, avvenuta da poco del
“l’amorosissimo Protettore” il Cardinale Pompeo Aldovrandi benedì la prima pietra del
nuovo tempio “il Vicario Capitolare con Autorità Apostolica”. 13) Tuttavia notiamo che in un
“Rescritto” è detto che in data 6 marzo 1752 si “autorizza l’Arcidiacono Martellacci Vicario
Capitolare a dare la benedizione alla Prima Pietra della nuova fabbrica della nostra Chiesa
in mancanza del deceduto Vescovo Aldovrandi”. 14)
Si cominciò a fabbricare dopo aver fatto una solenne processione dei fratelli con
l’intervento del R.mo Capitolo, ponendo coi soliti riti “.... la prima pietra fondamentale e le
Croci alli tre altari”. 15)
Leonardo Falzacappa fece un atto “degno d’esporsi al pubblico” prestando “una
grandissima somma di danaro” per poter terminare la fabbrica della nuova chiesa, colla
condizione soltanto di ritirarselo a poco a poco dalli sopravanzi delle miserabili vendite
della Confraternita senza percepire di esso alcun fruttato”. 16)
I maggiori benefattori che contribuirono all’erezione del tempio ed al suo corredo
furono: Raffi Stefano e Fabrizio, che nel 1750 donarono l’area dove è fabbricata la chiesa:
Mattioli Giuseppe, nel 1754 donò scudi 400; Marini Angelo nel 1759 lasciò una metà di una
casa sita in parrocchia S. Antonio Abate: Leonardo Falzacappa, oltre alle molte altre cose,
donò il bel quadro dell’altare maggiore “e prestò assistenza gratuita alla fabbrica della
chiesa”; De Dominicis Giovannangela, nel 1761 lasciò scudi 200; Boccioni Caterina in
Miniati, nel 1766 lasciò scudi 50; Fantucci De Santis Caterina, nel 1767, “lasciò un pezzo di
terreno da chiudersi sotto l’orto di S. Antonio Abate verso la Chiesa della Madonna del
Mare”; Marini Marc’Antonio, nel 1773 donò scudi 60; Tesi Teresa in Cecchini, nel 1793
donò scudi 323,50; Sgarra Antonio, nel 1797 lasciò scudi 300; Scarinci Benedetto e Barbini
Maria sua consorte, nel 1815 lasciarono parte dei loro beni; Agostino Can. Quaglia e suo
fratello Paolo, “assisterono gratuitamente alla fabbrica del casamento presso la nostra
LEONARDO FALZACAPPA, Corneto 1710 - 1807 architetto.
E’ il padre del Cardinale Giovanni Francesco Falzacappa (1767 - 1840).
Si deve a lui, come ai Fratelli Raffi l’essere riusciti a terminare la costruzione della chiesa. Egli fu il primo Primicerio,
fondatore della Chiesa.
I confratelli, per le sue molte elargizioni e meriti che ebbe nell’erezione della chiesa e per la giusta guida data al
Sodalizio, vollero essere riconoscenti verso il loro Primicerio e la propria moglie, assegnandogli, in seguito, alcune
messe. “E nell’altro altare in Cornu Epistola, vi si celebra nei venerdì una messa in suffragio della bo. me di Leonardo
Falzacappa, e Teresa Guerrini di lui consorte” (Visita di Mons. Bisletti, 1856, p. 4).
13)
P. FALZACAPPA? Risposte ai Quesiti... cit.
14)
Rubricella... cit., p. 3.
Al n°5 delle Lettere, si conserva la “Copia Autentica di Lettera, in data 15 aprile 1752, colla quale si dichiara dalla
Sacra Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica, che il luogo, dov e è stata posta la prima pietra per la fabbrica della
nostra nuova Chiesa, godeva l’Immunità” (Ibidem, p. 11).
15)
Origini e Fondazioni..., cit.
16)
Ibidem.
chiesa”; Giacomo conte Quaglia, nel 1833 donò molti oggetti per il culto; Ridolfi Simone,
nel 1833 donò un pezzo di terreno prativo di staia sei in contrada S. Matteo. 17) Luigi
Gignoni, Fratello Camerlengo, nell’anno 1834 donò il “quadro ovato di S. Andrea
Avellino”. 18)
Se i Falzacappa furono insigni benefattori della chiesa, non di meno lo furono i
fratelli Stefano e Fabrizio Raffi; vista la fabrica della chiesa in condizioni economiche non
tanto floride, e ancora mancante del “mattonato, sepoltura e di tuttii lavori da falegname”,
la Congregazione, nel 1758, deputò “L’Ill.mo T.te Fabrizio Raffi”, Confratello e Camerlengo
di detta Confraternita, a perfezionare un “censo” di scudi 1.500. Il censo, come attesta il
segretario della Confraternita, Lazzaro Nardeschi, era necessario per portare a termine i
lavori della fabbrica della chiesa”. 19)
Il conte Pietro Falzacappa così descrive l’erezione della chiesa ed annota che “tutta
la città concorse alla detta fabrica” e “si vidde ogni sera molto aumento di ogni sorte di
persone che trasportavano per più ore sassi, calce ecc.” 20)
Mons. Mario Maffei, Vescovo di Foligno ed Amministratore e Vicario Apostolico
delle Chiese unite di Montefiascone e Corneto (1752-1754), concesse l’indulgenza di
quaranta giorni a tutte quelle persone che gratuitamente prestavano la loro opera per
l’erezione della chiesa. 21)
Sappiamo da uno scritto del 19 aprile 1761 che la chiesa fu finalmente utilmata. La
cerimonia inaugurale è riportata a pagina 43 del Registro delle Congregazioni, più volte
citato; qui un breve riepilogo:
“... Essendosi terminata la nuova Chiesa con l’aiuto di Dio, di Maria SS.ma nostra
avvocata e delle Anime del Purgatorio, il sud.o Giorno 19 aprile, giorno di Domenica fu
benedetta e vi si celebrò per la prima volta la Santa messa. Si partì la nostra Confraternita
dalla Chiesa di S. Antonio Abate, e Processionalmente si portò alla Chiesa Cattedrale a
17)
“S. Visita Bisleti del 1856” “Obblighi”, pp. da 27 a 34; cfr. D.I. Benedetti, “Ven. Confraternita... cit., pp. 5 - 6 - 7.
Rubricella..., cit., “Contratti Privati”, p. 46.
“Carte relative al Contratto ed Esecuzione del Quadro Ovato di s. Andrea Avellino nell’anno 1834; la di cui spesa quasi
fu fatta tutta del proprio dal Fratello Camerlengo Luigi Ghignoni e spese fatte nella Festa del medesimo Santo in detto
anno”.
19)
L. NARDESCHI, Registro..., cit., pp. 36 - 37.
20)
P. FALZACAPPA, (?) Risposte ai quesiti..., cit.; cfr. Chiese cit., t. 17. PIETRO FALZACAPPA, Corneto 17881875, storico della sua città. Lascia ai suoi concittadini una voluminosa raccolta manoscritta di memorie e documenti
della città di Corneto, oggi in gran parte nell’Archivio della Società Tarquiniense di Arte e Storia (S.T.A.S.).
21)
P. FALZACAPPA (?) Ibidem.
“Lettera di Monsignor Mario Maffei, Vescovo di Foligno, ed Amministratore Apostolico di Corneto e Montefiascone,
in data 4 giugno 1752, con Editto Annesso in cui concede l’Indulgenza di 40 giorni, a chiunque presterà mano
gratuitamente alla Fabbrica della nostra nuova Chiesa” (è conservata nei “Brevi..., in Rubricella..., p. 11).
18)
prendere il R.mo capitolo, che di lì unitamente si portorono parimenti processionalmente
alla Piazza avanti alla detta nuova Chiesa, dove giunto Mons. Ill.mo e R.mo Giustiniani
nro. Vescovo fu incominciata la funzione della Benedizione quale terminata si diede
l’ingresso prima al R.mo Capitolo poi alli Confrati e popolo che in gran numero ivi era
concorso, et uscì la prima messa che fu celebrata dal R.mo Sig. D. Lorenzo Paluzzi Vicario
Generale di questa Città, assistendovi a detta Messa il d. Monsg. Vescovo ed insieme
uscirono altre messe agli altari laterali che si celebravano contemporaneamente con la sud:
che terminate una dopo l’altra uscirono di nuovo le altre che così durò; sino al mezzo
giorno essendovene state in gran numero, e furono distribuite in tempo della prima messa:
Sonetti, e Medaglie, et al R.mo Capitolo e Vescovo furono date di argento. Gli Ufficiali di
detta nostra Confraternita furono = L’Ill.mo sig. Leonardo Falzacappa, Primicerio, Primo
Guardiano - il F.llo Lucidonio Gigli - Secondo Guard.: Giò Battista Benedetti, Terzo
Guardiano: Girolamo Maggiorana, e Prora l’Ill.ma Sig. Teresa Falzacappa. La detta
funzione seguì li 19 sud. come costa dagli atti registrati in questa Cancelleria Vescovile nel
libro “Jurium Ecclesiasticorum”, è ad perpetum memoriam riportata in questo libro...”. 22)
L’erezione di questa chiesa costò diciotto mila scudi e nove anni di lavoro, ebbe
termine il 19 aprile 1761, sotto il Vescovo delle chiese unite di Corneto e Montefiascone
Saverio Giustiniani ( 1754-1771), ed il Vicario Generale Don Lorenzo Paluzzi vi celebrò la
prima messa. 23)
Già nel 1761 la Confraternita teneva le sue Congregazioni in casa del Primicerio Sig.
Leonardo Falzacappa, “come luogo deputato dai Sig.ri Ufficiali”, mentre prima di quella
data, erano soliti “congregarsi”, al suono della campana, nella cappella della chiesa di S.
Antonio Abate, essendo Primicerio il sig. Tenente Fabrizio Raffi.” 24)
Sappiamo che pochi anni dopo (1764) l’apertura della nuova chiesa del Suffragio, la
Confraternita ebbe una grande lite con il curato D. Giuseppe Benedetti, in quei tempi
parroco della chiesa di S. Pancrazio Martire. Secondo quanto scritto dal Benedetti 25) le
22)
L. NARDESCHI, Registro... cit., p. 43.
Il Vescovo Mons. Giustiniani, secondo un “Rescritto...” cit., p. 14, approva, “che la nostra Confraternita, dalla Cappella
dalla Ven. Chiesa di S. Antonio Abate, venisse trasferita alla nuova Chiesa già terminata, in data 2 aprile 1761”.
23)
P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17.
24)
L. NARDESCHI, Registro... cit., pp. 42-43.
25)
D. GIUSEPPE BENEDETTI, “Lite con la Compagnia del Suffragio”, in Annali e Memorie della Chiesa di S.
Pancrazio Martire della Città di Corneto, scritte dal Sacerdote Cornetano D. Giuseppe Benedetti, ms. del 1764.
All’atto della stesura degli Annali, il Benedetti era Rettore della chiesa di S. Pancrazio. Nel Registro delle
Congregazioni...cit., non si fa nessun accenno a questa lite, che stando alle Memorie risulta non essere la prima fatta del
Benedetti. Si sa solo che esisteva una “Lettera della Ven. Arciconfraternita di S. Maria del Suffragio di Roma, in data
14 settembre 1763, in risposta ad altra scrittale dalla nostra, relativamente ad alcune Intenzioni del Parroco di S.
Pancrazio di Corneto” (“Brevi Lettere e Rescritti”, nella Rubricella... cit., pp. 11-12). La lettera, per la data che porta,
non poteva riguardare la lite sopra accennata, penso che il diverbio sia cominciato molto prima.
cose sarebbero andate circa in questo modo: La confraternita di S. Maria del Suffragio,
quasi con arbitrio e sfida, volle fare nei giorni del Santo Natale una processione nella
parrocchia di S. Pancrazio, senza l’autorizzazione del curato della chiesa. Il Benedetti, con
tutte le dovute maniere, cercò di far capire che a decidere certe cose spettava
esclusivamente a lui e che la chiesa di S. Maria del Suffragio, fino a prova contraria,
dipendeva dalla sua parrocchia. Di ciò il curato interessò anche l’avvocato Marchetti, e
siccome il curato non poteva imporsi alle prepotenze dei fratelli del Suffragio, “stimò bene
di attendere nuovo vento sopportando di mal cuore le jattanze dé suddetti e ne fece istanza
al Vescovo, ed al Vicario Lelj’ ottenendo “che li suddetti confrati domandino licenza nella
Processione solita da farsi il S. Natale al suddetto Curato...”
Nel 1777, non molti anni dopo l’apertura della chiesa, la Confraternita fece acquisto
dalla Compagnia del Suffragio di Viterbo di un primo organo usato. 26) Quest’acquisto non
dovrebbe essere stato un grande affare se, appena sette anni dopo, “si è ritrovato in ogni
sua parte deteriorato talmente, particolarmente il Bancone”, e per suggerimento del
fratello Agostino Mastelloni, si decise “di rinnovarlo quasi tutto... per l’onesto prezzo di
circa scudi centocinquanta da pagarsi in tre rate”. 27)
Da una Scheda, sappiamo che l’interno della Chiesa del Suffragio “... è un unico
vano con pianta poligonale a lati diseguali i cui quattro maggiori ricordano la disposizione
a croce. Le due pareti laterali sono occupate da due altari quella d’ingresso dal portale e
quella di fondo aperta per il proseguimento della cappella maggiore. I quattro lati minori
del poligono, a guisa di angoli smussati, presentano nella parte inferiore quattro piccole
porte lunettate e nella superiore quattro palchetti barocchi. La Cappella maggiore ha
pianta rettangolare con due finestre nelle pareti laterali ed è coperta a volta schiacciata al
centro”. Lo stato è “buono”, appartiene alla “Chiesa” ed è datata “fine del XVIII sec.” 28)
L’interno della chiesa è a pianta ellittica, oggi si presenta con tre altari e nel
maggiore vi è un quadro di Anonimo del XVIII secolo, ove sono raffigurati, la Madonna,
un Confratello, Anime Purganti e Donatore. Sulla parte sinistra di questa tela, in abiti
settecenteschi, è raffigurato il donatore del dipinto nella persona dell’architetto Leonardo
Falzacappa, primo Primicerio nell’erezione della Chiesa. 29)
26)
“Per maggior decoro et onorificenza della nostra Chiesa si era fatto l’acquisto dell’ORGANO della Compagnia del
Suffragio di Viterbo” (Registro... cit., p. 93).
27)
“Da Calogero La Monaca, professore di Organi si fece il nuovo acquisto dell’organo” (Registro... cit. p. 103 e ss.).
28)
MARIA GABRIELLI, Scheda n. 126 datata Tarquinia 26 giugno 1929, vistata, per la Soprintendenza alle gallerie e
Opere d’Arte dal dott. Roberto Papini, soprintendente e dalla parte della Confraternita dal Sig. Gio. Batta Lucarini.
29)
Parlando dei doni fatti da Leonardo Falzacappa, si dice “.... che il dono che fece delli due quadri maggiori
costituirono a favore di tutta la sua gentilissima casa ed a perpetua memoria di tanti benefici un anno” (Chiese, cit., t.
I due Altari in marmo nelle piccole cappelline laterali sono opere recenti del maestro
marmorario Comm. Giulio Romiti, di Civitavecchia, che li eseguì nel 1947 in sostituzione di
quelli in muratura, decorati a finto marmo. Quello di sinistra entrando la chiesa, è stato
donato dalla famiglia Alessandro Nardi di Tarquinia, in memoria di Corrado e Mario, suoi
figli, caduti nell’ultimo conflitto, come si evince da una scritta incisa sopra la mensa
dell’altare. 30) Le decorazioni di questa cappella, sono opera del pittore anconetano Rutilio
Fagnani, che li eseguì nel 1883, come attesta lo scritto dipinto nell’interno della sede delle
tavole. 31)
La tela di questo altare è opera di Gioacchino Paver, dipinta nel 1759; la
Confraternita la pagò scudi 60. 32) Questo quadro dai confratelli è chiamato S. Isidoro
Agricola e raffigura un Miracolo di S. Isidoro.
17). Lo stesso legato, cfr. la Visita Bisleti del 1856. Esso fu stabilito dalla congregazione Segreta del 10 dicembre
1760, “... per averci oltre le altre cose donato il magnifico quadro dell’altare Maggiore”. (Ibidem, p. 28).
“n° 4, Falzacappa Leonardo donò fra le molte altre cose il bel quadro dell’Altare Maggiore” (D.I. Benedetti, Ven.
Confraternita... cit., p. 5). Il quadro subì un piccolo restauro di pulitura da parte mia, durante i rifacimenti che si
apportarono alla chiesa nel 1960.
30)
“QUESTO ALTARE SACRO A MARIA RICORDA L’EROISMO E LA FEDE DEI FRATELLI NARDI CAP. DI
CORV. CORRADO E MAGG. ING. NAV. MARIO CHE NELL’ULTIMA GUERRA CADDERO PER L’ONORE
DELLA PATRIA. IL PAPA’ COMM. ALESSANDRO E LA MAMMA AUGUSTA ARIETI. A. 1947”.
31)
Nella sede che contiene il quadro è scritto: “RUTILIO FAGNANI FECE 1883”. E’chiaro il riferimento alle
decorazioni della cappellina.
RUTILIO FAGNANI, Ancona 1867 - 1912, pittore decoratore. Ha eseguito in Corneto molti lavori di decorazione e
doratura; nella nostra cattedrale nel 1882, e nella Villa Bruschi Falgari nel 1910, ed altre opere in chiese e palazzi della
città.
32)
P. FALZACAPPA, Chiese cit., t. 17.
“Il sig. Gioacchino Galassi, 1° Guardiano, nella congregazione del 14 novembre 1819, fece noto alli Sig. i Congregati,
che essendo cosa indispensabile il venire al riattamento dei due quadri degli altari laterali della nostra Chiesa, per
trovarsi in uno stato assai rovinoso era stato convenuto col pittore Giuseppe Folchi il prezzo netto di scudi 15 mta., per
effettuarsi dallo stesso un tale riattamento, con tutta la possibile esattezza, e ad uso d’arte”. La proposta fu approvata
con dieci voti favorevoli e nessuno contrario (Registro... cit., p. 168).
Nella tela sono ben visibili gli interventi subiti nei restauri. Il dipinto risulta rintelato ed ha un ben conservato telaio in
legno di castagno; nella parte dietro si avverte una stampigliatura, “F. SS. 4 G.B.”, cifre e lettere che si crede non
abbiano nessun riferimento con l’esecutore o la datazione dell’opera.
GIUSEPPE FOLCHI, pittore e decoratore. Il Folchi è chiamato nel 1806 dai Fratelli Giovan Battista e Francesco Maria
Bruschi, ad eseguire nel proprio palazzo di Corneto alcuni lavori di decorazione e restauri. Vi lavora per oltre un anno,
e ritorna per nuove commesse nel 1818, undici anni dopo, e si trattiene fino al 1822, tanto da essere chiamato “attual
Pittore dell’Ill.ma Casa Bruschi Falgari in Corneto”. (Arch. Bruschi).
In questo periodo, il Folchi oltre il restauro completo di tutti i “Quadri della Galleria” Bruschi, decora nel Palazzo
alcuni soffitti, la “Cappella del Palazzo” ed esegue molti altri lavori, tra cui tanti restaurati a dipinti di famiglia.
(Ibidem).
Nel 1819, esegue nella chiesa di S. Maria di Valverde molti restauri e dipinge alcuni personaggi (Fondo Serviti). Nello
stesso tempo lavora, aiutato dal”giovane Geremia” (si crede Geremia Pasquini) nel Palazzo della Comunità, impegnato
nella “Cappella del Palazzo Comunitativo” e nella “Cappella delle Carceri” (Archivio Bruschi). Da una “nota di lavori
straordinari”, fatti per i Fratelli Bruschi, alcuni di questi riguardano un restauro fatto nella cappella di famiglia nella
chiesa di S. Francesco, al dipinto di S. Filippo Neri e S. Bonaventura, oltre a quello della “Cappella di Casa”, dove
nella tela si vedono raffigurati; un Angelo, la Madonna e il Signore. (Ibidem). Si crede che il pittore Folchi, nella sua
ultima venuta a Corneto, oltre i vari lavori detti, abbia anche decorato il vano della vecchia cappella nel Palazzo
Vescovile. Di queste decorazioni, che si pensa siano state fatte al tempo del Vescovado di Mons. Bonaventura Gazola,
ne restano ancora visbili una buona porzione, difatti, sono ancora ben mantenute due figure dipinte a monocromo
grigio, raffiguranti i Santi Pietro e Paolo, ed un S. Francesco che mostra le Stimmate, forse questo, sollecitato al
pittore dal buon vescovo francescano. La cappella, si crede sia stata tramezzata e resa inservibile, creandovi in parte un
Nell’altare di destra, la tela rappresenta i Santi Giovanni Napomuceno martire,
Luigi Gonzaga, Francesco di Paola e Giuseppe Calasanzio; essa fu dipinta da Teodoro
Rusca nel 1759 e la confraternita la pagò scudi 84,07. 33) Il Bozzetto ad olio di questo
dipinto è conservato in Ancona presso un parente del decoratore Fagnani.
Nel fondale della sede che contiene questo quadro, è dipinto un elaborato
monogramma di colore nero ed una data “R. F. 1900”, molto probabilmente riferibili al
nome del decoratore Rutilio Fagnani ed alla data dell’esecuzioni delle decorazioni della
cappellina.
Nel 1760 il pittore Giovanni Mazzetti decorò l’ovale della volta per il prezzo di scudi
20. 34) Una memoria assegna al pittore locale Domenico Gianfelici 35) questo lavoro di
decorazione prospettica. E’ molto probabile però che l’assegnazione si riferisca a qualche
restauro apportato dal Gianfelici alla pittura del soffitto.
L’attuale “nuova bussola” all’ingresso della chiesa è opera del falegname Gervasio
Pasquini, che la eseguì nell’anno 1825. Questo Pasquini è certamente un antenato dell’altro
Gervasio, 36) più conosciuto per i molteplici e preziosi lavori lasciati in Corneto.
Nella nicchia dove oggi è esposto il quadro della Madonna del Rosario veniva
mostrato, nel periodo natalizio, fino a qualche anno fa, un artistico Presepio in legno del
‘700 di Autore Anonimo; 37) oggi, lo stesso è esposto a Natale in una cappella della Chiesa di
altro ambiente, al tempo del vescovo Mons. Emilio Maria Cottafavi, quando nel 1928 vennero apportati al Palazzo
Vescovile molte opere di restauro e trasformazioni.
33)
P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17.
Nel dietro della tela è scritto: “PROVENZA DI GIOACCHINO” (Paver o Roma), (Prov.enza = provenienza?); con un
carattere diverso, poi: “GIUSEPPE FOLCHI 1819”. Il tutto è scritto nella metà rimasta della traversa centrale del telaio.
Il dipinto non è stato rintelato ed ha ben visibili gli interventi apportati nei restauri. Questo nome, trovato scritto nella
monca traversa del telaio, crea una certa confusione, poiché il Falzacappa assegna a Gioacchino. Paver l’altra tela
raffigurante: S. Isidoro Agricola. Che siano stati nella trascrizione invertiti i nomi dei pittori?
34)
P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17.
Il Falzacappa riferendosi alle notizie dei dipinti nei due altari laterali, ed all’ovato della volta, cita alla nota n°2 come
notizie prese nel Libro dei rendiconti alli sud. anni, manoscritto non trovato sia nell’Archivio della Confraternita di S.
Maria del Suffragio, che in quello della Curia Vescovile di Tarquinia. Mentre per quanto riguarda la denominazione
degli altari, secondo la Sacra Visita di Mons. Banditi del 1773-1774, p. 66, risulta la stessa di quella oggi esistente:
Altare Maggiore, S. Maria del Suffragio e nei due altari laterali; S. Isidoro Agricola e S. Luigi Gonzaga, S. Francesco
di Paola, S. Giuseppe Calasanzio, S. Giovanni Napomuceno, cfr. Sacra Visita di Mons. Bonaventura Gazola del 1814.
35)
DOMENICO GIANFELICI, detto “Lo Staccionataro”, Corneto 1840 - 1894, pittore e decoratore, cfr. L. Balduini,
La Resurrezione di Tarquinia, p. 47, 1983.
Si possono ancora vedere, nel Palazzo Bruschi Falgari, alcune sue decorazioni risalenti alla metà del XIX secolo. La
notizia sull’ovale della volta del Suffragio l’appresi dall’artigiano cornetano Giovanni Guerri, un tempo allievo del
Gianfelici.
36)
Dopo varie controversie i Confratelli assegnarono il lavoro al falegname locale Gervasio Pasquini, figlio di Egidio
(Corneto 1802 - ?), che si trovò in concorrenza con altri artigiani locali, quali: Benedetto Draghi e Ippolito Fortunati
(Registro... cit., s.n.p.). L’altro Gervasio Pasquini, figlio di Giuseppe, (Corneto 1836 - 1904), falegname ed intagliatore,
ha lasciato in Tarquinia molti lavori, e nella nostra cattedrale, una lapide ricorda il più impegnativo quello della bella
bussola nella porta centrale della chiesa, eseguito insieme al fratello Protasio nel 1882.
37)
Il Presepio è annotato in una Sacra Visita nel 1818, fatta alla chiesa di Santa Maria del Suffragio da Mons. Gazola,
vescovo di Corneto e Montefiascone (p.26). Il Porporato, dopo “aver raccomandato e lodato il Presepio situato presso
la porta della stessa Chiesa, affidò al confratello D. Giacomo Quaglia che era presente di rinnovare le vesti dei pastori e
S. Francesco di Tarquinia. La nicchia, che si crede eretta con la chiesa, serviva anche a
mostrare nella ricorrenza della festa della Natività della Madonna entro cinque pareti
domestiche componibili, una statuina a grandezza naturale di Maria Bambina, Titolare
Speciale ed Avvocata della Confraternita. 38) Mentre oggi, nella festività, è mostrata, una
scultura in cera di Maria Bambina entro un’urna dorata, posta sopra l’altare di S. Isidoro
Agricola. 39)
In questa chiesa proprietaria la Confraternita, è esistito un grande Stendardo
Processionale, un tempo, “vanto e decoro della Ven.le Confraternita di Santa Maria del
Suffragio di Corneto”. Nel dipinto, mostratomi in fotografia si potevano vedere raffigurati,
da una parte, La Vergine, Confratelli ed Anime Purganti, e dall’altra La Natività della
Madonna. In questa circostanza, consultati alcuni scritti del Falzacappa,
40)
si venne a
conoscenza che, nella parte bassa di questo stendardo, un tempo vi erano tre stemmi
appartenenti uno all’allora regnante Pontefice Gregorio XVI (1831-1846), l’altro al
Cardinale Giuseppe Maria Velzi, vescovo di Corneto e Montefiascone (1832-1836), ed il
terzo alla nobile famiglia Falzacappa.
La data ed il nome del pittore che dipinse lo stendardo si trovano in altro scritto. 41)
delle altre statue che si vedono nel detto Presepio” (p.28). Difatti nella congregazione del 13 dicembre 1818, il lavoro
di rinnovo delle vesti è già avvenuto, ed il R.mo Sig. D. Michele Can.co De Domnis dice che, “essendo state di nuovo
rivestite per Elemosine da alcune Pie Persone, con non piccola spesa, le Immagini di rilievo, addette al Presepio della
nostra Chiesa, non era confattibile il riporle nel solito luogo per essere d’esso assai umido ed incapace, ma che si
dovesse fare una credenza di legno da collocarsi in luogo asciutto, per riporvi con sicurezza e mantenervi bene le dette
Immagini” (Registro... cit., p. 165). Negli anni ‘70 per interessamento della Società Tarquiniense d’Arte e Storia
vennero restaurate le vesti di quelle statuine del Suffragio (Bollettino S.T.A.S. 1978, p. 164), che circa 180 anni prima,
“con non piccola spesa” vennero rifatte di nuovo, nel 1818, per incarico dato dal vescovo Mons. Gazola al conte
Giacomo Quaglia. Il restauro del 1970 fu eseguito da Madre Leonia del Sacro Cuore e Madre Gabriella di S. Giuseppe,
monache Passioniste nel Monastero della città. Nella Sacra visita che Mons. Bisleti fece alla chiesa del Suffragio nel
1856, a p. 51, si ha una completa descrizione del Presepio: “Un Presepio composto di Numero sedici statuette,
intagliate in legno, ben vestite, che consistono, cioè: nelle Immagini di Gesù Bambino in culla, Maria SS.ma, S.
Giuseppe, due Angeli, tre Magi, tre Paggi dei medesimi, due Pastori, una Pastorella, il Bue e l’Asino, ed inoltre un
Angelo per la Gloria”.
38)
“Entro una scatola vi esiste Maria SS.ma in fasce, con culla corona e scettro: n°5 telai con tela dipinti che formano
una stanza, per coprire la Grotta del Presepio quando ci si mette nella sua Natività la detta Bambina” (S. Visita Bisleti
1856, p. 51).
39)
L’attuale scultura in cera fu realizzata nel nostro secolo, da Madre Leonia e Madre Gabriella, monache Passioniste.
Essa ha le vesti dipinte a tempera, con rami e fiori, ed è mostrata entro un’artistica urna di legno dorata a zecchino.
L’opera è conservata nel Monastero delle Passioniste di Tarquinia. Il Titolo della Chiesa, secondo la Sacra Visita fatta
dal Cardinal Giuseppe Garampi, vescovo di Corneto e Montefiascone, alla chiesa di S. Maria del Suffragio, era “LA
NATIVITA’ DELLA MADONNA”, di cui vi si celebra solennemente la festa (p. 133). Tra le varie feste che vi si fanno,
quella della Natività di Maria Santissima, è la principale della chiesa del Suffragio S.V. Bisleti 1856, p. 2), mentre il
Venerdì Santo si espone la reliquia del Legno della Croce e ci si da la benedizione. “Esiste un Rescritto del nostro
Monsignor Vescovo Bonaventura Gazola, col quale permette di poter fare la Processione nel di 8 settembre, Festa della
Natività della Madonna SS.ma nostra specialissima Avvocata” (Rescritti... cit., p. 15), in Rubricella... cit.
40)
P. FALZACAPPA, Chiese cit., 17; cfr. Risposte ai Quesiti... cit.
41)
Alla voce n. 6 dei “Contratti Privati” è detto: “Carte relative al Contratto de nuovo Stendardo fatto nell’anno 1834 da
Adriano Becchio pittore in Roma, pagamento delle spese occorse, e lettere sull’Oggetto ecc.” (Rubricella... cit., p. 46).
La Scheda cit., n°125, dice che la facciata della chiesa del Suffragio è
“completamente intonacata, ha un profilo molto movimentato. La parete centrale è piana,
le laterali sporgono e presentano pilastri che reggono la trabeazione spezzata, sostenuta
anche da due colonne, le quali hanno la base posta di spigolo in corrispondenza
dell’andamento della trabeazione. Al centro si apre il portale sormontato da lunetta. Il
secondo piano ripete il primo e presenta una finestra con cornice ornata da festoni. Un
timpano curvilieo, spezzato, con al centro fastigio ed ai lati due vasi con fiamma, corona
tutto l’edificio”. La facciata “E’in via di restauro”, appartiene “alla Chiesa” e viene datata
“alla fine del XVIII sec.”.
La parte bassa della facciata della chiesa ha sempre offerto del forte aggravio di peso
che sostiene e che maggiormente si riversa sulle basi delle colonne, creando sempre
allarme e preoccupazione, anche per la continua sfaldatura del nostro sasso per erosione
da sale, essendo un sedimento marino.
Si ha notizia che la facciata, sin dal 1819, nei confronti di altri lavori da eseguire
nella chiesa “non ammette dilazioni”. 42) Dopo oltre un secolo di presenta altro caso di
restauro; questa volta assai complicato e molto pericoloso per la stabilità della bella
facciata. Se non fosse stato per la capacità di alcune maestranze locali, molte conseguenze
ne sarebbero potute derivare. Difatti, negli anni ‘20 circa, l’impresa locale Luigi Conti
appaltò un importante e complicato restauro alla facciata della chiesa. Il lavoro, in effetti
eseguito dal bravo capo mastro cornetano Giovanni Piastra, consisteva nella sostituzione di
un rocchio di colonna alto più di un metro, oltre il dado di base e tutta la modanatura
circolare dell’intera colonna sulla destra, prima dell’ingresso della chiesa. 43)
Nel 1960, per interessamento del Delegato Vescovile di allora, Mons. Agostino
Peracchi (1911 - 1977), l’interno della chiesa subì importanti restauri di manutenzione e
rinnovamento da parte di maestranze di Tarquinia e Civitavecchia. Nel restauro furono
lucidati il pavimento in marmo bianco di Carrara e bardiglio, ed alcune zoccolature dello
stesso marmo. In quell’occasione, furono applicate alle campane congegni per essere
suonate attraverso un’apprecchiatura elettrica.
42)
Nel 1819, il Sig. Galassi, 1° Guardiano, avendo saputo che nella passata Congregazione si era deciso di porre mano
ad alcuni lavori nella chiesa, conoscendo indispensabile “il risarcire la facciata della nostra Chiesa, che minaccia ruina”,
è del parere che questo lavoro preceda gli altri poichè “la facciata non ammette dilazioni”. La proposta fu approvata
all’unanimità (Registro... cit., pp. 166-167).
43)
Sono ancora ben visibili i segni dei sostegni vicino all’intervento di questo restauro, che ho conosciuto grazie alla
buona memoria del carissimo amico e collega Walter Pampersi. “Tarquinia, la cittadina etrusco-romana, ben poco ha di
barocco, solo la Chiesa del Suffragio, con facciata movimentata propria di questo stile” (U. G. Ferrante, Architettura...,
in La Tuscia, p. 216). Nel 1818, per comodità di accesso dei Fratelli, per portarsi in Sacrestia dalla Piazza Grande, fu
aperta una porta sulla Pubblica Piazza, vicino alla facciata, accesso ancora ben visibile da una porta murata che passa
attraverso il campanile della chiesa (Registro... cit., p. 165).
In quegli anni, dalla ditta Corrado Persi, furono messi dei collarini in ferro con
sbarre verticali, per comprimere le colonne sopra la trabeazione della facciata, onde
sostenere le murature corrose dal salnitro e ridotte ad uno stato assai preoccupante.
Più tardi, nel 1978, la bella facciata di stile barocco fu completamente restaurata da
maestranze locali e di Roma: nella parte alta, sopra la trabeazione, furono rifatti tutti gli
intonaci e le vecchie e pericolanti colonne in muratura vennero sostituite con altre create
sul posto in cemento armato. Questi lavori furono diretti dall’Ing. Cesare De Cesaris e dal
geometra Carlo Grispini, ed il nostro concittadino Cardinale Sergio Guerri, in memoria di
“Don Agostino” - che si era molto interessato per riportare la sua chiesa al primitivo
splendore - pagò l’intera spesa del restauro, che comprendeva anche il rifacimento di tutti i
tetti della chiesa.
Secondo il citato “Bollettino” del 1978, nella facciata, “Nulla è stato modificato
nell’aspetto, ma sono state eliminate nel coronamento le due mezze testate di timpano
sovrastanti le colonne di centro. Non appartenevano alla originale Costruzione e
nascondevano le parti terminali inferiori delle due belle volute discendenti ai due lati del
Timpano centrale che corona la facciata”.
Nel 1792, l’architetto Paolo Nardeschi, fatto il disegno per la “fabbrica
dell’appartamento contiguo alla nostra Chiesa”, era prossimo dare inizio ai lavori. Infatti,
presa visione delle offerte presentate dai vari mastri si indudiava per esaminare i vari
preventivi. La congregazione si tenne in casa Raffi, ed il Nardeschi si riservò di dare il suo
giudizio in una prossima congregazione. Le offerte furono presentate da Bartolomeo e
Gregorio Draghi, quali mastri muratori: Sebastiano Fortunati, i Fratelli Pasquini, Elia
Bruni e Mariangelo Massi, come mastri falegnami, mentre Stefano Scappini e Figli ed i
Fratelli Marzi, in qualità di fabbri ferrai. 44)
44)
L’Architetto Paolo Nardeschi, cornetano, è figlio dell’illustre artista Lazzaro. Alla fabbrica, oltre il Nardeschi ebbero
una manzione di controllo anche il Canonico D. Agostino Quaglia, Giovan Battista Benedetti, Agostino Mastelloni,
Guido Raffi, Giovan Vincenzo Galassi e Crispino Mariani, mentre i Sigg. Simon Antonio de Domnis e Sebastiano
Marcucci curarono il ricevimento dei materiali (Registro... cit., p. 120). “Ratifica di Vendita, fatta nell’anno 1810, del
Sito scoperto appartenente agli Eredi Polidori, il quale fu venduto indebitamente dal fu Giuseppe Bovi alla
Confraternita del Suffragio, del quale ne ha pagato di nuovo la Confraternita la somma di scudi venticinque agli Eredi
suddetti, per rivalersene contro il Canonico Bovi; figlio di detto Giuseppe; nel qual Sito fu fabbricata la Casa contigua
alla Chiesa verso S. Pancrazio” (nei “Testamenti...”, in Rubricella... cit., p. 29). Di questo lavoro, al n°1 è esistito il
“Rendiconto dell’Introito, ed Esito, che si è avuto nella Fabbrica della Chiesa e Casamento annesso verso S. Pancrazio”
(nelle “Fabbriche”, in Rubricella.... cit., p. 43).
“N°2 Ricevute e Giustificazioni del Rendimento de’ Conti della detta Fabbrica della nuova Chiesa di Santa Maria del
Suffragio, e Casa contigua verso S. Pancrazio, amministrato dall’Ill.mo Sig. Leonardo Falzacappa di bo: me Primicerio
della Confraternita (Ibidem).
“N°3 Carte spettanti, ed appartenenti alla Fabbrica del Nuovo Casamento in Piazza, ed amministrato dai Signori
Deputati sul medesimo, fino all’intiera estinzione del Debito” (Ibidem).
Dal Registro delle Congregazioni..., dalle Schede e da alcuni scritti, oltre a quanto è
stato detto sopra, si viene a conoscenza dei molti doni che la chiesa ricevette, alcuni dei
quali di grande valore; oltre gli acquisti e le cessioni fatte:
Tra gli oggetti d’arte, appartenenti alla chiesa di S. Maria del Suffragio di Tarquinia,
catalogati nel 1929 per conto della Soprintendenza dalla D.ssa Maria Gabbrielli risultano:
SCHEDA n°127 OSTENSORIO - “E’in lamina d’argento sbalzata. La base a tre facce, posa
su tre piedi in foggia di volute; ciascuna faccia presenta una cartella ovale priva d’insegna.
Il fusto s’ingrossa in un nodo a tre facce con volute sporgenti, mentre la raggiera è decorata
da ovulato a teste di cherubo”. Si trova “in Sacrestia”, è in “Buono stato”, appartiene “alla
Chiesa”, ed è un “Discreto lavoro d’oreficeria del XVIII sec.”.
SCHEDA n°128 CALICE - “E’ in lamina d’argento sbalzata. Il piede, sagomato è
diviso in tre parti da volute con foglie, ciascuna parte presenta una cartella con gli emblemi
della passione di Cristo. Il fusto è a tre facce con decorazioni a volute, e la coppa riprende il
motivo ornamentale del piede”. E’ conservato “in Sacrestia”, è in “Buono stato”, appartiene
“alla Chiesa”, ed è un “Discreto lavoro d’oreficeria del XVIII sec.”.
SCHEDA n. 129 PACE - “In ottone argentato. La parte centrale contiene a basso
rilievo la Resurrezione di Cristo. Ai lati, pure a bassorilievo, si vedono due erme finienti in
volute con festoni. Al sommo la cornice è decorata da volute con cherubi e conchiglie”. E’
conservato “in sacrestia”, è “molto consumato”, appartiene “alla Chiesa”, e “Dato il cattivo
stato di conservazione non si può esattamente giudicare questa Pace del XVII sec.”.
SCHEDA n. 130, DUE LANTERNONI DA PROCESSIONE - “Sono in legno
intagliato e dorato, a tre facce. Alla base sono ornati da volute e festoni che continuano
sugli angoli fino a scendere sulle lastre di vetro con una ghirlanda. Il coperchio è anch’esso
triangolare con volute che al sommo formano cesto”. Si trovano “nei locali della
Confraternita”, sono in “Buono stato”, appartengono “Alla Confraternita del Suffragio”, e
sono “Lanternoni di discreta fattura probabilmente del XVIII sec.”.
Nel 1784, “dal nostro Fratello Sig. Capitano Fabrizio Raffi fu donato alla
Confraternita un Tronco di cartapesta con anima di legno, lavorato dallo stesso fratello e
completo di tutti gli accessori per essere portato in processione”. 45) Nel 1784, il fratello Sig.
Raniero Falzacappa regalò alla Confraternita un grande Crocifisso in legno con su una
croce e gabbia. 46)
N.B. In detto Involto di Carte si trova la Perizia dell’Architetto Minozzi, le offerte, Obbligazioni e Conteggi degli
Artisti, con Ricevute, e Conteggi dei Sig. Deputati Amministratori dei denari pagati, ed esatti ecc.” (Ibidem).
45)
Registro... cit., p. 103.
46)
Ibidem.
Nel maggio 1789, “Il sig. Pietro Paolo Fabrizi cornetano abitante in Roma e nostro
confratello mandò in dono alla nostra Chiesa del Suffragio un bellissimo calice d’argento
con coppa e patena”. Nel piede del calice vi è lo stemma di Casa Fabrizi ed il nome del
confratello donatore. 47)
Nel 1818, la Sorella Carolina Bruschi, donò alla Chiesa un Incensiere d’argento, con
navicella e cucchiaino di ottimo disegno. Sotto la base dell’incensiere e della navicella vi è
lo stemma di Casa Bruschi con le lettere “C. B. 1818”. 48)
Maria Carolina era nata a Corneto nel 1768 da Capitan Lucantonio Bruschi e
Maddalena A’Volta. 49)
Nel 1818, per suo volere manifesto, la Sorella Sig.ra Maria Eroli Bruschi è lasciata al
suo posto di Priora per un altro anno. 50) La contessa Eroli di Narni aveva sposato nel 1809
il conte Giovanni Battista Bruschi Falgari. 51)
“Calice d’argento con patena dorata, dono della bo. me di Giacomo Quaglia, con suo
stemma nel fondo e memoria in lettere”. 52)
“Un piatto d’argento, dono di Giuseppe Ghignoni; un Incensiere con Navicella che
porta il nome di Giacomo Quaglia e l’anno 1817. Anche Simone Ridolfi e Angela Simini
donarono degli argenti”. 53)
Alla voce n. 8, nella “Contabilità”, esiste una “Nota, e Ricevuta degli Argenti dati
dalla Confraternita per mandarsi a Roma al Governo nel di 16 luglio 1796”. 54)
In una Nota del 1 gennaio 1978 riguardante cose appartenenti alla Chiesa della
Beatissima Vergine del Suffragio di Tarquinia, si ritrova:
“55 - un piatto in argentone con la scritta “GHIGNONI”, diametro cm. 26, e al n. 56
una brocca in argentone con la scritta “CHIGNONI”, h. cm. 28 con relativo piatto in
argentone con la stessa scritta.
Nella Nota, al n. 64 è annotato “un calice dorato con scritto: dono del Vescovo
Bianconi a D. Ezio Ghidini, ed al n. 53 “un turibolo con navicella” in argento con scritta:
“GIACOMO QUAGLIA DONO’”, 1818. 55)
47)
Ibidem, p. 113.
Ibidem, p. 156.
49)
R. CIALDI, Notizie Genealogiche della Famiglia Bruschi Falgari dal 1592 al 1923, p. 11.
50)
Registro... cit., p. 165.
51)
R. CIALDI, Notizie... cit., p. 14.
52)
S. Visita di Mons. Bsleti del 1856, p. 39.
53)
Ibidem, p. 1.
54)
Rubricella... cit., p. 2.
55)
Inventario della Chiesa di S. Maria del Suffragio, fatto il 1gennaio 1978. Nell’Archivio della Chiesa.
48)
“Nel 1819, il Camerlengo, previa ordine degli Ufficiali, comperò per scudi 20, dalle
Monache Passioniste della Città, un Baldacchino magnifico, adatto per le funzioni della
nostra Chiesa. 56)
Nel 1821, 19 agosto, “vennero sotto il riferito giorno, benedette ed erette da questi
RR. PP. Minori Osservanti di S. Francesco, le Sacre Stazioni della Via Crucis, in questa
nostra Ven.Le Chiesa di S. Maria del Suffragio con le medesime indulgenze”. 57)
Nella chiesa dove sono sepolti vi sono due lapidi:
“Davanti la porticina della balaustra, Antonio Ramaccini Miloduensis, dom. dalla
tenera età a Corneto. Onesto, industrioso morì il giorno 9 giugno 1859, nell’età di anni 59
posero i figli, Lorenzo, Sacerdote e Domenico e la moglie Angela”, 58)
fuori posto al
Campanile Mattia Sacchi Cornetano uomo integerrimo morì il giorno 26 marzo 1857. Pose
la moglie Marianna”. 59)
Di questa chiesa, anche la storia delle campane può essere cosa interessante se si
considera che alcune di queste appartennero a chiese molto più antiche di quella del
Suffragio. Se ne dà una breve descrizione, come si ritrova in alcune raccolte locali:
Nel 1760, dal curato di S. Martino, per il prezzo di scudi 100 furono vendute le
campane alla Confraternita di S. Maria del Suffragio, che già appartennero alla Chiesa di S.
Egidio. 60)
Nella Congregazione dei Fratelli del Suffragio, tenuta il 22 maggio 1825, il Sig.
Giacomo Galassi “propone di acquistare le campane di Castello stante le nostre attuali sono
poco servibili, e si avrebbero le medesime ad un discreto prezzo”. Posta a scrutinio questa
risoluzione si ebbero tutti i voti favorevoli. 61) Infatti, un foglio, 62) ci dà conferma che due
campane il 22 giugno 1825 furono calate dal “Campanile di Castello” 63) e “poste nel
campanile del Suffragio il 13 luglio 1825”.
Nella “Campana maggiore di libbre 1703 ½ della Chiesa di Castello “secondo il
Foglio appariva questa dicitura che nella trascrizione viene riportata con le abbreviazioni
sciolte e chiudendo fra parentisi tonde le lettere ricostruite:
56)
Registro... cit., p. 165.
Ibidem, p. 169.
58)
D.C. SCOPONI, Iscrizioni..., p. 255.
59)
Ibidem.
60)
P. FALZACAPPA, S. Egidio, in Chiese, t. 29 cfr. t. 17.
61)
Registro... cit., s.n.p.
62)
E’ riportato in P. Falzacappa, Notizie sulla Chiesa di S. Maria in Castello di Corneto, già nell’Archivio Falzacappa
oggi in quello della S.T.A.S.. Il Foglio è riportato per intero dall’originale in C. De Cesaris, “Santa Maria di Castello
catrtedrale di Corneto”, a p. 22 del “Bollettino S.T.A.S. 1988”.
63)
Il Foglio cit., annota che “li 22 giugno 1825 calata la campana grossa dal Campanile di Castello malamente, per cui
uscita improvvisamente detta dal Billico e caduta sul tetto provocò la morte non immediata di.... Chiavanna, e la rottura
di un piede di Giuseppe.... muratori”.
57)
+ A(NNO) D(OMINI) MCCIC AD HON(O)RE(M) DEI ET B(EA)TE MARIE VIRG(IN)IS
ET O(M)NIU(M) S(AN) C(T)ORUM T(EM)P(OR)E PRIOR (IS) BARTOLOMEI+
CHR(ISTU)S VINCIT CHR (ISTU)S REGNAT CHR(ISTU)S IMPERAT ANDREOCTUS
CONDAM GUIDOCTI PISANI ME FECIT
+ Nell’anno del Signore 1299 (sono stata costruita) in onore di Dio e della Beata Vergine
Maria e di tutti i Santi al tempo del priore Bartolomeo + Cristo vince Cristo regna Cristo
impera
Andreotto del fu Guidotto pisano mi ha costruita
Sulla “campana minore di libre 1383 ½ della detta Chiesa” secondo il Foglio appariva
questa dicitura che nella trascrizione viene riportata con le abbreviazioni sciolte e
chiudendo fra parentisi tonde le lettere ricostruite:
+ I (N) NO (M)I (N)E D(OMI)NI AM (EN) A(N)NNO D(OMI)NI MCCCCXXVII.
ME(N)TEM S(AN)C(T)AM SP(E)C(ULO)R HO(NO)R(ANDO) D(OMIN)O ET P(AT)RIE
LIB(E)RATIO (N)EM AMEN+
CHR(ISTU)S REX VENIT IN PACE, D(OMINU)S H (OM)O F(A)C(TU)S EST AD
HONOREM BEATE MARIE FACTA SUM HORA.
+ Nel nome del Signore amen. (Sono stata costruita) nell’anno del Signore 1427. Onorando
il Signore io ricerco una mente santa e la liberazione della patria. Amen.+ Cristo re viene in
pace; il Signore si è fatto uomo.
Io sono diventata una campana che scandisce l’ora in onore della Beata Maria. 64)
Sempre nel 1825, il Fratello Camerlengo Luigi Ghignoni propone ai Confratelli del
Suffragio “che nell’occasione favorevole della fusione delle Campane per la chiesa dei PP.
Serviti, dovendosi rompere dai medesimi una Campana nuova già della Congregazione
degli Umili...”, di “barattarla” con altra piccola rotta della nostra Chiesa. Il P. Chialva
Priore dei Servi, si contenterebbe “.... solo d’essere pagato dell’esuberanza del peso...”. La
proposta è approvata con tutti i voti favorevoli. 65)
Nei “Quesiti”, posti nella Sacra Visita fatta alla Chiesa di S. Maria del Suffragio nel
1856 da Mons. Bisleti, p. 7, risultano nel campanile della chiesa esserci tre campane.
64)
65)
Si ringrazia il professor Giuseppe Giontella per la traduzione delle scritte in latino, riguardanti le due campane.
Registro... cit., s. n. p.
Da una ricognizione fatta nel 1978 alla torre campanaria della chiesa di S. Maria del
Suffragio, risultano esserci n.5 campane di vario diametro e fatte in più epoche, 66) delle
quali, la n. 5, fatta nel 1766 è riportata in una “Raccolta...”. 67)
Questa ultima campana potrebbe essere quella mandata da Montefiascone nel 1766
dal vescovo Mons. Saverio Giustiniani, il quale, in una lettera si rallegra con Leonardo
Falzacappa”... che la nuova campana da lui benedetta, sia felicemente giunta a Corneto, e
posta al suo luogo”. 68) Nella campana, secondo la Raccolta... cit., “vi sono quattro
medaglioni cioè”: al primo il SS. mo Crocefisso, nel 2. la Madonna del Suffragio, nel 3.
l’arme del Vescovo Giustiniani, e nel 4. quella di Leonardo Falzacappa Primicerio. 69)
La campana, probabilmente è quella che risulta anche da un “Rescritto del suddetto
nostro Vescovo Monsignor Saverio Giustiniani, in data 31 maggio 1766, che da il permesso
alla nostra Confraternita di poter erogare li scudi 50 del Pio Legato della fu Caterina
Boccioni Miniati nel rifondimento della nuova Campana, con obbligo peraltro, che nel
termine di anni cinque venghino depositati li detti scudi nel S. Monte di Pietà, ad effetto di
rinnovarli”. 70)
Nei Contratti Privati, al n. 1, sono conservate le “Carte appartenenti all’acquisto
delle Campane della nostra Chiesa e descrizione delle medesime”. 71)
Peccato che non si sia potuto visionare il Conteggio degli Artisti, che sappiamo
essere esistito per altri lavori. 72)
Da questo si sarebbe potuto conoscere il nome dei
marmorari che lavorano le quattro belle loggette barocche e l’altare maggiore con la
magnifica balaustra. Si sarebbe venuti a conoscenza anche del nome delle maestranze che
presero parte al lavoro della movimentata facciata, da dove, molti anni fa, venne tolto
quello stemma policromo della Confraternita di S. Maria del Suffragio di Corneto, che
campeggiava sopra il timpano curvilineo, in asse con la porta centrale, e che possibilmente
bisognerebbe rimettere al suo posto, anche per rompere quella monotonia che oggi
presenta nel colore la facciata e che la renderebbe molto più sobria e più accettabile.
Lorenzo Balduini
66)
C. DE CESARIS, Restauro della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, in “Bollettino 1978”, pp. 136 - 137.
P. FALZACAPPA, Raccolta d’Iscrizioni Lapidarie...., p. 7.
68)
Lettera del 24 agosto 1766 inviata dal vescovo Mons. Giustiniani al Primicerio della Confraternita di S. Maria del
Suffragio, Leonardo Falzacappa, in Rubricella... cit., p. 12.
69)
P. FALZACAPPA, Raccolta... cit., p. 7; cfr. “Bollettino 1978...” cit., p. 137.
70)
Rubricella.... cit., p. 14.
71)
Ibidem, p. 46.
72)
Ibidem, p. 43.
67)
“N.B. In detto involto di Carte vi si trova la Perizia dell’Architetto Minozzi, le Offerte,
Obblazioni e Conteggi degli Artisti,...”
BIBLIOGRAFIA
--------
Origine e Fondazione della Ven.le Confraternita di Santa Maria del
Suffragio di Corneto, ms. riportato in Chiese, T. 17, La Madonna del Suffragio
nell’Archivio della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, (S.T.A.S.).
--------
Quinterno di Memorie sulla Origine e Fondazione della nostra Ven.
Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Corneto, titolo ms. riportato al n. 3 nei
“Brevi, Lettere e Rescritti”, annotati nella Rubricella...
(Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia).
-----------
CAMILLO FALGARI detto “Il Valesio”, Memorie Istoriche della Città di
Corneto, ms. della prima metà del XVIII secolo, “Chiesa di S. Antonio Abate”. (Archivio del
Campidoglio). (S.T.A.S.).
1709- Libro dei Morti della Parrocchia di S. Giovanni Battista di Tarquinia, dal 1709 al
1783, ms. nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa.
1736 - Libro dei Morti della Chiesa di S. Maria e Margherita dal 1736 al 1823, ms.
nell’Archivio della Cattedrale di Tarquinia.
1745 - LAZZARO NARDESCHI, Registro delle Congregazioni della Ven. Confraternita di
S. Maria del Suffragio in Corneto, ms. dal 1745 al 1831 nell’Archivio della Curia Vescovile
di Tarquinia.
1749 - STEFANO RAFFI, Catasto di tutti i beni rurali et urbani spettanti alla Cappella di
S. CRISPINO dell’Università dell’Arte de’ Calzolari fatto in tempo del Camerlengato di M.
Marco Lottieri, ms. con acquerelli originali, nell’Archivio della Curia Vescovile di
Tarquinia.
1764 - D. GIUSEPPE BENEDETTI, Annali e Memorie della Chiesa di S. Pancrazio Martire
della Città di Corneto, scritte dal Sacerdote Cornetano D. Giuseppe Benedetti, “Lite, con la
Compagnia del Suffragio”, ms. (1764).
1773 - Sacra Visita fatta da Mons. Francesco Maria Banditi (vescovo delle Chiese unite di
Corneto e Montefiascone (1772-1775) alla Chiesa di S. Maria del Suffragio, ms.
nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia.
1779 - Sacra Visita fatta dal Card. Giuseppe Garambi (vescovo delle Chiese unite di
Corneto e Montefiascone (1776 - 1792) alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio
di Corneto, ms. nell’archivio della Curia Vescovile di Tarquinia.
1784 - Libro dei Morti nella Chiesa Parrocchiale di S. Giovanni Battista dal 1784 al 1835,
ms. nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa.
1787 - LAZZARO NARDESCHI, “Stima fatta da me sottoscritto delli quadri, et altro
esistenti nella casa delli SS.ri fratelli Costantini di B.M. come appresso siegue. A di 14
Maggio 1787 in Corneto” (Arch. del Monastero delle Passioniste di Tarquinia).
1814 - Sacra Visita fatta da Mons. Bonaventura Gazola (vescovo delle Chiese unite di
Corneto e Montefiascone (1820-1832) alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio
di Corneto”, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia.
1818 - Sacra Visita fatta da Mons. Bonaventura Gazola alla Chiesa e Confraternita di S.
Maria del Suffragio di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia.
1820 - Inventari della Chiesa di S. Maria di Valverde, “Fondo Serviti” nell’Archivio Storico
Comunale.
1840 - GAETANO MORONI, “Dizionario di Erudizione”, Venezia 1840.
1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 29. S. Egidio, ms. nell’Archivio della S.T.A.S.
1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 21. Della Communità sotto il titolo della Pietà e
dei SS. Secondiano e Lituardo, ms. nell’Archivio S.T.A.S.
1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 17. La Madonna del Suffragio, ms. nell’Archivio
S.T.A.S.
1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 4 S. Antonio Abate ms. nell’Archivio S.T.A.S.
1844? - PIETRO FALZACAPPA, Raccolta d’Iscrizioni Lapidarie ed altre degne di memoria
esistenti in Corneto riunite a cura di Pietro Falzacappa, ms. nell’Archivio S.T.A.S.
1844? - PIETRO FALZACAPPA, Armi Gentilizie delle Famiglie di Corneto, ms. Arch.
S.T.A.S.
1840 - Risposte ai Quesiti fatti a questa Ven. Confraternita di Santa Maria del Suffragio
della Città di Corneto, dall’E.mo e Rmo Signor Cardinal Filippo De Angeli Arcivescovo
Vescovo di Corneto e Montefiascone (1838-1842), in occasione della Sacra Visita
Pastorale delle suddette Diocesi riunite, nell’anno 1840, ms. nell’Archivio S.T.A.S.
--------- PIETRO FALZACAPPA, Appunti sulla Chiesa di S. Maria in Castello, t. 4 ms.
--------- Rubricella di tutte le Scritture etc., esistenti nell’Archivio della Ven. Confraternita
di Santa Maria del Suffragio della Città di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile
di Tarquinia.
1856 - Sacra Visita fatta da Mons. Camillo dei March. Bisleti (vescovo delle Chiese unite
di Corneto e Civitavecchia (1854 - 1868) nel 1856 alla Chiesa e Confraternita di S. Maria
del Suffragio della Città di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia.
1856 - Sacra Visita fatta da Mons. Camillo dei March. Bisleti (vescovo delle Chiese unite
di Corneto e Civitavecchia (1854-1868) nel 1856 alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del
Suffragio della Città di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia.
1862 - D. FRANCESCO CALVIGIONI, Indici dei Battezzati a Corneto, ms. nell’Archivio
della Cattedrale di Tarquinia.
1869 - LUIGI DASTI, Statitstica della Città di Corneto e suo territorio, quale fu constatata
dal sottoscritto nel 1869, al suo ritorno in patria dalla Moldavia dopo nove anni di
assenza, Corneto 6 novembre 1869, (Archivio della S.T.A.S.).
1909 - D. IVO BENEDETTI, Ven. Confraternita di Maria SS.ma del Suffragio, CornetoTarquinia 1909.
1910 - D. CARLO SCOPONI, Iscrizioni Lapidarie delle Chiese di Corneto - Tarquinia
raccolte dal Sac. Carlo Scoponi 1910 ms. Corneto - Tarquinia 1910.
1923 - ROBERTO CIALDI, Notizie Genealogiche della Famiglia Bruschi Falgari dal 1592
al 1923. (Archivio Famiglia Bruschi Falgari S.T.A.S.).
1929 - MARIA GABBRIELLI, Schede dal n. 125 al 130 riguardanti la Chiesa di S. Maria del
Suffragio di Tarquinia.
1974 - LEONIDA MARCHESE, Tarquinia nel Medioevo, Civitavecchia, 1974.
1978 - INVENTARIO delle cose appartenenti alla Confraternita della Beatissima Vergine
del Suffragio, Tarquinia 1978, f. 3, nell’Archivio della Chiesa del Suffragio.
1978 - CESARE DE CESARIS, Restauro della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, in
“Bollettino S.T.A.S. 1978”.
1983 - LORENZO BALDUINI, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia 1983.
1985 - LORENZO BALDUINI, Stendardo Processionale della Confraternita di S. Maria
del Suffragio della Città di Corneto, in [Pro Tarquinia], n. 8, p. 3. 1985 (Giornale locale).
1988 - CESARE DE CESARIS, Santa Maria in Castello Cattedrale di Corneto, in
“Bollettino S.T.A.S. 1988” Tarquinia.
s.d. - UGOLINO GIUSEPPE FERRANTI, Architettura Barocca e Moderna, in [La Tuscia,
Fisica Etrusca Storica Artistica Folkloristica, Roma s.d.].
s.d. - Pro Memoria della Ven. Confraternita e Chiesa di Santa Maria del Suffragio di
Corneto, manoscritto inserito nella Sacra Visita del 1844 fatta dal Cardinal Parracciani
Clarelli (Vescovo delle Chiese unite di Corneto e Montefiascone (1844-1854) nell’Archivio
della Curia Vescovile di Tarquinia.
P. GIACOMO MARIA LATINI DA CORNETO
MINORE OSSERVANTE DEPORTATO IN CORSICA
E MORTO IN ODORE DI SANTITA’ (11.11.1779 - 16.8.1812)
Fino a qualche anno fa la figura storica del P. Giacomo Maria Latini da Corneto, ora
Tarquinia (Viterbo), era rimasta nell’ombra, non perché non fosse interessante, ma perché
nessuno si era messo seriamente a cercarne i documenti ancora esistenti.
Quando nel 1934 il suo pronipote, l’avvocato Latino Latini, si rivolse al P. Sebastiano
Nanni, suo amico e futuro ricercatore, che era stato nel convento di S. Francesco di
Tarquinia prima della chiusura del 1928, non ottenne notizia su di lui. 1)
Io stesso ero completamente all’oscuro di tutto. Mentre facevo le mie ricerche su
un’altro argomento nell’Archivio Provinciale d’Aracoeli in Roma, mi fu presentato il
Passionista P. Adriano Spina che stava puntualizzando le notizie su alcuni nostri frati
deportati in Corsica nel periodo napoleonico. Cercai di fargli vedere alcune raccolte di
documenti di quel periodo, ma su P. Giacomo non gli fui utile perché egli era indicato nei
1)
Latino Latini (1869 - 1956?) era ispettore onorario di Tarquinia e la sua corrispondenza col P. Sebastiano Nanni di
Morlupo (Roma), dal 1940 collaboratore della Commissione Scotista e morto il 26.6.1975 a 81 anni in Roma, è di
particolare rilievo per la storia del convento S. Francesco di Tarquinia di questo periodo. Lettere dell’avv. Latino Latini
a P. Sebastiano Nanni 8.2, 13.2, 31.3, 12.4., 9.6, 18.6.1931, e 11.7.1934. ASFT. Per il nostro argomento porto quella
dell’11.7.1934.
“Avvocato Latino Latini
Tarquinia li 11 luglio 1934 XII
Procuratore Tarquinia
Gentmo Revdo P. Sebastiano
Orte
Perdoni se vengo a disturbarla per una notizia:
desidererei avere qualche cenno biologico (sic) e genealogico del fu P. Giacomo Latini che nel 1809 e 14 fu P.
Guardiano del Convento di S. Francesco in Corneto. Ne parlammo altra volta; io avea anzi un appunto che mi è andato
smarrito. Ricordo che il fratello del detto P. Giacomo, a nome Giuseppe, fu sepolto, per speciale concessione del Papa
(Definitorio Provinciale), nella chiesa di S. Francesco, dove esiste infatti una lapide con il di lui nome, sotto uno
stemma. Dunque anche P. Giacomo doveva avere lo stesso stemma. In attesa di un suo cortese riscontro con stime
distinta la riverisco.
Devmo A.L. Latini
Risposta
Dopo la risposta veduto il libro in Aracoeli che parla di tutti i frati della provincia, manca un foglio forse proprio in
quello ov’è notata P. Giacomo Latini, poichè il 1819.... 20 e dal 183 (sic) non è notato”. In pratica nessuno seppe dargli
qualche notizia. La scrittura è tutt a dell’avvocato.
manoscritti, da lui rinvenuti, come riformato e non osservante, per cui lo indirizzati
all’archivio di S. Francesco a Ripa.
Egli riuscì a chiarire il problema ed io, attraverso i suoi scritti, ho conosciuto il P.
Giacomo da Corneto. 2)
Trovandomi nel convento S. Francesco di Tarquinia negli anni 1984-1987, ho
raccolto molto materiale di archivio, tra cui alcune notizie inedite sul P. Giacomo. Avendo
ampliato la mia ricerca, ho creduto opportuno che essa meritava di essere conosciuta.
1 - Famiglia ed adolescenza di Biagio Latini.
Il secolo XVIII fa conoscere Corneto per la presenza momentanea o continua di
spiccate personalità sulla via della santità: il servo di Dio card. Marcantonio Barbarigo,
vescovo di Corneto e Montefiascone (6.3.1640 - 26.5.1706), S. Lucia Filippini, fondatrice
delle Maestre Pie Filippini, nata vicino al convento di S. Francesco a Tarquinia (13.1.1672 25.3.1732); S. Leonardo da Porto Maurizio (20.12.1676 - 25.11.1751) che vi predicò la sua
missione (6.1.1739 - 20.1.1739) e lasciò tanto fascino da essere considerato comprotettore e
per aver riempito la città del monogramma del nome di Cristo: S. Paolo della Croce,
fondatore dei Passionisti del Monastero della Presentazione (3.1.1694 - 18.10.1775); la
Venerabile Maria Crocifissa di Gesù (Faustina Geltrude Costantini), confondatrice del
Monastero delle Passioniste e prima abbatessa (18.8.1713 - 16.11.1787), B. Giovanni da
Triora (15.3.1760 - 7.2-1816), guardiano dal 1790 al 1791 e lettore sessennale di teologia a S.
Francesco (1790-1791).
Il clero secolare e regolare era sovrabbondante per una popolazione che il 12 maggio
1810 contava appena 2667 cittadini. Vi erano ben 6 comunità maschili di religiosi:
Agostiniani a S. Marco, Osservanti a S. Francesco, Conventuali a S. Maria in Castello,
Serviti a Valverde e S. Maria Addolorata, Passionisti al Ritiro, Fate Bene Fratelli
all’ospedale S. Croce. Naturalmente non mancarono anche motivi di attrito o contrasto,
come qualche volta avviene tra gli uomini. Così i Frati di S. Francesco ebbero discussioni
con i Serviti che dal santuario di S. Maria di Valverde si erano trasferiti dentro la città, a
poca distanza da essi, ed avevano costruito la bella chiesa di S. Maria Addolorata, ora S.
Leonardo o Chiesuola. 3)
2)
Spina Adriano “La deportazione in Corsica di cinque Osservanti del Lazio (1810 - 1814)” Archivum Franciscanum
Historicum 77 (1984) 452-453, Diario della deportazione in Corsica del canonico di Albano G.B. Loberti (1810- 1814)
(Albano Laziale 1985) 24, 82, 125, 142.
3)
Foschi Rossella, “La chiesa di S. Maria Addolorata in Tarquinia” Bollettino dell’anno 1980 (Società Tarquiniense
d’Arte e Storia) 119, 122. Il lodevole lavoro della ricercatrice si svolge solo sui documenti di archivio dei Padri Serviti,
trascurando quelli del convento S. Francesco di Tarquinia.
Il clero secolare faceva le sue rimostranze per la processione di S. Agapito,
protettore della città; infatti partivano contemporaneamente due processioni, una dalla
chiesa di S. Pancrazio col clero secolare e l’altra da S. Francesco con i Frati per incontrarsi
nella chiesa di S. Croce, portando ognuno alcune reliquie del santo. Anche i Padri
Conventuali contestarono agli Osservanti la novena e la festa di S. Antonio di Padova, che
dovette essere alternata ogni anno. Lo stesso B. Giovanni da Triora nel 1790 dovette
sostenere una dura controversia col Comune. 4)
In questo clima religioso l’11.11.1779 nasceva a Corneto Biagio Latini da Domenico
Pallotta Latini di Viterbo ed Anna Rossetti dell’Aquila. Essi erano quindi ambedue
immigrati, come avveniva spesso per la manodopera che si recava nella Maremma, allora
zona malarica. 5)
Essi si erano sposati nella chiesa di S. Pancrazio, una delle più antiche della città, e li
aveva uniti in matrimonio il 6.5. 1765 il parroco D. Giuseppe Benedetti, proprio quello che
il 10.8.1768, come egli stesso racconta, ebbe a che dire col guardiano di S. Francesco, P.
Vincenzo Antonio da Roma, per l’incensazione delle reliquie di S. Agapito durante la
processione, per cui ricorse alla Congregazione. 6)
La sua famiglia era numerosa, tanto che egli era l’ottavo di ben dieci figli, forse non
tutti sopravvissuti alla stessa infanzia, come spesso avveniva, ma che ci è possibile
conoscere attraverso il loro certificato di battesimo: Alessandro 17.1.1767, Luigia 13.1.1768,
Antonio 12.6.1769, Bernardino 25.7.1770, Callisto 28.7.1772, Pietro 24.2.1775, Giuseppe.
22.9.1777, Biagio poi P. Giacomo Maria 11.11.1779, Francesco 4.10.1781, Mariano 8.12.1783.
Essi furono battezzati tutti nella cattedrale di Corneto, S. Margherita, eccettuati i fratelli
Antonio e Bernardino che lo furono in quella di S. Giovanni di Gerusalemme della stessa
città. 7) E’ segno che i Latini abitarono almeno in due quartieri diversi per qualche tempo.
Biagio Latini fu battezzato da D. Giovanni Donati a S. Margherita l’11.11.1779 e gli
furono imposti i nomi di Biagio, Pietro, Antonio, Martino. Gli furono padrini Giacomo
Cardini di Santa di Giuseppetto e Maria Maneschi. L’ostetrica era Maddalena Pozzi. 8)
4)
Mecocci Sergio, “Il B. Giovanni da Triora e Tarquinia” Bollettino dell’anno 1988 (Società Tarquiniense di Arte e
Storia) 151 - 162; Mecocci Luigi Sergio, “Il B. Giovanni Lantrua da Triora a Tarquinia (Corneto). Documenti inediti
(1790-1798)2. Archivum Franciscanum Historicum 82 (1989) 406-424.
5)
Allegretti Girolamo, “L’apporto marchigiano al popolamento di Corneto” Bollettino dell’anno 1986 (Società
Tarquiniense di Arte e Storia) 7 - 31.
6)
Atto di matrimonio di Domenico Pallotta Latini e Anna Rossetti 5.5.1765. Registro dei matrimoni di S. Pancrazio
ASMT; Domenico Pallotta Latini e Anna Rossetti 6.5.1765, Certificati di Matrimonio 1763-1799, Memorialia 45678
ASCT; G. Benedetti, Memorie della parrocchia S. Pancrazio di Corneto (fotocopia di manoscritto presso Lorenzo
Balduini) ff. 15 v - 16.
7)
Registro dei battesimi 1766 - 1778 ff. 21, 45, 159, 245, 331; Registro dei Battesimi 1778 - 1791 ff. 37, 84, 139
ASMT; Registro dei battesimi 1759 - 1814 ff. 77, 85 ASGT.
8)
Registro dei battesimi 1778 - 1791 f. 37 ASMT.
Egli crebbe nell’ambiente familiare dove ricevette una buona formazione.
Certamente frequentò il convento di S. Francesco, come attestò di conoscerlo da ragazzo il
P. Bernardino Musetti da Gragnana; e probabilmente tra quei ragazzi disordinati che erano
a contatto col terziario durante il guardianato del B. Giovanni da Triora ( 1790-1791), vi era
anche lui. 9)
Il Card. Giuseppe Garampi vescovo di Corneto e Montefiascone (20.5.1776 - 4-51792) gli conferì la cresima il 14.5.1786. Gli fu padrino lo stesso Giacomo Cardini. 10)
2 - La sua formazione religiosa
Quando il giovane Biagio Latini si decise di farsi religioso si rivolse naturalmente al
P. guardiano del convento di S. Francesco che in quel momento era P. Pietro Maria da
Corneto, suo conterraneo, uomo molto equilibrato e giusto e che vi sarebbe morto forse il
28.10.1796. Vicario e maestro dei chierici studenti di teologia era P. Antonio Maria da
Torrice o Torria. Vi era anche come lettore sessennale di teologia il B. Giovanni da
Triora. 11)
Egli fu presentato al P. Provinciale Flaminio Maria Annibali da Latera 28.1.1794 30.1.1797) che gli ottenne il permesso del Commissario Generale P. Bonaventura Gazola da
Piacenza ( 1792 - 1796), in pratica allora Vicario Generale per la famiglia cismontana dei
Frati Minori, futuro vescovo di Cervia (Ravenna) (7.6.1795), amministratore di Corneto e
Montefiascone (1814 - 21.12.1820) e quindi vescovo diocesano, poi cardinale (3.5.1824).
Morì il 29.1.1832. 12)
Egli fu ricevuto come novizio nel convento S. Bernardino di Orte (Viterbo) dove lo
vestì per la prima volta dell’abito francescano il vicario del convento, P. Francesco Felice
Maria da Maranzana (Asti), il 28.11.1794, che gli impose il nome di Fra Giacomo Maria da
Corneto. Vi era guardiano P. Antonio Maria da Carpineto dal 31.1.1791. Vi morì il 14.1.1795.
Il nuovo P. guardiano fu scelto nella persona del P. Desiderio da Casabasciana, ma alla sua
rinunzia, lo sostituì il P. Bonaventura da Pizzo (Catanzaro), uomo di spiccate virtù ed
attaccato all’osservanza della regola francescana che presente alle tre votazioni che si
facevano di rito per accertare l’idoneità di Fra Giacomo alla vita francescana. Esse
avvennero il 28.3.1795 con 8 voti favorevoli su 8 votanti, il 6.8.1795 con altrettanti, ed il
3.10.1795 con 9 voti favorevoli su 9.
9)
Attestato del P. Bernardino Musetti 19.12.1805 - Dimissorie per il diaconato AA.VV.; Mecocci Luigi Sergio, “Il B.
Giovanni da Triora a Tarquinia (Corneto). Documenti inediti (1790-1798) “Archivum Franciscanum Historicum 82
(1989) 422.
10)
Registro dei Cresimati 1707 - 1826 f. 145 ASMT.
11)
Mecocci Luigi Sergio: “Il B. Giovanni da Triora a Tarquinia (Corneto). Documenti inediti (1790-1798)”Archivum
Franciscanum Historicum 82 (1989) 406 - 424.
12)
Registro delle vestizioni e professioni della Provincia Romana 1782 - 1834 f. 65 APA Ms. 44.
Egli quindi fu ammesso alla professione solenne, come allora si usava, dallo stesso
P. vicario, col permesso del P. Provinciale Flaminio Maria da Latera, il 28.11.1795. Funsero
da testimoni il maestro dei novizi P. Clemente da Castelpina (Alessandria) ed il suo vice P.
Isidoro da Pavia. 13)
La comunità del convento di Orte però era più numerosa. Vi erano tra gli altri
almeno i suoi compagni di noviziato: Fra Celestino (Sebastiano Pettiti) da Carmagnola
chierico, Fra Anselmo (Paolo Vanelli) da Lucca laico, Fra Cassiano (Giacomo del Chierico)
da S. Cassiano chierico, Fra Giuseppe Maria (Marco Rosati) da Tivoli chierico, Fra Giustino
(Angelo Maria Rosati) da Grotte di Castro, Fra Filippo (Nicola Romitelli) chierico che dopo
20 giorni ritornò a Casa sua, Fra Gioacchino (Luigi Ridolfi) da Caprarola chierico, Fra
Francesco Antonio (Domenico Rozzi) da Caprarola chierico. 14)
Era una comunità in pieno ordine e bene organizzata per la formazione religiosa che
poteva ricevere i giovani prima del vento di libertà che tra qualche anno sarebbe spirato
anche in mezzo a loro, mettendo a prova veramente la rispettiva vocazione religiosa.
Non sappiamo dove egli trascorse l’anno di recollezione che era riservato ad
un’ulteriore formazione religiosa subito dopo il noviziato. Con tutta probabilità potrebbe
essere stato Valentano o Palombara Sabina.
Certamente egli fu a Roma nel convento di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina nel 1797
per lo studio di filosofia. Vi era guardiano P. Giovanni Nepomuceno da Castellaro, vicario
era P. Clemente da S. Romolo, maestro dei chierici P. Carlo Vittorio da Rocca di Papa, suo
coadiutore P. Francesco Andrea da Caprarola e P. Bernardino da Gragnana che attesta la
presenza di Fra Giacomo in tale anno. 15)
Il 4 giugno dello stesso anno Fra Giacomo veniva mandato al convento S. Maria del
Paradiso di Viterbo per iniziare il Corso teologico, ma il 13.12.1797 si recava a Corneto per
15 giorni dove il 13.1.1798 venne mandato per studiare teologia. Improvvisamente il 31
gennaio egli è inviato a Valentano a fare “gli esercizi (spirituali) e trattenervisi fino a nuovo
ordine”. Nello stesso giorno era stata mandata l’obbedienza per gli esercizi spirituali ad un
altro giovane chierico. Fra Giovanni Francesco, da Pereto per Cori. Ambedue i luoghi erano
casa di noviziato. E sia Fra Giacomo che Fra Giovanni divennero sacerdoti. P. Giovanni
13)
Registro delle vestizioni e professioni a Orte 1756 - 1844 f. 148 APA.
Registro delle vestizioni e professioni a Orte 1756 - 1844 ff. 147, 147 v, 148, 148 v, 149, 149 v, 150, 150 v, 151.
APA.
15)
Attestato del P. Bernardino Musetti 19.12.1805 - Dimissorie per il diaconato AVV. Atti della Provincia Romana
1791 - 1856 ff. 88, 89, 90, APA Ms. 54.
14)
Francesco da Pereto era a Cori nel 1802 all’età approssimativa di 35 anni e morì in Roma
all’Aracoeli il 21.1.1850. 16)
Era un motivo disciplinare, come spesso avveniva a quei tempi dovuto anche al
cambiamento dei superiori locali, o un motivo precauzionale per dare maggior consistenza
alla loro formazione spirituale per gli avvenimenti politici che stavano maturando?
Nel convento di S. Francesco a Tarquinia il P. Bartolomeo da Carbognano passava le
consegne del suo ufficio di guardiano, che esercitava dal 28.1.1797, al P. Antonio Maria da
Torria o Torrice, già suo vicario e maestro dei chierici teologi; ed a costui subentrava nei
due uffici il P. Giovanni Benedetto da Montefegatesi. 17)
Dal punto di vista politico le cose cominciavano a mettersi male per lo stato
Pontificio perché a Trastevere a Roma vi era stata un’insurrezione, respinta il 28.12.1797
dai soldati pontifici, ma gli insorti si riversarono su palazzo Corsini, sede dell’ambasciata di
Francia. Il generale lionese Leonardo Duphot (1769 - 1798), acceso giacobino, si mise tra
gli insorti, ma fu colpito ed ucciso. Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, volle
andarsene a tutti i costi e pretese un intervento armato, quantunque il cardinale di Stato
Ignazio Busca ( 23.11.1731 - 12.8.1803) gli porgesse le sue scuse.
Era il casus belli per invadere tutto lo Stato Pontificio e Roma. Quello che più volte
era stato minacciato da Napoleone veniva eseguito dal generale Luigi Alessandro Berthier
(1753 - 1815). Egli occupò Roma il 2 febbraio. Il 10 febbraio le truppe francesi entrarono
nel convento d’Aracoeli, allora sede generalizia e provincializia dell’Ordine dei Frati
Minori. Andò perduto irrimediabilmente la maggior parte dell’archivio antico dell’Ordine e
della Provincia Romana degli Osservanti. Anche la Biblioteca ebbe grandi perdite e
dispersioni. 18)
Il 15 febbraio fu proclamata la repubblica ed il 20 Pio VI fu fatto prigioniero e
portato in Francia dove morì a Valenza il 29.8.1799.
Nella zona di Civitavecchia i Francesi vi giunsero il 10 febbraio 1798. Molto presto a
Tarquinia si cominciarono a sentire le conseguenze. Avevano già iniziato ad espellere i frati
dai conventi ed il P. guardiano di S. Francesco, P. Antonio da Torria o Torrice (Frosinone),
il 13.4.1798 si rivolse al consiglio comunale chiedendo “di restare qui stanziato, e
guardiano, qualora voi municipalisti vi degnaste di considerarlo come Nazionale, e
ammetterlo, come Cittadino, essendo a voi ben nota la Savia condotta che ha tenuto per lo
Spazio di anni quindici, in cui ha dimorato in questo nostro Convento”. A presentare la
16)
17)
Registro delle obbedienze 1797 - 1816 ff. 98, 99, 132. APA Ms. 68.
Atti della Provincia Romana 1791 - 1956 ff. 86, 89, 90, 97, 98, 99, APA Ms. 54.
richiesta era il consigliere Carlo Avvolta, amico dei frati, e l’ottenne per lui come era
avvenuto il giorno 11 per i Padri Passionisti del Ritiro. 19) Questo era segno della stima
verso il P. Antonio e della particolare gravità del momento.
Il 3.6. 1798 fu pubblicato nella cittadina il decreto di espulsione per i preti e frati
esteri, cioè non sudditi della repubblica, ed il 5 era già partito per Massa Carrara
l’Osservante P. Bernardino Musetti da Gragnana. Erano stati autorizzati a restare gli
Agostiniani P. Nicola Cavanna, piemontese, di 70 anni, P. Antonio Sà portoghese di 89
anni, 5 padri Conventuali, i Passionisti P. Paolo Giacinto e P. Antonio Maria di S.
Francesco perché ivi residenti da 35 anni ed altri cinque per motivi di salute. Dovettero
fare invece il loro rendiconto gli Agostiniani di S. Marco, P. Pietro Negrini e Fra Giovanni,
ed il guardiano di S. Francesco, P. Antonio da Torrice. 20) Così escono fuori in questo
frangente alcuni di questi frati presenti a Tarquinia.
Il 20 luglio giunge la legge del generale Lorenzo Gouvion Saint Cyr (1764-1830)
sulla soppressione dei monasteri e conventi con la riunione di membri in alcuni centri
esclusivi. Questo serviva per impadronirsi dei beni mentre si procuravano difficoltà da
parte di chi doveva subire tale azione. Così gli stessi religiosi non si curavano di presentare
il rendiconto, cercando di prendere tempo, come gli stessi Agostiniani ed il superiore di S.
Francesco. Era infatti ancora il 21 luglio 1798 e con tutte le prescrizioni vi sostavano ancora
5 agostiniani, il guardiano degli Osservanti di S. Francesco e cinque Passionisti indisposti.
Nessuno voleva andarsene, come chiaramente asserito, “questo ritardo dovete ascriverlo
alla circostanza, in cui ci troviamo, che tutti ricusano di prepararsi a questa operazione”. 21)
Il problema grave era che i conventi soppressi a Corneto e a Montalto erano proprio
quelli dei Fate-Bene-Fratelli che erano tanto più necessari in estate per la malaria che
regnava nella Maremma. Di questo si preoccupava in modo particolare e giustamente
l’amministrazione comunale. 22)
Sempre sull’argomento di concentrare i religiosi, il 31 agosto dall’amministrazione
del dipartimento viene richiesto se vi sono conventi con tre individui. Il 2 settembre è
18)
Lemmens Leonardus, “De sorte archivi generalis Ordinis Fratrum Minorum et bibliotheacae aracoelitanae tempore
Reipublicae Tiberinae (An. 1798 - 1799)” Archivum franciscanum Historicum 17 (1924) 30 - 54.
19)
Reformationes 1796 - 1800 ff. 108 - 108 v. ASCT.
20)
Lettera all’Amministrazione Dipartimentale 5.6.1798, Registro letter 1794 - 1798 sf. ASCT.
21)
Lettera del segretariato all’amministrazione Dipartimentale del Cimino - Viterbo 20.7.1798. Lettera
dell’Amministrazione Dipartimentale del Cimino - Viterbo 21.7.1798. Lettera dell’Amministrazione Dipartimentale del
Cimino - Viterbo 21.7.1798 Registro Lettere 1794 - 1798 sf. ASCT.
22)
Lettera all’Amministrazione dipartimentale del Cimino - Viterbo 21.1.1798, Lettera alla municipalità di Montalto
24.7.1798 Registro lettere 1794 - 1798 ASCT.
possibile sapere che a Tarquinia vi erano ancora 8 Agostiniani, 6 Osservanti, 3 Serviti e 3
Conventuali. 23) Con tutte le restrizioni imposte, erano molti.
Quello che veramente interessava allo stato era di impossessarsi dei beni dei
religiosi. E la legge di soppressione del 14 luglio, che era stata sospesa, viene rimessa in
esecuzione il 15 settembre 1798 per i conventi già soppressi. 24)
In una situazione così precaria e difficile a qualcuno cominciarono a saltare i nervi.
Nel convento S. Francesco le cose non dovevano essere più nello stato ottimale. Il giovane
P. Domenico Vincenzo da Veroli cominciava a dare qualche preoccupazione ed il P.
Guardiano Antonio da Torrice presentò all’amministrazione comunale una lettera del P.
Provinciale Bartolomeo da Roma (31.1.1797 - 8.3.1800) che diceva che se costui fosse
mandato via, ci sarebbe stato “un discolo di meno”. Le autorità locali però non si
accontentavano di ciò, ma volevano apparire zelanti. Si informavano sulle qualità
“indesiderabili” del P. Domenico, ma anche di qualche attrito ed esuberanze dei giovani
chierici, Fra Luigi da Ferentino e Fra Giacomo da Corneto, per poterli espellere dalla
comunità religiosa. Altrettanto guardinghi si mostravano verso il P. Francesco Antonio da
Vitorchiano che aspirava a ritornarvi, dopo esserci stato lettore il 26.5.1796 coi Padri
Antonio Maria da Torrice, P. Pietro da Castelnuovo, P. Alessandro da Farnese e P.
Giovanni Francesco da Fabrica, certamente ancora presente nella comunità di S. Francesco
nel 1798. 25)
Le informazioni provenivano dall’ex sindaco apostolico del convento Domenico
Maria Avvolta che facilmente doveva essere a conoscenza delle piccinerie che avvenivano
in convento e di cui se ne serviva per screditare i Frati. Questo avveniva il 30 ottobre
1798. 26)
In realtà qualche cosa ci sarà stata, ma non così grave ed allarmante come descritta,
perché P. Francesco Antonio da Vitorchiano morì poi come guardiano della Santissima
Trinità di Orvieto (Terni) il 15.8.1804 ed il P. Domenico da Veroli, pur nella sua vita
23)
Lettera all’Amministrazione Dipartimentale 2.9.1798 Registro lettere 1794 - 1798 sf. ASCT.
Lettere all’Amministrazione Dipartimentale 26.9.1798 (2 lettere, Registro lettere 1794 - 1798 sf. ASCT.
25)
Lettera al Ministro degli Interni Zanotti 30.1.1798 Registro lettere 179 - 1798 sf. ASCT; Prestito dei Minori
Osservanti di S. Francesco al Comune 26.5.1797 Carte sparse secolo XVIII 1797 ASCT P. Giovanni Francesco da
Fabrica era certamente a Corneto come è possibile constatare per la sua applicazione della messa nei giorni 27, 28, 29
Novembre; 1, 3, 10, 11, 12 Dicembre 1797; 1, 2, 13, 14, 15, 22, 24, 26, 27, 28, 29 Giugno; 1, 3, 4, 5, 8, 10, 13, 15, 17,
18, 19, 20, 22, 23, 25, 26, 29, 31 Luglio; 1, 2, 3, 5, 6, 13 Ottobre 1798. Obblighi perpetui della confraternita del
Gonfalone 1795 - 1809. AVT.
26)
Lettera al Ministro degli Interni Zanotti 30.10.1798. Registro lettere 1794 - 1798 sf. ASCT.
24)
discretamente movimentata, morì presidente del convento S. Liberata in S. Angelo in
Capoccia ora S. Angelo Romano (Roma) il 29.9.1825. 27)
Allo stato però non interessava affatto l’andamento interno del convento, ma solo
come incamerare i loro beni. Basterebbe considerare la mordace ironia del ministro degli
interni Fabrizio Zanotti nella sua risposta al comune il 6.11.1798: “Ogni qualvolta li tre
Religiosi Minori Osservanti non turbano la pubblica tranquillità, ed il serpe velenoso si
avvinchia soltanto nello stretto circondario claustrale, la Repubblica non prenda alcuna
parte sulle private discordie di essi; ciò vi serva di regola a questo consimili”. 28)
Si trattava quindi di qualche punto diverso fra i tre frati del convento.
Pur con queste considerazioni che avrebbero dovuto portare a chiarire le cose, le
polemiche non si sopirono così facilmente, tanto che l’amministrazione comunale il
16.11.1798 ricorse all’amministrazione dipartimentale ponendo dei quesiti chiari per due
chierici che chiedevano di secolarizzarsi, usufruendo del mobilio della loro stanza del
convento: “Due chierici dell’Ordine dei Minori Osservanti di famiglia nel convento di S.
Francesco di Corneto, ci hanno esibito le accluse memorie che portano la facoltà da essi
ottenuta di potersi secolarizzare e l’istanza di poter profittare del letto e del mobilio della
respettiva cella a norma dell’art. 2 della legge del 27 pratile anno sesto (15.6.1798). Simile
facoltà non ci è stata dai medesimi esibita, onde non sappiamo precisamente se la possino
effettivamente avere. Nel caso affermativo non sappiamo se possa aver luogo la suddetta
legge”. 29)
I due chierici erano Fra Luigi Angelisanti da Ferentino che aveva studiato
grammatica a Cori nel 1794 e Fra Giacomo da Corneto. Il documento non lo dice
esplicitamente, ma si può supporre anche se non se ne ha la certezza, perché pur
presumendo che i sei frati di S. Francesco fossero il P. Guardiano Antonio da Torrice, P.
Domenico Vincenzo da Veroli, P. Giovanni Francesco da Fabrica, Fra Luigi da Ferentino e
Fra Giacomo da Corneto, ne manca sempre uno che non sappiamo chi sia.
Mentre per Fra Luigi da Ferentino nella Vacchetta dei Religiosi del 1798 vi è
aggiunto con mano tardiva “espulso”, per Fra Giacomo invece sempre con notizia tardiva vi
27)
P. Domenico Vincenzo (Pietro Crescenzi) da Veroli di Gerolamo e Clementina Farina nato a Veroli (Frosinone)
18.1.1773 - 27.9.1827. A Città della Pieve per 15 giorni 10.8 , di famiglia ad Acquapendente 23.8.1797, a Veroli “ a
spasso” 27.5.1800, a S. Angelo di Famiglia 21.1.1801, a Roma per 8 giorni 8.2.1801, “a spasso per Caprarola”
16.11.1802, in patria 40 giorni 19.2.1803, di famiglia Tivoli 30.3.1803, in patria per affari 13.4.1803, a Magliano di
famiglia 8.8.1804, a S. Angelo di famiglia 17.10.1806. Registro delle vestizioni e professioni della Provincia Romana
1782-1834 f. 27 APA; Vacchetta dei Religiosi 1798 APA Ms. 49, Registro dei religiosi defunti 1825 - 1885 f. 95 APA
Ms. 73; Registro delle obbedienze 1797 - 1816 APA Ms. 68. P. Francesco Antonio da Vitorchiano (19.4.1764 - Agosto
1801) Monti Vacchetta dei Religiosi 1798 APA Ms. 49. Vi è differenza di data di morte nei manoscritti.
28)
Lettera del Ministro degli Interni Fabrizio Zanotti 6.11.1798 Carte sparse secolo XVIII 1799 ASCT.
29)
Lettera all’Amministrazione Dipartimentale del Cimino 16.11.1798 Registro lettere 1794-1798 sf. ASCT.
è aggiunto, con imprecisione cronologica e locale, “morto il 1813 in mari esule in concetto
di santità”. E’ l’unica notizia che i frati tramandano della sua morte e dell’alone di santità.
E’ poco e non spiega molto su di lui. Del resto i Frati, subito dopo la soppressione
napoleonica, avevano molto da ricostruire dalle macerie e poco raccolsero anche di ciò che
poteva essere valido nella ricostruzione storica.
Basterebbe pensare a ciò che viene
presentato nella conclusione introduttiva del necrologio “Necrologium sive Mortilogium”
del 1895: “In tanta rerum vicissitudine, non omnes Fratres captivitatis tempore defuncti ad
nostram notitiam pervenerunt, sed illi tantum pauci, qui in hoc Necrologio adnotatur cum
sequenti inscriptione Tempore oppressionis Galliae”. E su P. Giacomo nota con
imprecisione al 23 settembre: “Nono Kalendas Octobris in Insula Corsicae P. Iacobus de
Corneto illuc deportatus tempore oppressionis Galliae 1812”. 30)
Questi sono gli unici documenti seri dei Frati sulla sua morte, senza lasciare altro di
scritto sulla sua vita, che poteva essere interessante per noi.
Anche se ci fosse stata qualche sua debolezza giovanile, che sarebbe poi da provare,
resta la sua testimonianza di fedeltà alla chiesa con la sua morte.
In un periodo così incerto dal punto di vista politico, anche il fratello poco più
grande di lui, Giuseppe, che gli rimase affezionato per tutta la vita, più volte aveva preso
parte al consiglio comunale dal 23 febbraio al 20 luglio 1798. Era forse la novità che attrae
sempre i giovani. 31)
Passato questo periodo veramente duro e di sbandamento sia per gli studi che per
gli altri problemi formativi, il 10 ottobre 1803 Fra Giacomo fu mandato a Palombara
Sabina dove era superiore il P. Samuele Platoni da Farnese, che morirà a Bellegra in
concetto di santità (8.4.1748 - 13.3.1807).
Forse egli vi rimase fino al 21 settembre 1805, quando nella cappella del palazzo
vescovile di Magliano Sabino (Rieti) fu ordinato suddiacono dal vescovo suffragraneo
Mons. Giuseppe Corari del titolo di Eucarpia (29.3.1749 - morto prima del 29.3.1819). Egli
30)
Vacchetta dei religiosi 1798 APA Ms. 49; Necrologium sive Mortilogium 1895 APA Ms. 30. Necrologio (di Orte)
1865 f. 269 APA Ms. 15 ha la stessa notizia in italiano.
31)
Reformatione 1796 - 1800 ff. 71, 86 v, 89, 91 v, 93, 96 v, 101 v, 107 v, 109, v, 111 v, 112 v, 114, 114 v, ASCT. Fu
richiamato in consiglio anche per la repubblica del 1849 il 18 febbraio. Consigli 1849 titolo IV, fasc. 9 ASCT. Dal
definitorio provinciale d’Aracoeli aveva ottenuto di potersi creare un sepolcro in S. Francesco il 13.9.1843 atti
definitoriali 1830 - 1862 f. 25 APA Ms. 57.
Nel 1851 egli aveva 76 anni ed era sposato con Clementia Propersi fu Angelo di 55 anni ed avevano due figli
Costantino di 42 anni celibe impiegato e la figlia Anna di 36, ed abitavano in Piazza Sacchetti 5. Censimento della
popolazione 1851 titolo XV, fasc. 5.
infatti non compare in nessun modo tra i religiosi e studenti di quegli anni del convento S.
Maria del Giglio di Magliano. 32)
Il 12 ottobre 1805 egli fu inviato al convento S. Lorenzo di Velletri dove era lo studio
generale di teologia. Vi era guardiano P. Raffaele da Medicina (Lucca) e vicario e maestro
dei chierici P. Bernardino Musetti da Gragnana che il 19 dicembre dichiarò di conoscere
Fra Giacomo fin dalla sua fanciullezza, e riguardo a S. Bartolomeo all’Isola Tiberina in
Roma nel 1797, in mancanza del certificato di battesimo, attestò l’età necessaria, cioè
superiore ai 24 anni, per il diaconato. Per lo stesso scopo il Provinciale P. Antonio Maria
Manni da Gerano (7.2.1803 - 3.2.1806) rilasciava le dimissorie firmate anche dal segretario
provinciale P. Bernardino da S. Giusto. Il 19 dicembre Fra Giacomo sostenne gli esami per
il diaconato davanti al canonico Raimondo Rospigliosi che era stato vicario generale di
Velletri. Con lui superò gli esami per il suddiaconato anche Fra Luigi La Monaca da
Viterbo, fratello del futuro deportato napoleonico P. Francesco Maria La Monaca da
Viterbo. 33)
Il 21 dicembre 1805 Mons. Silvestro Scarani, suffraganeo di Velletri e titolare di
Dulma (13.2.1731 - 13.3.1807), lo consacrò diacono nella parrocchia di Velletri, S. Maria in
Trivio. 34)
Il 3.2.1806 divenne guardiano di Velletri P. Paolo Antonio da Roma e P. Domenico
da Terzorio (Imperia) suo vicario e maestro dei chierici.
L’11 marzo 1806 lo stesso canonico Rospigliosi esaminò Fra Giacomo da Corneto per
l’idoneità al sacerdozio. Il nuovo Provinciale P. Filippo Cecchini da Orte (3.2.1806 6.2.1809) gli diede le dimissorie il 15.3.1806, firmate anche dal segretario provinciale P.
Francesco Maria da Casacalenda.
Il sabato santo 5 aprile 1806 lo stesso vescovo Silvestro Scarani lo consacrava
sacerdote a Velletri nella chiesa di S. Maria della Neve del conservatorio delle fanciulle,
retto dalle Orsoline. 35)
3. - Sua vita sacerdotale, deportazione e morte in concetto di santità.
32)
Registro delle obbedienze 1797 - 1816 APA Ms. 68; Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 f. 130 APA Ms. 54;
Documento di ordinazione suddiaconale 21.9.1805. AVV. Stati d’anime della parrocchia S. Liberatore di Magliano
Sabino - Convento S. Maria del Giglio 1803; 1804, 1805, AVM.
33)
Dimissorie per il diaconato di Fra Giacomo da Corneto AVV; Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 147, 148,
149 APA Ms. 54; Registro delle obbedienze 1797 - 1816 APA Ms. 68.
34)
Documento di consacrazione diaconale di Fra Giacomo da Corneto 21.12.1805 AVV.
35)
Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 156, 157, 158 APA Ms. 54; Dimissorie per l’ordinazione sacerdotale di
Fra Giacomo da Corneto, e relativa documentazione sezione Prima, Titolo VII, Buste 1805, 1806. AVV. Ringrazio
vivamente l’amico archivista Fausto Ercolani che, su mio invito, ha rinvenuto questi preziosi documenti.
P. Giacomo giunse alla sua ordinazione sacerdotale a 27 anni, diciamo ad un’età
ancora giovanile, ma con qualche ritardo per le vicende che già conosciamo.
Tra i primi impegni che gli furono affidati fu scelto il 19.1.1808 come coadiutore del
maestro dei novizi, P. Giovanni Domenico da Torano (Massa Carrara), nel convento S.
Bernardino di Orte. Il P. Domenico vi era maestro almeno dal 23.2.1804, ed ex definitore:
aveva predicato nella cattedrale S. Margherita di Corneto per l’Avvento del 1793 e quello
del 1804. Con loro erano il guardiano P. Vincenzo da Fornovolasco (Lucca) ed il vicario P.
Giovanni da Valentano, oltre i novizi ed il resto della comunità che doveva essere
consistente. 36)
Il 16.2.1809 egli diveniva vicario del convento S. Bernardino di Orte.
Con lui dovevano essere il guardiano P. Luigi da Brandeglio (Lucca) che rinunziò, P.
Giovanni Domenico da Torano maestro dei novizi, P. Gioacchino Basili da Velletri, secondo
maestro dei novizi e futuro Provinciale (25.1.1831 - 21.1.1834). In realtà il 28.2.1809 la
comunità risultò composta con più elementi alcuni dei quali completamente diversi da
quelli enunciati.
Ne abbiamo il quadro completo: P. Dionisio da Fiano guardiano, P. Giacomo da
Corneto Vicario, P. Clemente da Castelpina confessore e commissario del 3. Ordine, P.
Giovanni Domenico da Torano ex Definitore, maestro dei novizi, lettore di morale e
confessore, P. Francesco da Veroli 2 maestro, P. Ludovico da Castelferro, i fratelli laici
Antonio da Piè di Moggio, Bernardino da Olevano, Diego da Cori, Mansueto da Paranzana,
Vincenzo da S. Lorenzo, i novizi chierici Fra Giovanni Antonio da Grasciana e Fra
Cherubino Maria da Cori, vestiti il 23.9.1808, Fra Luigi Antonio da Caprarola vestito il
22.1.1809, Fra Raffaele da Canistro vestito il 27.2.1809, il novizio laico Fra Francesco
Maria da Massa vestito il 25.12.1808, i terziari Fra Luigi d’Orte e Fra Domenico da
Bologna. Tra di essi vi è il P. Francesco da Veroli, morto in concetto di santità a Sipicciano
(Viterbo) durante la predicazione il 31.1.1834 e sepolto nella chiesa S. Bernardino di Orte, e
P. Cherubino Maria Zampini da Cori, futuro Custode di Terra Santa, morto durante il
ritorno in Italia a Malta alla Valletta il 26.9.1843. 37)
Nonostante le persecuzioni imminenti i frati non si perdono d’animo. Il 30.1.1810 il
Provinciale Giovanni Carlo da Roma (6.2.1809 - 6.2.1816) elesse P. Giacomo da Corneto
guardiano del suo paese nativo, forse con la prospettiva che se vi fossero state delle
restrizioni si potesse, in qualche modo, salvare la situazione.
Con lui vi erano P.
Filippo (Teodoro Pellegrino Uccelletti) da Castel Viscardo (Terni) che era vicario, ma già
36)
Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 168, 169 APA Ms. 54.
aveva dato prova di sé nell’insegnamento elementare ai bambini. Il maestro dei chierici
studenti di filosofia era il P. Nicola da Valentano che già vi stava dall’anno precedente. I
luoghi di studio di filosofia almeno nominalmente erano ancora a Roma (S. Maria
d’Aracoeli, S. Bartolomeo all’Isola Tiberina), Caprarola, Tivoli e Corneto; quelli per la
teologia, invece erano Viterbo e Velletri.
Ma da quanto è possibile rilevare dallo stato d’anime del gennaio - maggio 1810
della parrocchia S. Liberatore di Magliano Sabino, nel convento di S. Maria del Giglio vi
erano almeno due chierici dell’anno precedente, Fra Odorico da Vico di 22 anni e Fra
Cherubino da S. Anna di 20, oltre la numerosa comunità di 4 sacerdoti e 4 fratelli laici. 38)
Nella stessa comunità di S. Francesco di Tarquinia, da notizie sia pure frammentarie
raccolte dai libri delle messe celebrate, è possibile stabilire la presenza di alcuni frati che vi
rimasero anche dopo il 30 gennaio 1810: P. Francesco da Grotte di Castro ex guardiano del
convento, futuro segretario e Custode di Terra Santa, P. Giustino da Valentano, P.
Leonardo da Pomeiana, P. Giacomo Antonio (Domenico Maceroni) da Valentano. Alcuni di
essi vi compaiono in forma transitoria come P. Francesco da Grotte di Castro e P. Giustino
da Valentano, ma P. Filippo Uccelletti da Castel Viscardo vi è sempre presente.
Non vi mancano altri religiosi forse agostiniani o serviti fino al mese di maggio 1810;
P. Cosimo Antonio Bianchi 3, P. Leonardo Heraldi 4, P. Giacomo Noccarini 5, P. Girolamo
Maria Biasini 7, P. Angelo Ragghianti 8. Il P. Pietro Negrini agostiniano di S. Marco vi è
fino al 31 Marzo 1811 ed il conventuale P. Antonio Clarke di S. Maria in Castello invece vi è
fino al 26 febbraio 1811. 39) Su questi frati dimenticati che hanno dovuto affrontare i loro
problemi, ho cercato qualche spiraglio di luce, nella speranza che qualcuno più fortunato di
me possa trovare altre documentazioni per metterli in rilievo, come ha fatto il P. Carmelo
Amedeo Naselli per i Padri Passionisti. 40)
P. Giacomo Maria da Corneto aveva 31 anni ed i tempi in atto e quelli che si
preparavano, dovevano mettere a dura prova la sua persona, mostrando ciò che c’era di
positivo nella sua vita religiosa, attraverso la propria testimonianza di fedeltà alla chiesa.
Su ordine dell’imperatore dei Francesci Napoleone I, il generale Sestio Alessandro
Francesco Miollis (1759 - 1828) il 2 febbraio 1808 occupò Roma.
37)
Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 sf. APA Ms. 54; Vacchetta 1809 - 1829 APA.
Atti della Provincia Romana 1798 - 1856 sf. APA; Stati d’anime della parrocchia S. Liberatore di Magliano Sabino Convento S. Maria del Giglio 1809, 1810 AVM.
39)
P. Francesco da Grotte di Castro 11; 12 13 febbraio 1810; P. Giustino da Valentano 13 febbraio; P. Giacomo da
Valentano 11, 12 aprile, P. Leonardo da Pompeiana 28 marzo, 16 aprile 1810, 7, 8, 9, 11, 13, 14, 15, 16, 17 agosto
1815; P. Filippo Uccelletti vi è presente dal 1 gennaio 1810 al 7 febbraio 1815. Gli altri degli altri ordini nei giorni
indicati nel testo. Obblighi perpetui delle messe del Gonfalone di S. Croce 1.1.1810 - 22.11.1822 AVT.
38)
Il generale Stefano Radet (1762 - 1825) completò l’opera, arrestando Pio VII nella
notte tra il 5-6 luglio 1809 nel palazzo del Quirinale per trasferirlo prima in Francia e in
ultimo a Savona dal 17 agosto fino al 9 giugno 1811, quando fu di nuovo riportato in
Francia a Fontainebleau.
Questo clima così difficile inevitabilmente si ripercosse anche su Tarquinia.
Negli Stati Romani cominciò prima una campagna di informazione sui beni
ecclesiastici dei singoli comuni, attraverso l’ufficio del demanio, che nell’aprile 1810 si fece
più pressante. Anche a Tarquinia il 26 aprile con una sua lettera, il ricevitore G. Palini di
Civitavecchia, al maire (sindaco) Francesco Maria Boccanera; esplicitamente lo richiedeva
ed il sindaco gli rispose che era “attribuzione demaniale quella di inquirere e di farsi render
conti dagli Ecclesiastici, ed amministratori dei Luoghi Pii, delle annue rendite dei loro
Beni, per indi conoscere se sono affittati, la durata degli affitti, e se gli affittuari restano
debitori, o no a tutto aprile cadente”. 41)
Questo corrispondeva ad un piano stabilito da Napoleone che doveva cominciare
con l’espulsione dagli Stati Romani dei Religiosi e preti esteri, il ridimensionamento delle
diocesi prima attraverso il giuramento costituzionale dei vescovi e poi dei canonici. In fine
con la soppressione totale dei religiosi entro il 15 giugno 1810. 42)
Il 16 aprile 1810 Napoleone aveva decretato l’espulsione dai dipartimenti di Roma e
del Trasimeno di tutti i religiosi, obbligandoli a tornare nella diocesi di origine e mettersi a
disposizione del vescovo, pagando loro il viaggio a secondo della distanza. La consulta
degli Stati Romani lo recepisce come pubblicato il 17 aprile e ne dà le sue disposizioni il 27
aprile. Il sottoprefetto di Viterbo Giulio Zeli Pozzaglia lo comunica con lettera il 3 maggio
1810 al maire Francesco Maria Boccanera mettendo in risalto i punti essenziali, ed
incaricandolo dell’esecuzione esatta di essi.
Vi si nota la preoccupazione di fare le cose accuratamente “trattandosi di un
soggetto, che sommamente preme a Sua Maestà Imperatore, ed essendo dell’interesse de’
Preti e Frati medesimi di eseguire puntualmente ciò che è stato loro prescritto”. 43)
La risposta fu immediata e secondo le norme perché il 5 maggio erano pronti gli
elenchi dei religiosi e preti che sarebbero dovuti partire.
40)
Naselli Carmelo Amedeo, La soppressione napoleonica delle Corporazioni Religiose. Il caso dei Passionisti in Italia
(1808 - 1814) (Roma 1970).
41)
Lettera al ricevitore Palini 27.4.1810. Registro lettere 1809 - 1810 f. 127 ASCT.
42)
Sarebbe sufficiente la sostanziosa documentazione riportata all’appendice del suo volume dal P. Naselli per
rendersene conto. Naselli Amedeo Carmelo, La soppressione napoleonica delle corporazioni religiose 1808 -1814.
(Roma) 1986 - 213-226.
43)
Lettera del sottoprefetto Giulio Zelli Pazzaglia 3.5.1810 Tit. XVII, fasc. 14 ASCT.
Purtroppo questo elenco come altri non sono giunti a noi. Ci resta solo quello di
coloro che dovettero presentare il certificato medico: i Passionisti P. Vincenzo Ghiglia di S.
Andrea di Garressio di 73 anni, P. Giacomo della Presentazione e D. Lazzaro Fontanarosa
di Chiavari di anni 71, ma dimorante ivi da 37 anni. 44)
Il 12 maggio 1810 religiosi o preti esteri non erano ancora allontanati da Corneto e la
popolazione raggiungeva appena 2.667 abitanti. 45)
Il 16 e 18 maggio però il sottoprefetto si rivolse di nuovo al maire Boccanera per
avere un inventario o stato dei preti o religiosi esteri e questi si mise in contatto coi parroci,
i superiori dei conventi e gli agenti dei monasteri. Inventario che potè spedire il 21 e il 23
maggio. Altrettanto aveva fatto il ricevitore del demanio di Civitavecchia G. Palini il 26
maggio; ma forse in questo caso si trattava di inventari di beni. Il 27 Boccanera gli faceva
sapere: “Corrispondo alla di Lei delli 26 maggio cadente con la trasmissione in triplice
copia conformi dell’inventari fatti in questa comune alli Conventi de Frati Serviti, Minori,
Osservanti, Minori Conventuali. Tutte queste copie simili d’inventari sono state da me
sottoscritte, e dalli Superiori di essi conventi. Quando ancora Lei vi avrà apposta la sua
firma me ne ritornerà due copie per sorta, ad oggetto di dare esecuzione agli ordini del
signor Sotto Prefetto. Compiego ancora in triplice copia conformi, li processi verbali sul
convento dei Padri Agostiniani, e sopra il Ritiro dei Padri Passionisti nella stessa mia
comune, ad ognuno dei quali processi troverà annessi, parimenti in triplice copie come
sopra gli attestati del Priore di essi Agostiniani, e del Rettore del divisato Ritiro, i di cui
originali ho ad ogni buon fine presso conservati. Di questi processi ancora da me firmati, e
di esse copie conformi di attestati, quando ancor Lei avrà sottoscritti detti Processi, me ne
ritornerà due copie per sorta, per l’oggetto surriferito”. 46)
Non si sa che fine abbiano fatto tali documenti. Forse dopo la restaurazione dello
Stato Pontificio qualcuno ha creduto bene farli sparire perché troppo compromettenti. A
questi elenchi trasmessi il 23 maggio il sottoprefetto richiedeva alcune specificazioni che
l’aggiunto Lodovico Casciola gli forniva il 30 maggio, facendo conoscere anche a noi i nomi
di questi religiosi: Carlo Brini (P. Girolamo baccelliere), Pietro Vincenzo Garibaldi (P.
Antonio Guardiano conventuale di S. Maria in Castello), gli Agostiniani Giovanni Malto
Pignatta (P. Vincenzo ex Provinciale e priore), Lorenzo Negrini (P. Pietro sotto priore),
Giovanni Battista Ricolfi (P. Giovanni Battista segretario della Provincia, depositario e
44)
Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto del circondario di Viterbo 5.5.1810 f. 134 Registro lettere
1809-1810 ASCT.
45)
Lettera al prefetto del dipartimento del Tevere 12.5.1810 f. 143 Registro lettere 1809-1810 ASCT.
46)
Lettere del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto (2 lettere) 19.5.1810, e 23.5 e lettera al ricevitore del registro
di Civitavecchia G. Palini 27.5.1810. Registro lettere 1809-1810 ff. 150, 151, 156 - 157, 157, 164-165. ASCT.
procuratore del convento). Vi erano anche altri di cui non viene detto il nome e la qualifica.
Vi mancano totalmente i frati del convento di S. Francesco che pure vi dovevano essere. 47)
Il 26 maggio il ricevitore del demanio Palini richiedeva ancora al sindaco gli
inventari dei conventi con chiare intenzioni per poter procedere nella soppressione dei
conventi”. Non vedendo ancora Sig. Maire le Copie Originali dell’Inventari fatti nei
Conventi di codesto Comune. Le rinnovo con la presente le premure affinché me le facci
avere al più presto possibile, giacché senza di esse non posso continuare le operazioni che
riguardano il medesimo oggetto”. 48)
Doveva essere iniziato il rimpatrio, se il sottoprefetto il 31 maggio si rivolse al
sindaco per sapere se c’era qualche prete che doveva andarsene, perché considerato estero
e bisognoso di essere sovvenzionato del viaggio, mostrandogli il certificato di povertà. 49)
Il 30 maggio il sottoprefetto gli richiese l’inventario dei libri dei conventi, che il 6
giugno era già pronto; come pure erano state ritirate le chiavi delle relative stanze.
Ma
nello stesso giorno il sottoprefetto richiedeva un più specifico inventario di tutti i mobili,
stabili, crediti, debiti, azioni, qualsiasi proprietà, utensili sacri, vasi sacri preziosi. Ne
incaricava lo stesso sindaco o egli scegliesse persone competenti, tranquillizzasse gli altri
sindaci del cantone suo che il culto vi sarebbe stato esercitato ugualmente, e che i religiosi
rimanessero sul luogo fino al 15 giugno. C’era dietro la preoccupazione del prefetto
Tournon di non sconvolgere inizialmente l’animo della gente.
L’11 giugno il sindaco si rivolse a questo scopo ai cinque superiori dei conventi ed
agli agenti dei due monasteri: S. Marco degli Agostiniani, S. Maria in Castello dei
Conventuali, S. Francesco degli Osservanti, S. Maria di Valverde e Addolorata dei Serviti,
Ritiro dei Passionisti, S. Lucia delle Benedettine e la Presentazione delle Passioniste.
Il 19 giugno erano pronti anche gli inventari dei ritardatari cioè dei due monasteri,
degli Agostiniani e dei Passionisti. 50)
Intanto il 15 giugno entrava in vigore il decreto di soppressione dei religiosi. Non era
più permesso di portare l’abito religioso e questo non era poco in quel tempo. I sacerdoti
dovevano vivere di quello che veniva promesso loro; una pensioncina che offriva loro il
governo in un primo tempo senza molte difficoltà, anche se variava con la condizione
diversa tra sacerdoti e fratelli laici.
47)
Lettere dell’aggiunto Lodovico Casciola 30.5.1810 ff. 166 - 167 Registro lettere 1809-1810 ASCT.
Lettera del ricevitore del registro G. Palini 26.5.1810 tit. XVII, fasc. 14 ASCT.
49)
Lettera del sottoprefetto Giulio Zelli Pazzaglia 31.5.1810 tit. XVII, fasc. 14. ASCT.
50)
Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto 6.6.1810, Lettera ai superiori dei cinque conventi ed agenti
dei due monasteri 11.6.1810, Lettere dell’aggiunto Lodovico Casciola al sottoprefetto 19.6.1810 (2 lettere) ff. 171, 176,
180, 182 Registro Lettere 1809-1810. ASCT.
48)
L’aggiunto Lodovico Casciola il 26 giugno si rivolse al sottoprefetto per chiarire
come i religiosi spogliati dell’abito in attesa di trasferirsi a Roma o nei Luoghi di nascita,
potesseroottenere il passaporto ed il denaro promesso per il viaggio; e dare garanzie
qualora fossero rimasti nei comuni in cui si trovavano. Riguardo alle pensioni da ricevere
nel paese d’origine, per il 1 luglio, come avrebbero potuto averle senza i passaporti? E tali
pensioni apparterrebbero anche ai chierici studenti che avevano professato la loro regola,
con l’indennizzo del viaggio?
Dalla sottoprefettura giunge il 27 giugno la notifica al sindaco di far presentare a
Viterbo per il ritiro del passaporto, Guglielmo Walik agostiniano, Antonio Clarke minore
osservante (era conventuale), Luigi De Canni servita, Giacomo Vari passionista, Giacomo
Martini servita, Vincenzo Ghiglia passionista, Vincenzo Giovanni Pignatta agostiniano,
Pietro Antonio Garibaldi di S. Maria in Castello, Luigi Stracci mendicante francescano
(non identificato). 51)
Non vi è ricordato nessun frate del convento di S. Francesco che pure ci sarebbe
dovuto essere, come il P. Leonardo da Pompeiana (Imperia), a meno che non fosse già
partito.
Intanto anche gli altri frati del convento di S. Francesco sono mandati nei loro paesi
di origine; P. Francesco da Grotte di Castro, P. Giustino da Valentano, P. Nicola da
Valentano, P. Giacomo Antonio (Domenico Maceroni) da Valentano. Gli unici che restano
a Tarquinia sono P. Giacomo Maria da Corneto che rimane col fratello Giuseppe e P.
Filippo (Teodoro Pellegrino Uccelletti) da Castel Viscardo che rimane come maestro delle
scuole elementari ed economo parroco di S. Pancrazio.
Anche in altri luoghi, come nel convento S. Bernardino di Orte, i Frati furono
tollerati, purché in abiti borghesi, senza pensione, vivendo di elemosine e pagando l’affitto
per il convento. Vi furono infatti in tale stato dal 1 luglio 1810 all’8 settembre 1814 il
guardiano P. Giandomenico da Torano, il maestro dei novizi P. Alessandro da Roma, P.
Francesco da Veroli, Fra Diego da Cori, Fra Bernardino da Olevano, il terziario Fra Luigi
da Orte, e dopo pochi giorni giunsero l’ex Provinciale P. Filippo Cecchini da Orte,
proveniente da Farnese e Fra Giuseppe da Orte, a cui si unì il P. Giovanni Battista Vanni
dell’Ordine della Penitenza o Terzo Ordine Regolare. 52)
51)
Lettera del sottoprefetto Zelli Pazzaglia 14.6.1810 tit. XVII, fasc. 14, ASCT; Lettera dell’aggiunto Lodovico
Casciola 26.6.1810 Registro lettere 1809-1810 f. 185 ASCT. Lettera dalla sottoprefettura di Bonomi 27.6.1810 tit.
XVII, fasc. 14 ASCT.
52)
Per alcuni di essi si è già vista la loro presenza alla nota 39. Memoria del 1814 del convento S. Bernardino di Orte
ASBO.
Dopo il 19 giugno furono scelte come luogo di culto dai parroci: la chiesa di S.
Francesco perché vi si conservava il corpo del patrono della città, S. Agapito; l’Addolorata,
S. Lucia, S. Marco, S. Maria in Castello, S. Maria di Valverde. Vi mancavano la
Presentazione delle Monache Passioniste e la chiesa del Ritiro dei Passionisti, fuori città.
Questo forse era nella speranza di potervi mantenere una parte del clero religioso
alla loro custodia, ma il convento di S. Francesco veniva proposto dal sindaco Francesco
Boccanera al sottoprefetto come “capace di una buona caserma per truppe di passaggio, e
di permanenza, e per l’uso delle cisterne di proprietà della Comune, in tempo d’estate in
cui manca l’acqua alla popolazione”. 53)
Vengono mandate le schede dal sindaco al sottoprefetto con le rispettive fedi, cioè
attestazioni documentate e firmate dal sindaco e dai superiori per i religiosi che devono
ricevere la pensione. Nella stessa data 24 luglio gli manda altri due elenchi di religiosi
mancanti in quelli del 17. A noi però tale nota non è pervenuta.
Abbiamo invece quella del 31 luglio 1810 in una minuta, corretta in più punti, ma
particolarmente interessante perché fa conoscere i nomi dei religiosi che dovettero
affrontare il ritorno alle loro case, secondo le varie provenienze, ordine religioso, età.
Anche qui mancano i Frati di S. Francesco di Tarquinia. Vi sono gli agostiniani P. Agostino
(Paolo Mancini) di 37 anni da Soriano che aveva professato il 15.1.1790, proveniva da S.
Agostino di Roma, e si riuniva alla sua famiglia; P. Tommaso (Tommaso Walsch) da
Clonmell (Irlanda) di anni 34, professato il 25 aprile 1792, di S. Marco di Corneto e partito
per Parigi, P. Pietro (Lorenzo Negrini) di Gattinara, di anni 55, di S. Marco di Corneto,
professato 22.2.1775 asserendo di avere il permesso della commissione generale di
Civitavecchia, il Passionista P. Vincenzo di S. Andrea (Vincenzo Chiglia) di Garresio,
professato il 30.11.1758 del Ritiro l’Addolorata di Corneto per grazia del sottoprefetto per
infermità ed età avanzata, il Conventuale P. Antonio (Antonio Clarke) di Dublino, di 54
anni, professato 4.8.1778, di S. Maria in Castello di Corneto ha il predisposto passaporto
per Dublino (dove andarà chi lo conduce) cancellato, D. Lazzaro Fontanarosa di Chiavari,
di anni 71, domiciliato a Corneto con tutta la famiglia da 37 anni, (cagionevole di salute,
come al testimoniale alla sottoprefettura 5 maggio 1810) cancellato D. Domenico Ferraud,
di Cavaglione, di anni 50 beneficiato sagrestano della cattedrale e custode della chiesa S.
Maria in Castello, D. Giuseppe De Soto di Obildo, di anni 44 asserendo di trattenersi col
permesso del commissario generale di polizia di Civitavecchia. Provenienti dal convento S.
Bernardino di Viterbo sono le Suore Francescane Suor Marianna Crocefissa (Petronilla
Bruschi) velata di Corneto di anni 84 professata 9.10.1796, tornata nella famiglia, Suor
Maria Clementina (Mariangela Belli) conversa, di Corneto di anni 76, professata 20.5.1753,
Suor Francesca Giacinta (Francesca Lucchetti) velata, di Civitavecchia, di anni 52,
professata 5.9.1773, Suor Maria Michelina (Maria Michelina Betti) velata, di Civitavecchia,
di anni 29, professata 20.5.1797, Suor Maria (Maria Teresa Carabelli) conversa, di
Ronciglione, di anni 35, professata il 30.1.1800 (queste ultime tre erano tornate a Corneto
dai loro benefattori). Vi erano due suore del monastero di S. Rosa di Viterbo, le
Francescane Suor Rosa Celeste (Lucia Rosa Bruschi) velata, di Corneto, di anni 50,
professata 9.3.1774, Suor Teresa Maddalena (Clemetina Bruschi) velata, di Corneto,
professata 8.10.1793, di anni 36, ambedue tornate in famiglia.
Una sola carmelitana tornava da Vetralla, Suor Margarita Celeste del Divin’Amore
(Teresa Falzacappa) velata, di Corneto, di anni 31, professata 1.10.1797.
Ben quattro ne
tornavano dalle clarisse da S. Chiara di Orvieto, 1 da S. Paolo di Toscanella (Tuscania), 1
dai SS. Agostino e Rocco di Caprarola: Suor Anna Grisolde (Virginia Forcella) velata, di
Corneto, di anni 34, professata 5.6.1796, Suor Candida Rosa (Maria Bruschi) velata, di
Corneto, di anni 52, professata 23.10.1777, Suor Maria Adelaide (Angela Bruschi) velata, di
Corneto, di anni 49, professata 23.10.1778, Suora Chiara Maria (Francesca Bovi) velata, di
Corneto, di anni 53, professata 23.4.1789, Suor Maria Maddalena (Maddalena Petrighi) di
Corneto, di anni 50, professata 17.10.1790, tutte tornate nelle loro famiglie.
Solo Suor Maria Eletta (Margarita Bellen, cancellato Apollonia) clarissa di anni 19,
nata a Fiume in Dalmazia, professata 31.12.1807 in S. Chiara di Orvieto, si deve ritirare
presso benefattori perché orfana dei genitori.
Vi sono ancora tre Passioniste del Monastero della Presentazione che restano per
motivi di salute ed una Benedettina del Monastero di S. Lucia di Corneto per lo stesso
motivo. Esse sono le Passioniste Suor Maria Vincenza di S. Caterina (Caterina Casamajor)
velata, di Orbetello, di anni 53, Suor Maria Arcangela della Presentazione (Francesca
Casamajor) velata, di Orbetello, di 48 anni, Suor Rosa di S. Giovanni Evangelista (Rosa
Fanciulli) velata, di Porto S. Stefano, di anni 57, professata 8.12.1778 con “asma di petto
continua” e la Benedettina Suor Maria Arcangela (Maria Domenica Ranucci) conversa, di
Barga di Lucca, di anni 68, professata 29.9.1765. Non erano veramente pochi i religiosi che
53)
Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto 4.7.1810, Lettera del maireFrancesco Boccanera al prefetto
di Roma 31.7.1810 e al sottoprefetto 15.9..1810. Registro lettere 1809-1810 ff. 193-194, 230, 263 ASCT.
ritornavano nella loro città. Specialmente tra le monache molte appartenevano alle
famiglie patrizie o ricche della cittadina su cui contava la politica imperiale. 54)
Solo per il problema delle pensioni delle pensioni promesse anche ai religiosi ci è
possibile scoprire la presenza di due frati del convento di S. Francesco ancora nella
cittadina: P. Giacomo Maria Latini da Corneto e P. Filippo Uccelletti da Castel Viscardo.
Non mancarono contrattempi nel presentare la documentazione necessaria per ottenere la
pensione. Ed il 12 agosto proprio P. Giacomo (Biagio Latini) dovette presentarla in ritardo
ed il maire Francesco Maria Boccanera se ne scusava di non averla potuta includere in
quella del giorno precedente al sottoprefetto, pensando di essere ancora in tempo.
Altrettanto succedeva al P. Filippo da Castel Viscardo che richiedeva al P. Giacomo una
dichiarazione, rilasciata il 22 agosto 1810. In modo un po' diverso si comportava il P.
Giacomo da Valentano, che dal suo paese nativo si rivolgeva al sindaco con una lettera
affidata a suo fratello, non sapendo se n’era superiore per fare la dichiarazione di rito.
Tutto questo ci fa capire in che clima ci si doveva muovere.
Preferisco trascrivere queste due testimonianze perché la prima è l’unico scritto del
P. Giacomo Latini anche se stereotipato perché ufficiale ed il secondo per capire meglio
l’ambiente, con le relative difficoltà.
Ecco i testi:
“In nome di S.M.I. Napoleone dei Francesi Re d’Italia e Protettore della
Confederazione del Reno.
Certifico io sottoscritto già Guardiano nel soppresso convento di S. Francesco de’
Minori Osservanti di questa comune di Corneto, che l’ex religioso D. Pellegrino Uccelletti,
in Religione P. Filippo da Castel Viscardo, faceva realmente parte del convento sudd. di S.
Francesco in qualità di Vicario all’epoca della soppressione, e che vi risiedeva.
Corneto questo 22 agosto 1810 Biagio Latini in Religione Giacomo M. di Corneto.
Visito alla Mairie di Corneto per legalizzazione della di cui sopra firma dell’ex
Religioso D. Pellegrino Uccelletti, in Religione P. Filippo da Castel Viscardo e Vicario del
sudd. soppresso Convento di S. Francesco dell’Ordine dei Min. Osservanti della Città di
Corneto. In fede etc...
Dato dalla Mairie di Corneto questo 22 agosto 1810.”
L’altro documento del P. Giacomo da Valentano è:
54)
Lettera del maire Boccanera al sottoprefetto 24.7.1810, Lettera del maire Boccanera al prefetto di Roma 31.7.1810,
ff. 217, 229 Registro lettere 1809 - 1810 ASCT; Elenco dei religiosi rimpatriati o esiliati 31.7.1810 tit. XVII fasc. 14
ASCT.
“Valentano 27 agosto 1810.
Poichè giusta il recente Ordine del governo rapporto a quei, che hanno diritto alla
pensione, infra le altre cose richiedesi un certificato rilasciato dal superiore, ed in caso di
assenza del Maire del luogo della situazione del Conv. comprovante che facevano parte del
Conv. sud. all’epoca della soppressione e che vi risiedevano; non sapendo io se il mio
superiore sia in Corneto; quindi accingomi a supplicare l’Innata Bontà di V.S. Ill.ma, ad
oggetto, che abbia la compiacenza di mandarmi il certificato richiesto dal Latore della
presente, e mio fratello di sangue. Che della Grazia.
Um. D.mo, ed ob.mo Servo
D. Domenico Maceroni
e nella Religione P. Giacomo da Valentano”. 55)
Il problema era pienamente calzante. Il sottoprefetto Zelli Pazzaglia il 26 agosto
rilasciava al sindaco Boccanera 42 certificati di pensione da consegnarsi agli interessati,
facendosene sottoscrivere la ricevuta. 56)
In realtà il periodo per presentare la documentazione di pensione fu prorogato al 20
settembre: atto di nascita, di professione, certificato di residenza. Anzi il 22 settembre il
sindaco manda ancora al sottoprefetto Zelli Pazzaglia due certificati di nascita di due
religiosi ma a lui risulta solo quello dell’agostiniano Nicola Salerno, come si esprime in una
lettera del 28 settembre 1810. 57)
Con tutto questo trambusto, nessuno dei religiosi era ancora morto fino al 15
settembre 1810. 58)
Il problema centrale per i religiosi che erano usciti dalle loro case senza il
necessario, perché non si erano potuti appropriare di nulla, era quello della pensione
promessa e necessaria per vivere. Fino al 10 ottobre Boccanera lamentava di avere ricevuto
10 schede in meno delle 59 che dice di avergli consegnato il sottoprefetto.
Ne
ha
distribuite quarantatrè le altre le ha presso di sè perché le religiose sono fuori. Quello che è
più grave però è che anche dagli ex-religiosi si esige il Giuramento come egli chiaramente
afferma: “Riceverà ancora accluso lo stato degli Ex-Religiosi, ai quali ho fatto sapere di
dover prestare il giuramento di fedeltà e di obbedienza nei luoghi della rispettiva nascita.
55)
Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto 12.8.1810 Registro lettere 1809-1810, f. 239 ASCT;
dichiarazione del P. Giacomo Maria Latini da Corneto 22.8.1810; Lettera del P. Giacomo (Domenico Maceroni) da
Valentano 27.8.1810 tit. XVII, fasc. 14 ASCT.
56)
Lettera del sottoprefetto Giulio Zelli Pazzaglia 26.8.1810 tit. XVII fasc. 14 ASCT.
57)
Lettera dell’aggiunto Lodovico Casciola 5.9.1810 f. 256 Registro lettere 1809-1810 ASCT; Lettera del sottoprefetto
28.9.1810 tit. XVII, fasc. 14, ASCT.
58)
Lettera del maire Boccanera al sottoprefetto 15.9.1810 Registro lettere 1809 - 1810 f. 264 ASCT.
Similmente compiego il Processo verbale dell’ Ex-Religioso, che ha giurato con la
sua schedola sottoscritta dal medesimo; in mancanza per questo la schedola da consegnarli
per la pensione.
Per la grave infermità delli Ex Religiosi ed assenza di uno di essi da Corneto,
sottoposti al giuramento, non ho potuto unirli a detto Processo. Lo farò in altro
mandandovi intanto per questo quattro altre schedole per ottenere la detta pensione”. 59)
Vi è chiaramente espresso che per ricevere la pensione era necessario fare il
giuramento, cosa che alcuni accettavano come sembra dal documento, ma altri per un
motivo o per un altro cercavano di evitare perché proibito.
Alcuni religiosi per non prestare tale giuramento rinunziarono alla loro misera
pensione; basti pensare a P. Filippo (Antonio Giupponi) a Cori, ai frati della comunità di
Orte. 60) Credo che proprio qui cominci la crisi più forte del P. Giacomo Latini da Corneto.
C’è ancora una lettera del maire Boccanera di risposta al sottoprefetto del 29
novembre 1810 sulle pensioni ecclesiastiche agli Ex Religiosi e dice senza spiegare nulla in
realtà, il 5 dicembre 1810, “ho reso publiche le istruzzioni (sic) nella medesima contenuta a
proposito degli Ex-Religiosi che hanno diritto alle medesime pensioni, e per di loro regala
il governo”. 61
Ci si dimentica che il governo li aveva spogliati di tutto e messi in mezzo alla strada,
promettendo loro questa pensione. Era solo un mezzo per toglierli via.
Naturalmente i Frati dovettero affrontare quello che veniva loro offerto; P. Filippo
da Castel Viscardo, che già aveva insegnato nelle scuole elementari, continuò a farlo finché
glielo permisero, rimase economo parroco di S. Pancrazio, e proprio per questo facilmente
giurò e vi rimase fino alla restaurazione dello Stato Pontificio. 62)
P. Giacomo Latini invece rimase a carico del fratello Giuseppe per circa “un anno e
mezzo”. Poi per provvedimento del commissario generale di Civitavecchia fu imprigionato.
59)
Lettera del maire Boccanera al sottoprefetto 10.10.1810 Registro lettere 1809 - 1810 ff. 278-279.
Memoria del 1814 del convento S. Bernardino di Orte ASBO; Mecocci Sergio, Francescani a Cori (Cori 1986),
167.
61
Lettera del maire al prefetto di Roma 5.12.1810 Registro lettere 1809-1810 f. 339 ASCT.
62)
Vi sono documenti che alludono a due religiosi parroci che hanno giurato, senza fare il nome 29.8.1811
Deliberazioni 1809-1814 f. 35. Lettera al sottoprefetto 2.6.1812 Copialettere VI A 13, 1812, ff. 458 - 459 ASCT. Era
economo parroco di S. Pancrazio Registro dei Battesimi 1807 - 1819 (5.11.1811 - 15.5.1814) ff. 102 - 119; Registro dei
Matrimoni - 1710-1816 (3.6.1811 - 25.4.1814) ASMT; Maestro di scuola elementare per i ragazzi 30.12.1803,
11.12.1807, 9.12. e 13.12.1808. Ogni volta è messo in concorso per l’anno successivo e vince. Carte sparse secolo XIX
1803, 1807, 1808 ASCT. 13.12.1804, 13.12.1805, 13.12.1806, 13.13.1807, 30.10.1808, 13.12.1808. Libro dei consigli
1799-1809 ff. 283, 313, 322, 324, 354, 363, 367. Questo era un segno della sua stima. Vi era confermato 13.3.1810
Lettera al sottoprefetto 14.3.1810 Registro lettere 1809 - 1810 f. 101 ASCT. Anche nel 1811 fino a luglio è pagato per
questo 30.6.1811 e 31.11.1811. Mandati 1810-1811 sf. ASCT.
60)
O non volle assistere alle solite preghiere che si facevano per l’imperatore o non volle
giurare. In genere questi erano i capi di accusa che si portavano.
Con tutta probabilità, nel settembre 1811, egli fu rinchiuso nel carcere di
Civitavecchia mentre il fratello Giuseppe cercò di soccorrerlo con qualche risparmio che gli
aveva messo a disposizione lo stesso P. Giacomo, data la ristrettezza dei tempi correnti.
I carcerati dovevano provvedersi del necessario per sopravvivere e a Civitavecchia
egli dovette spendere per sé 10 scudi. 63)
Egli con altri 19 (secondo Loberti), o 18 (secondo Mercati) fu mandato a Bastia in
Corsica dal commissario generale di Civitavecchia dove giunse il 23 ottobre 1811.
Vi è
indicato come residente a Roma e nativo di Corneto, come D. Angelo Galassi. Certo questi
elenchi hanno delle imprecisioni come quella di chiamarlo “Lattini Jacques” invece di
Latini, ma non vi è dubbio sulla persona. Non vi era nessuna condanna nei suoi riguardi
per essere trasferito, come è chiaramente indicato dalla parola “néant” = nulla. Dal punto
di vista giuridico si tratta quindi di un puro arbitrio usato nei suoi riguardi e una punizione
contro un innocente e così anche verso gli altri.
Tra i deportati vi erano D. Angelo Galassi e P. Giacomo. Della stessa città è anche il
canonico D. Filippo Benedetti. Vi è pure un altro minore osservante, P. Luigi Antonio
(Francesco Lusinasco “Lusignasco”) da S. Remo, guardiano di S. Bartolomeo all’Isola di
Roma.
Essi ottennero 30 franchi con cui dovevano trovarsi un alloggio ed il vitto per un
mese, quando un chilogrammo di pane costava 7 soldi. 64)
Per questo P. Giacomo Latini ricorse ancora al fratello Giuseppe che gli sovvenzionò
15 scudi, cinque forme di formaggio del valore di 5,40 scudi, probabilmente 6,40 scudi per
medicine, 6 per abito di bogenzone, 7 per corpetti e due paia di calzoni. Egli certamente in
primo tempo rimase presso una famiglia di Bastia a dozzina dove poi morì, quando le sue
condizioni fisiche si aggravarono per l’etisia. 65)
A Corneto intanto ci si preoccupava di ottenere uno stanziamento per S. Francesco
in una caserma per gendarmeria, essendo esso capace di 30 individui che fu poi attuato.
Più tardi si pensò di affittarlo ai privati ed il 14.10.1810 il ricevitore Palini mandava l’avviso
che il 25 gennaio 1811 vi sarebbe stata l’asta al prezzo iniziale di 30 scudi ed il 16 gennaio
63)
Conto di Giuseppe Latini al convento S. Francesco 5.12.1814 ASFT.
Mercati Angelo, “Elenchi di ecclesiastici dello Stato Romano deportati per rifiuto del giuramento imposto da
Napoleone “Rivista della storia della chiesa in Italia 7 (1953) 58, (64 - 65); Spina Adriano, Diario della deportazione
in Corsica del canonico di Albano G. B. Loberti (1810-1814) (Albano Laziale 1985) 73 (Non vengono fatti nomi, ma
viene riportata solo la notizia).
65)
Conto di Giuseppe Latini al convento S. Francesco 5.12.1814 ASFT.
64)
1811 (non 1810 come nell’originale) mandò 4 manifesti per gli affitti dei conventi e
monasteri da farsi il giorno 25. Se lo aggiudicò Luca Peruzzi di Corneto, pagando il
6.11.1811 per il primo semestre fino al 31 agosto 88 franchi 27 centesimi e 7. 66)
Non credo che fu questo a incidere sul problema del P. Giacomo, anche se
certamente dovette dispiacergli.
In Corsica oltre al P. Giacomo erano stati deportati altri suoi concittadini: i canonici
Gianvincenzo Falzacappa, ed il fratello Gianfrancesco, futuro cardinale, Gaspare Erasmi,
Cristoforo De Cesaris, Francesco Garigos, Angelo Galassi e Filippo Benedetti. Anche se
molti dei canonici o preti di Corneto avevano giurato, vi era però una buona
rappresentanza di sacerdoti che avevano accettato l’esilio.
Non bisogna dimenticare che il vescovo di Corneto era proprio il cardinale Giovanni
Sifredo Maury, fanatico bonapartista e dal 1810 amministratore riprovato da Pio VII di
Parigi (1746 - 1817).
Vi furono anche numerosi Minori Osservanti o Riformati oltre al P. Giacomo: P.
Gianantonio Gandolfi, P. Luigi Antonio (Francesco Lusinasco) da S. Remo, P. Lorenzo
(Giovanni Giovannoli) di Roma, P. Francesco Maria (Giovanni La Monica) da Viterbo, P.
Benedetto Veneri, Girolamo Prosperi da Frascati e Fra Bernardino Veralli da Roma. 67)
Dai contemporanei si nota una particolare attenzione alla figura del P. Giacomo
Latini. La sua morte veramente esemplare deve avere particolarmente colpiti.
Il Loberti si ferma alle notizie essenziali: “17 (Agosto 1812) Funerale per il d.
Giacomo Latini riformato, riportato etico, morto in Bastia.”
Più circostanziata è la testimonianza trascritta da Faloci Pulignani secondo cui per
l’acuirsi della malattia tra i carcerati, furono chiamati i medici ed il chirurgo per paura di
un epidemia e tra gli aggravati vi fu proprio il P. Giacomo Latini che erroneamente chiama
Giacinto: “Fra gli ammalati si contava un certo Padre Giacinto Latini, Guardiano de’
Minori Osservanti di Corneto, sua patria, già dimorante in casa di un buon cittadino di
Bastia, il quale aggravato nel petto ed attaccato da grossa febbre, malgrado tutte le
premure de’ medici ed i più valevoli rimedi, dovette tra il settimo ed ottavo giorno di
decubito soccombere, munito di tutti i Santissimi Sacramenti, con l’assistenza del Vice-
66)
Lettera del maireFrancesco Boccanera al sottoprefetto 4.7, 1.9 1810 Lettere al prefetto di Roma 31.7, 27.10.1810. ff.
195, 230, 263, 293 Registro lettere 1809 - 1810 ASCT. Bando di asta del ricevitore G. Palini 14.11.1810, Manifesti da
affiggersi 16.1.1810 (nell’originale, ma è certamente 16.1.1811). Ricevuta di pagamento dell’affitto di S. Francesco da
parte di Luca Peruzzi da Corneto 6.11.1811. tit. XVII, fasc. 14 ASCT.
67)
Mercati Angelo, “Elenchi di ecclesiastici dello Stato Romano deportati per rifiuto del giuramento imposto da
Napoleone” Rivista della storia della chiesa in Italia 7 (1953) (64-65, 69, 70, 71, 72, 73, 81, 82); Spina Adriano Diario
della deportazione 120, 121, 122, 123, 124, 125. Canali Giuseppe “Memorie di un prete romano deportato al tempo di
Napoleone” La civiltà cattolica 3 (1934) 169.
Parroco di S. Maria e di vari compagni, passare agli eterni riposi. Nella mattinata del 17
agosto fu trasportato il suo cadavere alla chiesa cattedrale di S. Maria, accompagnato da
quattro Confraternite e da numeroso popolo che piangeva la di lui morte, esaltando le sue
virtù; investito degli abiti Sacerdotali, con decente funerale, con l’assistenza di tutti i
compagni Deportati che gli cantavano l’ufficio e Messa di morti celebrata dal canonico
Dias, ora economo per quell’Arciprete ch’era stato Deportato alle Finestrelle, e terminata la
S. funzione da tutti applicatagli la messa, chiusa la cassa, fu trasportato, e seppellito nel
Campo-Santo con dispiacere universale”. Più oltre aggiunge che per la morte del
cappuccino viterbese P. Francesco Antonio Corradi vi partecipò la folla come per il P.
Latini, ma non poterono parteciparvi i deportati. 68)
Il P. Adriano Spina ha centrato pienamente l’episodio della morte, nell’alone di
santità riconosciuta dai contemporanei di P. Giacomo, manifestatasi forse con più
chiarezza proprio nel tipo di malattia da lui sopportata, l’etisia, che in genere lascia al
malato lucidità di mente fino all’estinzione della vita. Mi piace riproporla come lo fu dal
suddetto Padre: “La notizia di questa morte e diciamo pure l’esemplarità di
quell’avvenimento da aureorarlo da martirio, colpiù più di un cronista”. Infatti anche
l’anonimo componente del clero romano che scrisse le Memorie sottolineò come pur
essendo malato, avesse chiesto con gesto di eroica offerta il permesso di poter condividere
la vita durissima del carte del Donjon riportando poi i particolari preziosi dei suoi funerali:
“Uno dei nostri deportati che per cagione di infermità non era potuto entrare con noi al
Donjon come ardentemente desiderava, nel dì 16 fu richiamato dal Signore all’altra vita per
godere il frutto della sua deportazione e della pazienza ed uniformità praticata nella sua
infermità che innamorò quelli che si fecero un pregio ed un onore di prestare al medesimo
tutta la cristiana ed amorevole assistenza.
Nel dì seguente fu condotto in chiesa il suo cadavere dove anche i deportati si
ritrovarono per assistere alla Messa cantata colla recita dei tre Notturni, essendovi
intervenuto anche il pietoso popolo che accompagnaca il lugubre canto dei sacerdoti con
molta pietà e sentimento di Religione.
Tutti i corpi delle Compagnie di Bastia entrarono in una pietosa gara di
accompagnare alla Chiesa il cadavere ed assistere alle esequie con la cera del proprio,
abbondantissima che consumarono nella funzione, nulla volendo con una generosità degna
del loro cuore che produsse negli animi dei deportati una eterna gratidune e riconoscenza.
68)
Spina Adriano, Diario della deportazione 82. Faloci Pulignani Michele, Storia della deportazione dei sacerdoti
dello Stato Pontificio nella Corsica (Foligno 1895) 184, 207. Egli trascrive un diario di un deportato di Foligno.
Il dì seguente alla sepoltura del defunto P. Giacomo Latini, Minore Osservante di
Corneto, uscì dal governo l’ordine che i deportati non potessero sortire più dal forte”. 69)
Quel poco che si può conoscere di valevole del P. Giacomo Latini, Minore
Osservante di Corneto, uscì dal governo l’ordine che i deportati non potessero sortire più
dal forte”. 70)
Al 30 di ottobre 1812 si sa che le chiese dei religiosi erano state affidate al canonico
prete giurato Domenico Ferraud, S. Maria in Castello, S. Maria di Valverde, e l’Addolorata
dei Passionisti; all’avvocato Cesarei, S. Francesco e la Chiesuola; al canonico Sebastiano
Forcella, S. Lucia e la Presentazione; a Mancini S. Marco. 71)
Quando Pio VII ebbe la possibilità di essere liberato dalla prigionia, e ritornò in
possesso dello Stato Pontificio, il cardinale Giovanni Sifredo Maury fu chiamato a rendere
ragione del suo operato e rinchiuso in Castel S. Angelo giudicato, sospeso dalla propria
giurisdizione episcopale su Corneto e Montefiascone il 16 maggio 1814, ed in sua vece
succede come amministratore apostolico Mons. Bonaventura Gazola vescovo di Cervia,
minore riformato. Alla riunione del 16 maggio furono presenti il clero secolare e regolare
cittadino, ex deportati napoleonici ed ex giurati.
Non avendo potuto consultare le ritrattazioni del clero come era avvenuto in altre
diocesi, perché non mi è stato possibile trovarle, credo opportuno riprendere questa
testimonianza sia pure amara, ma significativa.
“Anno Domini millesimo octingentesimo decimoquarto die vero decima sexta maii.
Praevia intimatione convocatum fuit Capitolu, in quo interfuerunt RR Dni Canonici
Archidiaconus Ioannes Baptista Falzacappa, Archipresbyter Dominicus Lastrai, Ioannes
Franciscus Garrigos, Ferdinandus Bovi, Ioannes Dominicus Ferraud, Iacobus Gori,
Cajetanus Cesarei, Sebastianus Forcella, ceterique de Clero Parocus Aloysius Donati, F.
Secondianus Alessi, F. Agapitus Daste, Angelus Galassi, Cristophorus de Cesaris, Gregorius
Antonj, Petrus Tognarini, Egidius Mancini, F. Augustinus Mancini, Revmus F. Nicolaus
Salerno, Procurator Generalis Ordinis Eremitarum S. Augustini, Ioannes Baptista Urbani,
F. Peregrinus Uccelletti, Gaspar Battaglia, Dominicus Verroni, Iacobus Boccanera quibus
per Revmum D. Archidiaconum denunciatum fuit.
69)
Spina Adriano, “La deportazione in Corsica di cinque Osservanti del Lazio (1810-1814) “Archivcum Franciscanum
Historicum 77 (1984) 453.
70)
Lettera al sottoprefetto 10.3.1812, Lettera al signor Carlo Fiorelli 10.3.1812 Rapporto al commissario di polizia
30.3.1812, Lettera al sottoprefetto 2.6.1812, Lettera al Vicario Generale 1.6.1812, Copialettere VI A 13, 1812 ff. 83,
110, 251, 458-459 ASCT.
71)
Vi erano due sacerdoti di nome Mancini P. Agostino Mancini e D. Egidio, come si potrà osservare tra poco, ma con
probabilità che si tratta del P. Agostino. Certificato del maire 30.10.1812 tit. XVII, fasc. 14 ASCT.
Em. mum, et Rev. mum D. Ioannem Sufredum Maury Episcopum nostrum
suspessum esse a Summo Pontifice ab omni jurisditione spirituali, et temporali supra
Diocaeses Corneti et Montisfalisci, et in eius loco suffectum Illmum, et Revmum D.P.
Bonaventuram Gazola Episcopum Cervien”. E su questo tono annunzia l’estromissione del
precedente vicario generale con l’elezione di D. Giovanni Francesco Garrigos, già canonico
capitolare ed ex deportato. 72)
L’unico frate del convento di S. Francesco era quindi il P. Filippo (Pellegrino
Uccelletti) da Castel Viscardo. E fu proprio esso ad essere presente alla visita che Mons.
Bonaventura Gazola compì nell’ospedale S. Croce dove era cappellano il 26 giugno 1814,
essendo parroco di S. Pancrazio D. Giacomo Boccanera, fratello dell’ex maire Francesco
Boccanera. Inoltre egli lo accompagnò il 30 giugno per la visita alla chiesa di S. Francesco,
essendo segretario di visita P. Gaudenzio Patrignani da Coriano (Forlì) consultore della
suprema inquisizione e teologo, ma che il 10 agosto Pio VII lo nominò Procuratore
Generale dell’Ordine Francescano ed il 30 settembre Generale e successivamente vescovo
di Ferentino (Frosinone) 25.5.1818 - 18.2.1823).
Mons. Gazola vide il 30 giugno la chiesa di S. Francesco in cattivo stato ma vi
ritornò il 2 agosto per l’indulgenza del Perdono di Assisi e in questa occasione per la prima
volta visitò anche il convento che trovò sconquassato per il cattivo uso che ne aveva fatto la
guardia civica durante l’occupazione napoleonica: “conventum accessit, plurimasque
ruinas vidit, inter quas ea notanda, qua in tectis observantur, quaequae aliter, aliter visi,
per tegularum et laterculorum raptum a popularibus exercitum, contingere potuit”. 73)
Di questo si ricordava bene il P. Gaudenzio Patrignani quando da Generale indirizzò
la sua lettera del 10 dicembre al comune di Corneto, promettendo di interessarsi presso il
Provinciale P. Giovanni Carlo da Roma (6.2.1809 - 6.2.1816) perché mandasse i religiosi.
Fu scelto come guardiano di S. Francesco il P. Francesco Maria (Giovanni La
Monaca da Viterbo (2.9.1782 - 27.2.1856) che era stato deportato in Corsica. Egli accettò
dopo molte tergiversazioni proprio per lo stato miserando del convento e le difficoltà
economiche che vi avrebbe incontrato, per l’elevazione dei generi e con una comunità di 12
frati. Bisognerebbe rileggersi le sue lettere per capire bene questo periodo.
72)
Risoluzioni delle congregazioni capitolari 1800-1873 f. 38 v. (Vi è inclusa tutta la documentazione del caso nei ff.
38 v - 39 v) ASMT.
73)
Visita Pastorale di Mons. Bonaventura Gazola vescovo di Cervia ed amministratore apostolico di Corneto e
Montefiascone 26, 30 giugno 1814 e 2 agosto ff. 55, 62; 75 - 76 AVT.
Egli vi rimase fino a quando fu sostituito dal P. Benedetto da Caprarola il
9.2.1816. 74)
Trattandosi di un periodo difficile ricostruzione storica perché non sempre completo
nella documentazione, come gli elenchi dei religiosi molte volte annunziati e raramente
trovati, ho cercato di presentare ciò che mi è stato possibile reperire.
Credo che questo
sia già un apporto storico giusto specialmente per Tarquinia e la sua storia religiosa e
civile.
Vi si nota per esempio il sindaco Francesco Maria Boccanera che da una parte deve
collaborare con le autorità costituite e dall’altra non può fare nulla di particolare a favore
del campo religioso, pur avendo un fratello prete D. Giacomo, che egli cerca di non fare
comparire e proteggere.
La figura del P. Giacomo Maria Latini da Corneto acquista dei contorni più precisi.
Si conoscono i genitori, i fratelli, la sorella, il loro apporto nelle sue sofferenze, i confratelli
e sacerdoti diocesani espulsi con lui, alcune comunità religiose in cui si formò e visse, le
difficoltà che vi incontrò e l’aiuto che ne ebbe, la sua sofferenza finale con la deportazione
in Corsica, la sua morte in totale donazione a Dio e in fama di santità a Bastia il 16 agosto
1812, nonché le date ed i documenti delle sue ordinazioni suddiaconali, diaconale e
sacerdotale. Cose inedite e quindi meritevoli di essere conosciute.
Luigi Sergio Mecocci
APPENDICE
E’ possibile ricostruire una parte della genealogia dei Latini.
Domenico Pallotta Latini di Viterbo sposa Anna Rossetti dell’Aquila
Alessandro - Luigia - Antonio - Bernardino - Callisto - Pietro - Giuseppe - Biagio
Francesco e Mariano.
Giuseppe sposa Clementina Pampersi
74)
Lettera del P. Generale Gaudenzio Patrignani da Coriano 10.12.1814; Delle 4 lettere del P. Francesco Maria
(Giovanni La Monaca) da Viterbo una sola è datata 27.1.1816, alle altre invece è attribuito l’anno (1 1815 e 2 1816). Vi
è un’altra del delegato G. A. Benvenuti 6.2.1816. Del nuovo guardiano P. Benedetto da Caprarola è quella del
20.7.1816 Tit. XVII, fasc. 7 ASCT. La completa comunità del (1815), compreso un prete con gli 11 religiosi è nella
Vacchetta 1809-1829 APA. Il P. Benedetto da Caprarola è eletto guardiano e P. Fortunato da Boscomare vicario il
9.2.1816 Atti della Provincia Romana 1796-1856 APA.
Costantino e Anna
Callisto sposa Francesca Moretti
Domenico sposa Vittoria Giacchetti
Giuseppe
Domenica risposa Giulia Annibali
Francesca, Anna, Callisto, Maria Luisa, Guendalina, Lorenzo, Giuseppe, Latino Latini
Lorenzo sposa Maria Ducci
Giulio - Teresa - Fernando
Giulio sposa Venturina Giacchetti
Manrico e Vera Latini Falzacappa (Suor Giuliana benedettina di S. Lucia di Tarquinia).
SIGLE ARCHIVISTICHE
APA
Archivio Provinciale Aracoeli - Roma
ASBO
Archivio S. Bernardino - Orte
ASCT
Archivio Storico Comunale - Tarquinia
ASFT
Archivio S. Francesco - Tarquinia
ASGT
Archivio S. Giovanni di Gerusalemme - Tarquinia
ASMT
Archivio S. Margherita - Tarquinia
AVM
Archivio Vescovile - Magliano Sabino
AVT
Archivio Vescovile - Tarquinia
AVV
Archivio Vescovile - Velletri
BIBLIOGRAFIA
Blasi Bruno “Un infausto viaggio” Bollettino dell’anno 1987 (Società Tarquiniense di
Arte e Storia) 45 - 77.
Canonici Claudi “Giuramenti, adesioni e ritrattazioni nel periodo napoleonico e
nella restaurazione: il caso della diocesi di Sutri” Rivista di storia della chiesa in Italia 40
(1986)
405-445.
Canali Giuseppe “Memorie di un prete romano deportato al tempo di Napoleone” La
Civiltà cattolica 85 (1934) vol. II, 611 - 626; Vol. III 41 - 58, 167, 183, 274 - 286, 401411.
Faloci - Pulignani Michele Storia della deportazione dei sacerdoti dello Stato
Pontificio nella
Corsica. (Foligno 1895).
Gioacchini Delfo “Lorenzo De Dominicis da Foligno vescovo giurato (1735-1822)
Bollettino
della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria (1967) Vol. LXIV - fasc. 1,
129-183.
Naselli Carmelo Amedeo La soppressione napoleonica delle corporazioni religiose
(Roma
1986).
Spina Adriano “La deportazione in Corsica di cinque Osservanti del Lazio” (18101814)2.
Archivum Franciscanum Historicum 77 (1984) 448 - 454.
Spina Adriano Diario della deportazione in Corisca del canonico di Albano G.B.
Loberti
(1810-1814) (Albano Laziale 1985).
PRESENZE EBRAICHE A CORNETO
Io, gli Ebrei, li ho guardati, per un motivo o per un altro, sempre con gli occhi del
sentimento. Non tanto per le avverse vicende e le diaspore subite nel corso della loro
storia, quanto per alcuni brani musicali che toccavano più profondamente la mia
sensibilità. Alludo alle note del “Va pensiero” di Giuseppe Verdi, imparato fin dalle prime
classi elementari; e più tardi, all’accorata sofferenza del salmo musicato da Pier Luigi da
Palestrina, il “Super flumina Babylonis”, appreso casualmente in una modestissima
“Schola Cantorum” della mia parrocchia. Per la qual cosa, ogni volta che mi accade di
riascoltare quelle note musicali, sento sempre salire dal cuore un momento di commozione
sia per gli Ebrei schiavi in Babilonia, sia per quei patrioti del Risorgimento Italiano a cui
Verdi faceva riferimento con le più conosciute note del “Nabucco”.
Per restare ancora a questi ricordi infantili, io degli ebrei conservo un’altra
memoria. Ed è questa. Quando seguivo mia madre nella visita annuale in quell’estrema
parte, non consacrata, del Cimitero del mio paese, dove trovavano sepoltura i bambini non
battezzati (e noi in famiglia ne avevamo più d’uno) e gli Ebrei, provavo un’immensa pietà
nel constatare come dopo la morte si dovesse ancora subire una discriminazione laddove il
comune destino ci conduce tutti per il disfacimento della nostra presenza fisica nel mondo.
Ricordo infine di aver notata più volte una breve iscrizione ebraica su di un rocchio
di marmo bianco, all’angolo della chiesa di San Giuseppe, che disparve per non so quale
destinazione al momento che la pubblica Amministrazione dette inizio alla colata di asfalto
su tutte le strade interne del mio paese.
Ora che sono in là con gli anni, mi son messo a scoprire quale influenza abbia avuto
nella storia di Corneto la presenza degli Ebrei, così come feci l’anno scorso riguardo ad
alcune radici albanesi nel territorio della Tuscia.
Mancando qui del tutto, oggi, una presenza ebraica vera e propria, ho cercato di
accedere alle fonti documentate per avvedermi come in un passato assai remoto la
Comunità ebraica a Corneto abbia avuto una notevolissima presenza da essere trascritta
nei documenti d’archivio. Il più antico dei quali, noto come la “Margarita Cornetana”,
riporta i nomi e le vicende di parecchie famiglie semitiche che presiedevano a Corneto ad
operazioni finanziarie di grande portata, almeno per quei tempi, quando le banche forse
non esistevano ancora, e quando più tardi si pensò di istituire un vero e proprio Monte di
Pietà per venire incontro ai bisogni della gente in affari e sfuggire così alle speculazioni
dell’usura.
La prima testimonianza a Corneto la troviamo in un documento notarile del 28
settembre 1297 che si riporta nella stesura originale:
“In seguito al pagamento eseguito in tornesi 1) d’argento e carlini 2) d’argento da
Accuncia di Passannante a nome proprio e di Alberigo di Matteo, Angelo di Jacopo di
Ranuccio di Franco, Francesco di Giorgio, Rollando del fu Rollando giudice e Ranieri di
Egidio, Manuele di Elia ebreo, garantendo la ratifica di Vitale del fu Sabato ebreo, rilascia
quietanza di 200 fiorini 3) d’oro somma dovuta a lui e a detto Vitale, come da istrumento
del notaio Ranuccio di Rollando, e al pagamento della quale Accuncia e i suddetti erano
1)
Moneta coniata nella zecca di Tours (Francia): il denaro ai tempi di Carlo Magno, e il grosso ai tempi di Luigi IX.
Parola derivata dall’antico francese Torneis, che è trasformazione dell’aggettivo latino Turonensis, abitante cioè di
Tours.
2)
Moneta d’oro e d’argento fatta coniare per la prima volta da Carlo d’Angiò; quella d’oro fu del valore di 14 carlini
d’argento, ma ebbe breve durata. Quella d’argento divenne moneta di conto al ragguaglio di 10 per ducato. Ebbe larga
diffusione anche fuori del Regno di Napoli.
3)
Moneta fiorentina: dal secolo XI alla prima metà del XII, solo denaro d’argento. Nel gennaio 1253 fu coniata la
moneta d’oro alla quale rimase il nome di fiorino del peso di gr. 3, 54 della bontà di 24 carati.
stati condannati da Guido, già giudice del Comune di Corneto, come da istrumento del
notaio Gepzio di Pietro.
In Corneto, nel Palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Donadeo, Fortunato
banchiere, Lituardo di Giovanni, frate Gianni camerario del Comune, Bocca di Graziano,
Tuccio del fu Angelo, testi.
Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, illustre prefetto notaro dell’Alma
Roma”.
Da questo primo atto notarile si evince una sentenza grazie alla quale la
magistratura, chiamata a dirimere una contesa sorta fra i sei debitori cornetani e i due
creditori ebrei, condanna i primi a versare 200 fiorini d’oro, come interessi maturati, per
un prestito non precisato, ma certamente finalizzato a non rendere inerti” quelli che pure
un giorno furono instancabili agricoltori e commercianti”. 4)
Cosicché venne a scatenarsi quella “eterna battaglia che si faceva allora fra i due
elementi sociali in guerra tra loro, il frate e l’ebreo, l’uno nel nome di Cristo per la
redenzione economica delle genti, l’altro, nel nome unico e solo del Dio l’argent per il
maggiore incremento dei propri interessi”.
A tal proposito lo storico cornetano Muzio Polidori, nelle sue “Croniche
Cornetane” 5) riporta la seguente notizia, datata anno 1446. “Il capitolo dei Frati Minori di
S. Francesco fu fatto in Corneto, et per provinciale fu eletto un certo fra Jacomo 6) che con
sue prediche et persuasioni indusse i Cornetani a giurar di non ricever più in Corneto
Hebrei che esercitavano usura sopra pegni con intentione di eriggere il Monte di Pietà con
l’aiuto di più cittadini. Partito il frate del Monte restò imperfetto, onde i Cornetani erano
necessitati mandar pegni in Viterbo e Toscanella a gli Hebrei di detti luoghi”. 7)
Nell’anno 1297, secondo la “Margarita Cornetana”, vengono emesse altre tre
sentenze del seguente tenore:
“28 settembre 1297, Corneto.
In seguito al pagamento eseguito in tornesi e carlini grossi d’argento, Bocca del fu
Graziano, a nome anche di maestro Benvenuto notaio, di Giovannino di Iacopo di Alda, di
Francesco di Ventura Speculi, di Pellegrino giudice e di Giovanni del fu Mainardo, Vitale di
Daniele ebreo, garantendo la ratifica di Gionata di Abramo ebreo, rilascia quietanza di 200
fiorini d’oro, dovuta loro da Bocca e dai suddetti, come da istrumento pubblicato dal notaio
4)
Francesco Guerri - “L’origine del Monte di Pietà di Corneto”. Roma, tip. Forzani e C. - 1907.
Muzio Polidori - “Croniche di Corneto”. Grotte di Castro, Tipolitografia C.Ceccarelli - 1977.
6)
Francesco Guerri - “L’origine del monte di Pietà di Corneto”. Roma, tip. Forzani e C. 1907 - pag. 212. “Assai
probabilmente altri non era che fra Giacomo da Rieti”.
7)
Muzio Polidori - “Croniche di Corneto”. Grotte di Castro, Tipolitografia C. Ceccarelli - 1977.
5)
Ranuccio di Rollando, al pagamento della quale erano stati condannati da Guido, già
giudice del comune di Corneto, come da istrumento del notaio Gepzio di maestro Pietro.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Donadeo, Fortunato
banchiere, Lituardo di Giovanni, frate Gianni camerario del Comune, Tuccio del fu Angelo,
testi.
Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, illustre prefetto notaro dell’Alma
Roma.”
Sempre il 28 settembre 1297, a Corneto, si stende il seguente documento notarile:
“In seguito al pagamento eseguito in tornesi e carlini grossi d’argento da Giovanni
Doane, a nome anche di Simeone di Taddeo, di maestro Pietro del fu Bernardo, di
Rollando di Crescenzio, di Paolo di Tommaso e di maestro Pietro di Salvo notaio, Goialo
del fu Deodato e Goialo del fu Elia Ebrei, rilasciano quietanza di 200 fiorini d’oro, somma
dovuta loro da Giovanni e dai suddetti, come da istrumento del notaio Ranuccio di
Rollando, al pagamento della quale erano stati condannati da Guido, già giudice del
comune di Corneto, come da istrumento del notaio Gepzio di maestro Pietro.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Donadeo, Fortunato
banchiere, Lituardo di Giovanni, frate Gianni camerario, Tuccio del fu Angelo, testi.
Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, illustre prefetto notaro dell’Alma
Roma”.
Ed infine, in data 29 settembre 1297, in Corneto, ultima sentenza del seguente
tenore:
“In seguito al pagamento eseguito in monete d’argento da Pietro di Donadeo, a
nome anche di Benencasa di Gianni calzolaio, di Lituardo di Rollando di Cristoforo, di
Gado Focis, di Coronato giudice e di Lituardo di Giovanni Malbocti, Sabato di Vitale e
Benedetto di Salomone ebrei, garantendo il consenso anche di Dactulo di Consiglio ebreo,
rilasciano quietanza di 200 fiorini d’oro, somma dovuta loro da Pietro e dai suddetti, come
da istrumento del notaio Ranuccio di Rollando, al pagamento della quale erano stati
condannati da Guido, già giudice del comune di Corneto, come da istrumento del notaio
Gepzio di maestro Pietro.
In Corneto, nella casa di Paolo di Tommaso, alla presenza di Ildibrandino notaio,
Saladino di Pietro di Saladino, Vanni di Paolo e Jacopo di Angelo di Angeluccio, testi.
Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, prefetto illustre notaro dell’Alma
Roma”.
Da queste quattro sentenze, ci si avvede non solo dell’entità dell’operazione
finanziaria, ma anche e soprattutto dei gravosi interessi che Manuele di Elia, Vitale del fu
Sabato, Vitale di Daniele, Gionata di Abramo, Goialo del fu Deodato, Goialo del fu Elia,
Sabato di Vitale e Benedetto di Salomone, ebrei, pretesero dai rispettivi debitori. Interessi
gravati sicuramente dall’usura se consideriamo, nel primo caso, che i sei debitori dovevano
non solo rifondere il denaro avuto in prestito, ma addirittura pagare una condanna di 200
fiorini d’oro. Allora un fiorino pesava 3,54 grammi in oro a 24 carati, perciò senza lega; e se
si moltiplicano i grammi di un fiorino per il numero dei fiorini si viene al risultato di 708
grammi per un valore, rapportato ai nostri giorni, di oltre 14 milioni di lire.
Due anni dopo, nel 1299, il sindaco di Corneto, tale Francuccio di Pietro Cinnelli, a
nome anche di quelli che lo scriba chiama “boni homines”, vale a dire coloro che gestivano
con lui la responsabilità del potere comunale, cioè Rollando di Crescenzio, Rollando di
Rollando, Pellegrino di Gentile giudice, Angelo di Biagio, Rollando di Ranieri e del maestro
Ventura Cerusico, viene a trovarsi al centro con una grande operazione finanziaria: cioè
alla vendita della dogana del sale.
Da alcuni documenti giacenti nell’archivio Falzacappa, si viene a sapere che per la
costruzione delle Saline di Corneto ci fu un tale contenzioso da promuovere una vera causa
che venne discussa nella Sacra Consulta per iniziativa della Comunità degli Ecclesiastici e
del popolo di Corneto contro il proponente Giuseppe Lipari, nel 1803, ma che aveva
provenienza fin dal 1788.
Non sappiamo dire se alla fine del XIII secolo esistessero o meno le Saline a
Corneto, ma nei documenti notarili sopra citati si viene a parlare di una Dogana del sale. Si
sarebbe potuto trattare di un dazio o di una gabella per il pagamento del sale prodotto sulle
rive del mare e commercializzato sia nell’abitato di Corneto che nei paesi interni del
Patrimonio di San Pietro. Fatto sta che il sindaco, quel tale Francuccio di Pietro Cinnelli,
con il consenso dei sei “boni homines”, fu costretto a dare in appalto o a vendere la dogana
con il cui ricavato pagare gli interessi per debiti contratti con i diversi creditori ebrei i
quali, per non perdere il denaro prestato, erano ricorsi alla mallevadoria di Ventura
cerusico ed altri, alla presenza del notaro Giovanni di Angelo di Amatore.
Non si è a conoscenza della somma avuta in prestito, ma considerando tutti gli
interessi che assommano a 1.268 lire di paparini, 8) 250 fiorini d’oro e 101 lire e 1 soldo 9) e
8)
Designazione generica della moneta dei papi coniata nelle zecche del Patrimonio di San Pietro, a Viterbo prima (circa
il 1269), poi a Montefiascone. Comprendeva denari di mistura e grossi d’argento che hanno per tipo la croce e le due
chiavi pontificie con la dicitura Patrimonium B. Petri.
9)
Nome di una moneta la quale, nell’età carolingia, rappresentò la ventesima parte della lira ideale. Mentre la lira, nel
Medio Evo, rimase moneta di conio per molti secoli, intendendosi, di solito, la lira di denari piccoli (del valore di 20
mezzo, si deve arguire che il prestito richiesto dal Comune agli ebrei e loro soci, doveva
essere stato notevole e dettato da gravi necessità.
Quali?
Si prenda in considerazione il regesto “Margarita Cornetana” del 23 gennaio 1283,
dove si legge:
“In seguito al giuramento di fedeltà al Comune di Roma, prestato dal sindaco del
comune di Corneto in rinnovamento di analogo giuramento fatto ai tempi di Castellano
degli Andalò e in seguito ad adeguata soddisfazione, da parte cornetana alla Camera
dell’Urbe, dei danni recati all’esercito romano sopra Corneto, e all’impegno del Comune di
Corneto di provvedere, nella misura richiesta dal Senato, alla retribuzione dei grascieri...”
si condanna il Comune “al pagamento di 2000 marche d’argento 10) per non avere inviato a
Roma, dietro richiesta del senatore di Roma, venti cornetani de melioribus, i quali
rendessero conto dell’insubordinazione del Comune verso gli ufficiali dell’Urbe addetti alla
custodia della grascia lungo le coste del distretto, vale a dire del rifiuto di consegnare a
questi ultimi le imbarcazioni necessarie all’esportazione di grascia cornetana...” 11)
In parole povere, il Comune di Corneto doveva adempiere a tutte le incombenze per
il fatto di essere incluso nel Patrimonio di San Pietro per cui doveva non solo far fronte alle
necessità alimentari di Roma - che poi furono ripagate a puro titolo onorifico con il titolo
di “granaio di Roma” - ma anche al mantenimento delle soldatesche pontificie e dei
mercenari. Cosicché gli obblighi fiscali dovevano essere mantenuti senza troppe di
discussioni. Se poi si considera ancora le richieste che fece ad esempio il papa Alessandro
VI alla nostra Comunità per le nozze della propria figlia Lucrezia Borgia ed il
mantenimento dello stesso pontefice e della corte papale, rifugiati a Corneto a causa delle
pestilenze che infuriavano nell’Urbe, allora si viene anche a spiegare la necessita di
chiedere prestiti forzosi agli ebrei di stanza a Corneto e dintorni che venivano a trovarsi
creditori della Comunità cornetana. Oggi, con parole più acconcie, si sarebbe detto “les
affaires, sont les affaires”.
Ma ritorniamo all’argomento.
Ritroviamo sempre nella “Margarita Cornetana”, nel periodo compreso fra il 1
ottobre e l’8 ottobre 1299, una serie di regesti notarili grazie ai quali il Sindaco di quel
tempo, Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome anche dei suoi collaboratori definiti “boni
soldi, ognuno, o 12 denari piccoli), mentre per gli affari di maggiore importanza si usava la lira di grossi (del valore di
240 soldi).
10)
Nome di numerose monete e unità di peso di metalli preziosi, in uso nell’Europa occidentale a partire dall’XI secolo.
11)
La “Margarita Cornetana” regesto dei documenti a cura di Paolo Supino - Roma Biblioteca Vallicelliana - 1969. Pag.
51.
homines” vende, come si diceva più sopra, la dogana del sale per rifondere, coi denari
ricavati, agli ebrei e i loro soci, i debiti contratti.
Eccone i testi.
“1 ottobre 1299
In seguito al pagamento eseguito da Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome anche di
Rollando di Crescenzio, di Rollando di Rollando, di Pellegrino di Gentile giudice, di Angelo
di Biagio, di Rollando di Ranieri e di maestro Ventura cerusico, boni homines 12) destinati
dal comune di Corneto ad estinguere, con denari ricavati dalla vendita della dogana, il
debito con interessi contratto con gli infrascritti ebrei, Goialo di Deodato e Goialo di
Mosteto, garanti anche della ratifica di Emanuele di Elia, di Genectano di Abramo e altri
sotii 13) ebrei, rilasciano quietanza di 250 lire di paparini, dovute loro a saldo del mutuo di
400 lire di paparini, per il quale si erano professati debitori principali Ventura cerusico,
Bartolomeo Accemmani, Stefano di Martina e Matteo di Ottaviano, come da istrumento del
notaio Giovanni di Angelo di Amatore.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni da Monte Casoli, Pietro
di Angelo di Giovanni, Giovanni di Pietro di Niccolò, Gregorio di Pietro banditore, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, prefetto auct. notaro, ora scriba della camera
del comune di Corneto”.
“1 ottobre 1299.
In seguito al pagamento eseguito con danari ricavati dalla vendita della dogana, da
Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome dei suddetti boni homines, Vitale di Daniele di
Zacaria procuratore di Benedetto, garanti del consenso anche di Manuele di Elia, di
Salomone di Vitale e di altri sotii ebrei, rilasciano quietanza di 250 lire di denari paparini
dovute loro a saldo del mutuo di 400 lire della stessa moneta, per il quale si erano
professati debitori principali Leonardo di Rollando di Cristoforo, Angelo di Biagio Gado
Focis, Griffulo di Niccolò e Jacopo di Ferraguto, come da istrumento del notaio Giovanni
di Angelo di Amatore.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni da Monte Casoli
podestà del Comune, Giovanni di Pietro di Niccolò, Gregorio di Pietro banditore, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, prefetto auct. notaro, dell’alma Roma, ora
scriba della camera del comune di Corneto”.
12)
Boni homines - Buoni cittadini scelti fra i migliori, ossia gli eletti. Si potrebbero configurare come gli odierni
assessori, o collaboratori e consiglieri del podestà o del sindaco.
13)
Sotii - I soci degli ebrei.
“1 ottobre 1299.
In seguito al pagamento eseguito, con denari paparini ricavati dalla vendita della
dogana, da Francuccio di Pietro Cinnelli, sindaco del comune di Corneto, a nome anche dei
suddetti boni homines, Genectano di Abramo, Matasia di Leone e Vitale di Datilo,
procuratore di Datilo suo padre, garantendo la ratifica anche di Salomone, di Datilo e di
altri sotii ebrei, rilasciano quietanza di 250 fiorini d’oro, dovuti loro a saldo del mutuo di
400 lire di denari paparini, per il quale si erano professati debitori principali Fortunato
banchiere, Lituardo di Giovanni Malbocti, Tommaso di Pietro di Bellafonte e Rollando di
Crescenzio, come da istrumento del notaio Giovanni di Angelo di Amatore.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni da Monte Casoli
podestà, Giovanni di Pietro di Niccolò, Pietro di Angelo di Giovanni, Gregorio di Pietro
banditore, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not. ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“1 ottobre 1299.
In seguito al pagamento eseguito da Francuccio di Pietro Cinnelli, sindaco del
comune di Corneto, Vitale di Sabato e Goialo di Mosteto, garantendo la ratifica anche di
Datilo di Consiglio e di altri sotii ebrei, rilasciano quietanza di 250 lire di denari paparini,
dovute loro per mutuo di 400 lire, per il quale si erano professati debitori principali
Benvenuto bottaio, Pellegrino giudice, Matteo di Bonifacio e Pietro di Salvo, come da
istrumento del notaio Giovanni di Angelo di Amatore.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni di Monte Casoli
podestà, Pietro di Angelo di Giovanni, Giovanni di Pietro di Niccolò, Gregorio di Pietro
banditore, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme pref. auct. not. ora scriba della camera del
comune di Corneto”.
“2 ottobre 1299.
Benedetto de Valle ebreo rilascia al suddetto Francuccio sindaco di Corneto,
pagante a nome anche dei sei suddetti boni homines, con denaro ricavato dalla vendita
della dogana, quietanza di 30 lire di paparini dovutegli dal Comune per mutuo da lui
concesso, come da istrumento del notaio Ranuccio del fu Rollando.
In Corneto, nella camera del podestà, alla presenza di Tuzio di Angelo e Luca
famulus 14) del podestà, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not. ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“4 ottobre 1299.
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro eseguito con denari ricavati dalla vendita
della dogana dal Sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche di suddetti boni homines,
Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza di 88 lire di denari paparini, dovutegli per mutuo
di tale somma concesso al Comune, per il quale si erano professati debitori principali
Rollando di Crescenzio e Pietro di Salvo, come da istrumento di debito del notaio Pietro del
fu Tommaso e da istrumento di condanna del notaio Leonardo di Paolo Guidete.
In Corneto, nella apotheca 15) di detto Francuccio, alla presenza di Provenzale di
Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Gerardo, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not., ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“4 ottobre 1299.
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denari ricavati dalla vendita
della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei suddetti boni homines,
Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli ad estinzione
di un mutuo per tale somma concesso al Comune per il quale si erano professati debitori
principali Nicola Marronis e maestro Accuncia di Pietro Scorticanis come da istrrumento
di debito del notaio Leonardo di Paolo.
In Corneto, nella apotheca di detto Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu
Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Gerardo, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not. ora scriba della
camera del comune di Corneto.
“4 ottobre 1299
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla
vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei suddetti boni
homines, Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli per
14)
Famulus - Servitore.
mutuo di tale somma da lui concesso al Comune, per il quale si erano dichiarati debitori
principali Paolo di Tommaso e Muzio di Corrado, come da istrumento di debito del notaio
Pietro del fu Tommaso e da istrumento di condanna del notaio Leonardo di Paolo Guidete.
In Corneto nella apotheca di detto Francuccio, alla presenza di Procenzale del fu
Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Gerardo, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme, Urb. pref. auct. not., ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“4 ottobre 1299
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla
vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei sei suddetti boni
homines, Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli per
mutuo di tale somma concesso al Comune per il quale si erano professati debitori
principali Lituardo di Rollando e Angelo Cerii come da istrumento di mutuo dei notai
Paolo di Tommaso e Cristofano del fu Cristofano.
In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu Gerardo
di Provenzale, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urb. pref. auct. not., ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“4 ottobre 1299
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla
vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei sei suddetti boni
homines, Benedetto di Salomone ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro
dovutigli per mutuo di tale somma concesso al Comune per il quale si erano professati
debitori principali, presso di lui e presso Zacaria di Zacaria suo rappresentante, Francesco
Cerruti e Iacopo fisico, come da istrumento del notaio Iacopo di Gianni Letie.
In Corneto nella apotheca di detto Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu
Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme, Urb. pref. auct. not, ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“4 ottobre 1299
15)
Apotheca - Bottega o magazzino.
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito dal sindaco di Corneto
Francuccio a nome anche dei sei suddetti boni homines, Amore di Matasia e Salomone di
Vitale ebrei rilasciano quietanza a saldo, l’uno di 50 fiorini d’oro dovutigli per mutuo di
tale somma concesso al Comune, per il quale si era professato debitore principale Gianni
Bussantis, come da istrumenti dei notai Mattia di Nicola e Giovanni di Angelo di Amatore.
In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu
Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Rub. Pref. act. not. ora scriba della camera
del comune di Corneto”.
4 ottobre 1299
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito dal sindaco di Corneto
Francuccio a nome anche dei sei suddetti boni homines, Amore di Matasia e Salomone di
Vitale ebrei rilasciano quietanza a saldo, l’uno di 50 fiorini d’oro dovutigli per mutuo di
tale somma concesso al Comune, per il quale si erano professati debitori principali Biagio
di Perna e suo figlio; l’altro di 44 lire 16) e 1 soldo, dovutigli per mutuo da lui concesso al
Comune, per il quale si era professato debitore principale Gianni Bussantis, come da
istrumenti notai Mattia di Nicola e Giovanni di Angelo di Amatore.
In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu
Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Rub. Pref. act. not. ora scriba della camera
del Comune di Corneto”.
“8 ottobre 1299.
In seguito al pagamento eseguito con denaro ricavato dalla vendita della dogana dal
sindaco di Corneto Francuccio, a nome suo e dei suddetti boni homines, Zacaria del fu
Zacaria ebreo, garantendo il consenso anche di Benedetto di Salomone, rilascia quietanza
di 57 lire e mezza di denari paparini dovutigli per mutuo di tale somma concesso al
comune di Corneto per il quale si erano professati debitori principali Ventura Bondimanni,
Angeluccio fabbro e Angelo di Romano detto Amicaster, come da istrumento del notaio
Leonardo di Paolo Guidete.
In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Crescenzio di Accuncia,
Bavoso del fu Guglielmo, Vitello di Rollando di Ranieri, testi.
16)
Vedi nota n°9.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urb. pref. auct. not., ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
“9 ottobre 1299.
In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla
vendita della dogana da Francuccio, sindaco di Corneto, a nome anche dei sei suddetti boni
homines, Moscetto di Gaio ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro, dovutigli per
mutuo di tale somma concesso al Comune, per il quale si erano professati debitori
principali Accettante di Griffulo e Secondiano di Stefano, come da istrumento del notaio
Giovanni di Andrea.
In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Giovanni tubator 17) e
Fazio di Gottifredo, testi.
Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urb. pref. auct. not., ora scriba della
camera del comune di Corneto”.
Fra Cornetani ed Ebrei i rapporti difettarono di cordialità se i “prestatori” di denaro
si videro costretti a ricorrere al Senato dell’Urbe perché venissero rispettati gli accordi
intercorsi e stipulati fra le parti “pro bono pacis”. Accadde infatti che nel 1301, tali
“Musetto ebreo e suoi soci” fecero ricorso contro Rollando di Cristofano sindaco e
procuratore del Comune di Corneto per aver loro impedito di esportare del grano.
Naturalmente il Comune venne condannato non solo a rifondere un mutuo di 600 fiorini
d’oro, ma ricompensare pure i danni per aver ostacolato l’operazione commerciale.
La sentenza, sempre registrata nella “Margarita Cornetana” è del seguente tenore:
“11 aprile 1301.
Alberigo del fu Matteo di Fortunato rilascia a Paolo di Giovanni Burdini, giudice
sindaco e procuratore del comune di Corneto, come da istrumento di istituzione rogato e
letto nel consiglio speciale e generale da Ranieri di Simeone notaio, quietanza di 600
fiorini d’oro dovutigli dal Comune per aver egli concesso un mutuo di tale somma a
Lituardo di Rollando di Cristofano sindaco e procuratore del comune di Corneto come da
istrumento di sindacato del notaio Angelo di Gentile, il quale sindaco versò parte di detti
fiorini alla Camera dell’Urbe, in occasione di una diffida senatoriale per 1000 lire di
17)
Tubator - Suonatore di tromba, probabilmente banditore.
provisini contro il Comune, e parte impiegò pro recolligendis bestiis et vaccis 18) di
Alberigo e di altri Cornetani trattenuti a Roma per mandato dei senatori, a causa di detta
diffida, motivata dal fatto che il Comune aveva impedito a Musetto ebreo e ai suoi sotii di
esportare da Corneto una certa quantità di grano. Alberigo rilascia altresì quietanza di 107
lire, 4 soldi e 4 denari, 19) somma riconosciuta spettagli da Giovanni tubator sindaco di
Corneto, come da istrumento di Sindacato di Angelo di Gentile notaio, pro scripturis et
expensis factis et pro recolligendo 20) detto bestiame sequestrato a lui ed altri Cornetani dai
senatori di Roma, in occasione della suddetta diffida.
In Corneto, nel palazzo comunale, presente il consiglio speciale e generale e
Tancredi giudice, maestro Iacopo medico, Cezio, Lituardo di Rollando di Cristoforo,
Angelo Cefi, Ranuccio di Rollando di Cristoforo notaio, Ranieri di Simeone, notaio, testi.
Rogito di Egidio di Ranieri giudice di Corneto, auct. alme Urb. pref. not”.
Intercorse poi fra le parti una tregua se nel 6 gennaio 1305 tale Salomone ebreo
venne a vendere la dodicesima parte della dogana del sale, come si diceva nel contratto
notarile del 1. ottobre 1299, offerta probabilmente come garanzia per un precedente
prestito.
“6 gennaio 1305.
Fazio del fu Gottifredo dona a Paolo del fu Francesco, per i meriti di questi presso di
lui, ogni diritto goduto sulla dodicesima parte della dogana del sale di Corneto, per la
vendita già fattagliene da Salomone ebreo, come da istrumento di vendita del notaio
Matteo di Nicola.
In Corneto, nell’apotheca di Muzio di Corrado, presente Muzio, Rollando di
Ildibrandino, maestro Egidio di Ranieri, maestro Pietro di Pietro di Niccolò e maestro
Angelo di Simone, testi.
Rogito di Fortunato del fu Bartolomeo da Corneto, auct. alme Urb. pref. not”.
Ma nello stesso anno o alla fine dell’anno precedente, accadde un fatto di sangue e
di estorsione in casa di Benedetto di Salomone il quale, forse troppo frettolosamente, aveva
sporto denuncia contro alcuni cittadini cornetani, accusandoli della responsabilità di
18)
Pro recolligendis bestiis et vaccis - al fine di riunire insieme le bestie e le vacche.
Moneta medioevale d’argento del peso di circa gr. 1,50, posta da Carlo Magno a base della sua riforma monetaria.
12 denari costituivano un soldo e 20 soldi una lire. Per molti secoli venne coniato in Germania, in Francia, in Italia, ma
la moneta non conservò a lungo la composizione metallica e il peso fissati in origine da Carlo Magno.
20)
Pro scripturis et expensis factis et pro recolligendo - rimborso per le trascrizioni e le spese fatte come pure per
riunire il bestiame sequestrato.
19)
alcuni delitti. Ma o per mancanza di indizi sicuri o per minacce avute o per evitare
maggiori conseguenze all’interno della propria casa e della propria famiglia, ritirò la
querela e pagò i danni morali ai presunti responsabili.
Non esistono documenti e
testimonianze sufficienti a stabilire la verità di quel misfatto; ma fra i Cornetani e gli Ebrei
non doveva correre buon sangue se non altro per l’usura ed il rigoroso rispetto delle
convenzioni stipulate fra prestatori e debitori.
Ecco il testo di quell’accadimento:
“11 gennaio 1305”
Benedetto di Salomone ebreo, il quale sua temeritate volens nocere communi et
specialibus de Corneto, 21) aveva sporto denuncia presso i senatori di Roma contro il
Comune e determinate persone di Corneto, vale a dire Gerrado di Guglielmo complice
macellaio, Locio suo figlio, Giordano di Gianni di Giordano calzolaio, Pucio di Amicaste,
Pucio di Paolo di Guidetta, accusandoli di furto di beni dalla sua casa, sita in contrada S.
Clemente, confinante con le vie pubbliche per due lati, e con i beni di Benvenuto bottaio e
Nicola di Leonardo vascellarius 22) per gli altri, nonché della morte di suo figlio Salomone,
danni per il risarcimento dei quali avrebbe fatto richiesta presso la Curia del Campidoglio,
o la Camera del capitano del Patrimonio o la Curia del camerario pontificio, di una forte
somma di denaro, dichiara a Gianni di Gianni di Guido da Viterbo, podestà del popolo e
del Comune di Corneto, di rinunciare a qualsiasi pretesa avesse avanzato per detto furto e
per le violenze che aveva detto connesse con la morte di suo figlio, di ritirare le denunce
sporte contro il Comune e di liberare a proprie spese i cornetani Angelo di Romano detto
Amicaste, Nicola di Bartolomeo Celamelli detto Scapetla e Nardo di Giordano, già incorsi
nella sentenza di bando ed ora da lui riconosciuti innocenti.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Rollando di Rollando giudice,
Rollando di Crescenzio giudice, Ranuccio di Rollando notaio, Gianni di Bongianni, maestro
Aiuto medico, Coccus, Simeone, maestro Accuncia di maestro Pietro cerusico, Barnabeo
Cerruti et plures alii testes.
Rogito di Iacopo di Gianni Lectie, alme Urb. pref. auct. not”. 23)
21)
Sua temeritate volens nocere communi et specialibus de Corneto. - Intendeva fare del male, per sua sconsideratezza,
al Comune e a particolari cittadini di Corneto.
22)
Vascellarius - vasaio.
23)
Et plures alii testes - e numerosi altri testimoni.
In un atto del 1311, risulta che un tale Benedetto ebreo era proprietario di un terreno
che confinava con altro terreno di tale Tartarino di Cozio, venditore al Comune, nella
persona del sindaco Tuzalo di Angelo, di due terre site in Corneto.
Ecco il testo:
“21 ottobre 1311
Tartarino di Cozio vende al comune di Corneto, in persona del sindaco Tuzalo di
Angelo, due terre site in Corneto, delle quali una confinante con le proprietà di
Pandolfuccio da Tarquinia, di Cecco di Gottifredo, di Benedetto ebreo e di Oddone da
Tarquinia, l’altra con le proprietà di Baldo da Tolfa Nuova, di Tommaso di Vincenzo e di
Lucarello di Ceccolo Caprette, per il prezzo di 39 lire e 5 denari di paparini ed un tornese
d’argento, somma interamente versatagli, in fiorini d’oro, da detto sindaco.
In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Salvo, Ranieri di
Ruggero e Rollando di Paolo, testi.
Rogito di Niccolò di Martocio da Amelia, imp. auct. not. ed ora notaio della camera
del comune di Corneto”.
Verso la fine del XIV secolo, un tale Bernardone de Serris, alla testa di un esercito di
Brettoni, orde feroci con le quali il cardinale Roberto dei conti di Ginevra aveva
incominciato una guerra in Italia, su mandato di Gregorio XI, approdò alle nostre
contrade. Spingendosi fino al nostro territorio e minacciando le popolazioni del
Patrimonio di San Pietro, costrinse il papa Bonifacio IX alla difesa dello Stato Pontificio.
Cosicchè dietro richiesta della popolazione cornetana, il Pontefice autorizza una
convenzione fra il Comune di Corneto e gli Ebrei residenti nella nostra città, grazie alla
quale quest’ultimi dovevano contribuire alle spese per la difesa della città e del territorio.
Ecco il testo:
“ 6 marzo 1397
Bonifacio IX, in seguito ad una supplica rivoltagli dalla popolazione cornetana,
autorizza la convenzione prevista tra il comune di Corneto da una parte e Vitale, Deodato
del fu Manuele di Deodato ed altri ebrei residenti in Corneto dall’altra, in base alla quale
detti ebrei verseranno mensilmente al capitano e ai consoli di Corneto, per contribuire alle
spese necessarie per la difesa del Comune da Bernardone de Serris e dai suoi seguaci
bretoni, otto fiorini fino al ritorno di Bernardone all’obbedienza della Chiesa e,
successivamente, quattro fiorini.
In Roma, in S. Pietro.
Copia di Paolo di Angelo di Cecco di Pandolfuccio da Corneto, alme Urb. auct. not.
publ. et iudex ordin., 24) ora cancelliere e notaio delle rifomagioni del comune di Corneto,
eseguita per mandato di Pietro di Giovanni Tardi gonfaloniere, Giovanni di Francesco e
Antonio di Muzzalo consoli, Cello di maestro Gerardo, capitano dei Cinquecento”.
Di questo avvenimento, troviamo conferma nelle “Croniche Cornetane” di Muzio
Polidori il quale così registra nel suo manoscritto:
<< Li medesimi Brittoni, guidati da Bernardone Serra, continuavano nel far
scorrerie et invasioni in quel di Corneto, et li Cornetani per meglio resistere alle spese della
difesa, imposero agl’Hebrei che habitavano in Corneto un datio a raggione di otto fiorini
per testa durante la guerra, et cessante a raggione di quattro fiorini per testa. Et il Papa con
sua bolla registrata nei Privilegi conferma la sudetta impositione di gabella>>.
Mentre un secolo dopo, lo stesso Camillo Falgari, detto Vallesio, nelle “Memorie
Istoriche della città di Corneto” ritorna in argomento con maggiori dettagli.
<<Ma l’anno seguente passato ad altra vita il Cardinale di Ginevra che nello scisma
aveva preso il nome di Clemente VII, gli fu surrogato Pietro di Luna col nome di Benedetto
XIII, uomo astutissimo, il quale abboccatosi col Re Martino d’Aragona, a Marsiglia, ed
invitatolo ad Avignone, seppe sì bene impegnarlo per la sua parte che unitamente
stabilirono d’opprimere Bonifazio al quale effetto doveva venire con l’armata a
Civitavecchia, che lì sarebbe consegnata con lo sborzo di 12 mila fiorini da Giovanni di Vico
e di lì sarebbe passato a Roma scortato dal Conte di Fondi che aveva intelligenza con alcuni
Romani; per dar calore a questo disegno vennero in grosso numero i Bretoni condotti da
Bernardo Serra nella campagna di Corneto minacciando d’assediarla; onde li cittadini si
posero sollecitamente a raccorre soldati, e per supplire alle spese imposero con licenza del
Pontefice un dazio d’otto fiorini a testa per Ebreo che dimorasse in città durando la guerra
e quando questa cessasse quattro, ma non avendo per varie difficoltà insorte potuto venir
sù l’armata in Italia, l’Antipapa, e ricusando Giovanni di Vico di consegnare ad altri, che
all’istesso Benedetto la rocca di Civitavecchia, svanì questo disegno, e li bretoni doppo
avere inferiti de danni al territorio, si ritirarono>>.
24)
Alme Urb. auct. not. publ. et iudex ordin. Notaro pubblico dell’alma Roma e giudice ordinario.
Il documento più lungo, che si trova nell’Archivio Storico Comunale, è registrato nel
libro delle “Reformationes” ossia delle deliberazioni che il Comune prendeva a quei tempi.
Siccome gli Ebrei, almeno si suppone, avrebbero minacciato di lasciare il nostro territorio
per cui sarebbero venuti a mancare i prestatori di denaro che permettessero ai privati e alla
comunità di contrarre mutui, purtroppo necessari per far fronte alle calamità naturali, alle
invasioni militari e alle richieste del Senato Romano, il Comune di Corneto si vide costretto
a richiamare qualche ebreo il quale, cognito di tutte le vicende del passato e più sopra
riportate, accettasse di trasferire sè e la sua famiglia in Corneto a condizioni precise così
come risultano dalla trascrizione della surriferita deliberazione. Siccome l”incipit” e la
conclusione sono stati scritti in latino, il testo vero e proprio della convenzione si riporta
com’è stato scritto, in volgare:
<<Nel nome di Dio Amen. Nell’anno 1453 dalla nascita di Nostro Signore, Indizione
prima; nel tempo del Santissimo in Cristo Padre e Signore Nicola, per divina provvidenza
Papa V; nel giorno ventisei del mese di agosto.
In presenza di me, Fazio notaio e vice cancelliere e degli infrascritti testimoni,
espressamente a ciò chiamati, i Magnifici Signori; Signor Egidio Cerrino Dottore in Legge e
Gonfaloniere, Pantaleone Paltoni e Angelo di Antonio Bartolomeo Truzi Consoli e Battista
Villani Capitano dei Cinquecento del Comune, popolo e città di Corneto; con autorità,
arbitrio e potestà loro concessa e attribuita dal Santissimo nostro Signore Papa con Suo
Breve e col potere loro conferito dal Consiglio generale e speciale, come diffusamente si
legge nel libro delle Riforme di detto Comune per mano di me Vice cancelliere suddetto, di
condurre un giudeo con o senza la propria famiglia da qualunque luogo e dove più
facilmente si potrà avere, al fine di farsi prestare e concedere denari ad interesse, come è
ampiamente previsto nel medesimo breve ed autorizzazione; del quale breve il tenore è il
seguente, vale a dire sul retro.
Ai diletti figli Ufficiali al Consiglio e al Comune della
nostra città di Corneto. Papa Nicola V.
Diletti figli salute ed apostolica benedizione. In base a quanto riferitoci da molte
persone degne di fede, specialmente dal nostro venerabile fratello Bartolomeo Vitelleschi
vostro Vescovo che con insistenza e umilmente ha avanzato suppliche a vostro favore,
apprendemmo la, diremmo quasi, incredibile vostra necessità, tanto in ogni tempo quanto
presentemente, di messi e biade che ogni anno vi affligge, al punto che se non si procurano
denari (altrui, forestieri) ottenuti anche ad usura, certamente ne seguiranno gravi danni ed
un intollerabile pregiudizio. Dunque, al fine di porre il giusto rimedio a questa vostra
necessità, con autorità apostolica, concediamo liberamente e impunemente il permesso di
condurre presso di voi un giudeo, con o senza la propria famiglia, da qualunque luogo e
dove più facilmente e comodamente si potrà avere, al fine di farsi prestare e concedere
denaro a prestito per i cittadini e abitanti vostri ed anche altri che desiderino averlo, con le
promesse, patti, benefici, convenzioni e con la opportuna garanzia; e questo permesso
comandiamo che venga osservato da tutti e singoli ufficiali nostri e della Chiesa Romana,
presenti e futuri, di qualunque stato, grado e preminenza, non ostanti diritti, disposizioni
apostoliche, statuti, anche vostri e seppur confermati con apostolica autorità, e qualsivoglia
altri che stabiliscano il contrario; anche riguardo a questi, stabiliamo in modo particolare
secondo quanto premesso, pur essendo tali affari di quelli che meritano una menzione
speciale che il loro concetto sia impresso parola per parola nell’animo dei presenti.
Vogliamo ancora, che detto giudeo, del quale vogliamo sapere espressamente il
nome e a quale famiglia appartenga, porti in evidenza il segno con il quale (gli Ebrei)
vengono distinti dai cristiani e faccia tutto ciò che deve ed è tenuto a fare a norma delle
disposizioni comunali.
Dato in Roma a San Pietro, sotto il sigillo del Pescatore, nel giorno VIII giugno 1453
nell’anno settimo del nostro pontificato. Pietro di Luna>>.
Per il bene generale di detto comune e delle sue persone, con autorità concessa dalla
Sede apostolica e dal detto Consiglio, i medesimi Signori Ufficiali a nome di detto Comune
da una parte, e Salomone di Angelo da Montefiascone ebreo, dall’altra, addivennero agli
infrascritti capitoli, come nel presente istromento particolarmente ed in gergo volgare è
contenuto; ed anche in virtù di attento esame ed incoraggiamento del Reverendissimo in
Cristo Padre e Signore Nicola Albergati di Bologna, Rettore della Provincia del Patrimonio,
nostro eccellente Signore, fattici con sue lettere il tenore delle quali, a garanzia di detto
Salomone, più sotto viene riportato. 25)
Et primo lu decto Salomone comanda et stipula per sè et sua famiglia, suoi garzoni
et factori tucti et singuli capituli infrascripti che possano et vogliano prestare supra pegni
che allora saranno portati ad impegnare ad rascione di bolognesi dui per ciaschun ducato
d’oro per ciasche mese alli ceptadini et alli forestieri ad rascione de bolognesi tre per ducati
d’oro per ciasche mese et da uno ducato in giù denaro uno per bolognese cioè per ciasche
mese intendendosi dì per mese et mese per dì non obastante lege canonica et civile di
Corneto et constitutione del patrimonio con questo inteso che se nesciuno errore o abaglio
25)
Questa premessa alla “reformatio” e la conclusione dell’atto notarile sono scritte in latino; perciò, per facilitare il
lettore, le abbiamo tradotte in italiano; mentre la parte centrale, scritta in gergo volgare, viene riportata nella sua
integrità, perché facilmente decifrabile.
ci fusse che sia tenuto lu decto Salomone at satisfactione del doppio dell’abaglio tollendo
più ch’el debito senza altra pena di corte. Item che lu decto Salamone famiglia garzoni et
factori possano et ad essi et ciaschuno d’essi sia lecito et quanto fusse de lor voluntà et non
più altra prestare supra li pegni delli ceptadini di Corneto et habitatori d’essa ceptà et che
ad esso Salamone et ad suoi factori et garzoni debiano observare tucti li pacti et
conventioni da farsi a loro et suprastessero supra alcuna posessione che omne pacto et
conventione che facesse vaglia senza alcuna exceptione di rascione o vero di facto ad senno
del savio delli decti prestatori. Item che possano et a loro sia lecito de prestare grano et
orzo a qualunque persona la domandasse et che del decto grano et orzo per essi giudei et
ciaschuno di loro possano e digano recavare et adomandare la terza parte più, cioè sieno
tenuti et obligati rendare et respondere et adomandare la terza parte più, cioè sieno tenuti
et obligati rendare et respondere la terza parte più in nella exstate tunc proxima de venire
et secondo li pacti et convectioni se farano infra essi. Item che de omne instrumento et
scriptura publica overo private che facessero o facessero fare se intenda essere valido et
valide et senza alcuna finctione o exceptione di pura et necta quantità fuor che nelli decti
instrumenti et scripture se conterrà non obstanti statuti delle ceptà de Corneto
reformationi o constitutioni del patrimonio o altre legi che in contrario dicessero et che si
dia fede alli loro libri et bastardelli grandi e picculi come fossero carte pubbliche senza
alcuna exceptione così di denari prestati come di credenze.
Item dictus Ludovicus Salamonis famiglia garzoni et factori siano tenuti ad tenere et
conservare li pegni che li serano impegnati per essi ceptadini et habitatori d’essa ceptà per
spazio et termine di mesi XVIII et alli furistieri per termine d’uno anno et se in del dicto
termine non si reschotessero li decti pegni per li patroni che li impegnassero o per altro in
loro nome o che non si concordassero con essi giudei che esso termine passato o decorso di
intenda essi pegni esser perduti delli quali li decti prestatori possano vendere et alienare et
farne come di loro cose proprie senza alcuna exceptione nè restitutione di pegno
impegnato che più valesse. Item che li decti iudei possano et vogliano trarre et mutare
pegni da impegnarsi o da vendere o da impegnare fore di Corneto et dentro in Corneto di
qualunque persona fussero ad loro arbitrio et voluntà in omne loco che piacesse portarli
che piacesse portarli senza alcuna gabella o vero passagio o licentia di dì et di notti
palesemente et ocultamente et similmente li furistieri che non habitassero in Corneto
possano arrecare ed impegnare et cavare omne pegno che recassero ad impegnare alli detti
prestatori senza alcuna consegnatione di gabella o licentia di gabellare non obstante alcuno
statuto o altra cosa che facesse in contrario. Item che lu decto commune di Corneto et li
offitiali d’esso comune per li tempi fussero sieno tenuti et debiano lu decto Salamone et
famiglia predicta et li suoi beni defendere da ciascuna persona lor volessero molestare o
vero derobare indebitamente nella ceptà di Corneto et li offitiali d’essa per li tempi fussero
sieno tenuti et obligati essi giudei et lor pegni defendere da tucti et singoli officiali volenti
loro per cascione delli decti capituli in alcuna cosa molestare o vero inquietare. Item che lu
decto Salamone per sè et suoi garzoni et factori possano et sieno tenuti ad prestare nella
ceptà di Corneto da mo et dal dì della stipulatione del presente capitolo et da poi a loro
petitione et voluntà salvo non ce fusse cascione legitima che impedissero essi giudei li
fussero manchati alcuno pacto delli capitoli supradecti o vero factoli alcuno
rencrescimento per lu quale s’intentassero o deliberassero non sequire et mantenere lu
decto prestito allora vogliono potere riscotare et recavare tutto quello havessero prestato
con utile come è decto di sopra et più che lu decto Salamone sia tenuto et obligato in
termine d’uno anno incomenziando a dì XXVI del presente mese sopradecto havere
prestati ducati octo cento et più se più porrà ad sua voluntà. Item che tucti et singoli
capitoli et pacti in infrascripti remangano et sieno tenuti et observati rari et fermi in suo
robore et fermezza et che possano rescotare et fare reschotare tucte et singole cose
duessero exsigere recepare et havere sopra le pignora o alla fede o per istrumento o
scriptura publica et privata et per qualunque altro modo recepare duessero della qual cosa
li sia administrata sumaria rascione senza alcuna exceptione et senza piato nè lite non
obstante statuto et reformatione che in contrario facesse o dicesse. Item che tucti et singoli
capitoli suprascripti et infrascripti se intenda et devianosi intendere puramente et senza
alcuna exceptione dolo o ver fraude ma sulamente et puramente come facciono et sono
scripti ad litteram senza alcuna interpretatione et alcuno dubio nascesse o vero nelli decti
capituli supponesse che lu decto dubio si intenda in favore et utilità delli decti giudei et
non il loro detrimento nè danno se debia interpretare et intendare et non altramente. Item
che li decti Giudei possano mantenere et havere loco per loro sepulture et possano
seppellire li loro corpi delli morti loro dove seppellire l’altri è stato et è consuetudine et in
nello loro loco consueto et dire lu loro offitio alli loro morti come è stato consueto et che le
loro sepolture non li sieno molestate nè facto recrescimento tanto di dì quanto che di notte
et che li sia lecito bisognando comperare novo territorio per seppellire essi morti e che
possano dire lor uffitii nella sinagoga et fare loro cerimonie come fano et dicono l’altri
giudei. Item che lu decto Salamone sua famiglia garzoni et factori in ciascuna cosa
occurrente delle predecte nella ceptà di Corneto debiano esser tractati tenuti et reputati
come ceptadini d’essa ceptà di Corneto oltra li decti capitoli et ciascuno di loro così nelle
questioni civili come criminali et etiam diu non sia facto contra li decti capitoli o
infrascripti nè pozano nè debiano essi giudei esser constrecti ad prestanza alcuna in
commune nè ad datio o pagamento sì ordinario come exordinario et sieno franchi et liberi
da omne subsidio che occurresse per l’avvenire o bisogno del commune o vero che per li
offitiali di sancta ecclesia fusse imposto et sieno essi giudei exempti di guardia sì di dì
come che di notte et da omne altra angaria et per angaria et factioni del commune et da
cavalcate et hoste. Item che per alcuno modo o cascione li decti denari o vero robbe delli
decti prestatori non si debiano molestare nè sequestrare per nesciuna rephensaglia nè per
nesciuna cascione debito o diveto malleficio ex ordinatione o danno dato per alcuno delli
principali o famiglia o factori o vero garzoni del decto prestatore che contra d’essi supra
d’essi per nesciuno modo o vero cascione nesciuno officiale nè altra persona possa nè debia
directe vel indirecte adrestare et inquietare nè alcuna cosa pigliare pertinenti et spectanti
ad essi prestatori et si li decti officiali overo alcuna altra persona de qualunque conditione
se fusse li decti prestatori ed denari et robba fusser molestato che lu commune della ceptà
di Corneto sia tenuto et obligato ad defendarlo da omne molestante persona. Item che se
per nesciuna reprensaglia concessa o vero da concedarsi per alcuno tempore durante li
decti capitoli non si intenda nè possa intendersi esser facta supra li denari o robbe delli
decti iudei prestatori ma li decti denari et robbe se intendano esser franche et securi senza
nulla conditione o vero che essi denari si possano recepare et restituire a quelle persone
che l’hanno prestati nelli decti prestiti et similmente per nesciuno officiale non possano li
decti denari et robbe per nesciuno modo se possano intersire o vero sequestrare ad
petitione de nesciuna persona et se fussero intersiti o vero sequestrati lu decto
intersimento et sequestramento non vaglia nè tenga nè intendasi come se non fusse facto.
Item pui dice lu decto Salamone che li sia lecito ad sè et ad sua famiglia et garzoni et ad
omne ceptadino et forestiero a chi prestassero loro denaro che li decti prestatori possano
adomandare utile et capitale secondo pacti et conventioni che havaranno colli decti
prestatori et sola tenuta rascione somaria secundum scripitutu di iudicio tanto d’utile
quanto di capitale non obstante legi et costitutioni. Item che li decti denari prestati con
pegno o senza pegno per lu decto Salamone garzoni o factori per lu tempo passato li sia
lecito rescotere lu capitale e l’utile et si alcuna persona volesse pagare parte della quantità
delli denari li quali havesse receputi in prestito che prima debia pagare lu merito in sino ad
quel dì et lu resto mectarlo ad suo capitale non obstante lu tempo dichiarato di supra del
tenere li decti pegni uno anno et mezzo ad ceptadini et alli furistieri uno anno et ad voluntà
di quelle persone che volessero impegnare fussero et determinassero colli decti Iudei di
diminuire et abreviare lu decto termine d’uno anno et mezzo come si permecte alli
cornetani et alli foristieri uno anno che li sia lecito farlo et intendasi li decti pegni essere
delli decti prestatori propri passato lu decto termine determinato infra loro secondo che
apparirà nelli libri et scripture loro et questo capitolo si intenda quando lu decto Salamone
non paresse el pegno esser sufficiente all’utile et al capitale. Item che li decti Iudei possano
andare adtorno per Corneto la septimana santa excepto che da una campana all’altra, cioè
lu iudeì sancto che incomenza ad non sonare la campana infino al sabato sancto che sona
le campane salvo che per necessità non havessero licentia del confaloniere et compagni alla
pena d’uno ducato et che li officiali sieno tenuti di fare et dare opera che non li sia facto
dispiacere nè di dì nè di notte et nella pasqua epifania. Item che lu decto Salamone et sua
famiglia li sia lecito et possano comperare in piaza et in omne altro loco di Corneto tucte
cose necessarie alla vita naturale ad terza et poi sicome fanno l’altri ceptadini senza alcuna
pena di statuto.
Item che possa esso Salamone et sua famiglia mectare in Corneto per loro uso et
necessità vino per omne tempo durante lu decto prestito senza pagamento di gabella o
passo o entrata. Item che li decti capitoli pacti et conventioni suprascripti et infrascripti se
intenda et vaglia per anni XV proximi futuri et finito lu decto tempo possano tollare et
reschotare utile et capitale che occurressero nelli tempi impegnati infra tempo non
obstante el tempo finito de capitoli. Item che al decto Salamone li sia lecito d’accattare et
fare accattare denari pochi et assai da giudei cossì terrazzani come da foristieri et che li
giudei che prestano denaro al predetto Salamone non caschino in nulla pena ma li sia
lecito di tollare lo fora secondo li pacti et conventioni che seranno infra loro et sie li facta
alli decti prestatori rascione somaria senza alcuno litigio. Item vole lu decto Salamone che
possa recare et fare recare per sè o per altri tucte et singule suoi robbe et masseritie nella
ceptà di Corneto vecchie et nove senza alcuno pagamento di gabella et consegnatione di
pagamento d’esse cose et robbe et similmente li pozza trarre et reportare finito lu tempo.
Item che lu decto Salamone o vero sua famiglia et garzoni o vero alcuni d’essi prestasse o
prestare facesse sopra alcuno o vero alcuni pegni furati et furtivamente subtracti alcuna
quantità di denaro che ad restitutione d’essi pegni non sieno tenuti sì primamente a loro
non fusse satisfacto del capitale et dell’utile ma essi iudei sieno tenuti et debiano iurare
nelle loro littere ebrayce secondo l’usato che tali pegni non sapivano essere facti. Item che
lu decto Salamone et suoi figlioli maschi d’età di XIII anni et garzoni et factori sieno tenuti
ad portare lu segno de come fanno l’altri giudei di Corneto excepto le donne femine che
sieno tenute tanto ad portare li sercelli nelle orecchie et si fussero trovate senza segno
antro in Corneto sicome si permecte solamente caschi in piena di soldi quaranta di denaro
et non ultra. Item si addicesse lu decto Salamone et famiglia che andassero fore della ceptà
di Corneto per loro facti o ad pie’ o ad cavallo et retornassero che in esso itinere et tornata
advenga che fusser trovati senza segno non vogliono essere tenuti ad nulla pena et non
possano essere accusati da nulla altra persona excepto dalli officiali dellu exordinario del
potestà et si fussero trovati essi Salamone et famiglia alcune fiate col segno coperto
advenga che lu portasse non vogliono essere tenuti ad pena. Item acciò che li prestiti sopra
li pegni facti et da farse o vero denari prestati alla fede senza pegno o pegni prestati alli
patroni loro li quali senza memoria nelli loro libri li quali promectano di rendare della
qualcosa non se fa scriptura publica se non solamente per loro mano o vero garzoni o
factori d’essi iudei et in nelli loro usati libri grandi et picculi nelli quali la memoria sie
labile et non recordevole per la qual cosa possano lite et questione di legiero nasciare et
venire per cascione di decto prestito alle qual cose obvenire et tollere schusare vogliono li
decti iudei che al loro libri cossì grandi come picculi nelli quali se fanno et scrivano le dette
memorie sia data piena fede et indubitata senza alcuna exceptione et ad essi lor libri si stia
et credarsi come si fussero publiche scripture et sie li facta rascione somaria senza
exceptione. Item che lu decto Salamone nè sua famiglia non possano essere costrecti per lu
podestà nè per nullo ofitiale di Corneto contro loro voluntà ad prestare nesciuno locto nè
alcuna massaritia non obstante nullo stactuto o altra cosa che in contrario facesse. Item
che lu decto Salomone et famiglia predecta non sieno tenuti ad prestare nè fare rascione nè
si possa recogliare pegno impegnato nè pagare denaro nè fare altra cosa in dì di sabato o in
dì di festa loro oltra loro volontà et similmente non possano esser convenuti dì feriati et
altri dì festivi comandati dalla ecclesia et statuti non obstante alcuno mandato o
commissione facta per qualunque officiale di sancta ecclesia. Item che tucti li decti capitoli
suprascripti se intendano et debiansi intendare cossì in favore et utilità et exemptione et
cautela della sua famiglia del decto Salomone famigli garzoni et factori come per sè proprio
modo et forma come di supra sonno scripti et apparischono. Item vole lu decto Salamone
acciò che per nullo officiale oltra rascione per alcuno tempo indebitamente li sia facto che
contro di lui o sua famiglia factori et garzoni non si possa procedere senza veri inditii omni
exceptione maioris secondo ricerca la rascione et la forma delli statuti di Corneto. Item che
alli decti prestatori li sia lecito di prestare supra ad omne pegno li fusse impegnato excepto
che supra calici pianete et croci grandi di ecclesia et contrafacendo caschi in pena di X
ducati alla camera del commune di Corneto. Item che non li sia lecito ad essi prestatori
prestare supra li pegni darne oltre la loro voluntà. Item che decti giudei habitanti in
Corneto et ciaschuno d’essi possano prestare sopra posessioni stabili et etiam dio sopra
grano et orzo secondo po fare du decto Salamone senza nulla pena non si intenda per li
decti capitoli aquistare dicono nè per dire alcuna loro immunità exemptione nè rascione nè
consuetudine.
I detti signori ufficiali promisero per sè e per i loro successori (di osservare) tutti i
singoli capitoli e i patti soprascritti riguardo al detto Salamone, presente e legittimamente
stipulante; e allo stesso modo il detto Salamone ebreo promise e convenne con i suddetti
signori ufficiali e con me Fazio, vice-cancelliere presente e operante, di non fare nè dire
nulla in contrario, entro il termine stabilito, per qualsiasi ragione nè eccezione, titolo o
causa, sotto l’obbligo del detto Comune di farsi garante con i propri beni sotto la pena di
cento ducati d’oro, qui promessa e solennemente stipulata, la quale venga comminata ed
esatta per tante volte per quante volte si è agito contrariamente ai predetti capitoli, non
appena ratificato il contratto; i restanti (testimoni) descritti nel presente istrumento
generalmente e singolarmente, i detti signori e il predetto Salamone, riguardo ai predetti
(capitoli) mi incaricarono di redigere pubblicamente l’atto.
Fatto in Corneto nel palazzo dei suddetti gonfaloniere e consoli e del capitano dei
cinquecento della suddetta città, alla presenza di Luca Neri, mercante, e Matteo Panzetta
speziere, invitati quali testimoni di quanto predetto>>.
In cronologia, si riportano altre notizie, sempre relative alla presenza degli Ebrei a
Corneto, desunte dalle “Croniche Cornetane” di Muzio Polidori. <<Nel detto anno 1449,
havendo i Cornetani supplicato il Papa per mezzo del loro Cancelliero, non so che per
conto delle bandite de bovi et pescatori, et per conto d’haver licenza di ritener doi Hebrei
per medici in Corneto, il Papa rescrive che ha notificato sopra di ciò la sua intentione a
detto Cancelliero”.
<<Nell’anno 1453, il Papa con suo breve concede facultà di condurre un’Hebreo con
sua famiglia a imprestar moneta sopra pegni”.
<<Nel detto anno 1493, per il sospetto del mal contaggioso che in Roma e Napoli
faceva progressi, in Corneto si facevano esatte diligenze. Et perciò fu difficultato ricevere
otto famiglie d’Hebrei sbarcate a questa spiaggia, che venivano di Spagna, di dove quel Re
assieme con tutti gl’altri Hebrei et marrani, haveva discacciati. Alla fine, doppo più repulse
furno ricevuti con diversi capitoli stabiliti nel Consiglio”.
Mentre negli “Statuti della Città di Corneto” del 1457, al capitolo XCII si legge:
<<Delle disposizioni circa gli Ebrei.
Stabiliamo inoltre, imitando i sacri canoni, che tutti gli ebrei dell’uno e dell’altro
sesso, e dall’età dieci anni, debbano portare un segno di panno rosso sulle loro vesti, che
sia palese e non nascosto, cosicchè possa apertamente vedersi, sotto la pena per ogni volta
di un ducato d’oro, senza alcuna riduzione, eccettuati quelli che riguardo a ciò ricevano
l’esenzione od il privilegio da parte della comunità.
Stabilendo altresì che i detti ebrei
non possano uscire dalle loro abitazioni cominciando dall’ora terza del giovedì, e per tutto
il venerdì santo, fino al suono della campana grande del Comune nel giorno di sabato
santo, eccentuati tuttavia i medici in caso di necessità, i quali possano uscire, ed andare per
Corneto, tuttavia con il permesso dei Magnifici Signori Priori”.
Dopo tali documentazioni storiche, non si conoscono altri avvenimenti relativi alle
comunità ebraiche nella nostra città. L’unico ebreo che ebbi modo di conoscere a Tarquinia
nel corso della mia giovinezza, è stato il sor Ernesto Moscati, scomparso prima che si
concludesse sinistramente l’ultimo conflitto mondiale. Riuscì ad evitare appunto la
persecuzione e la diaspora messe in atto non appena i tedeschi iniziarono i rastrellamenti e
le deportazioni dal nostro suolo verso i campi di sterminio.
Egli era stato accolto in una curiosa comitiva di anziani, fatta di bontemponi e di
scanzonati personaggi, che appena vedevano spuntare la figura minuta e un po' curva del
sor Ernesto, esclamavano: “Ecco pinzo!” per via della sua barbetta pizzuta che portava ad
onor del mento, come si diceva allora a giustificazione di un ambito ornamento. Era di una
discrezione rarissima e di una tale signorilità che non faceva mai pesare la sua presenza in
mezzo alla comitiva, nemmeno in occasione di qualche piccola merenda campestre o di
qualche pappata più sostanziosa. Ascoltava quasi sempre e interveniva assai raramente.
E lo ricordo oltre che per la sua figura caratteristica - allora la barba era
appannaggio di pochi - soprattutto per la sua bella prole, due magnifiche ragazze che
fecero spasimare d’amore il fior fiore della borghesia del mio paese.
Bruno Blasi
P.S. Sento il dovere di ringraziare il cardinale Sergio Guerri per aver provveduto alla
trascrizione della “reformatio” da parte di un paleografo dell’Archivio Vaticano; e la
signora Lidia Perotti dell’Archivio Storico del Comune per la sua cortese disponibilità.
VITA ED OPERE DELL’ELETTRONICO GIOVANNI BATTISTA MARZI
Introduzione
Nei vari bollettini annuali che la SOCIETA’TARQUINIENSE DI ARTE E STORIA fa
stampare e distribuire ai Soci, molte pagine sono state dedicate spesso a quei tarquiniesi
che nei tanti campi dell’arte e della scienza hanno dato lustro alla nostra città, taluni
addirittura all’Italia. Così, hanno trovato considerevole spazio i Cardinali di Santa
Romana Chiesa GIOVANNI BATTISTA VITELLESCHI e ADRIANO CASTELLESCHI, la
Santa LUCIA FILIPPINI, il poeta e scrittore VINCENZO CARDARELLI, il pittore PIETRO
GHIGNONI, il musicista GIACOMO SETACCIOLI, il drammaturgo romanziere ed
amministratore LUIGI DASTI, il poeta GIOVANNI BATTISTA MARINI (alias TittaMarini).
Per completare il quadro dei “GRANDI” di casa nostra, voglio ricordare, nel
Bollettino di questo straordinario 1989, GIOVANNI BATTISTA MARZI, uomo di scienza,
alla cui feconda attività si debbono diverse geniali invenzioni ed applicazioni
dell’elettrotecnica con particolare riguardo alle telecomunicazioni. Infatti, la prima
centrale automatica telefonica del mondo, costruita sotto il Pontificato di papa LEONE
XIII, è opera del nostro concittadino. Quella americana venne circa sei anni dopo. Nello
spazio che il Dizionario Europeo Universale dedica a Giovanni Battista Marzi si legge
così:
“INVENTORE
DEL
TELEFONO
AUTOMATICO
CHE
INSTALLO’
NELLA
BIBLIOTECA VATICANA: PRECURSORE ANCHE NEL CAMPO DELLA RADIOFONIA”.
Ci troviamo quindi di fronte ad una delle figure più interessanti e prestigiose della
nostra città. Con il proprio ingegno e col proprio lavoro, spesso tra difficoltà,
incomprensioni e gelosie di ogni genere, GIOVANNI BATTISTA MARZI seppe onorare,
sulla via dell’umano progresso, non soltanto la terra che gli diede i natali ma anche e
soprattutto l’ITALIA per la quale nutrì sempre un profondo amore.
La PATRIA! Così era solito chiamarla. Un sentimento che, purtroppo, sta
sciogliendosi nei cuori degli italiani come la neve sotto i raggi cocenti del sole.
Ottimo conoscitore della lingua latina, dettò anche l’Epigrafe per una corona
d’alloro offerta alla Salma del MILITE IGNOTO nella solenne tumulazione sotto
l’ALTARE DELLA PATRIA il 3 novembre 1921:
ITALIAE MASCULA VIRTUS
ARCE ALPIBUS IMPOSITA DISIECIT
SUPERBO TRIUMPHO FUNERA VERTIT ORBE
PACATO
CAPITOLIO QUIESCIT ET VIGILAT
ROMAE MATRIS AD ARBITRIUM
RESURRECTURA
Il maschio valore italiano
distrusse le fortificazioni erette sulle Alpi
convertì la disfatta in superbo trionfo.
Ridonata la PACE nel mondo
sul Campidoglio riposa e veglia
al centro della Madre Roma
pronto a sorgere in armi.
Giuseppe Santiloni
Anno 1866
Giovanni Battista Marzi nacque a Corneto (oggi Tarquinia) nel 1860. Nella sua
giovinezza seguì il corso degli studi classici, eccellendo per la versatilità nella coltura della
lingua latina - che mai abbandonò durante la sua vita - fondendola con la sua meravigliosa
attività industriale, tanto da ottenere l’ambito riconoscimento della Internazionale
“ACADEMIA REGIA DISCIPLINARUM NEDERLANDICA EX LEGATO HOEUFETIANO”
con il suo indimenticabile carme latino “ITALICO MILITI IGNOTO”, affermazione di
profondo amore patrio, tanto che viene spontaneo chiedersi se le onde sonore del suo
telefono e l’eco dolcissimo dei suoi carmi possano essere tratti dalla stessa fronte. Ultimati
i suoi studi, anzichè seguire le orme paterne e dedicarsi all’agricoltura ed alla zootecnica
assumendo la direzione della importante Azienda patrimoniale, si sentì fortemente attratto
dalla elettromeccanica, dimostrando di avere per essa specialissime attitudini.
Anno 1875
In qualità di aiuto fu assunto nel locale Ufficio Postale e Telegrafico, dove, in breve
tempo, riuscì ad affermarsi quale valente telegrafista.
Anno 1879
La chiamata di leva per il servizio militare obbligò il Marzi a trasferirsi nella
Capitale, dove, riconosciuta la sua abilità quale telegrafista, fu immediatamente assegnato,
sotto tale qualifica, al Comando della Divisione Militare di Roma che affidò al Marzi
l’installazione del primo telefono venuto in Italia, collegando detto Comando, allora in Via
del Burò, con il Castel Sant’Angelo.
Anno 1881
Ultimato il servizio militare, a soli 23 anni, fu nominato Direttore ed Organizzatore
della nascente Rete Telefonica Romana, e nello stesso tempo Segretario per l’Italia della
“Societè Generale des Telephones”, creata per lo sfruttamento, in Europa, dei brevetti di
Graham Bell.
Anno 1884
Fare l’emarginato non era nelle aspirazioni del Marzi che, rinunciando ad un posto
di lucroso e grande avvenire, incoraggiato dalle Autorità Militari tanto di Terra che di
Mare, abbandonò definitivamente la direzione dei Telefoni Urbani ed installò un’officina
per la costruzione di apparecchi di precisione, la quale gli dette modo di realizzare, insieme
a forniture elettriche e meccaniche, le idee nuove che gli maturavano in capo, dedicandosi
principalmente ad applicazioni d’indole militare. Iniziò tale sua nuova attività,
impiantando per conto della locale Direzione del Genio Militare, una complessa rete
telefonica tra tutte le Caserme, Fortificazioni ed Uffici Militari della Capitale.
Anno 1885
Studiò e costruì i BERSAGLI ELETTRICI di geniale concezione, nei quali veniva
utilizzata la forza viva del proiettile per generare la corrente elettrica necessaria alle
segnalazioni, che venivano poi a loro volta riprodotti con massima esattezza su di un
piccolo quadro situato presso il tiratore.
La corazza del bersaglio, formata da diverse lastre di acciaio di spessore resistente
all’urto della pallottola, produceva, una volta colpita, delle vibrazioni che, a mezzo di
generatori elettromagnetici sensibilissimi, applicate dietro le sezioni della corazza,
venivano trasformate in correnti indotte capaci di far funzionare le segnalazioni del quadro
situato presso il tiratore, riproducendo in scala ridottissima tutte le sezioni del bersaglio.
Il valore dell’apparecchio consisteva in un dispositivo del tutto speciale per mezzo
del quale veniva soppressa completamente, al momento della inversione della polarità. la
resistenza dovuta alla attrazione magnetica, sensibilissima in tutti gli apparecchi magnetici
ed elettromagnetici.
E’ per questa singolare disposizione che l’urto della pallottola in un punto
qualunque della lastra, sia nel centro, sia nei contorni, diretto od indiretto, d’intensità più
o meno considerevole, veniva fedelmente segnalato sul quadro riproduttore. Tali Bersagli
furono sperimentati con successo nei Poligoni di Roma e di Torino, e poi usati per il tiro
notturno nella prima gara nazionale di Tiro, inaugurata da S.M. Umberto I.
Anno 1886
Dopo aver costruito vari tipi di Apparecchi Telefonici per installazioni private, il
Marzi pensò di risolvere il problema della congiunzione telefonica automatica.
Il quesito, nato con il prima affermarsi della trrasmissione elettrica della parola,
aveva tentato la genialità americana, ma era stato abbandonato per l’eccessivo costo degli
impianti e per la complessa ed incerta realizzazione tecnica del sistema.
Il Marzi non si scoraggiò; le difficoltà di realizzazione erano per lui un incentivo, un
persistente stimolo a superarle: e, dopo molti tentativi e non indifferenti spese, immaginò
ed attuò una serie di originali dispositivi, creando in tal modo il primo CENTRALINO
TELEFONICO AUTOMATICO che sia stato conosciuto ed applicato nel mondo.
Avendo saputo che in Vaticano si progettava la creazione di una rete telefonica
interna, fece il Marzi l’offerta di assumerne l’installazione. La proposta venne accettata, ed
a titolo di prova gli affidava la congiunzione automatica dei vari servizi della Biblioteca.
La piccola installazione venne inaugurata sul principio del 1866 e continuò a
funzionare ininterrottamente per oltre tre anni, fino a che venne poi esteso l’uso dei
centralini ordinari per le installazioni interne e per gli allacciamenti alle reti urbane.
S.S. LEONE XIII fu così il primo Pontefice che abbia fatto uso del telefono
automatico, avendo avuto più volte l’occasione di servirsene nelle sue frequenti visite alla
Biblioteca. La “RIVISTA TELEFONI E TELEGRAFI” - Organo ufficiale del Ministero
PP.TT. - Anno II, n.3 del maggio-giugno 1921 in un articolo del competentissimo Ing.
Respighi dice testualmente:
“Sembra interessante far conoscere ai nostri lettori che 35 anni fa, qualche primo,
anzi primissimo passo, venne fatto in Italia, fin dai primordi della Telefonia, nel campo
della Telefonia Automatica, e precisamente dall’Elettronico Giovanni Battista Marzi.
Qualche tentativo e brevetto di Telefonia Automatica apparve bensì in America tre anni
dopo che Graham Bell presentava al pubblico di Filadelfia un apparecchio telefonico; ma
solo dopo molti anni, nel 1892, entrò in pratico funzionamento la prima Centrale
Automatica nella città di Laporte (Indiana - Stati Uniti) costruita da una Società che porta
il nome di “AUTOMATIC ELETRIC COMPANY” di Chicago. Un gruppo di due apparecchi,
costituenti il sistema automatico “MARZI” venne cortesemente offerto dal Comm. Ing.
Federico Mannucci, Foriere dei SS. Palazzi Apostolici, al Museo del nostro Istituto
Superiore PP. e TT.; ed un altro campione si conserva nel Museo Postale e Telegrafico di
Berlino. Benché si tratti di un sistema primordiale, pure si rivelano già in detti apparecchi,
i primi germi che ebbero poi rapida applicazione nello sviluppo della Telefonia
Automatica, come ad esempio il “TRASMETTITORE D’IMPULSI” ad eccentrico (came),
analogo all’elica che serve per liberare le spazzole nel sistema “WESTERN”, ed il
“SELETTORE” semplice a passi successivi circolari adottato nello “STROWGER” ed in altri
sistemi automatici, nonché nel “Pantelegrafo Cerebotani”. Sono notevoli negli apparecchi
del MARZI la precisione e la solidità costruttiva, accompagnate con la semplicità del
sistema, che rende scarsissima la probabilità di guasti e la facilità di riparazioni. Come poi
ed il perché il sistema automatico del MARZI, benchè attivato e provato da un lungo
esperimento negli Uffici della Biblioteca Vaticana, non abbia avuto poi ulteriore
incoraggiamento e più estese applicazioni, è spiegabile come per tante altre invenzioni, che
sono bensì sorte nel nostro Paese, ma poi per una ragione o per l’altra sono rimaste
arenate; differentemente da quanto avviene all’estero per ogni novità che offra il campo ad
applicazioni industriali. Certamente a quei tempi, quando il servizio telefonico anche nelle
grandi città era limitato a reti di poche centinaia di abbonati era ancora prematuro, e
poteva, tutt’al più, costituire un lusso in genere di telefonia.
Ma certamente il MARZI, che ha realizzato applicazioni nel campo telefonico ed
elettromeccanico, avrebbe potuto dare, senza dubbio, in un ambiente e tempo favorevoli,
un valido impulso anche alla telefonia, automatica”.
In occasione della Esposizione Scientifica che ebbe luogo a Firenze nel 1929, il
“POPOLO D’ITALIA” del 5 settembre detto anno scriveva:
“Tutte glorie nostre, luminosamente nostre, fra le quali non vogliamo dimenticare
una da pochissimi conosciuta, e che è venuta in luce, come tante altre, soltanto attraverso
questa grande Esposizione: si tratta dell’Elettrotecnico GIOVANNI BATTISTA MARZI,
inventore del “COMBINATORE AUTOMATICO CON SELETTORE” dal medesimo
impiantato nella Biblioteca Vaticana fin dal 1886. Mirabile cimelio, quando si pensi che
moltissime città d’Italia, non conoscono ancora, neppure oggi, a 43 anni di distanza, il
Telefono Automatico, e quando si consideri che anche quelle che lo conoscono e lo
posseggono soltanto da qualche anno! Miniera davvero senza fondo questa nostra virtù
creatrice, sorgente inesausta di verità sempre nuove e sempre più alte per la rivendicatrice
gloria della stirpe”.
Francesco Savorgnan di Brazzà, che ha dedicato una sua pubblicazione “DA
LEONARDO A MARCONI - ITALIA DIFENDI LE TUE GLORIE” alla storia della scienza
sperimentale, mostrando in modo semplice e documentatissimo l’incomparabile
contributo recato dagli italiani alla somma del sapere positivo, e che non esiste si può dire scoperta, invenzione, applicazione tecnica, nella quale non ricorra un nome italiano,
illustre od oscuro, noto a tutti o dimenticato, sotto il titolo: “IL PRIMO CENTRALINO
TELEFONICO AUTOMATICO” scrive:
“Ponendo in ordine taluni di quegli scaffali della mia biblioteca, in cui accumulo i
documenti che possono servirmi per la storia delle invenzioni nate in Italia, mi è capitata
sottomano una vecchia cartella. Su di essa vi era l’indicazione “CENTRALINO
TELEFONICO AUTOMATICO” - sistema GIOVANNI BATTISTA MARZI”. L’ho riaperta
con quella curiosità, velata di leggera malinconia, che spesso accompagna l’improvvisa
rievocazione di persone e di fatti da anni dimenticati. Eppure, riandando ai miei ricordi,
tra la folla degli inventori che ho conosciuto nella mia ormai lunga carriera di
volgarizzatore scientifico, Egli resta tra le figure più caratteristiche”.
Dopo aver accennato alle varie invenzioni del MARZI, così conclude:
“Invenzioni queste ormai battezzate con nome straniero, come pure ad oltre Oceano
è attribuito il merito di aver creato il primo Centralino Automatico”.
L’Ing. Marco Busca, che nel 1937 dette alla stampa l’importantissimo e più completo
volume sui “Moderni sistemi di Telefonia Automatica” così si esprime:
“L’invenzione della Telefonia Automatica, intendendo con ciò quel sistema di
commutazione mercè il quale un utente qualsiasi dell’impianto può mettersi in
comunicazione, in pochi secondi, con un altro utente collegato all’impianto stesso
manovrando uno speciale dispositivo automatico meccanico, senza l’intervento di alcun
intermediario, (telefonista), trovò, come provano documentazioni inconfutabili, i primi
cultori in Italia, allo stesso modo come si deve alla genialità di un altro italiano, il MEUCCI,
la priorità sull’invenzione dell’apparecchio telefonico vero e proprio.
Risulta infatti da documenti esistenti negli Archivi Vaticani che, sotto il Pontificato
di LEONE XIII, e precisamente, nel 1886, un valente elettrotecnico italiano, GIOVANNI
BATTISTA MARZI costruì e tenne in funzione per ben tre anni un ingegnoso
“COMMUTATORE TELEFONICO AUTOMATICO” i cui principi fondamentali sono affini a
quelli applicati nei sistemi attualmente in uso. Il MARZI infatti aveva pensato e costruito i
due “organi basilari”: il “TRASMETTITORE D’IMPULSI” ed il “SELETTORE”.
Nella ricorrenza del cinquantenario della invenzione del Centralino Telefonico
Automatico, la Rivista Settimanale di divulgazione scientifica “SAPERE” n. 47 del 15
dicembre 1946, sotto il titolo “L’ITALIANO G.B.MARZI PRIMO INVENTORE DEL
TELEFONO AUTOMATICO” rivendica all’Italia, in nome del MARZI la priorità di tale
invenzione, e così conclude:
“Noi dobbiamo anche qui amaramente riconoscere, che fu davvero un gran torto
lasciare inaridire un così promettente germoglio quale era l’invenzione del “Telefono
Automatico” il cui tempestivo perfezionamento avrebbe potuto assicurare all’Italia un
cospicuo primato in quella che si è poi rivelata una delle più importanti innovazioni della
moderna tecnica telefonica. Ad ogni modo rimane un fatto indiscusso che il “Sistema di
Telefonia Automatica” ideato e realizzato in Roma dall’italiano G.B. MARZI nell’anno
1886, e cioè diversi anni prima dell’americano Strowger, costituisce il primo apprezzabile
contributo che genialità di tecnici abbia dato nel mondo alla invenzione del Telefono
Automatico”.
Il nome di GIOVANNI BATTISTA MARZI ricorre per tale invenzione ben due volte
sulla Enciclopedia Treccani; a pag. 408 Vol. XXXIII ed a pag. 469 Vol. XXII nonché in
altre Enciclopedie e Testi scolastici.
Anno 1887 - 1888
La guerra Ispano - Americana, tagliando corto a qualsiasi disputa accademica, con
la logica dei fatti mise in evidenza i vantaggi incomparabili del Tiro Indiretto nella difesa
delle coste. Le batterie invisibili della flotta nemica, poiché riparate dietro l’ostacolo
naturale dei monti, baluardo indistruttibile, avrebbero potuto colpire il bersaglio senza
tema di venire smantellate.
Al MARZI, leggendo le relazioni delle azioni marittime della guerra IspanoAmericana, che in quell’epoca si combatteva, apparve evidente la superiorità delle
Artiglierie Navali in confronto di quelle costiere, esposte all’offesa perché montate a Tiro
Diretto, ed insufficienti alla difesa perché sprovviste di buoni strumenti di rilievo, come lo
dimostrò l’incertezza del tiro. Indiscutibili quindi i vantaggi strategici ed economici che si
sarebbero realizzati con batterie a Tiro Indiretto, potentemente difese dalla natura, alle
quali non necessitavano opere artificiali di fortificazione, rappresentanti per il Tiro Diretto
la maggiore spesa. Però tali batterie, per il fatto che eran coperte alla vista del mare, non
avrebbero potuto eseguire direttamente il tiro su bersagli che non vedevano. Era quindi
necessario in primo luogo rilevare la posizioni delle navi nemiche da un altro punto da cui
era possibile scorgere la superficie del mare contro cui si doveva operare; era poi
indispensabile poter trasmettere immediatamente, continuamente ed infallantemente alla
batteria le indicazioni necessarie per puntare i pezzi. Tale problema fu risolto nel modo più
brillante completo e sicuro dal TELEGONIOMETRO MARZI, come ne fanno fede
irrefutabili testimonianze ufficiali dei Ministeri Italiani della Guerra e della Marina. Se le
coste di Cuba fossero state convenientemente armate a Tiro Indiretto, la flotta Americana,
più che decimata, avrebbe abbandonata la disastrosa impresa.
Se di simile armamento fossero state provviste le estese e popolose coste NordAmericane; città capitali fiorentissime non sarebbero state continuamente esposte al
panico di un improvviso apparire dalla leggendaria flotta fantasma Iberica. La Marina
Italiana ed il suo Ministro di allora, il non mai abbastanza compianto Benedetto Brin,
compresero l’importanza del “TELEGONIOMETRO MARZI” e ne vollero dotato il punto
strategico per eccellenza della nostra difesa marittima: l’Arcipelago della Maddalena.
Il principio sul quale si basa il “TELEGONIOMETRO ELETTRICO A BASE
ORIZZONTALE” sistema MARZI per il tiro indiretto con obici, nelle batterie da costa,
consiste nel riprodurre a distanza, in piccolissime proporzioni, l’angolo formato dalle linee
di visuale di due cannocchiali piazzati lungo una spiaggia a qualche chilometro di distanza
fra loro e puntati ambedue contro uno stesso bersaglio.
Quindi il sistema è basato principalmente sulla riproduzione a distanza di tutti i più
piccoli movimenti di un telescopio in ogni direzione ed a tutte le velocità.
La caratteristica speciale del sistema “MARZI” è che ottiene il rovesciamento di
marcia degli indici delle macchine riproduttrici senza il rovescimento di rotazione degli
ingranaggi e senza avere alcun attrito da vincere.
In tale maniera non accade mai che l’indice dell’apparecchio riproduttore continui a
marciare in un senso determinato, mentre il telescopio abbia nel frattempo cambiato
direzione, come si verifica molto spesso in altri sistemi: p. es. nel “Distanziometro
Siemens” e nel “Telemetrografo de Tromelin”.
L’intersezione degli indici rappresenta il punto dove si trova la nave da colpire,
contro la quale sono diretti i telescopi dei due osservatori.
Si possono in tal modo seguire gli spostamenti della nave e tracciare la rotta. Due
contatori di giri, situati sulla piattaforma, indicano in ogni istante la posizione della nave in
metri per la distanza ed in gradi e ventesimi di grado per la direzione. Inoltre vi è un
dispositivo, particolare importantissimo, che serve a calcolare meccanicamente la
posizione in cui si troverà la nave in un tempo prestabilito, onde poter fare il tiro
preparato, colpire cioè nel punto in cui si troverà la nave dopo trascorso il tempo che
impiega il projetta nella sua trajettoria.
La praticità ed ingegnosità del sistema, la celerità con cui venivano trasmessi i dati
di punteria, l’inutilità delle tabelle di spostamento fino allora usate, la precisione del tiro
sui bersagli fissi e mobili, indussero il Comando Marittimo della Maddalena a dichiarare in
un suo rapporto conclusivo (foglio n. 140 del 28.4.1890, a firma Contr’Ammiraglio F.
Labrano):
“Il TELEGONIOMETRO MARZI risulta il più perfetto tra i Telegoniometri
esistenti”.
Da sua parte il Ministero della Guerra - Direzione Generale di Artiglieria foglio n.
14001 del 15.09.1890) così si esprimeva:
“Il Telegoniometro Marzi è uno strumento di pratico uso, che risponde
completamente a tutte le esigenze”.
Il Presidente del Comitato di Artiglieria e Genio, Ten. Gene. Mattei ne comprese
talmente la grande importanza, che volle dal MARZI l’impegno scritto di non vendere, nè
comunicare a Governi Esteri l’invenzione fino a che il Governo Italiano non avesse preso la
decisione di tenerlo esclusivamente a sè riservato.
Anno 1890
L’illuminazione elettrica, che allora cominciava ad imporsi nelle pubbliche vie e
piazze ed anche presso i privati, non lasciò insensibile lo spirito d’iniziativa del MARZI,
che, nella convinzione di compiere un atto utile alla cittadinanza romana, sollevandola
dall’oneroso balzello monopolistico impostole dalla allora Società Anglo-Romana del Gas,
unica concessionaria della illuminazione della Capitale, riuscì ad ottenere dal Sindaco S.E.
l’On. Gaetani, Duca di Sermoneta, il nulla osta per l’installazione di una centrale elettrica
ad accomulatori, vincendo i preconcetti radicati nella mente dei vari Assessori, e
dissipando i pregiudizi di coloro che asserivano la inattaccabilità della sunnominata
Società Anglo - Romana del Gas.
Infatti, iniziata la distribuzione della illuminazione ad una vasta zona di Roma con
batterie di accomulatori di grande capacità dal medesimo MARZI ideate e costruite; dalla
stazione centrale di erogazione, sita in Piazza Grazioli, nei grandi locali terreni del Palazzo
Doria, riuscì alla concorrente Società- Anglo - Romana a fare fortemente ridurre le tariffe
vigenti, dimostrando in tale circostanza una audacia, un coraggio ed una fede, che ad altri,
non della tempra del MARZI, sarebbero mancate. Il suo motto fu sempre: “AGLI AUDACI
SORRIDE LA FORTUNA”.
Anni 1893 - 1905
Questi anni passarono senza che il MARZI, pur continuando l’esercizio della sua
industria, producesse alcunchè di particolare.
Anno 1905
Avendo appreso che la Marina Militare stava divenendo tributaria dell’Estero per
l’installazione a bordo delle RR Navi di Telefoni Altosonanti per trasmissioni di ordini, di
dati di punteria per le artiglierie ed anche per le normali comunicazioni interne tra i vari
servizi di bordo, difficilmente percettibili con i normali telefoni auricolari, dati i molteplici
rumori che si riscontrano a bordo delle navi stesse, volle rendersi personalmente conto
della reale efficienza di detti apparecchi.
Constatò di conseguenza che i tipi di telefoni, cosiddetti “altoparlanti” fornite in
scala molto ridotta dalle Società straniere “MIX & GENEST” - “SIEMENS e Lorenz”,
nonchè della ditta Inglese “GRAHAM” ad alcune unità della nostra R. Marina, erano
inadeguati al servizio cui erano adibiti.
L’audizione di tali telefoni fu per il MARZI una vera disillusione. Tutto consisteva
nel non dover tenere pressato contro l’orecchio il ricevitore telefonico, poichè la voce,
leggermente semplificata, poteva udirsi nei momenti di relativa calma, a meno di un metro
di distanza dall’apparecchio. Il voler insistere sui normali tipi di telefono allora in uso,
aumentandone le proporzioni allo scopo di poter ottenere risultati più che soddisfacenti, fu
dal MARZI considerato un errore in partenza; poichè l’aumento nel ricevitore della
potenza dell’elettromagnete generatore del campo variabile, portava di conseguenza un
aumento sia del diametro, sia dello spessore della membrana vibrante di ferro, a scapito
della sensibilità della medesima, che, se mantenuta nello spessore più sottile, sarebbe stata
dalla maggiore forza di attrazione inchiodata alle espansioni polari dell’elettromagnete.
Era quindi necessario abbandonare la forma classica del Telefono “BELL”, ed
ottenere l’altisonanza e l’amplificazione dei suoni con mezzi meccanici.
E’ su questa base che il MARZI concentrò la sua attenzione. Il diaframma del
grammofono dette al MARZI lo spunto della sua nuova invenzione; provocare cioè in un
diaframma elettricamente quelle vibrazioni, che nei grammofoni. Il problema impostosi, fu
dal MARZI genialmente risolto; e l’apparecchio, immediatamente costruito, dette risultati
sorprendenti, superiori ad ogni aspettativa.
Con il “TELEFONO ALTOSONANTE MARZI” si potè ottenere una potenza di
ricezione talmente considerevole , da poter percepire voci e suoni a a distanze mai
raggiunte, oltre i cento metri! Il limite di potenza era solo imposto dal trasmettitore, che,
come tutti i microfoni a base di polvere e granuli di carbone, non permettevano passaggi di
corrente superiori a 0,4/0,5 ampères senza surriscaldarsi e bruciare.
---------------------La completa indipendenza della membrana vibrante dal dispositivo elettrico, ha
permessso al TELEFONO ALTOSONANTE MARZI di raggiungere amplificazioni
assolutamente impossibili a realizzarsi con altri tipi di telefoni.
Una estremità, curvata ad angolo, di un’asticella di ferro dolce, è fissata, come nel
diaframma dei grammofoni, ad una membrana vibrante. Detta membrana può essere
costituita da una qualsiasi materia rigida e capace di vibrare: ceramica, legno metallo,
vetro ecc.
A circa un terzo della sua lunghezza detta asticella è pilotata tra due punte di acciaio
ed influenzata da un polo di una calamita permanente.
L’altra estremità invece è libera di oscillare tra due nuclei, anche essi di ferro dolce,
collegati tra di loro da un supportino dello stesso materiale, a sua volta influenzato
dall’altro polo della calamita permanente. Su detti nuclei sono avvolte due piccole bobine
unite tra di loro in serie ed attraversate dalla corrente di linea, proveniente da un
secondario di un trasformatore, che cambia continuamente a seconda del senso della
corrente stessa. In tal modo alle estremità opposte di detti nuclei si formano polarità di
nome contrario; cosicchè il magnetismo dell’una sarà rinforzato quando quello dell’altra si
indebolirà.
L’asticella in tal modo sollecitata si uniformerà alle variazioni del senso della
corrente provocando delle oscillazioni, che trasmesse alla membrana, verranno ancora
maggiormente amplificate dalla differenza del braccio di leva risultante dal punto di
pivotaggio dell’asticella stessa.
-----------------------La nuova intenzione del MARZI apriva alla telefonia un nuovo vasto campo di
sfruttamento: non solo per le applicazioni di indole militare, ma anche per tutte le altre
molteplici applicazioni cui si sarebbe prestata nella vita civile.
Il Telefono Altosonante “MARZI” destò il più vivo interessamento non solo nella
nostra R. Marina, ma anche in molte altre Marine Estere ed in varie Società di
Navigazione.
E’ interessante quanto la “RASSEGNA UNIVERSALE” Organo ufficiale della
Esposizione di Marina ed Igiene, tenuta a Genova nell’anno 1914, pubblicava:
“Tre anni or sono nella circostanza dell’abituale suo passaggio per Venezia, S.M.
l’Imperatore di Germania, dalla coperta del suo Yacht “Hoenzollern” ascoltò, senza perdere
una parola nè una cifra, una serie di ordini di artiglieria, che si trasmettevano con un
TELEFONO ALTOSONANTE MARZI ad oltre un centinaio di metri di distanza
dall’opposta poppa dell’incrociatore “Hamburg”, quantunque spirasse un forte vento
boreale, che tagliava normalmente la trajettoria della voce”.
“S.M. lo Zar, venuto a conoscenza della meraviglia che avevano destato nella Marina
Russa alcuni “TELEFONI ALTOSONANTI MARZI” installati dall’inventore sulla Nave
Scuola “Pietro il Grande” a Reval, volle ascoltarli; e quell’incrociatore si recò, dietro
l’augusto desiderio ed ordine, sulle coste della Finlandia, dove allora festeggiava la
Famiglia Imperiale a bordo del suo Yacht”.
“Al primo Concorso Ippico che ebbe luogo a Roma nel 1908 a Tor di Quinto tra gli
Ufficiali di Cavalleria di varie Nazioni, i TELEFONI ALTOSONANTI MARZI, distribuiti tra
la tribuna centrale del Comitato Direttivo, quelli laterali del pesage, e gli spazi occupati dal
pubblico; oltreché servire per la direzione del Concorso, tenevano permanentemente al
corrente delle fasi e degli incidenti del cimento”.
“Ricorderemo
poi
a
titolo
di
curiosità
l’impiego
fatto
dei
TELEFONI
ALTOSONANTI MARZI nelle elezioni Amministrative di Roma. Alcuni di questi Telefoni,
piazzati sul Corso Umberto I e precisamente dinanzi al noto Caffè Aragno, in Piazza San
Silvestro dove è il palazzo delle Poste, nella frequentatissima Via delle Convertite, ed in
quella adiacente di S. Claudio; comunicavano direttamente al pubblico le notizie dello
svolgersi delle elezioni, che venivano trasmesse dagli uffici del giornale “La Vita”.
“Nell’occasione poi dell’arrivo a Parigi del Principe Scipione Borghese, vincitore del
raid Pechino - Parigi con l’Italia, raid indetto dal giornale “Le Matin”, ebbe luogo al
giardino della “Tueleries”, a lato di Piazza della Concordia, una festa notturna con
projezioni fisse di fotografie raccolte durante il raid. Telefoni altosonanti MARZI, a gran
voce, riproducevano al pubblico brani di prosa del noto letterato Le ROUX inneggianti agli
arditi viaggiatori”.
------------------------Installazioni importantissime di oltre 200 apparecchi, complete di centrali
telefoniche, quadri di commutazione per il comando delle artiglierie e per i servizi interni,
furono eseguite dal MARZI sulle seguenti RR Navi della nostra Marina Militare:
“SARDEGNA” - “BENEDETTO BRIN” - “PISA” - “AMALFI” - “SAN GIORGIO” “SAN MARCO” - “DANTE ALIGHIERI” - “ROMA” - “CONTE DI CAVOUR” - “GIULIO
CESARE” - “LEONARDO DA VINCI” - “DUILIO” - “ANDREA DORIA” - “NINO BIXIO” “MARSALA” - “QUARTO”. In queste ultime tre navi del tipo “Esploratori” installò pure un
suo speciale tipo di TELEGRAFI ELETTRICI di MACCHINA, che si dimostrarono
efficacissimi per la celerità di trasmissione degli ordini.
Su navi di minore tonnellaggio, su piroscafi di varie Società di Navigazione e delle
Ferrovie dello Stato, furono eseguite installazioni ridotti ai Comandi del Ponte di Comando
in macchina ed a poppa per le manovre di ormeggio e disormeggio. Il MARZI, emancipata
in tal modo la Marina Militare Italiana dall’importazione estera di sedicenti telefoni
altosonanti, decise di voler conquistare altri allori nell’agone internazionale delle industrie,
e dimostrare che l’Italia sa bastare a sè stessa per la concezione e produzione di nuovi
trovati, s’impose la soluzione di un problema allora assillante; cioè la ricerca di un
Trasmettitore per la Radiotelefonia, che modulasse, senza riscaldare, forti intensità di
corrente.
Anno 1913
Come il MARZI riuscì ad ottenere ciò che tanto altri eminenti tecnici inutilmente
cercarono di raggiungere?
Ossessionato dall’idea di risolvere il problema della trasmissioni telefoniche a
distanza, fermò un giorno la sua attenzione sul classico orologio a sabbia; la clessidra, nel
quale la sabbia, precipitando in misura uniforme di quantità e di tempo, marca l’ora che
fugge. Così sbocciò l’idea semplice, che portò alla creazione di un apparecchio più semplice
ancora. Il grande ostacolo che allora incontrava la radiotelefonia per entrare nel campo
pratico e sostituirsi con vantaggio alla radiotelegrafia, era la mancanza di un microfono
capace di sopportare correnti di una certa intensità.
Gli ordinari microfoni, apparecchi delicatissimi, incapaci di sottostare a forti
correnti, si dimostravano inadatti nelle trasmissioni radiotelefoniche, dove il superamento
delle distanze era in proporzione diretta della corrente lanciata sull’antenna. Dato quindi
l’ostracismo ai microfoni a carbone, si ricorse ai microfoni idraulici, e fra tutti risultò il
migliore quello ideato dal prof. Majorana, che dette adito alle migliori speranze; ma si
dimostrò in pratica inammissibile per la sua estrema delicatezza e per le specialissime
condizioni ambientali in cui doveva funzionare.
Il microfono Majorana apparteneva alla categoria dei microfoni idraulici o più
propriamente idrodinamici. In essi l’acqua, resa conduttrice per la presenza di un acido o
di un sale, si rinnova continuamente, in modo che anche la quantità di calore prodotto in
ogni istante dal passaggio della corrente viene quasi eliminata. Detto microfono è basato
sul principio che se una vena liquida fluisce verticalmente da una stretta apertura praticata
in un tubo adduttore, essa scorre in forma cilindrica per un buon tratto e poi comincia a
contrarsi e successivamente a rompersi in goccie.
Il tubo adduttore, costruito in materiale assai rigido ha su di un piccolo tratto la
parete molto sottile ed elastica. Detto tratto è connesso ad una membrana vibrante, che,
sotto l’azione della parola o di altri suoni, fa oscillare il valore della pressione istantanea
del liquido sulla bocca d’efflusso. Il getto subisce allora delle contrazioni che si
ingrandiscono con l’aumentare della bocca d’efflusso; in modo che due conduttori, su cui il
getto stesso si fa battere, sono congiunti da masse liquide variabili ad ogni istante, in
dipendenza delle vibrazioni trasmesse per mezzo della membrana.
Dato che il liquido del getto è conduttore (acqua acidulata o salata, mercurio ecc.
ecc.) è facilmente comprensibile che la resistenza elettrica interposta tra i conduttori sopra
nominati è variabile. E’ ovvio dimostrare come un simile microfono, pur ottenendo
risultati incoraggianti, data la sua natura estremamente delicata, non potè essere
considerato un apparecchio di pratico uso, ma solo un apprezzabile apparecchio da
laboratorio di sensibilissima e difficile regolazione.
Successivamente il prof. Vanni tentò di rialzare le sorti del microfono Majorana
apportandovi alcune modifiche, ma sorte non dissimile lo attendeva.
Fu allora che l’elettronico G.B. MARZI, con un sistema geniale ed originale, riuscì a
risolvere il problema.
L’originalità del sistema fu tale, che potè ottenere il brevetto tedesco in vero tempo
di “record” cioè nel termine di circa un mese!
Ammesso che la combustione del carbone disgregato sotto il passaggio di forti
correnti non avveniva istantaneamente ma gradatamente, il MARZI si propose di non far
permanere nell’alveolo microfonico il carbone disgregato oltre la metà del tempo richierso
per produrne la combustione stessa; cioè espellerlo automaticamente per virtù delle stesse
vibrazioni della voce. Siccome tali vibrazioni in origine erano troppo deboli per ottenere
risultati efficienti, il MARZI si servì quale “relai amplificatore” del suo Telefono
Altosonante, utilizzando le forti vibrazioni della membrana per modificare la distanza tra
due carboni cilindrici messi tra di loro ad “ugnatura”, di cui: il verticale forato per il
passaggio dei granuli di carbone, e l’orizzontale raccordato al centro della membrana
vibrante del telefono altosonante, funzionante da relai. Ambedue i carboni sono a loro
volta collegati ai capi di un circuito oscillatorio.
I granuli di carbone, discendendo attraverso il carbone verticale forato, vengono
dall’altro carbone orizzontale più o meno compressi, modificando la resistenza della
corrente ed ottenendo le variazioni nel circuito oscillatorio prodotte dal microfono
trasmittente. Questo lavoro, essenzialmente meccanico, permette la caduta dei granuli di
carbone prima di essere soggetti a riscaldamento. Con tale sistema fu possibile lanciare
forti correnti sull’antenna ed aumentare sempre l’intensità con la messa in parallelo di più
relais, azionati da un solo normale microfono.
Per realizzare questa sua invenzione il MARZI fu anche questa volta costretto a
recarsi all’estero, poichè le prime esperienze eseguite in Italia, nell’Arsenale di La Spezia,
con risultati soddisfacenti, anzichè rendergli quel guiderdone morale e materiale sperato,
gli fruttarono disinganni ed amarezze! Il MARZI quindi, convinto delle impossibilità di
dimostrare in Italia la superiorità del suo sistema in confronto di quelli da altri tentati e
non realizzati, insofferente del bavaglio che le Autorità avevano applicato alla piccola
stazione trasmittente installata nel suo stabilimento in Cornigliano Ligure, decise di
accettare l’invito del Direttore della “Ecole pratique de Telegraphie sans fil”, Goldchimdt
situata nella Villa Reale di Laeken - les - Bruxelles, il quale, avuto sentore
dell’ostruzionismo e delle difficoltà che il MARZI incontrava in patria, gli metteva a
disposizione, con alto senso di mecenatismo, oltre i suoi laboratori, i tecnici ai medesimi
addetti.
Anno 1914
La piccola
stazione trasmittente fu subito installata ed immediatamente si
iniziarono saltuarie trasmissioni di sondaggio.
Gli innumerevoli ammiratori di Telegrafia senza fili del Belgio erano da tempo
sorpresi curiosamente nel sentire nei loro apparecchi riceventi, oltre il monotono ticchettio
della Tour d’Eiffel, che trasmetteva il bollettino meteorologico, il crepitio della stazione di
Boulogne e di Nieuport, nonchè il sonoro appello delle navi costiere; parole, canti e suoni!
Si domandavano se si trattava di un nuovo fenomeno che si manifestava in tale
meravigliosa branca della scienza, oppure di induzioni della rete telefonica urbana.
Il crudele enigma fu subito dissipato dall’annuncio sui giornali che un inventore
italiano,
l’elettrotecnico
GIOVANNI
BATTISTA
MARZI,
avrebbe
dalla
Stazione
Trasmittente di Laaken - les - Bruxelles effettuato, ad ore stabilite, delle radio - audizioni.
Spasmodica fu l’attesa; tutti gli amatori, non solo del Belgio, ma anche stranieri, alle ore
indicate erano presso i loro apparecchi ricevuti con le cuffie serrate alle orecchie e l’occhio
fisso sulla lancetta dell’orologio in attesa del desiderato momento.
Fu un successo! Tutti i giornali, dal “COURRIER DE L’ESCAUT” a “LE SOIR”, da
“Le XX SIECLE” alla “REVUE DE RADIOTELEGRAPHIE” di Bruxelles; il quotidiano “LE
MATIN” di Parigi, riportarono l’avvenimento nelle prime pagine sotto grandi titoli: “LE
MILLES ET UNA NUITS” - “DES CONCERTS RETENTISSANTS DONNES A BRUXELLES
ILS SONT ENTENDUS JUSQU’A PARIS” - “LES EXPERIENCES DE TELEPHONIE SANS
FIL EN BELGIQUE” - UNE EXPERIENCE SENSATIONELLE A EU LIEU HIER: ON A
TELEPHONE
SANS
FIL
DE
CENT
KILOMETRE
ET
LA
VOIX
A
ETE
MERVELLEUSEMENT ENTENDUE” - ecc. ecc.
Ecco quanto si legge sul “COURRIER DE L’ESCAUT” del 31 marzo 1914:
“Malgrè EIFFEL qui envoyait ses “bonsoir les amis” a toutes le postes francais
d’Afrique, nous pûmes entendre à loisir l’orchestre de Laeken. Il exècuta ses plus beaux
morceax; des artistes chanterent des duos ed des fragments d’opera et l’audition prit fin
après d’une double et vibrante Brabanconne - Nous étion payès de nos peines. On eut
voulu applaudir des deuw mains et crier: bravo Mr. MARZI, bravo les artistes; merci de
nous avoir rèsérvé la primieur de cette invention nauvelle”.
L’articolo conclude col dire che ciò che fino ad oggi era un desiderio, oggi è una
realtà, e, senza filo, si può seguire dalla propria casa il valzer che ritma una invisibile
orchestra, che suona a cento chilometri di distanza!
Articoli altrettanto entusiasti possono leggersi sui giornali belgi, francesi, ed altri di
oltre oceano. Fu un unanime inneggiare alla genialità del MARZI.
I giornali italiani tacquero. Fu anche a loro applicato il bavaglio!!!!
Uno speciale concerto vocale ed istrumentale fu trasmesso il 22 marzo 1914 su
richiesta di S.M. il RE dei BELGI a chiusura della serie di esperienze che ebbero la durata
di ben tre mesi, inframezzati da radioconcerti settimanali, che furono uditi a distanze fino
allora da nessuno mai raggiunte! Numerosissimi sono gli attestati di ammirazione di radio
amatori e di tecnici in materia.
Questa preziosa riesumazione dei ricordi del genio nostro rappresenta un
documento inconfutabile che segna i lampeggiamenti della civiltà italiana, preconizzanti
l’avvento di sempre verità nuove, anche prima che esse si materializzassero in forma esatta
e di sostanza vitale.
APPENDICE
GIOVANNI BATTISTA MARZI
POETA LATINISTA
NEL LIBRO DI FRANCESCO SAVORGNAN DI BRAZZA’
“DA LEONARDO a MARCONI
L’Autore scrive:
“................... Feci casualmente la sua conoscenza, sul finire del 1908, a Roma, in
quella famosa, ed ora scomparsa, Terza Saletta del Caffé Aragno, che fu nell’anteguerra,
per molti anni, centro di ritrovo di giornalisti, artisti ed uomini politici della capitale.
Al tavolo al quale ero seduto era sorta una vivace discussione sopra il valore di una
nuova collezione di classici latini.
Era tra i più infervorati, distinguendosi per la sua cultura e specialmente per le sue
citazioni, un signore sulla cinquantina che conoscevo appena di vista.
Chiesi sottovoce ad un amico: “Chi è quel Professore?”
La risposta fu del tutto inaspettata: “Sai, è MARZI, quello dei telefoni”.
Il nome mi era ben noto, ma certo non avrei mai pensato di raffigurare in quel dotto
commentatore di odi oraziane, il geniale creatore del telefono altisonante”........
Carme successivamente composto sullo stesso argomento
ITALICO MILITI IGNOTO LATINAE VIRTUTIS HEREDI
Non ignotus ades, nec Te dixisse carentem
Nomine fas est, quem iam, immulgens ubera labris,
Ore oculisque; inhians, animanque infundere totam
Visa, parens puerum ferventi voce vocabat;
Quem vocat et coniux casto viduata cubili,
Sed putat errantem non coeca morte pereptum;
Et, si forte levi crepitavit ianua flatu,
Adventare virum lymphata mente videtur:
Nescia suaderi curas sic corde voraces
Et fovet atque auget, noctesque diesque laborat!
Sit modus at lacrymis, compescant pectora luctum!
Non ignotus ades, o fortunate, fuisti
Nomen, post numerus, sed nunc sine corpore vita es!
Bellicta facta manent, generis stat mascula virtus!
Te prius accepit templis Aquileia sacratis,
Unde triumphalis, vaporatae pulsus aquae vi,
Trans tulit Ausoniae terras atque oppida currus,
Nigris vectus equis dum Urbis per strata viarum,
Innumero populi et bellatorum comitatu,
Tandem devota capitoli sede quiescis
Matris ad arbitrium semper prodire paratus!
Tu Romanus ades! Patriae non millia centum
Multa virum nuper pro libertate necatum
Testaris, sed quot quot prima ab origine gentis
Excidio Troiae profugos Tibris attulit arvis,
Quae Latiom felix septenis collibus ornat;
Rupibus Alpinis quot quot Venetaque lacuna
usque ad Trinacriam Lacedemoniumque Tarentum
(Sardinia heroum, haud te, nutrix alma, silebo)
Una mente animoque immixto sanguine et ense,
Fecerunt Itala Romam virtute potentem:
Quot longe lateque Latina ex gente per orbem
Magnis parva animis generat vel Belgica tellus,
Barbaricas cohibere numas seu mittit ad undas
Gallia Rhenanas, Memorare, Hispania, vellem
Te siccis oculis spectantem funera fratrum!
Tu Romanus ades! Genitae virtutis alumnus,
Usque renascentes animas morti abripis atrae;
Nec te deterret forunae ludus iniquae;
Vinendi vires addit Romana voluntas!
Caudinas olim furcas Cannasque cruentas.
Expertus, sapiensque morari pectore forti
“CARTHAGO DELENDA” - iubse non ante audito
Iudicio firmus: Didonia moenia campis
Post certas hiemes Romanum aequavit aratrum!
Te CRUCIS invictae vidit signo sub codem
Pugnantem, Victore duce, unda Timavi,
Barbaricos hominum mores cultusque feroces
Frenare armis, legibus informare receptis,
Iustitiamque doces, humanae et gentis amorem,
Non ignotus ades, nec fas dixisse carentem
Nomine Te Capitolina Tu CAESAR in arce,
Et Vaticana Tu PETRUS in aede vicaris;
Sic PATRIAM ferro, MUNDUM pietate tueris!
G.B. MARZI
Carme successivamente composto sullo stesso argomento:
Non sei un ignoto, nè Tu dir conviene senza nome;
cui già una madre, mungendoti le mammelle fra le labbra,
divorandoti con i baci e con gli sguardi, sembrando di
trasfonderti tutta l’anima sua, chiamava a nome con i più
appassionati accenti; cui invoca dal casto giaciglio
una sposa orbata, che ti crede disperso, non da cieca
morte spento; e se per caso aura fè la porta cigolare,
lo sposo apparir s’illude con la sconvolta mente; a ragion
ribelle edaci affanni nel cor cova ed accresce, e notte e dì s’angoscia.
Sia tregua al pianto, i petti comprimano il dolor!
Non sei un ignoto o fortunato, fostii già un nome, poi
un numero di frale spirto or sei! Vivono i fatti
d’arme, vive de la stirpe il valor! - Te pria accolse
d’Aquileia il sacro tempio, d’onde trionfal cocchio da
l’indrico vapor sospinto, Te portò d’Italia attraverso le
terre e le cittadi, finchè, da negri destrieri tratto
per le vie de l’Urbe con innumerevole scorta di popolo
e di guerrieri, al fin riposi nel decretato Capitolino ostello,
pronto sempre a sorgere al cenno de la madre.
TU SEI IL ROMANO! Tu rappresenti non solo le molte
migliaia di uomini or ora trucidati per la libertà della
Patria, ma quanti e quanti dalla più antica origine di
nostra gente scampati dallo sterminio di Troia il Tebro
addusse ai campi, che l’avventuroso Lazio di sette colli
adorno, quanti e quanti da le balze Alpine e da la Veneta
laguna fino a le Sicane e Tarantine ultime sponde
(te non tacerò, o Sardegna inclita madre d’eroi) con una
sola mente ed un sol cor, frammisto il sangue e ‘l brando,
Roma potente féro per virtù d’Italia tutta, quanti di Latina
stirpe pel mondo in lungo in largo sparsi, o genera
il picciol Belgio da le grandi anime, o Francia invia
alle Renane sponde le barbariche minacce ad arginare!
Ricordare vorrei te pure o Spagna, che con ciglio asciutto
mirasti de’ fratelli le ruine.
TU SEI IL ROMANO! De l’ingenito valor campione i
redivivi spirti a la bieca morte ognor contendi: nè ti
spaventa di nemica sorte il triste giuoco; forza t’aggiunge
la ROMANA VOLONTA’ DI VINCERE! Le forche Caudine
e Canne sanguinosa un dì sperimentato avendo, con animo saldo
temporeggiar sapendo “SIA DISTRUTTA CARTAGINE” comandasti
fermamente con non pria udita sentenza: dopo stabiliti inverni
le mura di Didone agguagliò al suolo l’aratro Romano!
De la CROCE invitta sotto la stessa insegna Te vide combattere,
duce Vittorio, l’onda del Timavo! Degli uomini i barbari
costumi e le religion feroci frenar con armi, foggiar con
leggi imposte, e la giustizia insegni, e de l’uman genere l’amor!
Ignoro non sei, nè Te dir conviene senza nome,
CESARE ne la Capitolina arce Ti nomi:
PIETRO ne la Vaticana magion T’appelli:
così Tu difendi la PATRIA con la spada, il MONDO con la fede.
G.B. Marzi
LA DONNA ETRUSCA TRA MITO E REALTA’
La donna etrusca ha sempre rappresentato un personaggio controverso sia per le
diverse concezioni che ci sono state tramandate sia per i numerosi aneddoti dei romani e
dei greci i quali, volendo evidenziare positivamente e soprattutto esaltare le doti delle
proprie donne, paragonandole alle etrusche, finivano inevitabilmente con lo sminuire le
caratteristiche fondamentali di quest’ultime. Ancora oggi non sappiamo se esiste una certa
esagerazione, da parte degli storici, nella descrizione, pur sommaria, della femminilità
etrusca e quali siano veramente i confini tra mito e realtà.
Nella vita domestica la donna aveva nella famiglia etrusca una parte preponderante
e tanto dalla letteratura quanto dalla tradizione figurata è messa in evidenza la sua
posizione elevata nella vita sociale e politica. Ciò appare immediatamente nello stato civile,
dove uno dei particolari caratteristici è che il nome delle donne è preceduto dal prenome.
Mentre le più illustri donne romane erano individuate nelle iscrizioni come Claudia,
Cornelia e, anche se imperatrice e moglie di un Augusto, come Livia, le donne etrusche
erano individuate con un prenome, Ramtha, Tanaquil, Fasti, Velia che assicurava alla loro
personalità nel seno della famiglia, un’espressione più completa. Inoltre, mentre la forma
latina menziona, dopo il prenome ed il gentilizio, solamente il prenome del padre,
l’epigrafia etrusca vi aggiungeva regolarmente il nome della madre, spesso accompagnato
dal suo prenome. Un pretore di Tarquinia si chiamava Larth Arnthal Plecus clan Ramthasc
Apartrual, cioè “Lars, figlio di Arruns Pleco e di Ramtha Apatronia”. Questa può essere una
prima dimostrazione circa la considerazione che gli etruschi davano alle donne, anche se le
stesse avevano una reputazione molto cattiva nell’opinione dei Greci e dei Romani.
Aristotele le accusava di banchettare con gli uomini, coricate sotto lo stesso mantello,
Plauto pretendeva che si costituissero la dote vendendo i propri favori.
Di tutto ciò va soprattutto considerato il fatto che la vita etrusca offriva a questo
riguardo il fianco alla critica del malevoli e che, dal punto di vista della morale antica,
appariva talvolta scandalosa; la donna etrusca godeva sempre di una libertà di movimento
e di diritti che, per un greco dallo spirito gretto sembravano autorizzare le peggiori
sregolatezze. Teopompo nel libro CLIII della sua Storia, dice che “... presso i Tirreni le
donne sono tenute in comune, che hanno molta cura del loro corpo e che si presentano
nude, sia tra gli uomini, sia talora, tra di esse, in quanto non è disdicevole il mostrarsi
nude. Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto dei presenti e
brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle da vedere. I Tirreni
allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi... Non è riprovevole
per i Tirreni essere visti abbandonarsi in pubblico ad atti sessuali e neppure a subirli,
essendo anche questo un uso del Paese. E tanta è la loro spregiudicatezza che quando il
padrone di casa sta facendo l’amore e si chiede di lui, essi dicono senza pudore “fa questo o
quello” dando impudicamente a tale genere di occupazione il suo vero nome...”. Continua
Teopompo “.... In occasione di riunioni di società o di parentela, si comportano come
segue: anzitutto, quando hanno finito di bere o si dispongono a dormire, i servi fanno
entrare..... ora cortigiane, ora bellissimi giovani e qualche volta le loro mogli. Dopo aver
soddisfatto le loro voglie con le une o con gli altri, fanno coricare i giovani vigorosi con
questi o con quelle. Fanno all’amore e si danno ai loro piaceri talora alla presenza gli uni
degli altri, ma più spesso circondando i loro letti di paraventi di rami intrecciati, sui quali
stendono i loro mantelli....... “. Teopompo parla giustamente di estrema cura, da parte delle
donne etrusche, del proprio corpo e del proprio aspetto esteriore; l’uso dei gioielli è molto
diffuso, ma sono impiegati tuttavia con eleganza solo nel VI-V secolo. Ne sono
testimonianza esemplari di collane con bulle ed orecchini lavorati con la tecnica della
granulazione. Ci sono dei modelli greco-orientali, come gli orecchini a borchia, orecchini a
“bauletto”, collane fitte di pendenti, di bracciali e fibule (questi ultimi elaborati in loco).
Tutte le donne di cui abbiamo una immagine certa, dalla dolce e malinconica
Gioconda della Tomba dell’Orco, conosciuta con il prenome Velia, a Persefone della Tomba
Golini, dai biondi capelli svolazzanti, a tutte quelle che sono rappresentate sul loro
sarcofago, hanno i capelli, il collo, i polsi carichi di diademi, di collane e di bracciali. Scrive
Coche De Le Fertè”...
come una creazione spontanea, scaturita dall’oscurità nella quale affondano gli inizi
della civiltà etrusca, i gioielli appaiono, all’aurora di questa civiltà nella fioritura delle loro
qualità tecniche e della loro ricchezza decorativa...”.
Mentre la donna greca e la donna romana vivevano nell’ombra della casa, la donna
etrusca usciva molto: la si vede ovunque, sul “davanti della scena”, tenere un posto
considerevole, senza arrossire, dirà Tito Livio di una di loro, per il fatto di essere esposta
agli sguardi degli uomini. In Etruria era un privilegio riconosciuto alle signore più
rispettabili, e non solo alle cortigiane, quello di prendere parte con gli uomini ai banchetti.
Del luogo e dell’ora di questi banchetti non si può dire nulla; si svolgono in uno scenario di
fantasia; spesso gli arboscelli dalle foglie agitate o il cielo limpido sembrano suggerire un
parco pieno di luce. Altrove corone, nastri, ventagli e armi sospesi a una tela invisibile del
fondo invitano a immaginare lo scenario dell’interno di un triclinio ideale. In questi
banchetti sia le donne rispettabili che le cortigiane si coricavano distese sui letti, mentre
durante i pasti anche privati, la moglie se ne sta seduta. Così come esse non si vergognano
di mettersi in mostra nei numerosi affreschi di Tarquinia nella tomba dei Leopardi e in
quella del Triclinio, indossando una parrucca bionda (gli uomini hanno i capelli neri) e,
sulla tunica, un pesante mantello.
E’ la testimonianza della probabile moda di questo periodo e cioè di sbiondire i
capelli. Mentre nel VIII - VI secolo le donne portano i capelli lunghi annodati a coda o
intrecciati dietro le spalle, successivamente li lasciano cadere a boccoli o li annodano a
corona raccogliendoli talvolta in retine. Nel IV secolo abbiamo una pettinatura a riccioli
che cadono ai lati del volto. Successivamente predomina il ciuffo annodato sulla nuca.
Nella tomba dei Leopardi di giovani banchettanti coronati di mirto si abbandonano con
noncuranza ai piaceri del vino e delle feste galanti.
La Tomba del Triclinio è ritenuta la più bella e la più importante del patrimonio
pittorico tarquiniese e le ragioni vanno ricercate nelle esuberanti ricchezze decorative.
Forse la prima donna della kline di sinistra, con il suo profilo, risponde più al tipo greco
che etrusco. Tra la prima e la seconda kline, sul fondo, vi è una figura femminile in atto di
colloquiare con una donna distesa e vicina al suo uomo. Sulla parete destra vi sono forse gli
elementi più interessanti della intera composizione. Cinque personaggi, tre donne e due
uomini, occupano la parete e compongono il fregio in vari atteggiamenti di musica e danza.
A partire dal fondo vi è una suonatrice di nacchere che, leggiadramente vestita,
accompagna a passo di danza e con le braccia alzate il ritmo degli strumenti che ella tiene
con le mani. Segue il suonatore di doppio flauto, poi ancora tre danzatori: due donne e al
centro l’uomo. Nel ritmo dei movimenti c’è l’interpretazione della musica e
nell’atteggiamento dell’ultima danzatrice l’espressione della cerimonia che si sta
svolgendo.
Nell’abbigliamento sopra indicato le donne assistevano a danze, a concerti, a giochi
atletici, a combattimenti di pugilato, a corse di cani, come è testimoniato da una pittura di
Orvieto, che mette in evidenza come, talvolta, venivano allestiti dei palchi appositi. Questi
palchi erano costituiti da una piattaforma di legno sostenuta da montanti alti meno di un
metro dal suolo.
Gli spettatori erano ammassati otto o dieci per tribuna, gli uni dietro gli altri e si
riconoscono, nella promiscua libertà di cui accennavamo, uomini e donne indistintamente.
Tale partecipazione della donna etrusca a tutte le manifestazioni della vita pubblica e
privata poteva sembrare sconveniente, suscitava i sospetti dei popoli vicini e alimentava la
propaganda ostile dei nemici, forse invidiosi.
Della Tomba tarquiniese dei Giocolieri, Camporeale fa questa descrizione: “.... Sulla
parete di fondo è dipinto un gioco di abilità in onore del proprietario della Tomba,
pomposamente seduto su uno sgabello pieghevole; una figura femminile danza tenendo in
equilibrio sulla testa un candelabro, mentre un flautista scandisce il tempo e un giovanetto
lancia degli anelli che devono infilarsi nel candelabro. Lo stesso gioco, anche se privo del
giovanetto con gli anelli per motivi di spazio, è dipinto nella Tomba delle Scimmie di
Chiusi...”.
Di questa situazione invidiabile ed in ogni caso diversa, che provocava tra il popolo
greco e romano un senso di stupore e disapprovazione, si hanno esempi sorprendenti nel
nostro Tito Livio, il quale fece tesoro di una quantità di fatti antichissimi, cerando di
comprenderli, motivarli e spiegarli in base al carattere dei protagonisti. Troviamo infatti
che narra frequentemente la storia dei tre re Etruschi: Tarquinio Prisco, Servio Tullio,
Tarquinio il Superbo, che avevano regnato a Roma nel VI secolo. Scrivendo sotto Augusto,
lo storico racconta un aneddoto significativo, siamo sotto il regno di Tarquinio il Superbo, i
giovani principi suoi figli sono all’assedio di Gabii nel Lazio, dove la caduta della città si fa
spettare: “... In questa guerra di posizione, come in tutte le operazioni che richiedono più
tempo che ardimento, si concedevano più facilmente licenze, ma piuttosto agli ufficiali che
agli uomini di truppa. Quanto ai giovani figli del re, si riunivano talora per occupare il
tempo in festini e in partite di piacere. Un giorno, convenute a bere presso Sesto Tarquinio,
dopo un desinare al quale assisteva anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio, la
conversazione cadde sulle rispettive mogli, vantando ognuno la propria in modo
straordinario. La disputa si fece calorosa, fino a quando Collatino proclamò che era inutile
discutere, perché entro poche ore tutti avrebbero potuto constatare che nessun’altra valeva
la sua cara Lucrezia. “Giovani e vigorosi come siamo, perché non montare a cavallo per
recarci a verificare noi stessi la condotta delle nostre mogli? In tal modo ognuno presterà
fede a ciò che avrà constatato al suo arrivo inatteso. “Eccitati dal vino, tutti gridarono: “Si,
andiamo!”, e a briglia sciolta volarono a Roma, dove arrivarono al calar della notte. In
seguito raggiunsero Collatia, a qualche miglio da Roma. Lucrezia vi apparve molto diversa
dalle nuore del re, che avevano trovato con compagne della loro età (o compagni, poiché il
testo “cum aequalibus” non precisa il sesso) per affogare la noia in un festino sontuoso;
Lucrezia, nel cuore della notte, era occupata in lavori di lana, vegliando con le schiave,
seduta nell’atrio della casa...”. Il confronto, quindi, fu vinto da Lucrezia, nel cuore della
notte, era occupata in lavori di lana, vegliando con le schiave, seduta nell’atrio della
casa...”. Il confronto, quindi, fu vinto da Lucrezia, confronto che per me non è soltanto,
come invece per Tito Livio, quello della virtù, ma di due diversi modi di concepire due
civiltà diverse. Tito Livio, timorosamente, sorvola sulle occupazioni delle principesse, ma
la Tomba dei Leopardi e quella del Triclinio non lasciano dubbi che vi fossero con loro bei
giovani e quanto al modo con cui “affogavano la noia” sappiamo che erano bevitrici
gagliarde.
“... “Age, sane!”; omnes; citatis equis avolant Romam. Quo cum primis se
intendentibus tenebris pervenissent, pergunt inde collatiam, ubi Lucretiam haudquaquam
ut regias nurus quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed
nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedente inveniunt...”
(Titi Livi ab Urbe Condita I - LVII).
Si può peraltro evidenziare una certa esagerazione in questa rievocazione della vita
delle signore etrusche, per far risaltare più che la dissolutezza delle etrusche, l’immagine
della romana, custode del focolare domestico, che nella notte, fila la lana fra le sue schiave,
e soprattutto non è coricata su un letto da festino, ma seduta.
L’ideale etrusco, i costumi etruschi erano diversi. Si possono immaginare i conflitti
domestici che dovettero sorgere quando le due società si mescolarono, quando un giovane
romano presentava al pater familias la fidanzata portata da Chiusi o Tarquinia e l’esame
per quanto riguardava le maniere, non era sempre favorevole.
L’Etrusca non era donna di casa, non si teneva dritta sulla sedia, ma già a partire dal
IV secolo sui dipinti di Tarquinia si vede che le donne etrusche avevano imparato a sedersi
come tutte le altre donne con la conseguenza che furono i romani a trionfare. La
caratteristica che contraddistingueva la donna etrusca da quella romana era abbastanza
evidente nella vita sociale.
In Etruria le donne non solamente godevano di maggior libertà delle romane nella
vita privata, ma adempivano nella società civile una funzione preponderante, alla quale,
nonostante l’autorità morale ben meritata per le loro virtù, le matrone della Roma antica
non potevano aspirare. Ciò appare anche nel personaggio di Tanaquilla, quale Tito Livio lo
ha descritto e nella parte presa da questa donna straordinaria nell’elevazione del marito,
Tarquinio Prisco, figlio del greco Demarato, esiliato dalla sua patria e stabilitosi a
Tarquinia, (cosa abbastanza verosimile in quanto il commercio dei Corinzi sulle coste
etrusche intorno alla metà del VII secolo era intenso). Demarato sposò un’etrusca che
diede alla luce due figli uno dei quali, che Tito Livio chiama Lucumone, sposò appunto
Tanaquilla. “.... Per Lucumone, l’orgoglio delle proprie ricchezze si accrebbe con il
matrimonio; sua moglie Tanaquilla, però, di alta condizione, non poteva ammettere che il
matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata.
Il disprezzo degli etruschi per Lucumone, figlio di un esiliato, di un rifugiato, era per
lei un’onta insopportabile e per vedere suo marito ammesso agli onori, decise di
abbandonare Tarquinia. Roma faceva al suo caso: fra un popolo nuovo, nel quale la nobiltà
si guadagnava la vita con il solo merito, vi sarebbe stato un posto per un uomo coraggioso
ed intraprendente...”. Suggestivo a questo proposito il racconto di Tito Livio sulla loro
venuta a Roma:
“... ad Ianiculum forte ventum erat. Ibi ei, carpento sedenti con uxore, aquila
suspensis demissa leniter alis pilleum aufert, superque cartentum cum magno clangore
volitans, rursus, velut ministero divinitus missa, capiti apte reponit; inde sublimis abit.
Accepisse id augurium laeta dicitur Tanaquil, perita, ut vulgo Etrusci, caelestium
prodigiorum mulier. Excelsa et alta sperare complexa virum iubet; eam alitem ea ragione
caeli et eius dei nuntiam venisse, circa summum culmen hominis auspicium fecisse,
levasse umano superpositum capiti decus, ut divinitus et dem redderet. Has spes
cogitiationesque secum portantes, urbem ingressi sunt, domicilioque ibi comparato, L.
Tarquinium Priscum edidere nomen... “ (Titi Livi ab urbe condita I - XXXIV).
“... Erano giunti per caso nei pressi del Gianicolo. Qui a lui seduto in cocchio con la
moglie, un’aquila calandosi mollemente ad ali tese gli porta via il pilio e, svolazzando con
grande strepitio sul cocchio, di nuovo glielo ricolloca per bene sul capo come se fosse stata
mandata dagli Dei a officio sacro indi rivola in alto. Tanaquilla, si narra, accoglie con letizia
quell’augurio, instrutta qual’era, come sono di solito gli Etruschi, nell’interpretazione dei
celesti prodigi. Abbracciando il marito, lo incita a sperare eccelsi ed eccezionali eventi; e gli
dice quale alato fosse quello, e da qual parte del ciel venuto, e nunzio di qual Dio; e come
abbia effettuato il presagio su la più altra parte del suo corpo, e asportato l’ornamento
sovrapposto al suo capo sto immaginare, entrarono in città, e quivi, presavi dimora,
dichiararono come nome quello di Lucio Tarquinio Prisco...” (Trad. Guido Vitali).
Trentasette anni dopo, alla morte di Tarquinio Prisco, Tanaquilla svolgerà un ruolo
importante nell’avvento al trono, peraltro strano, di Servio Tullio del quale, ancora
bambino, ella aveva conosciuto il futuro. Diventato suo genero, Tanaquilla con la sua
autorità lo impose ai suffragi del popolo.
“Eo tempore in regia prodigium visu eventuque mirabile fuit; puero dormienti, cui
Sevio Tullio fuit nome, caput arsisse ferunt, multorum in conspectu. Plurimum igitur
clamore inde ad tantae rei miraclum orto excitos roges, et, cum quidam familiarium
aquam ad restinguendum ferret, ab regina retentum, sedatoque eam tumultu moveri
vetuisse puerum, donec sua sponte experrectus esset. Mox cum somno et flammam abisse.
Tum, abducto in secretum viro, Tanaquil “viden tu puerum hunc” inquit, “quem tum
humili cultu educamus? Scire licet hunc lumen quondam rebus nostris dubiis futurum
praesidiumque regiae adflictae; proinde materiam ingentis publice pribatimque decoris
omni indulgentia nostra nutriamus”. Indi puerum liberum loco coeptum haberi, erudirique
artibus quibus ingentia ad magnae fortunae cultu excitantur.
Evenit facile quod Diis cordi esse...” (Titi Livi ab urbe condita I - XXXIX).
“.... In quel tempo si vide nella casa del re un miracolo che fu molto meraviglioso;
perocchè un fanciullo il quale ebbe nome Servio Tullio, dormendo nella sua casa in una
culla fu veduta la sua testa attorniata di fiamme. A quel miracolo si levò là entro un grido e
un rumore sì grande, che il re medesimo vi accorse. E conciofossecosacchè alcuno della
famiglia vi portasse dell’acqua per inspegnere il fuoco, la regina lo trattenne, e comandò
che il fanciullo non fosse tocco insin ch’egli si svegliasse per sè medesimo: e si tosto come il
fanciullo si svegliò sparì la fiamma. Allora Tanaquil chiamò celetamente il re e dissegli:
“vedi tu quel fanciullo colà il quale si nutrisse qua entro? Sappi certamente ch’egli sarà
difensore di tutto il nostro albergo ai nostri grandi bisogni, e per lui saremo soccorsi e
sostenuti ai nostrri grandi pericoli: e però sia egli tenuto e guardato con grande studio e
diligenza. Allora lo cominciarono a guardare e a tenere si’ caro come se l’avessero
ingenerato, e a fargli intraprendere ogni buona dottrina.
Ciò che a Dio piace leggermente avviene...” (trad. P. Francesco Pizzorno).
Sebbene non sia necessario ricorrere all’etruscologia per spiegare la condotta di
tutte le donne autoritarie della storia, ve n’è stata una alla corte di Augusto che, nonostante
i tempi cambiati, sembrò far rivivere intatta la tradizione di Tanaquilla: Urgulania, il cui
nome, trovato in una iscrizione di Tarquinia, non lascia dubbi sulla sua origine.
Dalla sua personalità altera e dominatrice, Tacito, in alcuni passi dei suoi Annali, ha
tracciato un ritratto di grande stile. Grazie all’amicizia di Livia, moglie dell’imperatore, era
pervenuta ad una situazione invidiabile che “la metteva al di sopra delle leggi”. Urgulania
fu una donna di carattere imperioso ed orgoglioso, sposata con un certo Plauzio, e, per
assicurare la fortuna alla sua discendenza, usò tutte le risorse derivanti dai legami con la
moglie di Ottaviano Augusto.
Ottenne per il figlio M. Plauzio Silvano, nel 2 a.C., un consolato che divise con lo
stesso Augusto e la cui brillante carriera ci deriva da una iscrizione del Mausoleo fatto
costruire nei pressi della città laziale di Tivoli, per sè e per i suoi parenti, gli epitaffi dei
quali ci informano pure sulla storia della famiglia.
Il figlio aveva sposato poi una Lartia, il cui prenome Lars, Lartis è di evidente
origine etrusca. Viene tramandato inoltre che Urgulania, valida esponente di una rigorosa
politica di endogamia nel seno dell’aristocrazia etrusca, ammise una sola eccezione alle
regole: il matrimonio della nipote Urgulanilla con Claudio, nipote di Livia e futuro
imperatore dopo la morte del Caesar Augustus Divi filius (Ottaviano).
Eloquente anche ciò che Tito Livio ci dice su Tullia, altro personaggio forte ed
autoritario. Tullia disprezzava la sorella minore in quanto, a suo dire, aveva un carattere
mite e non finiva mai di far presente al cognato Lucio Tarquinio che sua moglie non era
degna di lui.
Vi è una frase in questa circostanza che è stata oggetto di numerose interpretazioni:
“muliebri cessaret audacia”, “mancava di audacia femminile” (riferito alla sorella minore di
Tullia). Uno storico inglese sembra voler sostituire il termine “audacia” con “ignavia” e
tradurre la frase con “Tullia disprezza la sorella perché esitava a causa della viltà
femminile”. Jean Bayet propone di leggere “muliebriter cessaret audacia”, “perchè donna
qual’era mancava di audacia”.
Livio invece vuole mettere in evidenza il fatto che Tullia
non è contraria al proprio sesso nè si considera un essere superiore. Il suo disprezzo deriva
essenzialmente dal carattere incompatibile con l’ambizione, l’audacia e l’energia che
contraddistinguono le donne etrusche.
Ma risalendo alla potenza di Urgulania, all’insolente ambizione di Tanaquilla, non si
può fare a meno di individuare, più o meno lasciate in ombra o travisate da storici
pervenuti, le tracce di uno statuto sociale della donna molto diverso da quello vigente nella
Roma tradizionale.
Su queste tracce uno scienziato tedesco contemporaneo e amico di Nietzsche, Johan
Jakob Bachofen, aveva fondato la sua opera “Die sage von Tanaquil”. Bachofen, storico
delle religioni, pose le prime fondamenta della conoscenza del simbolo come entità capace
di “condurre lo spirito del mondo finito alla sfera dell’essere infinito”, individuando
l’origine dei simboli delle antiche culture nella partecipazione della ragione e dei sensi
dell’uomo al rapporto della vita con la morte.
Costituendo sulla base di queste dottrine il suo metodo di interpretazione delle
culture antiche, Bachofen si servì dell’indagine sulle figure del mito per rilevare alcune
costanti della storia in ciò che oggi potremmo definire gli istanti del predominio
dell’archetipo femminile e di quello maschile.
La sua grande opera “Das mutterecht: eine untersuchung uber die gynaikokratie der
alten wecht nach ihrer religiosen und rechtlichen natur” (il diritto matriarcale: un saggio
sulla ginecocrazia del mondo antico nella sua natura religiosa e giuridica) è appunto
dedicata alla ricostruzione dell’antico mondo mediterraneo negli aspetti che attestarono il
prevalere dell’archetipo femminile.
Quest’opera costituisce il primo approfondito
sforzo di penetrare la qualità femminile dell’antica esperienza del divino, e ha aperto la via
a tutte le ulteriori indagini sulla religione della grande Dea mediterranea.
In particolare nell’opera “Die sage von Tanaquil” è descritto il tema dell’opposizione
tra occidente ed oriente, da Bachofen studiata soprattutto nel quadro della tarda antichità.
Lo storico presenta quest’opera “....... come esempio della popolarita di forze che agiscono
entro il substrato delle vicende storiche...”. In questo saggio Bachofen definisce la società
etrusca come un esempio di Mutterecht, matriarcato, sopravvivente nell’epoca storica.
Nelle sue concezioni la società umana, nella sua parabola evolutiva, avrebbe attraversato
una fase matriarcale, nella quale cioè la donna deteneva la massima autorità politica; ciò
anteriormente all’affermarsi di una fase patriarcale, nella quale l’autorità passò
definitivamente nelle mani degli uomini.
La teoria si fonda sull’errato presupposto di una originaria promiscuità sessuale,
anche se mai sufficientemente provata dalle varie osservazioni sui popoli di interesse
etnologico, culturalmente più arretrati.
Il matriarcato rappresenta la tappa di un lungo sviluppo, un equilibrio instabile tra
le varie forze antagoniste in continua evoluzione e che assume un significato solo
confrontandolo con ciò che si osserva in Grecia e a Roma.
La civiltà etrusca era una civiltà arcaica ed il suo femminismo, per quanto strano,
era più una vecchia caratteristica minacciata dallo sviluppo della vicina Roma che una
conquista raggiunta recentemente. “Nella società etrusca il pater familias faceva legge, ma
la mater familias aveva la sua parola dire, parola che, nella maggior parte dei casi era
l’ultima”.
In questa breve trattazione c’è stato l’inevitabile confronto con la civiltà romana e, in
certi casi, con quella greca. La giustificazione di tale paragone va ricercata nell’importanza
di una esatta comprensione e soprattutto di una accurata riflessione su ciò che la figura
femminile ha rappresentato in un quadro sociale così remoto. Una considerazione che
accompagnava la donna fino oltre la morte e che evidenzia i privilegi che ad essa si
riservano nell’aldilà.
E’ opportuno rilevare a questo proposito, come nell’antichissima Tomba dei Leoni
dipinti (Cere - 650) un letto funebre era stato trasformato in un sarcofago. L’esistenza di
un letto funebre solo, nudo, oppure di un letto in un sarcofago, cioè un letto ricoperto da
un sarcofago mette in evidenza il fatto che lo scopo che si perseguiva al momento della
sepoltura era quello di assicurare ad una determinata categoria di persone defunte,
specialmente le donne, un carattere più sacro, di conservarne con più sicurezza le spoglie,
aumentando la loro inviolabilità.
Tale sarcofago funzionava in un certo senso come un’urna, allo scopo di conservare
reliquie particolarmente preziose; come se in questo periodo gli Etruschi, o, almeno gli
abitanti di Cere. avessero considerato le donne di una essenza superiore e quindi soggette
in modo maggiore alla divinizzazione rispetto agli uomini.
Nell’universo della religione etrusca, dominato dalla onnipotenza della divinità
femminile, la Terra madre, che Veio e Cere adoravano sotto il nome di Mera o Giunone, di
Mater Matuta o Leucothea, è probabile che una donna defunta ispirasse più facilmente a
coloro che rimanevano in vita un culto religiose se appariva confondersi nell’aldilà con la
grande Dea, e che una donna in generale fosse considerata partecipante per la sua stessa
natura intrinseca a quella divinità che regnava nei templi e nei cimiteri.
Nel 1836 il sacerdote Alessandro Rigolini e il generale Vincenzo Galassi decisero di
scavare nella necropoli del Sorbo a sud-ovest di Cerveteri. Ciò che videro in una tomba li
lasciò incantati: l’ipogeo comprendeva una camera funebre in fondo ad un lungo corridoio,
nella parete della quale erano state scavate due nicchie: in quella di destra riposavano le
ceneri di un guerriero con armi ed un carro da parata, in un’urna sormontata da un
cavallo; davanti nell’anticamera, vi era un altro defunto, fra suppellettili già ricche,
costituito prevalentemente da oggetti di bronzo e argento. Nella camera funebre
propriamente detta, sul pavimento coperto d’oro, d’argento e d’avorio, a lato del trono, era
steso lo scheletro di una donna coperto di gioielli. La tomba era destinata prima di ogni
altro a lei, Larthia, come risulta dalle iscrizioni incise su tutte le coppe e tazze d’argento. La
descrizione della defunta è stupenda: “....... Adorna come un’immagine divina, la nobile
defunta portava una veste guarnita d’oro: Ornata di delicati motivi di piante e di animali,
essa da l’impressione di un ricamo prezioso e impalpabile........ una fibula dorata allacciava
il mantello della “principessa”. Cinque leoni campeggiano in una mezzaluna racchiusi da
due corone di fiori di loto stilizzati e tra loro intrecciati. Assicurate da cerniere, due
traverse semitubolari reggono una foglia d’oro....... La principessa portava pure due ampi
bracciali, che richiamano i nostri polsini, ornati allo stesso modo. Vi spicca dinanzi a un
gruppo di palme “la signora degli animali” fra due leoni rampanti. I suoi capelli sono
acconciati in boccoli ricadenti sulle spalle, come la dea egizia Hathor. Tre figure femminili
sono inoltre accanto alla divinità.
L’incomparabile tesoro era inoltre costituito da preziose collane, orecchini, anelli
ritorti a spirale, fibbie e spille ..................... principeschi erano anche gli altri oggetti della
donna............ e v’era una quantità di smagliante vasellame nerissimo (i celebri
buccheri)...........
Nella camera tombale erano stati portati anche due veicoli: il carro funebre a
quattro ruote servito forse per il trasporto della donna e una biga”.
Si può dedurre il rapporto che legava i personaggi di questa tomba stupenda: senza
dubbio il personaggio predominante è la donna, Larthia, forse regina e forse raggiunta da
un principe e da un guerriero.
Si sono avanzate alcune ipotesi tra cui quella che considera il guerriero un nemico
vinto, o che la stessa Larthia, vedova del principe, sia stata costretta a seguire il marito
nell’aldilà.
Un’altra testimonianza eloquente è la tomba Bernardini di Preneste dove in molte
coppe e tazze d’argento appariva sovente il nome di Vetusia.
Si suppone inoltre che alle donne etrusche, in epoca di splendore, fosse stato
attribuito il compito di curare le lettere e le arti quando gli incolti mariti erano impegnati
in guerra. Nella tomba dei Vasi Greci, infatti vi sono due anfore firmate dal vasaio
Nicostene. Ciascuna delle due anfore reca l’incisione “mi culnaial” e cioè “appartengo a
Culni”; un’altra testimonianza è rappresentata da un grafito con l’incisione “appartengono
ad Ati”. Si deduce quindi che Ati e Culni amassero l’arte.
Culni in modo particolare, amante dei vasi attici, ricercava preferibilmente gli
esemplari firmati (in questo caso di Nicostene).
Un’altra testimonianza: nel 1895 fu aperta a Tarquinia una tomba in cui riposava
una donna di rango principesco, adorna di un pettorale di oro. Della tomba suscitò
particolare interesse ed ammirazione un pezzo importato, stupendo: un vaso unguentario.
Nella parte superiore appare un re egizio, sotto di lui una serie di immagini raffiguranti,
palme, negri in catene e scimmie.
L’iscrizione recava il nome del faraone Bok En
Rauf, fondatore della IV dinastia, caduto in battaglia nella guerra contro gli Etiopi. Il vaso
fu posto nella tomba mentre il faraone era ancora vivo (e ciò testimonia la tesi).
In altre tombe famose furono rinvenuti oggetti di vario genere alcuni molto preziosi,
provenienti da molti paesi del Mediterraneo tra cui la Grecia, l’Egitto, Cipro, la Siria, l’isola
di Rodi a conferma del gusto raffinato e della particolare dedizione all’arte da parte
principalmente delle donne etrusche.
E’dunque certo che queste necropoli ci offrono spunti tali da poter attribuire alla
donna etrusca, in una società in cui la vediamo prendere parte così attivamente con tanto
splendore agli avvenimenti e ai piaceri quotidiani, calunniata dalle civiltà invidiose
confinanti e no, ma ricoperta in patria di una autorità che possiamo tranquillamente
definire sovrana, ed infine venerata nella tomba quasi fosse una espressione della potenza
divina, un posto privilegiato che, forse, ricordava quello di Fedra o di Arianna della Creta
minoica, e che Cornelia, madre dei Gracchi, non avrebbe mai osato sperare o ambire nella
sua Roma.
Giulio Cesare Giannuzzi
BIBLIOGRAFIA
Mario Moretti - Pittura etrusca a Tarquinia
G. Di Capua - Vita della donna etrusca
Jacques Heurgon - Vita degli Etruschi
Tito Livio - Ab urbe condita
P. Francesco Pizzorno - Traduzione cap. XXXIX ad urbe condita I
Guido Vitali - Traduzione cap. XXXIV ab urbe condita I
Tacito - Annali
Teopompo
Johan J. Bachofen - Die Sage Von Tanaquil (la leggenda di Tanaquilla Heidelberg
1870)
Johan J. Bachofen - Das Muttercht (Stoccarda 1861)
LA CHIESA RISORTA
Nell’autunno del 1977, Don LIBERIO ANDREATTA, un prete di Paderno del Grappa
(TV) di 36 anni di età e di appena 8 di sacerdozio, raggiunse Tarquinia per sostituire il
defunto Mons. Agostino Peracchi. Intelligente, dinamico, aperto, simpatico e anche
piuttosto moderno, andò ad abitare nella casa di Mons. Luigi Di Lazzari morto poco prima
all’età di 82 anni, uno dei prodotti più illustri della nostra città, latinista puro e perfetto,
saldamente ancorato alla Chiesa tradizionalista e conservatrice, amato e stimato da tutti.
Il nuovo arrivato si rese conto, in breve tempo, delle necessità della parrocchia
affidata alle sue cure e del materiale umano su cui operare: del modo di pensare, di credere
e di fare dei tarquiniesi; delle loro abitudini, usi, costumi; del loro attaccamento alla
Chiesa; del loro modo di essere e di sentirsi cristiani e di tante altre caratteristiche tra le
quali la profonda devozione per la Statua del Redentore che, nel giorno di Pasqua, viene
portata in trionfo per le principali vie della città in solenne PROCESSIONE.
C’era una leggenda attorno alla Statua: e la leggenda raccontava che fu ricavata da
un tronco d’albero rinvenuto da un condannato sulla spiaggia di Tarquinia e che l’ignoto
scultore traesse ispirazione da una opera simile custodita a Lucca. Si dice ancora che
l’artista rimase poi accecato, addirittura per volere divino, acciocchè non potesse farne
un’altra altrettanto bella. Una favola questa che, per ricalcarne altre dello stesso tenore che
si tramandano in altri centri della nostra penisola, mostra evidenti i segni della fantasia
popolare. Comunque una leggenda sempre bella e patetica che circondava la Statua in
un’aureola di curiosità, di fascino e di mistero. Studi e ricerche recentissimi portati a buon
fine con tenacia ed entusiasmo dal nostro concittadino Lorenzo Balduini smanioso di
accertare l’identità del vero autore dell’opera, hanno inferto alla leggenda un colpo
mortale.
La Statua lignea del CRISTO RISORTO di Tarquinia altro non sarebbe che un’opera
dello scultore Bartolomeo Canini (anni 1831) su modello in gesso di Pietro Tenerani,
raffigurante il BUON PASTORE, custodito nel Museo di Palazzo Braschi in Roma.
Fu opera meritoria quella scoperta? La risposta è difficile.
Scavare, ricercare, trovare, per la soddisfazione di portare o riportare alla luce del
sole verità nascoste o per dare la paternità a opere e cose che paternità non hanno,
dovrebbe essere motivo di grande contentezza. Crediamo però che la ricerca e
l’accertamento della radice e delle origini o della verità, non sempre raccoglie l’unanime
consenso. Ci sono tante cose per le quali è bello e ci piace cullarci nel mistero. La novella
del CRISTO RISORTO, anche se dolorosa nel finale, piaceva a tutti, uomini e donne, grandi
e piccini così come era arrivata a noi attraverso lunghi decenni. L’averla portata sul tavolo
operatorio per accertarne le origini, non so quanto abbia giovato e giovi alla gente comune,
ai nostri figli, ai figli dei nostri figli e così via, nei secoli dei secoli.
Assicurata la provenienza abbiamo saputo inoltre che la Statua fu acquistata
dalla Confraternita di San Giuseppe con 122 scudi pari a £. 655,75 e che fu custodita nella
Chiesa omonima, in quella Chiesa che il nostro grande concittadino poeta VINCENZO
CARDARELLI ne “ IL SOLE A PICCO” definirà
più tardi “GLORIOSA per possedere la macchina del Redentore, grande, roseo,
bellissimo, con gli occhi celesti e un’incredibile ferita nel fianco”.
Quando fu costruita la Chiesa? Sentiamo cosa dicono MARIO CORTESELLI e
ANTONIO PARDI nel loro libro “CORNETO COM’ERA” pubblicato nel 1982.
“La sua erezione ebbe inizio nel 1619, al tempo del Vescovo Ludovico Zacchia. La
consacrazione avvenne nel 1635, al tempo del Vescovo Cecchinelli. La costruzione fu
attuata utilizzando le elemosine dei fedeli e con il concorso degli artigiani locali: muratori,
fabbri, falegnami di Corneto prestarono gratuitamente la loro opera. Le piccole dimensioni
della Chiesa suggerirono negli anni successivi un ampliamento che però non venne mai
portato a termine. La Chiesa è ad unica navata ed ha quattro finestre: una sopra l’altare
maggiore, due laterali, una sulla facciata.
Il tetto è per metà a tegole e per metà in
muratura. Il pavimento è in laterizi. Il campanile è posto sulla facciata e reca una sola
campana. La Chiesa inizialmente aveva due altari: il maggiore era dedicato alla Vergine.
Un quadro ritraeva la Madonna tra San Giuseppe e San Gregorio Papa. L’altro altare era
dedicato a San Giuseppe ed era posto in cornu Epistolae. Nel 1800 il visitatore Apostolico
rilevò che nella Chiesa esistevano tre altari dedicati a San Giuseppe, S. Gregorio Magno e
alla Natività. La Sacrestia si trovava all’esterno della Chiesa, alla quale però era unita una
costruzione a volta, con due porte che immettevano nella Cappella del Coro - esistente nel
retro dell’altare maggiore - e nella via pubblica. Il locale prendeva luce da una piccola
finestra. In questa chiesa era solita riunirsi l’Arte dei Falegnami ed in una piccola cripta si
conservavano i sacchi e quant’altro era necessario alla Confraternita. A questa chiesa
venne assegnata nel 1788 la cura delle anime della vicina S. Leonardo, la quale era stata
chiusa al culto su decreto del Vescovo Garampi. Il decreto fu reso esecutivo nel 1804, al
tempo del Vescovo Maury. Aveva un’unica fossa cimiteriale, ma nel 1824 il Vescovo Gazola
rilevò che i confrati dell’Arte de’ Falegnami dispongono di due fosse.
Nella chiesa si
custodiva la Statua del Cristo Risorto”.
Mentre raccomandiamo il lettore a prestare la propria attenzione a quel “si
custodiva” in quanto è chiara dimostrazione che già nel 1983 la Statua non si trovava più in
San Giuseppe, torniamo a Don Liberio Andreatta momentaneamente messo in disparte
proprio per approfondire i due temi - CHIESA e STATUA - che il nuovo venuto dal Nord
recepì e fece propri con brillante intuizione. Assimilato il problema, lo fece proprio, si
circondò di un gruppetto di uomini di buona volontà e nel 1979 diede vita al COMITATO
CITTADINO del CRISTO RISORTO le cui finalità erano chiaramente enunciate nella
definizione: “PER LA CONSERVAZIONE DELLA TRADIZIONE PASQUALE E PER IL
RESTAURO DELLA CHIESA DI SAN GIUSEPPE”.
Sotto la spinta frenetica del fondatore, il Comitato si mise al lavoro. Ma mentre i
problemi riguardanti la celebrazione della “PASQUA a TARQUINIA” venivano risolti, non
altrettanto poteva dirsi di quelli relativi al restauro della Chiesa. L’incuria degli uomini
responsabili alla ordinaria manutenzione che non si faceva più, il tempo che tutto
consuma, la perdita delle naturali funzioni cui un luogo siffatto è destinato, tutte queste
lacune messe insieme avevano causato il pauroso degrado dell’intero edificio. L’acqua
penetrata e penetrante a causa di un tetto praticamente inesistente, lo sterco prodotto e
destinato dovunque dai piccioni divenuti ormai padroni del campo, il tarlo che continuava
indisturbato la sua azione demolitrice sui banchi, sui confessionali e su quant’altro di sua
competenza, avevano ridotto l’interno della Chiesa in condizioni tali da minacciare
seriamente la Statua del Redentore. Constatata l’inagibilità ed al solo scopo di evitare guai
irreparabili alle persone ed alle cose, si decise di traslocare la Statua in una cappellina della
monumentale Chiesa di San Francesco per passare, l’anno dopo e per soli motivi di
manovrabilità, in quella di San Leonardo. E mentre l’edificio veniva transennato per motivi
di sicurezza, in Consiglio si discuteva la via da seguire per ottenere i fondi onde affrontare
la ricostruzione della Chiesa ormai abbandonata. Tra le varie proposte prevalse quella di
una sottoscrizione popolare, istituendo vari centri di raccolta nei locali pubblici oltre al
solito versamento in conto corrente postale. Il risultato fu deludente e scoraggiante. Le
solenni celebrazioni dell’Anno Giubilare della Redenzione (1983) ridussero sensibilmente
l’attività del Comitato.
Chiamato a prestare il proprio servizio nel Comitato Centrale quale segretario del
Presidente S.E. Mons. Mario Schierano, Don Liberio Andreatta dovette abbandonare i suoi
vari incarichi in Tarquinia dove tornava raramente e per visite brevissime. Terminato
l’Anno Giubilare (1984), il Cardinale Vicario di Roma S.E. Mons. Ugo Poletti lo nominò
Vice - Delegato della Opera Romana Pellegrinaggi a fianco di Mons. Davide Bianchi,
costringendolo così a trasferirsi definitivamente nella capitale. La partenza di Mons.
Liberio Andreatta, meritatamente promosso, segnò l’inizio della fine del Comitato
Cittadino e con esso la fine del tentativo di restauro della Chiesa. Anche nella Diocesi di
Tarquinia si verificavano mutamenti: al Vescovo Antonio Mazza passato alla Diocesi di
Piacenza, succedeva il Vescovo Mons. Girolamo Grillo. Posto a conoscenza della pesante
situazione determinatasi nella casa del Redentore, il nuovo Presule decise di procedere
subito alla riparazione del tetto e del campanile mentre l’Associazione Falegnami di San
Giuseppe nata nel 1983 con Cappelletta Fedele presidente, offriva la propria collaborazione
fornendo alcune porte e finestre nuove, riparando quelle ancora in sufficiente stato di
manutenzione. Nel contempo Mons. Carlo Pileri, ricordando il recente passato, riallacciò i
contatti con l’ex segretario di quel Comitato Cittadino non più operante. Ne chiese la
collaborazione, l’ottenne e fu così che il rag. Giuseppe Santiloni forte anche del mandato
conferitogli dal Vescovo, dette inizio alla ricerca dei fondi per la ricostruzione della Chiesa.
Sostenitore irriducibile della tesi della “raccolta casa per casa”, convinto che soltanto in
quella maniera i tarquiniesi avrebbero risposto positivamente all’appello - e fu proprio così
- l’incaricato si mise al lavoro e nello spazio di circa un anno, raccolse, da solo, la cifra
sufficiente per la realizzazione della impresa.
Le opere murarie furono eseguite dalla Ditta Medici Benedetto Maria mentre le
tinteggiature dalla Co.Gi.Art. di Coscia Nazareno. Dalla viva voce di questi due ottimi
collaboratori ecco, qui di seguito, le loro impressioni sullo stato di conservazione della
Chiesa prima del loro intervento.
MEDICI: “era la seconda volta che intervenivo in San Giuseppe. La prima si era
verificata in occasione del rifacimento del tetto e di parte del campanile. L’interno della
Chiesa offriva uno spettacolo pietosto sotto tutti gli aspetti: umidità, sudiciume e calcinacci
erano dappertutto. L’intonaco perimetrale sia delle pareti sia delle colonne era fatiscente.
Bastava un colpetto per farlo cadere in terra. Il pavimento era ridotto come quello di un
terrazzo esterno tanto era umido e le mattonelle in graniglia 20 x 20, si erano
completamente allentate a causa di un non perfetto sottofondo e tante erano a pezzi.
L’impianto elettrico non esisteva se non posticciamente Le condizioni della sacrestia e del
locale adiacente dopo la pulizia dallo sterco, erano quelle di una cantina malsana e
decrepita. E’ stato rifatto tutto, dal soffitto alla base. Alcune cose addirittura nuove come: il
pavimento in marmo di Carrara di colore bianco e bardilio, l’impianto elettrico completo
anche di faretti illuminati dall’alto, un impianto di citofono interno per potere eseguire nel
migliore dei modi le operazioni di discesa e di ascesa della STATUA custodita nel grande
armadio di legno sopra l’altare maggiore. All’interno della sacrestia completamente
rinnovata è stato ricavato un bagno decoroso, un altro localetto antibagno con piano di
marmo e lavabo, la relativa fogna che non c’era e la conduttura dell’acqua potabile. In
sostanza si è provveduto ad intonacare, pavimentare, maiolicare, coibentare e disumificare
i vari locali. C’è ancora da fare ma la volontà per farlo non manca”.
COSCIA: “le condizioni della Chiesa prima del nostro intervento erano veramente
pietose. Sembrava uno scantinato: lo sterco sui cornicioni, gli intonaci sgretolati e
impregnati di umidità, il soffitto tutto macchiato e punteggiato da grosse macchie ossidate
per l’enorme quantità di acqua che ci si era raccolta. Siamo riusciti a portare il soffitto alla
sua coloritura iniziale dopo un lungo e paziente lavoro di raschiatura e consolidamento
dell’interno, usando materiali speciali. La presenza di tanta umidità di risalita proveniente
anche dal fondo stradale non ci ha consentito di portare a buon fine, come avremmo
voluto, il restauro delle pareti e delle colonne. Un lavoro questo recentemente ripreso con
il risultato che volevamo.
Con la costruzione, già preventivata, di una controfossa lungo il Vicolo Breve,
l’umidità ancora esistente dovrebbe essere debellata del tutto. Ci vorrà ancora un po’ di
tempo ma tra non molto la Chiesa di San Giuseppe dovrebbe tornare al suo antico
splendore”.
Ultimati i lavori, il Vescovo ne dette l’annuncio alla popolazione con il manifesto che
integramente riportiamo.
Tarquiniesi !
L’impresa che fino ad un anno fa sembrava irrealizzabile, sta divenendo
la più grande realtà.
I lavori di restauro della
CHIESA DI SAN GIUSEPPE
“gloriosa per possedere la macchina del Redentore”
- dirà il vostro grande concittadino VINCENZO CARDARELLI - hanno avuto inizio.
Pertanto la
Statua del Cristo Risorto
potrà ritornare , a PASQUA, nella sua casa, laddove per lunghi decenni l’avete
custodita, venerata e pregata e dove volete che rimanga per sempre.
Il merito di questo atteso ritorno oltre alla DIOCESI che ha provveduto alla
ricostruzione del tetto e del campanile con una spesa che supera i 40 milioni, è tutto
vostro, grazie al generoso contributo che ha dimostrato, non con le parole ma con i fatti, la
FEDELTA’ alle più belle e nobili tradizioni cittadine e la DEVOZIONE per la STATUA della
RESURREZIONE, meravigliosa protagonista della più affascinante e toccante
manifestazione religiosa dell’anno.
A Voi tutti grazie!
Questo nostro ringraziamento è diretto anche al Rag. GIUSEPPE SANTILONI che,
con volontà degna di considerazione e rispetto, ha svolto il compito affidatogli di
ricercatore instancabile e fidato della raccolta dei fondi necessari al raggiungimento dello
scopo ed ai soci della ASSOCIAZIONE FALEGNAMI DI S. GIUSEPPE che hanno donato
alla Chiesa porte e finestre nuove.
Che Dio benedica tutti Voi.
GIROLAMO GRILLO - VESCOVO
Nella notte del sabato santo del 29.03.1986, i portatori della Macchina, riportavano
la Statua nella Chiesa anch’essa finalmente “RISORTA”, tra la commozione dei tantissimi
che avevano voluto assistere all’atteso RITORNO. E nel pomeriggio della domenica di
Pasqua, la PROCESSIONE del CRISTO RISORTO riprese il via dalla casa di sempre, la
“sua” casa, al suono delle campane della Torre Civica e quelle di tutte le Chiese, tra gli spari
festosi delle campane delle doppiette maremmane, in un tripudio di folla soddisfatta e, è
ancora Cardarelli che parla: “piena di felicità e di benessere, già col sapore delle uova
pasquali in bocca”.
Un anno dopo, il 09.04.1987, un gruppo di volenterosi fondava l’ASSOCIAZIONE
FRATELLI DEL CRISTO RISORTO con scopi e finalità ben definiti tra i quali fondamentali - quelli della cura assidua e costante della Chiesa e della Statua affinché
quanto era accaduto non si dovesse ripetere mai piu.
La Segreteria della
Associazione Fratelli del Cristo Risorto