SAGGIO DI SCAVO SULLO SPERONE NORD DI S. MARIA IN
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SAGGIO DI SCAVO SULLO SPERONE NORD DI S. MARIA IN
SAGGIO DI SCAVO SULLO SPERONE NORD DI S. MARIA IN CASTELLO Nell’estate 1987 i lavori di restauro alla Chiesa di S. Maria in Castello condotti dalla Società Tarquiniense d’Arte e Storia, che prevedevano fra l’altro la sistemazione di quella ristretta area a Nord dell’edificio sacro - tra questo e le mura castellane - fecero intravvedere proprio in questo settore dove si stavano effettuando movimenti di terra una situazione archeologica “intatta” con una complessa stratigrafia. Questa circostanza indusse la Soprintendenza a sospendere temporaneamente i lavori in attesa di poter eseguire indagini scientifiche - che si sono purtroppo potute effettuare solo nel Settembre dello scorso anno ma il cui risultato giustifica ampiamente la prudenza usata nel procedere delle operazioni. Come è noto il sito ove è situata la Chiesa di S. Maria in Castello corrisponde all’estremo lembo occidentale del colle dei Monterozzi che precipita a strapiombo nella sottostante valle del Marta. Il luogo, per la sua evidente posizione strategica di sbarramento della valle del fiume per chi volesse risalirlo dalla foce verso l’entroterra, dovette fin dalle origini aver assunto un ruolo chiave nella storia del popolamento della regione. Pertanto, anche quando l’annosa questione circa l’ubicazione della Tarquinia etrusca fu definitivamente risolta in favore del Pian di Civita, nessuno studioso potè sottovalutare l’importanza strategica del luogo che comunque, sia prima della fase urbana di Tarquinia - in epoca protostorica che durante l’esistenza della stessa città dovette senz’altro ospitare una qualche forma di insediamento il cui rapporto con l’abitato principale solo future indagini archeologiche potranno chiarire. La scoperta, nel 1953, della necropoli villanoviana delle Rose sulle pnedici sudorientali Monterozzi a non più di 500 m. in linea d’aria da S. Maria in Castello ed il rinvenimento, anni più tardi, di frammenti ceramici protovillanoviani (età del Bronzo finale) nelle immediate vicinanze della Chiesa, hanno confermato quella che prima poteva essere solo una suggestiva ipotesi. E’inutile infine soffermarsi sull’importanza, nota a chiunque si sia avvicinato al problema, di questo estremo sperone occidentale dei Monterozzi per le origini e lo sviluppo della medioevale Corneto. Tutte le ragioni sopraesposte evidenziano l’interesse dei saggi archeologici condotti a Settembre dalla Soprintendenza che, anche se del tutto preliminari, lasciano già intravedere spiragli di luce su alcuni dei momenti della storia dell’insediamento umano del sito, e che per questo si spera di poter continuare e completare al più presto. Essendo previste solo due settimane di scavo, è stato necessario limitare l’area d’intervento. Sono state aperte quindi due trincee, una a monte (trincea A) di m. 7,50 x 2 e una più in basso (trincea B) di m. 5,50 x 2: ambedue, partendo dal fianco settentrionale della Chiesa giungono fino alle mura castellane. Durante il periodo di lavoro nella trincea A si è scavato sino a quota - m. 2 e nella trincea B sino a quota - m. 2,50. Nella campagna di scavo sono state individuate 37 unità stratigrafiche databili a tre periodi storici: epoca moderna, medievale e protostorica. Epoca Moderna A questo periodo sono databili una serie di strati composti in prevalenza da ossa umane e da resti di corredo (fibbie ed altri frammenti metallici). Dovrebbe trattarsi di uno svuotamento di fosse comuni collegate con l’uso di Santa Maria in Castello. Epoca Medievale Riferibili a questo periodo sono alcuni muri e abbondanti frammenti ceramici. I resti di epoca medievale sino ad ora individuati sono pertinenti a due fasi: una più recente, databile probabilmente dalla metà del XII secolo agli inizi del XIII, e una più antica, scavata solo in parte, che sembra databile ai secoli XI-XIII. Alla prima fase (XII-XIII sec.) sono riferibili muri di notevoli dimensioni, costruiti con blocchi sia squadrati che no, disposti in modo da creare un parametro regolare anche con l’aggiunta che in parte poggiano sulla roccia, e alcuni filari dell’elevato. Alla seconda fase (XI-XII sec.) sono relativi altri due muri individuati sul lato nord della trincea A. Questi sono costruiti con blocchi squadrati nella parte alta, che è l’unica visibile al termine dello scavo. Le classi ceramiche attestate sono: acroma grezza, acroma depurata, ceramica dipinta in rosso e invetriata. L’acroma grezza è la classe più rappresentata. Numerosi i frammenti di olle dagli orgli estroflessi e con anse complanari all’orlo. Non mancano frammenti pertinenti a testi e tegami. L’acroma depurata è anch’essa abbastanza attestata; i frammenti sono per lo più pertinenti ad anforacei (anfore con anse a nastro e anforette). La ceramica dipinta in rosso o bruno presenta due tipi di decorazioni, o semplici bande di diverso spessore o linee ondulate. I frammenti sono in prevalenza di anforacei. Rari, invece, i frammenti di ceramica a vetrina pesante e di ceramica a vetrina pesante a macchie. Inoltre molti materiali da costruzione (mattoni, tegole, coppi) sono stati trovati negli strati di abbandono e si segnalano anche frammenti di intonaco dipinto. Le strutture individuate dovrebbero essere relative a costruzioni precedenti la fondazione di Santa Maria in Castello, alcune delle quali sembra abbiano continuato a vivere durante l’edificazione della chiesa, prima di essere abbandonate. Purtroppo l’esiguità dell’area scavata e il poco tempo a nostra disposizione non hanno permesso al momento altri risultati, che solo la continuazione dello scavo e la totale esplorazione dell’area a nord di Santa Maria in Castello potrebbero dare. Epoca Protostorica Le strutture medioevali sopra descritte poggiano, in ambedue le trincee, su strati di terreno in forte pendenza verso il ciglio settentrionale del colle, nerastri, con evidenti tracce di bruciato e ricchi di numerosi frammenti ceramici. Tali strati, appena intaccati in superficie e ancora tutti da indagare, sembrano comunque non solo confermare ma ampliare l’orizzonte cronologico indicato dai rinvenimenti di superficie di qualche anno fa: Infatti mentre la maggior parte del materiale sembra effettivamente riferibile al periodo protovillanoviano, alcuni frammenti sono forse databili alle fasi più antiche dell’età del bronzo mentre altri dovrebbero scendere all’età del ferro (villanoviano). La forte pendenza degli strati suggerisce l’ipotesi che essi siano scivolati, forse in relazione alla sistemazione del terreno per l’impianto di strutture di epoca successiva, dalla sommità del colle dove è logico ipotizzare che dovesse situarsi l’eventuale insediamento. Maria Cataldi Valeria Bartoloni CORNETO NEGLI APPUNTI DI UN VIAGGIATORE FRANCESE DEL PRIMO SETTECENTO Poco dopo il meriggio del 22 aprile 1711, era un mercoledì, una piccola schiera di cavalieri varcò la Porta della Valle e discese le pendici della collina su cui sorge la città. Raggiunse il piano e si fermò là dove si incontravano - e ancora oggi si incontrano - a distanza di circa un miglio dal perimetro delle mura, le due strade che provengono da Civitavecchia. Si preparavano a rendere omaggio al cardinale Giuseppe Renato Imperiali, prefetto della Congregazione del Buon Governo, che, come ogni anno, all’inizio della primavera, si era concesso un soggiorno di ferie e di lavoro nella città capoluogo del Distretto, cui Corneto era stata aggregata dalla Costituzione di Innocenzo XII del 1963. In una delle carrozze che componevano il convoglio partito alla volta di Corneto sedeva un frate domenicano grassoccio e arguto, ormai prossimo alla cinquantina, che il potentissimo prelato aveva voluto accanto a sé, perché gli rallegrasse le due ore del viaggio. Fin dal primo incontro, avvenuto nel marzo dell’anno precedente, l’Imperiali aveva potuto sperimentare la vivacità di quella conversazione e ad essa volentieri fece ricorso nei sei anni in cui Jean Baptiste Labat fu ospite del convento dei Domenicani, che officiavano la chiesa di S. Maria, allora unica parrocchia di Civitavecchia. Se la nobiltà dell’origine e l’enorme prestigio del cardinale genovese ci impediscono di pensare che si fosse costituito un rapporto di amicizia, come comunemente intendiamo, possiamo certamente affermare che il destino aveva fatto incontrare due personaggi che avevano vissuto esperienze, nella loro diversità, egualmente straordinarie e capaci di alimentare quella lunga frequentazione. Erano già trascorsi ventuno anni da quando il figlio di Michele Imperiali, principe di Francavilla e marchese d’Oria, e di Brigida Grimaldi, sorella del principe di Monaco, era stato elevato alla porpora e quindici da quando, con grande autorevolezza, presiedeva la Congregazione del Buon Governo, cui competevano le funzioni di controllo sull’amministrazione delle Comunità dello Stato della Chiesa. L’Imperiali aveva un particolare motivo per far visita, sul finire di quel mese di aprile, alla Comunità di Corneto. Egli intendeva controllare l’andamento dei lavori per la costruzione dell’acquedotto, dopo avere, con ogni probabilità, effettuato una visita preliminare alla stipula del contratto. 1) In queste occasioni, i poteri del cardinal prefetto erano pressoché assoluti e l’insistenza con la quale richiese al Labat di accompagnarlo può trovare una motivazione valida anche nelle competenze tecniche del domenicano francese, il quale era architetto e stava dirigendo i lavori di restauro e di completamento della facciata e del chiostro di S. Maria. Sul finire del breve soggiorno nella nostra città, la mattina del 28 aprile, accadde l’avvenimento che gli avrebbe offerto l’opportunità di apparire per la prima volta sulla 1) In calce ed in margine alla lettera del 13 febbraio 1708, con la quale notificava l’approvazione della Congregazione del Buon Governo all’ultimazione dei lavori dell’acquedotto, il Soprintendente de Carolis preannuncia in questi termini una imminente visita dell’Imperiali: “Soggiungo che spero di poter condurre e servire l’Em° Sig. Cardinal Imperiali costì per loro servigio che però le strade sieno bene accomodate. Stimo bene che habbino di scrivere con atti di sincieri ringraziamenti all’Em° Sig. Cardinal Imperiali Pref° del B. G° per la detta grazia ricevuta”. Documento in Arch. Stor. Comune di Tarquinia, serie Acquedotti, anno 1708. Sull’argomento rinvio a G. TIZIANI, L’acquedotto, la fontana di piazza e altri episodi del settecento Cornetano, Tarquinia, 1981. Sulla lunghissima attività di “committente” sviluppata scena della grande storia: un messo venne espressamente da Roma ad annunciargli la morte dell’Imperatore Giuseppe I e, di lì a pochi mesi, proprio al cardinal Imperiali venne affidato l’incarico di legato pontificio presso il fratello del defunto, Carlo re di Spagna, di passaggio a Milano per ricevere l’investitura a Imperatore d’Asburgo. Questa legazione, accuratamente descritta dal Labat, sanzionò il grande prestigio raggiunto dall’Imperiali e pose le premesse alla sfortunata candidatura al pontificato del 1724. 2) Ma il 1724 è anche, nella nostra storia municipale, l’anno in cui viene realizzata la fontana monumentale, almeno questa è la data che leggiamo nella epigrafe, la quale attribuisce all’Imperiali, senza alcun riferimento al pontefice regnante, la paternità dell’opera. Di eguale segno, ma ben più suggestivo, è il messaggio che ancora vorrebbero trasmetterci le quattro aquile minuziosamente previste e descritte dal terzo capitolo del contratto di appalto, collocate alla base della colonna e richiamanti lo stemma dell’Imperiali: esse sembrano sovrastare e surclassare l’aquila scaccata contrassegnate, per un gioco della sorte, anche l’arme di Michelangelo de’ Conti, che sotto il nome di Innocenzo XIII nel marzo di quell’anno concludeva la sua vita. 3) Di un così autorevole personaggio erano in attesa i maggiorenti cornetani alla piana degli Oliveti. Ma non poté certamente passar loro inosservato quel curioso accompagnatore che, nel corso dei quattro giorni di permanenza in città, si fece condurre ovunque, investigò e prese appunti, come era sua inveterata abitudine. Egli aveva lasciato Parigi, la città dove era nato nel 1663, il suo convento di rue S. Honoré, all’età di trent’anni e si era imbarcato per le isole francesi d’oltre Atlantico. Come, un secolo dopo, avrebbe fatto un ben più famoso viaggiatore suo connazionale, Francois René de Chateaubriand, il Labat varcò l’Atlantico prima ancora di attraversare le Alpi. 4) Quella permanenza, protrattasi per circa dodici anni, lo vide passare di isola in isola, impegnato ben al di là delle funzioni proprie di un missionario: costruttore di un torchio ad acqua per la produzione dello zucchero, ingegnere miilitare, impavido direttore d’artiglieria in occasione dell’assalto inglese alla Martinica del 1703, amico dei filibustieri, dall’Imperiali si veda A. GAMBARDELLA, Architettura e committenza nello Stato Pontificio tra Barocco e Rococò, Napoli, 1979. 2) In occasione di quel conclave la candidatura proposta dai cardinali zelanti avrebbe ricevuto l’opposizione della Spagna e della Francia proprio perché l’Imperiali era considerato l’esponente più autorevole del partito filoasburgico. 3) Questi due personaggi ci appaiono ancora contrapposti in un passo del tomo VI dei Voyages in cui L. sottolinea la tracotanza dimostrata dal card. de’Conti, allora vescovo di Viterbo, nel corso di una visita pastorale a Civitavecchia, fino al 1854 compresa in quella diocesi: egli giunse a forzare il Monte di Pietà, non sottoposto alla sua giurisdizione e fondato dall’Imperiali, “un Cardinale la cui carità eguaglia la saggezza e surclassa il lustro della porpora”. 4) Riporto da Y. HERSANT, Italies, Anthologie des Voyageurs français aux XVIII et XIX Siècles, Paris, 1988, pp. 10721073 lo straordinario elogio che Chateaubriand dedica a L.: “Je ne sache aucun voyageur qui donne des notions plus exactes et plus claires sur le gouvernement pontifical. Labat court les rues, va aux processions, se mêle de tout et se moque à peu près de tout”. guaritore, egli entrò in una straordinaria sintonia con la mentalità degli indigeni, di cui divenne l’ossequiato protettore. Tornato in Europa sul finire del 1705, scese per la prima volta in Italia all’inizio dell’anno seguente, soggiornando a Genova, Livorno, Firenze e Bologna dove si teneva il capitolo generale dell’Ordine domenicano. Gli anni del secondo viaggio in Italia (1709 1716) vengono trascorsi quasi per intero a Civitavecchia, di cui il Labat ci fornisce una descrizione straordinariamente preziosa. Dal convento di S. Maria egli si allontanò soltanto episodicamente, per completare la conoscenza del nostro paese con puntate a Napoli, Messina e in Toscana, oltre che, come nel nostro caso, nelle località più vicine alla sua abituale residenza. Non gli mancavano dunque gli argomenti per interessare e divertire il cardinal Imperiali, quando questi soggiornava a Civitavecchia e ce lo confessa candidamente, quasi lanciando un grido di vittoria, quando ci riferisce del primo colloquio: “on peut croire que je ne m’endormis pas, je lui dis tout ce que je crus propre à piquer sa curiositè!”. Il 19 maggio del 1716 Jean Baptiste Labat fece ritorno al Couvent des Jacobins di rue S. Honoré, di cui divenne procuratore, ed impiegò buona parte dei ventidue anni che gli restavano da vivere a riordinare e pubblicare i numerosi taccuini di remarques riempiti nel corso dei suoi viaggi. Con la pubblicazione, nel 1722, del Voyage aux Iles francaises de l’Amérique ed, otto anni più tardi, dei Voyages en Espagne et en Italie egli si inserisce pienamente in un genere letterario assai fiorente fin dal XVII secolo, che avrebbe continuato ad offire anche nell’ottocento una produzione molto interessante, in grado di istituire un saldo legame tra la Francia e il nostro paese, come ampiamente dimostra la citata antologia di Yves Hersant. Il soggiorno civitavecchiese di Stendhal, giusto un secolo dopo, può, in fondo, apparirci come una suggestiva replica della vicenda di cui ci stiamo occupando. Alla base di questa volontà di racconto c’è - procalamata in Prefazione - la polemica contro i Voyageurs de Cabinet (i viaggiatori di biblioteca che “all’ombra di uno stile fiorito e di una facile narrazione si credono in diritto di dire tutto e di imporlo a tutti”), la scelta di raccontare esclusivamente ed esattamente soltanto quello che ha visto di persona, rinunciando a qualsiasi sfoggio di erudizione. Il risultato è una miscela straordinaria di registrazioni puntuali fino alla pignoleria, di narrazioni e di giudizi che perseguono l’intento di demistificare ogni conformismo mentale, di vigorose sopravvivenze barocche e di lucidità cartesiana. Vorrei richiamare brevemente l’attenzione del lettore sugli elementi che mi sembrano più interessanti in questo ritratto della città ricco di informazioni riguardanti l’urbanistica, il clima, le condizioni di vita e la “mentalità” della popolazione, soprattutto nella classe più elevata, con la quale il Labat fu più direttamente a contatto. Il primo di questi è senza dubbio costituito dalle notizie di carattere archeologico. Le pagine in cui vengono descritte le Grotte possono essere considerate l’atto di nascita della nostra letteratura archeologica, perché forniscono la più antica descrizione sufficientemente organica e precisa della prima necropoli venuta alla luce. La casuale scoperta si verificò in occasione dei lavori di scavo per il completamento dell’acquedotto. 5) Così testimonia l’architetto Labat, il quale non volle (e forse non avrebbe potuto) esimersi dall’ispezionare con cura questi lavori, ripresi e condotti a termine, come ho già detto, sotto il diretto e periodico controllo dell’Imperiali. La descrizione che ne deriva può proficuamente integrare la ricca documentazione conservata nel nostro Archivio Storico. C’è infine un terzo elemento che mi ha incuriosito e sollecitato a qualche approfondimento: la notizia relativa all’origine del nome della località in cui quella ventina di gentiluomini cornetani attendeva il piccolo convoglio proveniente da Civitavecchia. Les Oliviers, gli Oliveti (toponimo, come spesso accade, conservato nell’ambito religioso dalla denominazione della Chiesa di S. Maria dell’Olivo e trasmesso al quartiere di recente edificazione) furono impiantati - racconta il Labat - dai Genovesi che, avendo avuto la terra di Corneto in pegno per il prestito concesso ad un papa, introdussero, alcuni secoli addietro, questa coltura allora non presente nel territorio, certi dell’insolvenza pontificia. L’elogio della laboriosità dei Genovesi, a cui i Cornetani dovevano “una buona parte del commercio e della ricchezza della Città”, è certamente accentuato dall’origine del cardinale Imperiali e spinge il Labat a scagliare accuse molto dure contro l’indolenza dei Sovrani Pontefici. Ma ciò che più direttamente ci interessa è la rappresentazione di un quadro economico caratterizzato dalla crisi della coltura del grano, non più risorsa principale, e dal parallelo affermarsi dell’allevamento ovino accanto ed a discapito del tradizionale allevamento bovino. 6) E’ in particolare, la possibilità di ricostruire una pagina della storia del paesaggio agrario cornetano, integrando questa notizia con quella proveniente dagli Annali di Genova del Giustiniani: nel 1386 papa Urbano VI contrasse 5) L’altrettanto casuale scoperta di Carlo Avvolta nell’inverno del 1823 aprì, come è noto, la grande stagione degli scavi di Tarquinia (L. DASTI, Notizie Storiche e Archeologiche di Corneto e Tarquinia, Roma, 1878, pp. 63 - 70). La descrizione di L. anticipa di molti decenni quella dell’inglese J. Byres, fin qui considerata la più antica. 6) Su tutta questa vicenda rinvio a due pubblicazioni di B. BLAsi in “Bollettino della Soc. Tarquiniense di Arte e Storia”, XI, 1982: Gli Statuti Agrari della città di Corneto (pp. 59 - 76) e Il bue aratore (pp. 103 - 123). con la repubblica ligure un debito di settantamila ducati per l’armamento di dieci galere e concesse in pegno, con altri possedimenti, anche la terra di Corneto. 7) Mi piace pensare che quanto rimane dei rigogliosi oliveti descritti dal Labat e raffigurati dalle carte del tempo possa vantare una origine così antica e così avventurosa. Ma ecco, in una traduzione che ho cercato di mantenere il più possibile fedele alla narrazione dello scrittore francese, le pagine del Voyage à Cornette restituite alla memoria storica della nostra città. 8) Partimmo il Mercoledì intorno alle dodici con due carrozze da sei cavalli e tre o quattro uomini a cavallo. Sua Eminenza mi fece sedere alla sua sinistra nella parte più interna della carrozza, il signor Marchese, suo fratello, e Padre Dally, Religioso del nostro Ordine, di un’antichissima famiglia nobile d’Irlanda, erano nella parte anteriore. Ci sono dieci miglia da Civita Vecchia e Corneto, due strade vi ci portano, una è lungo il litorale fino al ponte sul fiume chiamato Mignone, l’altra è sulla destra della prima a circa un miglio e mezzo. Si congiungono all’altezza degli Oliveti che si trovano un po’prima di arrivare alla Città. Questa è situata su una collina di modesta altezza a tre piccole miglia dal mare. E’separata da una vallata non molto profonda da un’altra collina coperta di alberi, sulla quale era costruita la Città di Tarquinia, che fu rivoltata da cima a fondo, quando furono cacciati i Tarquini da Roma intorno all’anno del mondo 495 e 505 dalla nascita del Messia. 7) Nell’Arch. Stor. di Tarquinia, serie Brevi, Patenti e Privilegi è conservata una copia cartace risalente alla seconda metà del ‘700 della pag. 152, libro IV degli Annali citati in testo: “Et l’hanno di mille trecento ottanta sei, sotto il Ducato di Antoniozzo adorno la Repubblica haveva i pegno la terra di Cornetto da Papa Urbano per sessanta millia ducati per le spese fatte in l’armamento delle dieci galere sopradette, et per pagamento di questa somma il papa diede al commune il castello et il borgo della Pietra con le sue ville, la villa di Borzoli et di Varacci, il Castello et il borgo di Giustenesi, il borgo o sia la terra di Toirano con le ville nominate Patarello, Bojrano et Braja, che erano del Vescovato di Albenga, la fortezza et il luogo di Berzezzi del vescovato di Novi, la fortezza et il borgo di Spotorno con le ville della costa di Vado di Teazano, di Varesca et di Morosi del Vescovato di Savona, et fu ricevuto il giuramento della fidelità di tutte queste terre”. Le Croniche del Polidori (pp. 204-206), nelle quali la notizia è inserita in margine da altra mano, gettano luce su questa lontana vicenda riferendo di tre sollevazioni di Corneto contro Urbano VI, negli anni 1383, 1385 e 1386, e della liberazione del pontefice, assediato a Nocera da Carlo di Durazzo, ad opera di “dieci Galere della Repubblica di Genua, commandate da Clemente di Fabio, a quest’effetto chiamate”. Era l’anno 1385 e sono certamente queste le dieci galere a cui si riferisce il Giustiniani. Urbano VI, imbarcatosi su di esse, “lasciato ogni altro Porto si conduce a Corneto, et di qui a Genua”, dove nel modo che abbiamo già visto, salderà il suo debito con la Repubblica. E’infine da notare la corrispondenza della storpiatura del nome della città che troviamo nel racconto del Giustiniani (Cornetto) e in quello del Labat (Cornette). 8) Ho potuto utilizzare il testo - da tempo introvabile e, di fatto, inedito per la nostra città - nella edizione di Amsterdam del 1731, fortunosamente recuperato a Parigi, nell’estate del 1988, dal collezionista e studioso di storia locale Adelmo Covati, che ringrazio sentitamente. Ringrazio altresì Lidia Perotti e Piera Ceccarini per avermi agevolato con la consueta gentilezza nel compimento dei necessari riscontri presso l’Arch. Storico del Comune di Tarquinia. Il Voyage à Cornette costituisce il terzo capitolo del V tomo. Ho voluto riportare anche la relazione della visita a Montalto, inserita nel medesimo capitolo, per non interrompere la continuità del racconto e, soprattutto, per offrire un saggio più ampio e vario dello stile e degli interessi culturali del L. Sembra che l’Abate Baudran si sia divertito a ingannarsi o a ingannare gli altri quando dice nel suo Dizionario alla pagina 1724 che la Città di Tarquinia è a due miglia da Corneto. A meno che la situazione di queste due Città non sia del tutto cambiata, non c’è mai stato un miglio di distanza dall’una all’altra. 9) Il fiume Marta, tra i più notevoli della regione, passa quasi ai piedi della collina dove è edificata Corneto. La sua collocazione la rende ben visibile da lontano, ed oltre a questo vantaggio è piena di torri quadrate molto alte, che gli antichi abitanti avevano cura di innalzare a fianco delle loro abitazioni, come un segno che essi e i loro antenati erano stati onorati della prima Magistratura della Città. Questa Città è molto antica. Si potrebbe credere che è costruita con i resti di Tarquinia, non osando gli abitanti di questa stabilirsi sulle rovine della loro patria, che i Romani guardavano pressappoco come gli Ebrei guardavano Gerico, e non volendo d’altra parte allontanarsene troppo, per non essere obbligati ad abbandonare le loro terre che erano nei dintorni. Si stabilirono il più vicino possibile alla loro patria ruinata e costruirono la Città, che portò dapprima il nome di Castrum Novum e che in seguito si chiamò Corneto. La ragione di questo cambiamento di nome non è giunta fino a noi, benché io mi sia data gran pena di scoprirla. Ho pensato talvolta che il nome Castrum Novum, che le si addiceva durante i primi tempi della fondazione, le era tornato a vergogna in capo a qualche secolo, come se le rimproverasse senza posa questa sua novità, benché essa potesse ornarsi del titolo di antica e di vecchia che fa tanto onore a una Città quanto dispetto a una donna. Ho pensato inoltre che il gran numero di Torri che oggi si vede qui, e che non è niente in confronto di quello che si vedeva un tempo, le quali somigliano abbastanza a dei corni, potrebbe avere in qualche modo influito sulla nuova denominazione e averla fatta chiamare Castrum Cornutum, da cui col passare del tempo, è derivato quello di Corneto. Ecco il mio pensiero, lo lascio alla discrezione del pubblico. Gli abitanti sono chiamati Cornetani, o per abbreviazione Cornuti 10) e si vedono in molti luoghi queste quattro lettere iniziali S.P.Q.C. che significano Senatus Populusque Cornetanus. Ho visto un discorso, che si pretendeva essere composto a lode di questa città 9) L. misura la distanza in linea d’aria. Il Baudran è l’abbé Baudrand noto geografo e cartografo del XVII secolo, cui L. fa riferimento anche nella Prefazione. 10) L’equivoco in cui qui cade L. è provocato, con ogni probabilità, dalla forma epigrafica abbreviata, per l’eliminazione della sillaba in nasale, CORN: TI per CORNETANI. Nel periodo precedente, come si vede, L. estende a tutta la città il nome del terziere di Castrum Novum, mettendo erroneamente in rapporto l’aggettivo novum con la città di Tarquinii invece che con il centro altomedioevale di Cornetum. e dei suoi abitanti, nel quale erano stati raccolti tutti i passi letterari in cui si è parlato di corna. Comincia con queste parole: Nolite extollere in altum cornu vestrum. 11) La Città di Corneto non è così piccola, né così malsana, né semideserta come dice l’Abate Baudran nel suo Dizionario alla pag. 505. E’ vero che non si avvicina a Roma né a Parigi, ma è di una grandezza ragionevole, abbastanza popolata rispetto alla sua grandezza. La sua posizione la fa godere di un’aria più pura che se fosse costruita nella pianura e ciò che mi persuade che l’aria non è così cattiva come si dice che è che gli uomini e le donne hanno colorito vivo e animato, che i bambini vengono allevati senza fatica e che i tetti delle case sono puliti e privi di qualsiasi formazione di muschio, segno evidente di un’aria pesante, sporca, densa e di cattiva qualità. Il Centro della Città è occupato da una Piazza più lunga che larga, di cui un lato è formato dal Municipio e dal Palazzo del Cardinal Vitelleschi, che era nato in questa Città che ha onorato la sua patria e le ha fatto molto del bene. 12) Ha fatto anche da culla a Papa Gregorio V e non c’è bisogno d’altro per dare molto lustro a una Città 13) Il Municipio è molto antico, bello, grandioso e di buon gusto nella distribuzione delle sue parti. Ho visto iscrizioni e marmi antichi, qualche affresco e il modello in gesso dell’acquedotto al quale allora si lavorava per far arrivare acqua nella città in maggiore abbondanza, benché questa ne fosse già fornita di una quantità più considerevole di quanta ce ne sia a Parigi, fatte tutte le proporzioni e senza considerare il fiume Senna che l’attraversa. Quasi tutte le strade sono molte ben dritte e aperte. La posizione della Città non ha consentito di farle molto larghe. Ma lo sono abbastanza perché nelle più strette ci possano passare due carri in senso inverso; le case sono ben costruite, provviste di buon gusto, eleganza, ordine e simmetria; per lo più sono a tre piani. C’era anticamente una Sede Episcopale che è stata unita a quella di Montefiascone, situata a sole diciotto miglia. Il motivo di questa unione è alquanto difficile da comprendere, perché sicuramente Corneto è più grande e più antica di Montefiascone. Si trova inoltre in una regione almeno altrettanto favorevole. Può darsi che, avendo le scorrerie e le razzie dei Saraceni e degli altri barbari nell’ottavo e nono secolo desolato Corneto, che era più alla loro portata di Montefiascone, si sia trasportato là il titolo episcopale, per impedire che il Prelato e il suo Clero cadessero nelle mani di quei pirati, come sono stati uniti i titoli episcopali di Toscanella e Civita Vecchia a quello di Viterbo, quelli di Sutri e di Nepi e una quantità di 11) Si tratta di un carme che evidentemente si inserisce nalla tradizione celebrativa inauguarata dal Vitelli ed alimentata, al tempo della visita del L., dal ceto dominante cornetano (cfr. POLIDORI, o.c., pp. 1 -22 e 379-385). 12) La Place plus longue que large descritta da L. non era stata ancora divisa nelle attuali piazze Cavour e Trento e Trieste dalle numerose costruzioni del XIX secolo che realizzarono lo stretto passaggio di Corso Vittorio Emanuele. 13) Anche POLIDORI, o. c.p. 50, riferisce dell’origine cornetana di Gregorio V. altri Episcopati in Italia: cosa che dimostra che il gran numero di Vescovati che ci sono nella regione non sono stati creati dai Papi per essere più forti nelle votazioni durante i Concili, come il volgo ignorante crede prestando fede ai novatori, poiché, se fosse così, non si vedrebbero tanti Vescovati riuniti come ce ne sono. 14) Ci sono molti Nobili a Corneto, un gran numero di famiglie di una Borghesia antica, che è passata nelle Cariche della città, artigiani in numero sufficiente per non aver bisogno di quelli delle Città vicine, e Mercanti che mi sono sembrati ricchi e ben vestiti. Il più grande commercio della città consiste nell’olio d’oliva. Si è debitori ai Genovesi delle piante d’olivo che si vedono attorno a questa città. Un Papa era stato costretto ad impegnarsi con il suo territorio ai Genovesi, a garanzia delle somme prese in prestito in un bisogno pressante della Chiesa. Queste popolazioni laboriose vi si stabilirono e, non pensando che i Papi sarebbero stati in grado di rimborsare loro quelle somme, lavorarono come sulla loro proprietà e ricavarono dalla terra tutto ciò che credettero che potesse produrre. Benché non vi fossero affatto degli olivi per largo tratto nei dintorni e la pigra popolazione si nascondesse dietro al pretesto che il terreno non era adatto a questo tipo di alberi, i Genovesi non rinunciarono a tentare la fortuna, li piantarono e riuscirono a meraviglia e, benché vecchi di qualche secolo, producono ancora oggi considerevolmente e sono una buona parte del commercio e della ricchezza della Città. Ho spesso citato questo esempio agli abitanti di Civita Vecchia e ho dimostrato scientificamente che il loro territorio era migliore di quello di Tivoli e di Corneto e che essi potevano arricchirsi piantandoci degli olivi. La loro indolenza e la loro inoperosità ha giustificato nel mio animo la pigrizia dei Negri del Senegal, che non vogliono ricavare dalle loro terre che quanto producono naturalmente o che i loro padri hanno ricavato. Perché, se delle persone ricche di spirito e di ragione come i sudditi del Papa agiscono secondo gli stessi principi dei Negri che non ne hanno affatto, non bisogna convenire che la pigrizia è il vizio più difficile da distruggere in un popolo e che non c’è che una violenza estrema che possa farlo uscire da questo stato infelice? Ne abbiamo un esempio in casa nostra. Le popolazioni della Franca Contea non erano ricche nel tempo in cui erano sotto i Re di Spagna e, benché non pagassero alcuna taglia né imposizione a questi Principi e approfittassero di somme notevoli che vi erano inviate per il pagamento delle Guarnigioni e degli Ufficiali, erano povere da far pietà; poi hanno cambiato padrone, si sono trovate obbligate a pagare delle Imposte, è stato necessario obbedire e pagare. Hanno aperto gli 14) L. è qui tratto in inganno dalle vicende della diocesi di Centumcellae - Civitavecchia, con le quali vuole istituire una occhi, hanno riconosciuto la bonta delle loro terre, le hanno fatte fruttare e hanno ricavato dal loro seno non solamente di che soddisfare il Principe ma di che arricchirsi. La stessa cosa accadrebbe ai sudditi del Papa, se si vedesse sulla Cattedra di San Pietro un Principe che volesse risvegliarli dal lungo assopimento in cui si trovano da tanto tempo, obbligandoli, loro malgrado, al lavoro e aprendo i commerci in questi Stati. L’ho già sottolineato in un altro passo. Gli stati del Granduca di Toscana non valgono neppure lontanamente quelli della Chiesa, eppure quel Principe ne ricava somme che sembrano esorbitanti e tutti i suoi Sudditi sono ricchi; perché questa differenza? Da dove deriva? E’che il Principe ha saputo risvegliare i suoi Sudditi dal peccato di pigrizia mentre i Sovrani Pontefici ce li lasciano marcire. Oltre al commercio d’olio, gli abitanti di Corneto ne fanno anche uno abbastanza considerevole di frumento. Il loro terreno è eccellente. Ogni qualità di grano e di legumi vi cresce alla perfezione. Hanno frutta molto buona e in quantità. Le coste del mare sono straordinariamente adatte all’allevamento di montoni e capretti. Ne allevano di pregiati da lana e da pellame, i pascoli lungo la Marta forniscono loro buoi grassi da latte e da formaggio a cui non manca che un po’ più di cura per eguagliare quelli che godono la migliore reputazione. Hanno inoltre dei buoni vigneti. Si vede in tutta questa Città un’aria di agiatezza: è il segno che gli abitanti se la passano bene. Sono entrato in molte case, per lo più di borghesi, le ho trovate ben ammobiliate, hanno calessi o cavalli, sono ben vestiti, hanno gusto per i quadri. La città è pulita e ben pavimentata e il Municipio è così ricco che ha intrapreso la costruzione di un acquedotto che gli costa più di ottantamila scudi romani, benché, come ho già detto, abbia acqua in misura sufficiente e anche più del necessario. Arrivammo a Corneto verso le 14 e avremmo potuto arrivarci prima perché gli attacchi erano molto buoni. Erano cavalli napoletani di una grande bellezza e di una vivacità straordinaria. Non hanno la taglia dei cavalli di cui ci si serve a Parigi, ne sono ben lontani; ma sono infinitamente più eleganti e di una bellezza ammirevole. Tutto ciò che possono fare i cocchieri e i postiglioni è di trattenerli. A un miglio dalla città trovammo una ventina di cavalieri: erano i personaggi più in vista che venivano incontro a S.E. Egli fu ricevuto dal Priore degli Agostiniani alla testa della Comunità. Il Cardinale Imperiali è il protettore di tutto l’ordine degli Agostiniani e sicuramente un vero protettore, che non lascia scappare alcuna occasione di fare del bene a questi Padri, ma che domanda loro sia rispetto della regola che ciò che hanno promesso a Dio. improbabile analogia. Mentre Sua Eminenza ricevette i complimenti, io mi preparai a dire Messa, al termine della quale la seguii alla casa di uno dei maggiorenti della Città, dove era stato preparato il suo alloggio: questa casa era molto elegante. 15) Il Cardinale alloggiò al terzo piano per godere dell’aria e della vista che era molto bella ed estesa. Dopo pranzo, due di quei Signori che erano venuti incontro a Sua Eminenza si offrirono di farmi vedere la Città. Io andai con loro e vidi quanto ho già annotato sopra e quanto dirò nel seguito. Andammo dagli Agostiniani, dove avevo detto Messa all’arrivo. Il Priore ci fece molte cortesie e ci fece vedere il Convento. Il Chiostro è tra i più singolari, si compone di cinque arcate da ciascuna lato, alte, ornate di pilastri all’esterno e all’interno, tagliati elegantemente, d’ordine dorico. L’interno del Convento è comodo e molto curato; è ridente, di buon gusto e ha una bella vista. La Chiesa è grande e tuttavia non ha che una navata piuttosto larga con delle Cappelle sui due lati, un Altare alla Romana e il Coro dietro l’Altare. Ci entrammo tornando dalla casa di uno dei nostri accompagnatori, che ci fece vedere qualche quadro originale, che avrebbe potuto far onore allo studio di un Principe. Ci fece assaggiare del vino di sua produzione che trovammo molto buono. Monsignor Cardinale mi disse che voleva farmi vedere i lavori dell’acquedotto e che aveva chiesto dei cavalli per portarci là. Poco dopo fu portata una carrozza per Sua Eminenza e dei cavalli per tutti quelli che l’accompagnavano. Mi preparavo a montare a cavallo dopo averlo visto salire nella carrozza, quando mi chiese dove andassi. “Sto salendo a cavallo - dissi - per avere l’onore di accompagnare Vostra Eminenza”. “No, no - mi disse salite sulla mia carrozza, ci intratterremo strada facendo”. Andammo così in carrozza fin dove quella poteva spingersi senza rischio; quindi scendemmo e, mentre si rendeva conto al Cardinale del lavoro e delle spese fatte e da fare, egli mi fece montare a cavallo con uno degli appaltatori e con alcuni di quelli che lo avevano accompagnato e andammo fino a tre miglia di distanza dal luogo dove erano i lavori. Ne fui molto soddisfatto. Si era preferito far passare il canale seguendo il profilo della montagna piuttosto che fare delle arcate per andare da un punto all’altro. C’erano tuttavia, in qualche punto, dei tratti costruiti solidamente e di bell’aspetto. Mi fermai più a lungo di quanto avrei dovuto e andai troppo lontano, cosicché era trascorsa più di un’ora dal tramonto del sole quando ci unimmo di nuovo a Monsignor Cardinale- “Vi stiamo aspettando - mi disse”. Il rimprovero era giusto e molto garbato. Io gli risposi che la curiosità mi aveva fatto dimenticare il mio dovere e che le belle cose che avevo visto ne 15) E’facile pensare che si tratti del Palazzo dei Conti Falzacappa, allora la più illustre famiglia cornetana. erano la causa. “Torniamo in città - mi disse - mi racconterete cammin facendo quel che avete visto”. Io lo intrattenni ed egli ritenne opportuno che vi tornassi l’indomani, cosa che feci. Ebbi il piacere di vedere i lavori molto meglio di quanto non avessi fatto la sera precedente. E’vero che non potei andare fino al luogo dove si prendeva l’acqua: era troppo lontano. Ma vidi abbastanza per accontentare la mia curiosità. In seguito ai lavori, a mezza costa della collina dove era la Città di Tarquinia, sono state trovate le antiche sepolture della stessa Città. Si deve questa scoperta al caso e alla necessità di scavare per fare il letto del Canale. I sepolcri, o le Grotte, sono a mezza costa della collina, sulla quale era questa Città sfortunata, distrutta da tanti secoli che non se ne aveva più quasi alcuna memoria. Si sapeva solamente per tradizione che era stata in questa località o poco lontano: questo era tutto ciò che si era conservato. La scoperta delle grotte fece trovare qualche altro monumento che non lasciò più luogo al dubbio che essa si fosse trovata realmente in questa località. Le Grotte, che sono servite da sepolcri agli Eroi di quel tempo, sono scavate nel tufo di cui la montagna è composta. Sono per lo più delle camere da dieci a dodici piedi, quadrate, alte sui nove, dieci piedi. Le porte sono al centro delle coste opposte e aprono una successione di numerose Grotte, che danno le une nelle altre. Le aperture o porte erano chiuse da un muro meno spesso dei muri che separavano le Celle tra loro. Si era supplito alla mancanza di tufo, quando ciò era capitato, con muri di mattoni larghi, lunghi e più spessi di un terzo di quelli che si fanno oggi. In alcuni si vedevano i resti di pitture, cioè, del rosso, del blu, del nero, che sembravano marcare dei riquadri piuttosto che delle figure, perché l’umidità aveva cancellato quasi tutto. Ogni Cella aveva due grandi banchi o ripiani tagliati e praticati nel tufo, o fatti di mattoni, di circa quattro piedi di larghezza su tutta la lunghezza della Cella: era là che si stendevano i corpi. Lo si può dire con sicurezza dopo che si sono trovati sui banchi le ossa grandi che sono scampate al trascorrere del tempo, il quale ha consumato interamente le piccole e le medie; erano disposte in modo che si vedeva che esse erano nel posto che occupavano quando il corpo intero vi era stato deposto; ma non si sono trovate che le ossa delle cosce e delle gambe, qualche resto di vertebre e dei crani la cui straordinaria grandezza testimonia che avevano fatto parte di corpi estremamente grandi. Sugli stessi banchi, accanto ai corpi si sono trovate delle armi che la ruggine aveva quasi consumato, come spade molto larghe e lunghe, ferri di partigiane 16) lunghe più di due piedi, larghe da sette o otto pollici e molto spesse. Lame di coltelli o di pugnali grandi e 16) E’una sorta di alabarda, munita di un’asta di legno e di una lama triangolare forti ma talmente mangiate e consunte dalla ruggine che non potevano tenersi dritte. Sembrava che fossero di filigrana. Ne ho viste alcune. Quanto ai manici e alle aste, non rimaneva nulla. Non c’era la minima apparenza che lì ci fosse stato altro che delle semplici iscrizioni: apparentemente la moda del paese e dei tempi non era di fare epitaffi, benché se ne siano trovati in altri paesi di più antichi di quanto si ritenga che quelli potessero essere. Ciò che si è ritrovato di più integro e in più grande quantità sono vasi di terracotta di ogni specie. Alcuni erano ai piedi e altri alla testa dei corpi, erano coppe, boccali o brocche a una o a due anse, sottocoppe e altre simili stoviglie; ai piedi dei banchi c’erano fornelli, pentole molto grosse, grandi vasi e altri utensili di casa. Tutto questo vasellame era integro. Se ne è trovato in tutte le Celle che sono state aperte. In verità questi pezzi, e particolarmente quelli che erano verniciati, erano coperti da una specie di talco biancastro, che ne copriva tutta la superficie senza danneggiare la vernice né il colore, perché la maggior parte di questi vasi era coperta da una vernice nera con ornamenti rossi abbastanza ben lavorati. Ne ho avuti parecchi. Ne ho regalati a dei collezionisti, ma me ne restano tuttavia ancora due: il primo è una ciotola fatta quasi completamente come quelle di cui ci si serve ancora oggi nella regione, che si chiama Scudella, è rotonda, senza orecchie, piuttosto simile a una tazza svasata, sostenuta da una base rotonda. La vernice è nera con qualche ornamento rosso al di fuori. L’altro pezzo è una sottocoppa di materiale e colore simile con degli ornamenti rossi al centro. Li ho puliti in parte per far vedere i colori ed ho lasciato il talco sul resto. Avevo un boccale che poteva contenere due pinte di una terra bianca così leggera che il minimo soffio la spargeva. Tutto questo vasellame era fatto al tornio. L’ansa del boccale era bene applicata come alcune decorazioni che lo coprivano e l’imboccatura era ornata a baccelli. I fornelli che si sono trovati dentro queste Celle sono realmente della stessa foggia di quelli che si fanno ancora oggi in Italia, in Francia, in Spagna e in molti altri paesi. Essi possono servire a smentire quelli che osassero attribuirsene l’invenzione e la forma. Sia che la regione non fosse allora ricca d’oro e d’argento, sia che questo non fosse il costume, benché molto antico, come si vede dai sepolcri di David e Salomone, sia che gli operai che hanno aperto queste Celle si siano impadroniti di quello che hanno trovato e siano stati tanto saggi da non dirne niente, è certo che non se ne è avuta conoscenza. Ho avuto solamente tra le mani un anello che si credeva d’oro: sembrava tale sulla pietra; ma essendo stato sondato con il bulino si è scoperto che era di rame rivestito da due foglie d’oro o da una molto spessa. Non era rotondo come sono normalmente gli anelli, ma ovale. Nel diametro maggiore misurava un pollice ed era spesso come le penne di corvo di cui ci serve per disegnare. Qualora si supponesse che i miei due vasi siano stati messi nel sepolcro, in cui sono stati trovati, l’anno medesimo in cui la città di Tarquinia è stata distrutta, cioè cinquecentocinque anni avanti la nascita del Messia, ne conseguirebbe che essi avrebbero in questo anno 1726 duemiladuecentotrentuno anni d’antichità, ma se ne possono attribuire loro, senza timore di ingannarsi, molti di più. Andai a passeggiare sulla montagna di Tarquinia: è al presente un bosco, nel quale non è agevole scoprire niente che possa far conoscere quale grandezza nè quale forma avesse. Quelli che ebbero la commissione di distruggerla la eseguirono molto fedelmente. Monsignor Cardinale andò a passeggiare verso sera. Ebbi l’onore di accompagnarlo. Fece la sua preghiera nella Chiesa dei Francescani che si trova all’estremità della Città a mezza costa; benché sia interamente nel vecchio stile gotico, cioè, nel peggiore, non per questo è priva di qualcosa di buono. Lì ci mostrarono una vasca di marmo nella quale anticamente si battezzava per immersione. Io non credo che sia stata fatta per quest’uso. Era sicuramente un bacino di fontana sul quale si notano dei festoni di fiori e di frutti di molto buon gusto. Ci sono nella Chiesa alcuni epitaffi che non ebbi il tempo di copiare. Venerdì 24 aprile, dissi messa dagli Agostiniani, dopo la quale montammo in carrozza per andare a Montalto. Poiché il Signor Marchese Imperiali aveva deciso di andare a cavallo, volli sedermi davanti con il mio compagno. Monsignor Cardinale mi domandò perché cambiassi posto, gli dissi che era per rispetto e affinché fosse più a suo agio. “Mettetevi accanto a me - mi disse - quando saremo fuori della città, farete come riterrete opportuno; ma io voglio che tutte queste persone vedano la stima che ho per voi”. Che dire di una così grande cortesia? Forse Padre Feuillée si irriterà che io la riferisca, come si è irritato perché non ho dimenticato quello che ho fatto alla Guadalupa. Ma io la prego di considerare che quella mi fa troppo onore perché possa non parlarne, tuttavia, per non nuocere alla sua salute, non ne dirò di più, anche se dovessi esser tacciato di ingratitudine, potendo e dovendo riferirne ancora. 17) 17) L’ironica riferimento alle critiche del R. P. Feuillée, appartenente all’ordine dei frati minimi e membro dell’Accademia delle Scienze, finisce ovviamente per amplificare la “grande cortesia” del cardinale. L’inizio del cap. XIV del t. IV chiarisce i termini della polemica: P. Feuillée aveva accusato il L. di abbandonare in riferimenti di carattere personale e il nostro autore si difende affermando che i suoi Voyages altro non sono che un diario, un journal du séjour qu’il a fait. P. Feuillée “dovrebbe considerare che un diario deve neccessariamente portare il nome di chi l’ha fatto, è una narrazione di ciò che costui ha visto, fatto e detto, l’autore è obbligato a parlare di se stesso”. Montalto è una città molto più piccola o un borgo, che fa parte del Ducato di Castro. Dista dieci miglia da Corneto, circa tre miglia dalla foce del Fiora e dalla Torre di guardia e circa quindici miglia dalla Città di Castro, che ha dato il nome al Ducato. Questo Ducato apparteneva a casa Farnese, cui appartengono ancora oggi i Ducati di Parma e Piacenza. La città di Castro era su un’altura circondata da precipizi, ai piedi dei quali scorre il ruscello o piccolo fiume Olpita. Era sede Episcopale. Accadde che nel 1641 il Papa Urbano VIII chiese con molta insistenza al duca Odoardo Farnese di rimborsare i debiti che aveva fatto a Roma e, non avendo quel Principe potuto o voluto farlo, il Papa lo minacciò di impadronirsi delle terre della Chiesa che aveva in feudo e, poiché il Ducato di Castro era il più esposto e il più alla mercé del Papa, il Principe vi fece fare con cura le fortificazioni necessarie, vi mise una guarnigione di cinquecento uomini agli ordini di Delfino Angelieri con molte provviste da guerra e vettovaglie. I suoi uomini fecero molte ostilità sulle terre della Chiesa e il Ducato divenne il rifugio di una infinità di briganti. Il Papa, vedendo che il Duca si preparava alla guerra, cosa che gli sembrava un crimine di Lesa Maestà, perché quello era suo vassallo, gli fece fare diverse ingiunzioni dall’Uditore della Camera Apostolica, al fine di metterlo completamente nel torto e, resosi conto che tutti i suoi gesti paterni erano inutili, arruolò delle truppe che mise agli ordini di Taddeo Barberini, Prefetto di Roma, e fece assediare Castro. L’assedio non fu lungo. Angelieri, sia che gli facesse difetto il coraggio, sia che si fosse accordato, rese la Piazza dopo sei giorni e il Papa vi mise una guarnigione. La presa di questa Piazza provocò grandi sconvolgimenti in Italia; molti Principi presero parte a questa disputa. Si ebbe infine una pace nel 1644 in virtù della quale il Duca Farnese rientrò in possesso di Castro. Ma riprese più apertamente che mai le antiche controversie, che erano soltanto assopite e non spente. Nel 1649 si ripresero le armi e, avendo Innocenzo X arruolato un esercito agli ordini dei conti Videman e Gabrielli, Castro fu assediata una seconda volta. Alle ragioni di interesse che si avevano per impadronirsi di questa Piazza si aggiungeva l’uccisione di Monsignor Giarda, che ne era Vescovo, il quale fu assassinato, e molte altre ragioni. Se non ci fosse stata che l’uccisione del Vescovo, la città avrebbe dovuto essere privata del titolo Episcopale per cento anni, questa era la disposizione dei Canoni; ma, essendo stata rasa al suolo la Città, il titolo fu trasportato ad Acquapendente, città dello Stato della Chiesa sulla frontiera della Toscana. Sansone Asinelli, che era Governatore di Castro, si difese con molto vigore, l’assedio fu lungo e vi furono molte perdite da una parte e dall’altra. Alla fine, essendo stata spinta la trincea fino alla controscarpa ed essendoci una breccia considerevole al corpo della Piazza, egli la consegnò e il Papa, invece di metterci una guarnigione, decise di togliersi questa spina dal piede e di liberare per sempre gli Stati della Chiesa dalle rapine che i briganti vi facevano sotto la protezione del Duca e dei suoi Ufficiali: si diede un tempo ragionevole agli abitanti per portar via i loro effetti e tutto quello che vollero dalle loro case. Dopo di che si appiccò il fuoco dappertutto, e quando l’incendio ebbe fine, si distrusse tutto ciò che restava delle case, si rasero al suolo le mura e le torri della Città, si riempirono i fossati e si eresse una colonna di pietra al centro della Piazza, sulla quale si incisero queste parole: Hic fuit Castrum, qui fu Castro. Castel Franco, Castel Cretoso, Cortuosa, Penteccio, Quintiana, Castel Ghezzi, Ulcia ed altri luoghi ebbero la stessa sorte per togliere ai briganti tutti i luoghi dei loro rifugi. L’anno seguente, il Papa riunì al suo Dominio il Ducato di Castro, malgrado tutte le opposizioni che fece casa Farnese. Anche il Lago di Bolsena, in tutto o in parte, ne dipendeva. Oggi appartiene interamente alla S. Sede. Arrivammo a Montalto alle diciassette e mezza, vale a dire circa alle undici di Francia. Gli Assentisti erano venuti a incontro a Monsignor Cardinale e lo condussero al Castello che si chiama la Rocca. Il nome è ben appropriato, perché è costruito su un’altura elevata e scoscesa quali da tutti i lati, che domina tutti i dintorni. Le costruzioni sono vecchie; fatta eccezione per la grandezza, sono ben poca cosa. Si parlava di abbatterle e di farne di nuove. Non so che cosa sia successo dopo la mia partenza dall’Italia, perché si va lentamente a Roma, soprattutto quando si tratta di fare delle spese. La vista dell’appartamento occupato da Sua Eminenza era molto bella ed ampia. Volle farsi rendere conto dello Stato della Comunità appena ci si alzò da tavola ma, non essendosi trovati pronti quelli che ne erano incaricati, concesse loro il resto del giorno e frattanto si fece portare dei cavalli per andare a passeggiare lungo il fiume fino alla foce, presso la Torre di Guardia che porta il nome di Montalto. Arrivarono subito con un calesse, sul quale ebbi l’onore di salire con lui. Il Fiora, che costeggiammo fino alla foce, non è un gran fiume; non è tuttavia guardabile che in pochi punti che bisogna conoscere bene prima di azzardarcisi. I suoi bordi sono poco alti e affiancati da ogni lato da un prato della larghezza di un miglio, al di là del quale si vede una selva o delle brughiere che servono da pascolo per molti armenti di diverse specie di animali. Non ci sono che tre piccole miglia da Montalto alla riva del mare. Il caso, o il riguardo degli Assentisti, vi fece trovare due Tartane di pescatori che diedero a Monsignor Cardinale il divertimento della pesca nel mare e, in seguito, nel fiume; riuscirono molto bene in entrambi i casi e riportarono molto buon pesce. La torre non mancò di salutare Sua Eminenza con tutta la sua artiglieria, che consisteva in tre pezzi di cannone di circa quattro libbre di palla, altrettante petriere 18) e qualche grosso archibugio montato su dei cavalletti. Questa torre è più grande di un terzo di quella che ho descritto nel tomo precedente ed è fatta sullo stesso modello. Il torregiano vi è comodamente alloggiato con due uomini di guardia che è costretto a tenere. Visitammo la torre dall’alto in basso. E L’ultima dello Stato Ecclesiastico. La vista è molto ampiai dalla riva del mare, perché solo l’orizzonte la limita e si scopre a destra e a sinistra da Civita Vecchia a Porto Ercole. Da lì si vedono tre diversi Stati. Quelli della Chiesa, di cui il Ducato fa parte: quelli del Grand Duca di Toscana, come Sovrano dello Stato di Siena; e quello di Orbetello, altrimenti delle guarnigioni chiamate Stato dei Presidi, che il Re di Spagna si riservò quando cedette quello di Siena ai Gran Duchi di Toscana. 19) Il Fiora viene dallo Stato del Gran Duca. Si unisce al fiume Timone a un miglio dalle rovine di Ulcia; serve da confine, con il piccolo corso del Pescia, agli stati della Chiesa e del Gran Duca. Si contano dieci miglia dalla foce del Fiora a quella del Pescia. Tutto il litorale fino a tre o a quattro miglia all’interno è a bosco e brughiera ed è questa, a quanto pare, la causa della malaria della regione, perché l’aria del mare, permanendovi senza movimento, vi si addensa e si corrompe così come l’acqua delle piogge che vi ristagna. Cosa che non accadrebbe se queste, terre, d’altronde molto buone di per sé, fossero valorizzate. La coltivazione di questi luoghi, se ci si potesse risolvere a intraprenderla, vi attirerebbe persone che vi si stabiliribbero, la malaria cesserebbe ben presto, la regione si popolerebbe e porterebbe un commercio considerevole. Al di là di questa fascia incolta e abbandonata, si trovano terre a frumento di una resa incredibile, il frumento che producono, e generalmente tutto ciò che se ne vuole ricavare, è eccellente. La passeggiata e il piacere della pesca ci trattennero tanto a lungo che erano quasi le due di notte, quando arrivammo a Montalto. Sua Eminenza sistemò qualche affare priima di mettersi a tavola per cenare. Avevamo trovato tutte le siepi e le brughiere ai due lati della strada piene di lucciole. Ho parlato a lungo di questi insetti e delle loro diverse specie nel mio Viaggio alle Isole dell’America. Quelle che ho visto in questo territorio e in molti altri luoghi d’Italia sono più piccole di quelle dell’America e più grandi di quelle dei paesi freddi. 18) La petriera è un mortaio di grandi dimensioni usato per scagliare pietre. Lo Stato dei Presidi era sotto il controllo della Spagna fin dal 1557 e passò all’Austria solo alcuni anni dopo la visita del L. (trattati di Utrecht e Rastadt del 1713-1714). 19) L’indomani mi alzai di buonora per andare a vedere la Città e quanto avrei potuto dei dintorni, poiché sapevo che Monsignor Cardinale sarebbe tornato a Corneto lo stesso giorno. Ebbi ben presto completato la visita della Città, perché è molto piccola. E’costituita da un unico agglomerato, al di sotto dell’altura sulla quale è costruito il Castello: non consiste che in un’unica strada abbastanza lunga e larga, tagliata da cinque o sei strade più corte e meno larghe. Le case sono ben costruite e curate. C’è una chiesa Parrocchiale nella quale dissi Messa e due fontane molto belle. Mentre leggevo l’iscrizione di una di queste fontane, venne un asino caricato con due barili, che senza essere condotto da nessuno si avvicinò a una delle cannelle, vi accostò uno dei barili all’imboccatura del quale c’era un imbuto abbastanza largo e, quando lo sentì pieno, si girò e fece riempire nello stesso modo il secondo barile. Dopo di che se ne ritornò a casa a passi misurati. Tornò un momento dopo e fece ancora la stessa manovra con altrettanta destrezza che la prima volta; io lo seguii per sapere a chi appartenesse un asino così bene indottrinato e vidi che apparteneva al fornaio della Città. Costui mi fece molte cortesie, sia perché mi aveva visto al seguito di Monsignor Cardinale che perché elogiavo il suo asino. Mi disse che era suo padre ad averlo istruito così, che erano quaranta anni che se ne servivano di padre in figlio in famiglia e che, quando suo padre lo comprò, era già un asino fatto, a cui non si potevano dare meno di sei anni. Questa età così avanzata mi sembrava difficile da credere; se ne accorse e mi giurò che il suo asino aveva quarantasei anni suonati, aggiungendo che, se avessi voluto avere un po’ di pazienza, mi avrebbe mostrato delle carte che me ne avrebbero convinto. Non volli spingere più lontano le mie ricerche, l’asino fece ancora un viaggio durante la nostra conversazione, dopo di che si fermò alla porta per essere liberato dei barili e del basto. “Perché - mi disse il fornaio - quando ha fatto i viaggi che deve fare bisogna metterlo in libertà, altrimenti romperebbe i barili e si sbarazzerebbe molto presto del suo basto”. Vorrei proprio vedere i Cartesiani fare una macchina come quella o spiegarci in una maniera ragionevole una meccanica così giusta e così ragionata di tutti questi movimenti: credo che ne sarebbero imbarazzati, così come per la spiegazione di un fatto che riporterò subito. Salii al Castello e andai a vedere i pozzi dove si ripone il frumento che si vuole conservare per molti anni; si trovano su un piano che serve da terrazza al Castello dal lato del mare. E’ di un tufo schietto, nel quale si sono scavati dei pozzi, la cui apertura, o bocca, non ha che circa tre piedi di diametro. L’apertura ha questo diametro all’incirca fino ad una tesa di profondità; dopo di che il diametro dei pozzi aumenta fino a diciotto o venti piedi, su una profondità di più di trenta piedi. 20) E’ una specie di cerchio scavato nel tufo, la cui apertura è al centro del cono che la copre. Il tufo è così schietto e così compatto che le piogge non lo possono mai penetrare. Si mette un letto di paglia ben secca sul fondo, si tappezzano le pareti con delle stuoie e ci si mette il frumento ben secco e pulito. Man mano che ci si mette il frumento si aumentano le stuoie, affinché non stia a contatto diretto con le pareti e, quando il pozzo è riempito fino alla parete superiore, si chiude la bocca con una pietra tagliata apposta, a misura, o con delle tavole di buon legno tagliate a misura e si copre il sopra con un po’di calce e pietrisco a forma di cono. Ho visto alcuni pozzi vuoti e altri che venivano vuotati. Mi è stato detto che quando si apriva un pozzo ne usciva un vapore denso e un calore fortissimo, quasi come una fornace che si dissigilli. Uno degli Ufficiali dell’Assentista ebbe la cortesia di farmi aprire un pozzo, affinché fossi assicuratoa della verità di ciò che mi aveva appena detto; vidi in effetti uscire dal foro, dopo che fu aperto, un fumo denso e molto caldo che durò a lungo. Si estrasse del frumento per farmelo vedere, era caldo senza essere umido e così ben conservato come se fosse stato in un granaio. Mi si assicurò che il frumento era così bello e buono dopo essere rimasto in questi pozzi come se fosse stato appena battuto e pestato. Non mi stupisco più se i Mori d’Africa mettono tutti i loro raccolti di frumento in pozzi quasi del tutto simili a questi, di cui chiudono le aperture con rami d’albero o con della paglia, sulla quale mettono della terra che lavorano e seminano come se sotto non ci fosse niente. Salli poi all’appartamento di Monsignor Cardinale, mi aveva visto a colloquio con il fornaio. Mi chiese l’argomento della conversazione e io glielo dissi; come sembrò dubitare dell’età dell’asino, gli dissi che se voleva sarei andato a cercare il suo estratto di battesimo. I presenti lo assicurarono: alcuni lo conoscevano da trenta anni, altri da trentacinque anni, in modo che si decise di attenersi al rapporto del padrone e di aggiudicare quarantacinque anni alla sua età, salvo dargliene di più se si trovassero nuove prove. Oltre al grano, che è la risorsa principale del Ducato di Castro, vi si alleva una gran quantità di pecore. Il frumento vi attira i topi e le pecore vi fanno venire i lupi, che hanno rifugi sicuri nelle selve e brughiere che sono in gran numero nella regione. E’passato in consuetudine con forza di legge che l’Assentista debba pagare una pistola per ogni lupo o testa di lupo che gli si porti, purché sia certo che la bestia è stata 20) La “tesa” è una misura di lunghezza corrispondente all’apertura delle braccia. uccisa nel Ducato. 21) Senza questa precauzione i lupi si moltiplicherebbero al punto che non ci sarebbe più sicurezza per le pecore e le altre bestie e in seguito, forse, neppure per gli uomini. Un contadino scoprì, nel tempo in cui Monsignor Cardinale era a Montalto, la tana di una lupa e agì così tempestivamente, malgrado il pericolo a cui si esponeva, da sottrarre cinque cuccioli che vi si trovavano. Li portò ancor vivi all’Assentista, che pretese che, avendoli presi tutti e cinque in una retata, aveva faticato come se ne avesse preso uno di buona taglia e capace di fare del male. Il contadino non volle né lasciare i suoi lupacchiotti né accettare la pistola che gli si offriva. Chiede udienza al Cardinale che, avendo sentito le parti, condannò l’Assentista a prendere i cinque cuccioli ed a pagare cinque pistole al contadino. Questo giudizio era stato più equo perché, oltre al pericolo estremo al quale s’era esposto il contadino se la lupa l’avesse trovato in flagrante delitto o avesse seguito le sue tracce, egli aveva liberato la regione dalle razzie che quei cinque lupacchiotti non avrebbero mancato di fare e della posterità che vi avrebbero lasciato. Ma non è così facile liberarlo dai topi. Il Signor de Seine, Libraio a Roma, dice nel suo Viaggio in Italia, tomo III, pag. 416 che la Città di Cosa, che non è molto lontana da Montalto, fu talmente infestata dai topi che i suoi abitanti furono obbligati ad abbandonarla, come riferisce Rutilius Namatianus Gallus, nei versi che terminano con questi due: Dicuntur cives quondam migrare coacti muribus infestos deseruisse lares 22) Così il gran numero di ratti e topi non è una cosa nuova in questa regione; ma ciò che è stato riferito al Sig. Cardinale mi è sembrato così straordinario che non sono stato in grado di dimenticarlo. E’ che, avendo sezionato dei topi pregni, si era trovato che anche quelli che si portavano dentro erano nello stesso stato, in modo che, venendo al mondo, avevano partorito. Fu l’Assentista, uomo saggio che non avrebbe osato ingannare un Signore come era il Cardinale Imperiali, che assicurò di aver visto ciò e di averlo notato con una sorpresa che l’aveva obbligato a fare la dissezione con ogni cura e attenzione immaginabili; in questo fatto non c’è niente che non sia molto verosimile, se è vero che uno storico riferisce che nel 1672 una donna partorì una bambina che era incinta di un’altra bambina che fu battezzata. Etrennes Mignones del 1728. 23) 21) La pistola è una moneta d’oro spagnola del valore di due scudi. Si dice che una volta i cittadini costretti ad emigrare / abbiano abbandonato ai topi i Lari infesti. 23) Piccole strenne del 1728. E’il divertito commento del L. nel momento della revisione dei suoi appunti. 22) Partimmo da Montalto verso le ventuno ed arrivammo a Corneto al tramonto del sole. Monsignor Cardinale fu occupato fino all’ora di cena, e il giorno seguente quasi per intero, a diversi affari, poiché, come ho già segnalato, è il capo della Congregazione del Governo dello Stato Ecclesiastico, da cui dipendono tutti gli affari che hanno rapporto con il Governo particolare delle città che compongono lo Stato; e quando fa la visita delle piazze, da solo ha tanto potere quanto ne ha con tutta la Congregazione quando è riunita. Il 28 ricevette di prima mattina a mezzo di un corriere espresso la notizia della morte dell’Imperatore Giuseppe. Si prese la pena di scendere dal suo appartamento nel nostro per darci la notizia; io gli dissi che era una gran perdita ma che ciò sarebbe stato un grande avvio alla pace generale. 24) Partimmo verso le dodici e mezza e arrivammo a Civitavecchia alle quindici. Dissi messa arrivando alla Cappella della Morte. Sua Eminenza ci trattenne a pranzo e quindi ci congedò ricolmi delle sue cortesie. Avevo notato sulla strada da Corneto a Civita Vecchia, e particolarmente tra la Marta e il Mignone, una quantità di alberi da sughero. Ne ho fatto la descrizione nel mio Viaggio in Spagna al quale il Lettore farà ricorso se vuole. Giovanni Insolera RINVENIMENTI DELL’ETA’ DEI METALLI PRESSO TARQUINIA Si presentano alcune schede topografiche, corredate dal catalogo e dall’illustrazione dei reperti, relative a rinvenimenti di superficie delle età del rame, dal bronzo e del ferro effettuati nel territorio comunale di Tarquinia nel corso della primavera del 1989. Si rimandano ad altra sede lo studio dei materiali ed una analisi topografica più approfondita, limitandosi qui alla presentazione dei singoli complessi e dei principali problemi interpretativi ad essi collegati. A. Cavone (fig.1, A; fig. 2-3) Ubicazione: nella valle del fosso S. Savino, sul lato prospiciente il Piano della Regina. 24) In effetti, la morte improvvisa dell’Imperatore Giuseppe I (1705-1711) e la prospettiva che il fratello Carlo sedesse su entrambi i troni di Spagna e d’Asburgo bloccarono definitivamente la politica di espansione di Luigi XIV, provocando, in quello stesso anno 1711, la pace separata con l’Inghilterra e, in rapida successione (Utrecht, 1713 e Rastadt, 1714), il nuovo assetto europeo. Tipo e condizioni di rinvenimento: affioramento di frammenti d’impasto, riferibili probabilmente ad insediamento; raccolta di superficie su terreno arato; buone condizioni di osservabilità. Topografia: i frammenti affiorano lungo il pendio posto tra la base della parete calcarea - che delimita il pianoro del Cavone - ed il fosso S. Savino, in corrispondenza di uno stretto terrazzo. L’area di affioramento si estende per circa mq. 500, con densità variabili. Nelle immediate vicinanze sono presenti sorgenti d’acqua perenni. Cronologia: reperti riferibili all’eneolitico (almeno i nn. 1 e 2), all’antica età del bronzo (nn. 3,4,5, probabilmente con valenze cronologiche diverse); ad una fase non evoluta del Bronzo medio (nn. 6,7,9, forse 8). Catalogo dei reperti. 1) Frammento di parete di vaso decorato a “squame”; impasto grigio-bruno con piccoli inclusi, superficie grigio-bruna. 2) Frammento di parete decorata a grossi punti profondamente impressi con una cannuccia (si nota nel fondo dell’impressione l’impronta data un elemento cilindrico cavo); impasto medio-fine con piccoli inclusi calcarei, superficie bruna. 3) Frammento di forma chiusa, con spalla piuttosto inclinata verso l’interno (si tratta probabilmente di un’olla globulare) con larga scanalatura orizzontale al di sotto dell’attacco del labbro; decorata sulla spalla con una sottile linea orizzontale incisa, probabilmente delimitante superiormente una banda orizzontale campita da segmenti obliqui a rotella dentata; impasto grigio fine con scarsi inclusi (calcare e quarzo) molto piccoli; superfici grigio scura lucidata. 4) Frammento di parete con ansa verticale a nastro “a orecchia”; impasto grigio con inclusi (calcare e quarzo) medio-grandi; superfici bruno-rossiccia. 5) Frammento di grande scodella (diam. allì’orlo circa cm. 46) con labbro fortemente svasato curvilineo, bassissima parete obliqua e vasca a profilo convesso; impasto bruno scuro medio-fine con inclusi calcarei; superficie arancio lisciata. 6) Frammento di ciotola carenata, parete concava decorata con cerchielli impressi; impasto fine bruno con piccoli inclusi calcarei; superficie arancio liscia. 7) Frammento di scodella con bassa parete verticale o leggermente rientrante, orlo piatto; sul labbro parte di una probabile ansa a maniglia orizzontale con prolungamenti laterali; impasto bruno con abbondanti inclusi calcarei medio-piccoli; superficie grigia lisciata. 8) Frammento di tazza con orlo arrotondato, labbro svasato rettilineo, spalla arrotondata (l’inclinazione nel disegno è ipotetica); impasto grigio con grossi inclusi calcarei, superficie bruna lisciata. 9) Frammento di parete probabilmente di scodella carenata, con parte di ansa a rocchetto con foro passante obliquo; impasto rossiccio con scarsi grossi inclusi (selce e quarzo); superficie rossiccia lisciata. 10) Frammento di piccolo olio probabilmente ovoide, il labbro è ingrossato e ripiegato verso l’alto quasi a formare un accenno di colletto; l’orlo piatto è decorato sul margine esterno con unghiate verticali; sotto l’orlo due cordoni plastici applicati a sezione triangolare; impasto grigio scuro con scarsi inclusi (prevalentemente chamotte, ma anche quarzo e calcare. 11) Frammento di olla, breve labbro leggermente svasato con unghiate sul margine esterno; impasto grigio con scarsi inclusi calcarei, superficie grigia lisciata. 12) Frammento di parete con orlo piatto (inclinazione incerta) decorato con tacche oblique, eseguite con stecca a margine piatto; impasto bruno con piccoli inclusi; superficie nocciola. 13) Frammento di dolio (diam. all’orlo circa cm. 45) di forma probabilmente cilindroide; orlo piatto decorato con tacche trasversali; impasto marrone scuro grossolano con grossi inclusi calcarei; superficie marrone scura. 14) Frammento di grande scodella (diam. circa cm. 48); orlo piatto; impasto marrone scuro con abbondanti inclusi (calcare e quarzo); superficie marrone scura. B. Poggio Gallinaro (fig. 1, B; fig. 4, A - B; fig. 5, A-B) Ubicazione: poggio situato immediatamente a Nord del Pian della Civita. Tipo e condizioni di rinvenimento: affioramento di frammenti d’impasto, nell’area del noto sepolcreto tardo-protostorico, orientalizzante ed arcaico; raccolta di superficie su terreno arato; buone condizioni di osservabilità. Topografia: Area 1: alle pendici dell’estremità occidentale del Poggio affiorano frammenti della fase avanzata dell’età del ferro, riferibili a sepolture sconvolte. Aree 2 e 3: su due piccoli dossi posti nella parte bassa della valle del Fosso degli Albucci affiora una scarsa quantità di frammenti d’impasto di età pre/prostorica (frammisti, nel punto 2, ad abbondanti resti di età arcaica). Area 4: lungo il pendio meridionale del colle si è rilevata l’esistenza di due principali punti di affioramento: A: su un piccolo dosso situato a mezza costa, insieme a scarsi frammenti d’impasto con decorazione a pettine e/o stampigliata di tipo villanoviano sono stati raccolti alcuni frammenti eneolitici e/o del Bronzo antico (tra cui un frammento di vaso a fiasco decorato a stralucido ed un frammento con banda incisa orizzontale riempita da linee oblique dentellate); B: più in alto, in corrispondenza di un piccolo terrazzo, affiorano frammenti di vasi biconici e scodelle d’impasto, con decorazione di tipo villanoviano e protovillanoviano, riferibili probabilmente a sepolture sconvolte. Area 5: presenza non concentrata di frammenti d’impasto con decorazione a pettine di tipo villanoviano. Area 6: nel punto 6A si rinvengono frammenti di urne villanoviane con decorazione a pettine, frammisti a frammenti di custodie di nenfro; nel punto 6B affiorano frammenti di vasellame della fase avanzata della prima età del ferro (VIII sec. a.C.). Area 7: scarsi frammenti di VIII sec. a.C., frammisti ad abbondanti reperti sepolcrali di età orientalizzante ed arcaica. Cronologia: reperti riferibili all’eneolitico (area 4A, nn. 1, 3, forse 2), al Bronzo antico (area 4A, nn. 4-5), al Bronzo finale (area 4B, nn. 1-2), alla prima età del ferro (area 4A, n.6; area 4B n. 7; area 5, nn. 1-2; area 6A nn. 1-2). Catalogo dei reperti. Area 4, punto A: 1) Frammento di parete trattata con tecnica “a la barbotine”; impasto grigio scuro con inclusi piccoli e medi, tra cui abbondante augite (molto fine). 2) Frammento di vaso (dolio?) con labbro rettilineo, orlo arrotondato con cordone plastico con impressioni digitali applicato sul lato esterno; impasto grigio scuro con inclusi augitici molto piccoli e calcarei di piccole e medie dimensioni; superficie esterna nocciola lisciata, interna bruno-rossiccia con chiazza grigia, irregolarmente lisciata. 3) Frammento di probabile vaso a fiasco a bocca piuttosto larga e di forma compressa; labbro leggermente ripiegato verso l’alto; orlo assottigliato arrotondato; decorazione a motivi disegnativi ottenuti a stralucido, di color grigio scuro, che risaltano fortemente sulla superficie opaca grigio chiara: sul labbro, sia sul lato interno che su quello esterno, fascia orizzontale, da cui, sul lato esterno, pendono fitti segmenti verticali; sulla spalla motivo “a pettine”; impasto grigio violaceo fine compatto. 4) Frammento di vaso di forma chiusa, con larga scanalatura sotto l’attacco del labbro; sulla spalla motivo inciso: banda orizzontale campita a tratteggio obliquo, che si incontra al di sotto con una linea quasi verticale (facente parte di un’altra banda verticale?); impasto bruno chiaro, compatto, con piccoli inclusi; superficie a ingubbiatura nerastra accuratamente lisciata. 5) Frammento di parete piuttosto spessa, decorata con motivo a linee dentellate a rotella: fascia orizzontale campita a graticcio; impasto grigio scuro con piccoli inclusi; superficie grigio-bruna lisciata. 6) Frammento probabilmente di collo di urna biconica; decorato con motivo stampigliato e a pettine (a due punte): fascia orizzontale campita da motivo stampigliato a zig-zag e, al di sotto, motivo meandriforme; impasto nerastro con inclusi medi (calcarei, silicei, augitici, forse calcitici); superficie bruna dilavata. Area 4, punto B: 1) Frammento probabilmente di urna biconica; collo troncoconico rigonfio, decorato con motivo inciso ed impresso: fascio verticale a pettine, che si incontra con una grande cappella ovale (da cui si diparte probabilmente un altro fascio orizzontale); alla base del collo solcature orizzontali (eseguite singolarmente); impasto grigio con inclusi anche grossi; superficie grigia lisciata. 2) Frammento di vaso di forma chiusa (vaso biconico?), con ingrossamento marcato, probabilmente presso l’orlo; sulla spalla fascio orizzontale di tre linee incise poco profondamente, e, al disopra, fila orizzontale di cuppelle; impasto compatto; superficie grigia con sfumature in marrone lisciata. 3) Frammento di vaso a collo troncoconico, decorato con fasci orizzontali di linee profondamente incise, ai cui margini, a contatto delle linee perimetrali, corrono file di impressioni “a chicco di riso”; impasto grigio scuro compatto con rari inclusi; superficie grigio scura lisciata. 4) Frammento di scodella a labbro rientrante curvilineo, orlo piatto; decorata sul labbro con motivo geometrico (meandro?) ottenuto con fasci di linee a pettine, sopra le quali sono impressi brevi segmenti obliqui a cordicella; impasto grigio con inclusi piccoli e medi; superficie grigio scura lisciata. Area 5. 1) Frammento di parete, decorata con fascio di linee a pettine, lungo il quale corre una fila di punti impressi poco profondamente; dall’altro lato motivo non ricostruibile, in parte a pettine e in parte a linee incise singolarmente; impasto grigio scuro compatto con pochi inclusi; superficie grigia lisciata. 2) Frammento di parete, decorata con meandro ottenuto con doppia linea a pettine, con motivo stampigliato a zig-zag all’interno e con grandi punti impressi poco profondamente ad uno degli angoli; impasto nerastro compatto, superficie grigia lisciata. Area 6, punto A. 1) Frammento di parete, decorata con motivo angolare ottenuto con fasci di linee a pettine; impasto grigio-bruno con grossi inclusi; superficie bruna. 2) Frammento di parete (probabilmente spalla di vaso biconico), decorata con motivo angolare ottenuto con doppia linea a pettine; impasto grigio con inclusi calcarei; superficie nerastra lucida. C. Fontanile delle Serpi 1) (fig. 1, C; fig. 5, C) Ubicazione: a km. 1,5 a Nord-Est del centro abitato de Le Saline. Tipo e condizioni di rinvenimento: affioramento di frammenti fittili nella sezione di un canale (“Scolo dei Prati”) e nel terreno di risulta accumulato ai suoi bordi, attualmente coltivati con l’aratro; buone condizioni di osservabilità. Topografia: il giacimento archeologico è posto all’interno di una leggera depressione, solcata dal canale denominato “Scolo dei Prati”, nell’ambito della pianura costiera, a ridosso dell’area occupata dalle Saline. Area 1: affioramento di frammenti d’impasto, prevalentemente rossastro, a bassa concentrazione, nel campo arato presso il margine del canale (derivanti da terreno escavato dal canale ed accumulato ai suoi margini, in seguito spianato ed arato). Area 2, punto a: affioramento di frammenti d’impasto di tipo analogo nei cumuli di terreno accumulato di recente ai bordi del canale, e nel tratto di campo arato adiacente; punto b: presenza di uno strato di terreno di colore grigio scuro, contenente abbondanti frammenti d’impasto, nella parte più bassa del taglio del canale, a circa m.2 di profondità dal piano di campagna attuale. Area 3: Presenza di abbondanti frammenti nel terreno accumulato di recente sul bordo del canale. Cronologia: mentre per i frammenti di olla nn. 1-5 la datazione può oscillare genericamente tra Bronzo finale e prima età del ferro, il frammento n. 6 è l’unico per il quale è possibile proporre una datazione più delimitata, compresa tra una fase piuttosto avanzata del Bronzo finale - attribuzione che si ritiene maggiormente verosimile - ed una fase antica dell’età del ferro. Catalogo dei reperti. Area 2, punto a: 1) La località è citata come segnalazione del G.A.R. in M.A. Fugazzola Delpino, F. Delpino, “Il bronzo finale nel Lazio settentrionale”, Atti della XXI riunione scientifica dell’I.I.P.P., Firenze, 1979, pp. 275-316, in particolare p. 288 n. 44. 1) Frammento di olla; sulla spalla cordone plastico orizzontale a sezione triangolare con impressioni digitali; impasto bruno-rossiccio con abbondanti inclusi medi e grandi; superficie bruna lisciata. 2) Frammento di parete con cordone plastico a impressioni oblique; impasto rossiccio con abbondanti inclusi augitici e silicei; superficie esterna rossiccia, interna bruna, lisciata. 3) Frammento di olla con labbro svasato rettilineo con spigolo interno e ingrossamento in corrispondenza dello spigolo; impasto grigio scuro nel nucleo, bruno-rossiccio presso la superficie; superficie rossiccia dilavata. 4) Frammento di olla con labbro svasato curvilineo; accenno di spigolo interno; impasto grigio chiaro nel nucleo, arancio presso la superficie, con inclusi grossi molto abbondanti (un prevalenza quarzo e calcare; scarsa l’augite); superficie rossiccia lisciata. 5) Frammento di olla con labbro svasato con spigolo all’interno, spigolo sul margine esterno dell’orlo; impasto grigio-bruno con abbondanti inclusi (tra cui quarzo ed augite); superficie rossiccia. 6) Frammento di parete, decorata con fascio di linee a pettine inciso in modo molto leggero, contornato da due linee a falsa cordicella ottenute con singoli elementi impressi (con una rotella?) obliqui a forma di chicco, molto distanziati; impasto rossiccio con abbondanti inclusi medi (in prevalenza augite); superficie bruno-rossiccia, all’interno corrosa, all’esterno dilavata. D. Casale S. Antonio (fig. 1, D; fig. 5, D) Toponimo: Casale S. Antonio. Ubicazione: circa 1 km. a Nord-Nord-Ovest della confluenza tra fiume Marta e fosso Leona. Tipo e condizioni di rinvenimento: alla fine degli anni ‘50 Quinto Velluti rinvenne il frammento qui illustrato - a noi pervenuto per interessamento di Giovanna Velluti - in un canale d’erosione (oggi interrato). Una presenza di reperti pre/protostorici è stata verificata mediante un sopralluogo di controllo su campo arato; condizioni di osservabilità buone. Topografia: l’area di affioramento attualmente visibile - costituita da reperti fittili pre/protostorici molto frammentati e corrosi, a bassa concentrazione - interessa un’area molto ristretta (mq. 1000-1500) di un vasto pianoro attorniato da pendii ripidi su tre lati e collegato da una sella alle colline retrostanti. Il pianoro si affaccia sulla valle del Leona, a breve distanza dalla confluenza con il fiume Marta. Negli immediati dintorni del pianoro sono presenti alcune sorgenti d’acqua perenni. Quote: intorno ai m. 100 s.l.m.. Cronologia: probabilmente il frammento n. 1 è riferibile alla prima età del ferro, fase antica. 2) Catalogo dei reperti. 1) Frammenti di olla con spalla lievemente convessa inclinata verso l’interno; colletto distinto risega; labbro appiattito leggermente prominente verso l’esterno; decorata sulla spalla con due larghi fasci di linee a pettine incrociantisi ad angolo retto (si intravvede nell’angolo l’inizio di una decorazione a falsa cordicella); impasto grigio scuro fine; superficie bruna lisciata. Considerazioni Considerazioni più approfondite sono rimandate ad un lavoro successivo; tra i principali motivi di interesse dei ritrovamenti si segnalano: a) la presenza di giacimenti databili tra l’età del rame e l’età del bronzo iniziale, che riteniamo riferibili a insediamenti, posti su terrazzi a mezza costa lungo piccole valli fluviali. La presenza di materiali distribuiti dall’età del rame al Bronzo medio nel sito del Cavone potrebbe costituire la testimonianza non di una continuità ininterrotta di insediamento, ma di una serie di cicli insediativi e di abbandoni, con ritorni periodici. Queste forme di insediamento - probabilmente attualmente sottorappresentate a causa della scarsa capillarità delle ricerche - potrebbero essere collegate a forme di controllo ed utilizzazione del territorio non ancora pienamente stabilizzate. b) il ritrovamento di frammenti protovillanoviani, probabilmente riferibili ad urne biconiche, nell’area del sepolcreto dell’età del ferro di Poggio Gallinaro può costituire l’indizio di un inizio del sepolcreto già nel corso dell’età del bronzo finale. L’esistenza di sepolture protovillanoviane nella zona di Tarquinia è del resto da tempo indiziata dai due tipici vasi protovillanoviani della collezione Bruschi. 3) Da segnalare a tale proposito il fatto che Poggio Gallinaro è compreso tra i possedimenti della famiglia Bruschi-Falgari, benché 2) La forma, insolita nel repertorio villanoviano, trova tuttavia un confronto puntuale nell’urna della tomba 54 del Selciatello: H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, Cambridge, Mass., 1968, p. 40, fig. 29, d. 3) Secondo F. di Gennaro la somiglianza di fattura dei due vasi farebbe pensare ad una provenienza da uno stesso corredo: F. di Gennaro, “Contributo alla conoscenza del territorio etrusco meridionale alla fine dell’età del bronzo”, Atti della XXI riunione scientifica dell’I.I.P.P., Firenze 1979, pp. 267-273, in particolare p. 270, fig. 3, 6-7; urna; Hencken, cit., p. 410, fig. 410, fig. 410; askos; G. Bartoloni ed altri, Le Urne a capanna in Italia, Roma 1988, fig. 104 e. la mancanza di qualsiasi dato sulla provenienza dei due reperti non consenta di andare al di la’ di semplici illazioni. Questo dato, da verificare con future ricerche più approfondite, è da collegare a quelli relativi al rinvenimento di reperti protovillanoviani nell’area urbana di Tarquinii 4) , che sembrano documentare che l’inizio del processo di occupazione dei grandi pianori sui quali si svilupperanno le città etrusche è da collocare già nel corso dell’età del bronzo finale. c) Appare interessante il rinvenimento di strati di insediamento nella piana costiera presso il fontanile delle Serpi, a soli due km. dal mare; per una corretta interpretazione del significato di questo giacimento appare importante una continuazione ed un approfondimento delle ricerche, sia per una verifica delle ipotesi di attribuzione cronologica, che apre delle prospettive nuove sulla variabilità delle scele tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro, sia per lo studio ricostruttivo delle condizioni ambientali della pianura costiera nel corso della protostoria, la cui importanza ed il cui ruolo insediativo e produttivo era certamente di notevole rilevanza, anche se con valenze ancora da definire. d) L’unico frammento tipico recuperato nel sito di Casale S. Antonio costituisce un indizio di presenze archeologiche dell’età del ferro di scarsa consistenza, ed in quanto tali probabilmente di difficile individuazione e definizione cronologica, distribuite al di fuori della concentrazione insediativa protourbana di Tarquinii; questo dato si inserisce nella problematica della modalità di utilizzazione del territorio pertinente alle grandi comunità villanoviane. 5) Alessandro Mandolesi Marco Pacciarelli I PAPI CHE ONORARONO CORNETO CON LA LORO PRESENZA NEL CONTESTO STORICO DEL TEMPO L’Archivio della Società Tarquiniense d’Arte e Storia è una miniera di notizie sugli avvenimenti della nostra città. 4) M. Bonghi Jovino (a cura di), Gli Etruschi di Tarquinia, Modena 1986, p. 83 ss.. Reperti protovillanoviani sono stati rinvenuti in vari punti del pianoro urbano nel corso del lavoro sulla topografia protostorica di Tarquinia in corso di svolgimento da parte di A. Mandolesi (segnalazione alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria meridionale in data 10-11-1989). 5) Per tale problamatica v. F. di Gennaro, “Organizzazione del territorio nell’Etruria meridionale protostorica: applicazione di un modello grafico”, Dialoghi di Archeologia, n.s. 4, 2, 1982, 102-112, in particolare p. 112. Tra i tanti documenti compulsabili, c’è anche una “Memoria”, nel carteggio Falzacappa, in cui vengono ricordati alcuni dei Pontefici che, in tempo di pace o in travagliati periodi storici, sono venuti a Corneto o soltanto di passaggio o per risiedervi in attesa degli eventi. Partendo da quanto scritto dallo sconosciuto estensore della “Memoria” (“Nota dei Sommi Pontefici venuti in Corneto”) e approfondendo le motivazioni ed i momenti storici in cui sono avvenute queste visite, si può avere, oltre che brani della storia dei Pontefici Romani, anche una idea piiù precisa del ruolo di Corneto nel Patrimonio di San Pietro. I primi pontefici di cui si ha notizia, che restarono a Corneto per un breve periodo di tempo, furono Giovanni XV (985-996) e Gregorio V (996-999). Era quello un periodo particolarmente difficile per il Papato, il quale si trovava in uno stato di subordinazione rispetto all’Impero. Ottone I di Sassonia (936-973) infatti con il “Privilegium Othonis” aveva stabilito che il Pontefice doveva ricevere l’approvazione imperiale prima di essere veramente tale e doveva poi prestare giuramento di fedeltà all’Imperatore. Ottone II aveva proseguito nella politica del padre. Le cose sembrarono cambiare in senso positivo per il Pontefice, con Ottone III (983-1002), il quale, inseguì il sogno di riportare Roma allo splendore dell’antico impero romano. Corneto in questo periodo, dopo le scorrerie dei Saraceni, stava riprendendosi e fortificandosi, cercando di organizzarsi come Comune Autonomo. Sono di questi anni i trattati di navigazione e di commercio con i Veneziani, i Genovesi, i Pisani e i Ragusei. Giovanni XV, nel 995 fu costretto a fuggire da Roma, a seguito di sollevazioni contro la sua persona, ad opera dei Crescenzi, e, dopo essere transitato per Corneto (non vi sono però elementi probanti in merito) si rifugiò presso il marchese Ugo di Toscana. Questa fuga fu di breve durata, perché, ritornò dopo pochi mesi a Roma. Qui, cadde prigioniero del potere dei Crescenzi e, prima che Ottone III potesse giungere da Ravenna per liberarlo, morì nell’aprile del 996. Il pontefice quindi, al quale Corneto dette asilo durante la sua fuga, era un uomo stanco che, per tutta la durata del suo pontificato, aveva lottato contro le soperchierie del patriziato romano, di cui poi doveva finire vittima. Ottone III (15 anni soltanto) non perse tempo e scelse come successore di Giovanni XV, il giovane cugino (24 anni) Brunone, che fu il primo papa di nazionalità tedesca e che prese il nome di Gregorio V. Questo giovane Pontefice, dotato di una buona cultura e di carattere fiero, si accinse all’opera di riformare la corrotta vita di Roma, ma i nobili di questa città, non apprezzarono affatto le sue rigide idee, che rispecchiavano gli ideali del monachesimo di Cluny. Il risultato fu che, ancora una volta, scoppiò una congiura ad opera di Crescenzio, che riuscì ad impadronirsi di Castel Sant’Angelo, fortificandolo e costringendo Gregorio V a fuggire per salvarsi, il 29 settembre del 996, ed a rifugiarsi a Corneto. Perché proprio a Corneto? Questo interrogativo se lo sono posti molti storici, ma le risposte che vengono date sono solo ipotesi e non certezze. Anche Gregorio V non avrà una vita lunga, infatti, ritornato a Roma vi morrà a soli ventisette anni, il 18 febbraio del 999. Passano gli anni. Le lotte fra l’Impero e il Papato riprendono più aspre. Grandi personaggi del secolo XI saranno il Pontefice Gregorio VII e l’Imperatore Enrico IV di Franconia, che si impegnarono in quella, che oggi conosciamo con il nome di “Lotta per le investiture”, che si concluse con una soluzione di compromesso (Concordato dei Worms 1122), che non dava assolutamente una risposta a chi fosse, tra il pontefice e l’imperatore, il capo della cristianità. Appena conclusa questa lotta, si riaccese in Germania quella tra i grandi feudatari per accaparrarsi il titolo imperiale, mentre in Italia andava sempre più prendendo piede il conflitto che opponeva i Comuni all’Impero. Dopo una lunga contesa, in Germania ha la meglio la fazione dei duchi di Svevia (ghibellini) e verrà riconosciuto imperatore Federico I Barbarossa (1122-1190). Con lui, più forte si fa il conflitto con i Comuni italiani appoggiati dal Papato. L’imperatore è battuto a Legnano (1176) e deve riconoscere ai Comuni autonomia politica e al Papato il primato spirituale sulla cristianità. A Federico I succede Enrico VI il Crudele e quindi Federico II. Mentre accadono questi fatti, Corneto prosegue nella sua vita. Deve subire, con molti danni per le campagne e per il litorale, altre scorrerie dei Saraceni; partecipa (1056) insieme a Toscanella ad una ribellione contro la Chiesa. E’un periodo, quello che segue, di lotte, che vanno avanti con alterne vicende, al termine delle quali, ad opera di Goffredo il Gobbo, marito della Contessa Matilde di Canossa, venuto in aiuto al pontefice, fu costretta a ritornare sotto il dominio della Chiesa (1071). La vita interna di Corneto seguita però ad essere travagliata per le lotte tra i fautori del papa (guelfi) e quell’imperatore (ghibellini). Nel 1134, la città torna a ribellarsi al Pontefice Innocenzo II ed aderisce all’Antipapa Anacleto. Viene però vinta dalle truppe papali e da quelle imperiali di Lotario III di Germania ed allora furono bruciate e saccheggiate le case di quei cornetani che si erano ribellati (molti dei quali si rifugiarono in Sicilia). Il primo atto di ossequio verso un Pontefice, Corneto lo fece il 20 novembre 1144, a Lucio II. Atto di ossequio, non di sottomissione in quanto la città era allora, e lo fu per vari secoli, Comune indipendente, che si governò liberamente con le sue leggi per tutto il Medio Evo. La ricchezza delle sue campagne la fa diventare fornitrice di cereali, non solo per i romani (horreum urbis), ma anche di tutti i sovrani e popoli delle rive italiche del Mediterraneo, ottenendo per questo, sempre privilegi da Pontefici, Re e Imperatori. Nel 1173 rinnovò il trattato di navigazione, commercio nonché aiuto reciproco con Pisa, trattato che venne siglato dai Consoli delle due città. Corneto è quindi in ascesa e sempre più sicura della sua forza. E’in questa città che, dopo circa duecento anni, ritorna un Pontefice: è Innocenzo III, uno dei Papi più significativi della storia della Chiesa di questo periodo. Lotario dei conti di Segni, figlio di Trasmondo e della romana Claricia Scotti, era nato nel 1160 quindi, quando nel 1198 venne eletto Pontefice con il nome di Innocenzo III, era giovane anche se non giovanissimo. Molto colto ed austero si pose come compito precipuo, quello di difendere la fede dalle eresie, di riformare la Chiesa tanto nella moralità che nella disciplina e di riconquistare i Luoghi Santi. Era un esponente convinto della dottrina teocratica. Nel Medio Evo c’era la tendenza a riunire quelle che si era soliti chiamare le “due spade”, cioè il potere temporale dei sovrani e il potere spirituale proprio dei pontefici. Innocenzo III non aveva alcun dubbio in proposito: le “due spade” dovevano essere attribuite a lui, e all’imperatore poteva solo concedere di usarne una, la temporale, in qualità di braccio difensore e secolare della Chiesa (advocatus Ecclesiae). Agendo in modo inflessibile, seppe non solo difendere il Papato, ma anche aumentarne il potere. La personalità di questo pontefice si manifesta nei suoi diciotto anni di sovranità, nel sapersi destreggiare con grande abilità nella complessa vita politica e spirituale del tempo. La sua lotta contro le eresie fu volta principalmente contro i Valdesi e contro gli Albigesi (verso quest’ultimi bandì anche una crociata). Quando nell’ottobre 1207 Innocenzo si fermò a Corneto, dopo essere stato a Viterbo, Montefiascone e Toscanella, stava cercando di dare una solida organizzazione al territorio della Chiesa, assicurandosi la fedeltà tanto dei vassalli che delle varie città. Infatti poi attuò una restaurazione per la quale le province risultarono raggruppate in questo modo: Patrimonium Beati Petri in Tuscia, Campania et Maritima (o Comitatus Campaniae), ducatus Spoletanus, Marchia Anconitana e Romandiola. A Corneto il Pontefice, accolto festosamente dalle autorità e dalla popolazione, che si sentivano onorati della sua presenza, prese dimora nel nuovo palazzo da lui fatto costruire presso la Chiesa di San Niccolò. Durante la sua permanenza nella città, Innocenzo visitò la Chiesa di Santa Maria di Castello, da poco consacrata e poi proseguì per continuare il suo viaggio per le altre terre del Patrimonio. Oggi non esistono più né la Chiesa di S. Niccolò nè il Palazzo Pontificio: dobbiamo accontentarci di sapere che, insieme ad un convento, formavano uno dei complessi monumentali più significativi della Corneto medievale Quando Innocenzo III morì di malaria a Perugia, il 16 luglio 1216, mentre si stava recando nell’Italia settentrionale per pacificare Pisa con Genova e convincerle a partecipare alla crociata, non si può certo dire che lasciasse una situazione tanto politica che religosa decisa e chiara, anche se per tutta la vita aveva inseguito questo scopo. Il giovane imperatore Federico II, infatti, riprese ad inseguire il sogno di potersi imporre ai Comuni ed unificare quindi il territorio italiano sotto il suo potere. Benché di origine tedesca, amava l’Italia più della Germania e cercò di forgiare il suo impero sul modello classico dell’antico impero romano. Lunghe e continue furono le sue lotte con il Pontefice e con le libere città comunali. Si inasprirono quindi i contrasti tra la fazione dei guelfi e quella dei ghibellini. Più volte il suo esercito attraverserà il territorio del Patrimonio, lasciando tracce di distruzioni, morti e saccheggi. Alla sua morte (1250) possiamo considerare concluso il periodo più splendente della Casa Sveva. Corrado IV, Manfredi, Corradino, dal 1250 al 1268, passarono come meteore, riuscendo anche, specialmente il secondo, a suscitare entusiasmi e passioni, ma per gli Svevi non c’era più posto nella storia dell’Impero. Il Pontefice Urbano IV aveva già trovato in Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, la personalità politica da opporre a Manfredi. Questa scelta venne confermata anche dal suo successore Clemente IV, il quale nominò Carlo re di Sicilia. Lo scontro decisivo tra Manfredi e l’Angioino, avverrà nel 1266 a Benevento e si concluderà con la morte del primo e la vittoria del secondo. I francei però non erano benvoluti nel Regno di Sicilia e i Vespri Siciliani segneranno un momento della lotta degli isolani contro gli angioini. Una lotta che si concluse con la Pace di Caltabellotta, che sancì il dominio angioino sul napoletano e quello aragonese sulla Sicilia. La vita politica nel centro-nord dell’Italia seguitò però ad essere condizionata dalle tensioni tra guelfi e ghibellini. La rivalità tra il potere temporale e quello spirituale, è sempre più forte. Molti furono i pontefici che si succedettero sul soglio di Pietro ma possiamo dire che il momento più drammatico, che attendeva la Chiesa, avvenne dopo la morte di Bonifacio VIII, un Papa che aveva avuto come programma politico il progetto teocratico già di Gregorio VII e di Innocenzo III. Questa volta ad opporsi a questo disegno fu Filippo IV re di Francia, il quale riuscì pure, dopo Bonifacio, a fare eleggere Papa un cardinale francese che prese il nome di Clemente V. Questi nel 1305 stabilì la sede pontificia ad Avignone. Ha inizio così quel periodo noto come “cattività avignonese”, che segnerà duramente la storia dei territori dello Stato della Chiesa. Il primo Papa che cercherà di ritornare a Roma sarà Urbano V nel 1367. In questo periodo così caotico, la vita di Corneto è quella di una libera città coinvolta continuamente in guerre, la maggior parte delle volte, derivanti dai grandi avvenimenti politici nazionali e internazionali. Durante le ricorrenti lotte tra Federico II di Svevia e il Pontefice, Corneto visse una delle pagine più belle e più tristi della sua storia infatti il 4 novembre 1245, Vitale d’Aversa, per ordine dello stesso imperatore, fece impiccare sotto le mura della città, trentadue ostaggi cornetani in località Monterana, lungo il fiume Marta. Corneto soffrì per quanto venne fatto ai suo figli, ma non cedette alle pretese imperiali. Qualche anno dopo, nel 1282, sarà una barca, approdata nel suo porto, a portare nel Patrimonio di San Pietro, la notizia dello scoppio della rivolta dei Vespri Siciliani contro gli angioini. Anche all’interno delle mura della città, la vita politica, però, era agitata: tumulti si susseguivano a tumulti, una volta erano i sostenitori del papa contro quelli dell’imperatore, un’altra era esattamente l’opposto. Una rivolta fu fatta anche contro il Podestà Falcone di Pietro Enrico Romano, (1224), per i confini (discussi) della tenuta di Montebello. Fu una sommossa violenta che vide anche morti inutili. Nel 1298 entrò nel porto di Corneto con una flotta di trenta galee, il re Giacomo II d’Aragona, il quale concedette molti privilegi commerciali. Dopo questo momento di pace, ecco ancora sollevazioni, come quella che riporterà i guelfi nella città (1316). Comunque il suo porto seguita ad essere punto di riferimento per re e principi. Nel 1327 l’imperatore Ludovico il Bavero lo scelse come luogo del suo incontro con Don Pietro di Sicilia. Subito dopo però ci fu un’altra rivolta che portò all’uccisione di Matteo Vitelleschi e dei suoi sostenitori. Intanto a Roma sorgeva l’astro di Cola di Rienzo. I Cornetani con il loro Priore, Manfredo Vitelleschi, parteggiano per lui e quindi sono pronti ad intervenire alle feste e agli spettacoli che Cola, vincitore su Giovanni di Vico, organizzò a Roma. In questa occasione, i cavalieri cornetani e quelli perugini “furono i più valenti e fecero miglior mostra di abiti di gran valore che cambiarono due volte”. Nel 1367 Corneto visse delle giornate indimenticabili, infatti il Pontefice Urbano V scelse il suo porto per il ritorno a Roma. Questo Pontefice non si sentiva più sicuro ad Avignone e, confidando nell’opera del cardinale Albornoz in Italia, decise di trasferire la Santa Sede nuovamente a Roma. A persuaderlo furono anche le reiterate esortazioni dei romani nonché quelle del Petrarca e del figlio del re Giacomo d’Aragona, Pietro, che, fattosi frate dell’ordine di S. Francesco, godeva fama di santità. Benché i cardinali francesi e il re Carlo V di Francia, osteggiassero questa sua decisione, egli non si lasciò intimidire e partì, nel 1367, alla volta di Marsiglia, accompagnato da otto cardinali, mentre altri sette per vie diverse si diressero in Italia. Urbano V, non fidandosi dei nemici e più ancora degli amici, preferì prendere la via del mare e non quella di terra. Nel porto di Marsiglia l’attendeva una flotta di ventitrè galee e di molte altre navi, che la regina Giovanna di Napoli, e le città di Venezia, Genova e Pisa vi avevano spedito per trasportare la corte pontificia e per fare scorta d’onore al Papa. Urbano salì su una galea veneta e salpò il 30 maggio e giunse nella rada di Corneto il 2 giugno. Qui lo attendeva il fior fiore della nobiltà romana e gli esponenti più rappresentativi della prelatura di Roma con a capo il cardinale Albornoz, legato pontificio, il quale aveva predisposto e sistemato in Corneto l’alloggio del Papa e del seguito. Dal Patrimonio di San Pietro, dalla Romagna, dalla Marca erano poi giunti numerosi gentiluomini. Pisa, Firenze, Perugia, Siena e Orvieto avevano inviato i loro ambasciatori, molti conti, baroni, abati e Vescovi erano poi convenuti a Corneto da tutte le città vicine. Il beato Giovanni Colombini, con i suoi frati Gesuati, aveva trascinato con le sue parole una grande moltitudine di persone, che ora si accalcava lungo la spiaggia per salutare il ritorno del Pontefice, al quale i cittadini romani presentarono le chiavi di Castel S. Angelo. Il Papa scese dalla galea percorrendo il magnifico ponte, costruito per lui dai Cornetani, e, sostò sulla spiaggia, sotto un sontuoso padiglione, per celebrare una Messa solenne di ringraziamento a Dio per il felice compimento del viaggio marittimo. Corneto non aveva mai visto sulla sua spiaggia tanta moltitudine di popolo e un numero così grande di nobili e prelati appartenenti ai vari stati stranieri. Fu una apoteosi di canti, di grida gioiose osannanti al Pontefice, di vivi colori fra cui primeggiavano i bianchi veli, che coprivano le tende delle milizie capitanate dall’Albornoz, e lo scarlatto dei cardinali. Terminato l’ufficio divino, Urbano V montò a cavallo e, sotto un baldacchino, si diresse con il seguito verso Corneto che attraversò fra gli osanna dei presenti. Andò verso il Convento dei Frati Minori Osservanti, dove prese alloggio. Nel giorno di Pentecoste onorò poi la città, celebrando in essa una Messa Solenne. Recatosi quindi a Viterbo, da lì concedette ai Cornetani il privilegio di discutere e sancire pene in tutte quelle cause di prima istanza, tanto civili che criminali, che li riguardavano, mentre prima dovevano essere chiamati in giudizio fuori della loro città. Il Papa tornò a Corneto il 5 settembre 1370, per imbarcarsi nuovamente per la Francia con 11 cardinali, su una delle navi mandategli per scorta dai re di Francia e Aragona, dalla regina Giovanna di Napoli, dai Pisani e dai Provenzali. Scopo del viaggio era la speranza di poter sedare la guerra sempre in atto tra l’Aragona e la Navarra, nonché quella preesistente fra Francia ed Inghilterra. Partì sotto funesti presagi di morte e di collera di Dio se si fosse azzardato a riportare la sede pontificia ad Avignone. La contessa Brigida di Svezia gli fece recapitare, per dissuaderlo, una lettera in cui era scritto: “Te taedet vivere, quo vadis ignoras, festinas ad mortem”. (Ti annoia vivere, ignori dove vai, ti affretti verso la morte). Il Pontefice giungerà ad Avignone il 24 settembre ma, dopo appena due mesi, il 19 dicembre 1370, lo coglierà la morte. Quanto aveva detto la contessa Brigida si era avverato. Dopo appena diciassette giorni, la cristianità gia aveva un nuovo pontefice, Pietro Roger dei conti di Beaufourt (nipote di Clemente VI) che, semplice diacono, fu consacrato sacerdote e Vescovo il 4 gennaio ed il 5 fu eletto Papa con il nome di Gregorio XI. Tutto questo accadeva in un periodo di tempo, in cui l’Italia, indignata per l’atto di Urbano V, che aveva riportato la sede pontificia ad Avignone, si era ribellata facendo un’alzata di scudi contro il Pontefice Gregorio XI che, seppure di malavoglia, si era insediato con la sua curia anch’esso ad Avignone. Fu Santa Caterina da Siena, che con esortazioni e lettere, pur rispettando la personalità del Papa, in modo nudo e crudo gli chiese di ritornare nella sede di Roma, se voleva riportare la pace nel mondo. Tre erano i problemi da risolvere per questo scopo: riportare nel seno della Chiesa, onestà, umiltà, pienezza della divina grazia, aprendo le braccia agli “agnelli” e scacciando i “lupi” famelici; riportare la sede della Chiesa a Roma; drizzare il gonfalone della Croce Santa a refrigerio dei cristiani. Gregorio XI accolse le esortazioni di Santa Caterina e, benchè fosse di indole timido e irresoluto e fosse contrastato dai cardinali francesi, con l’aiuto della grazia divina, stabilì il ritorno della Curia e del Papato a Roma. Partì nel settembre del 1376 da Avignone con i cardinali e giunse a Marsiglia; da qui ripartì il 13 settembre 1376 da per Genova, dove fu accolto da Santa Caterina con una folla festante accorsa da ogni parte. Dopo dodici giorni di sosta, si imbarcò su una galea con un seguito di trenta navi, inviategli da tutti gli stati d’Italia, e, dopo un viaggio per mare non piacevole, in quanto nel canale di Piombino fu travagliato da una grande burrasca, giunse il 6 novembre a Pisa, accolto con un grande entusiasmo dai pisani. Dopo alquanti giorni, rimessosi in viaggio, approdò nella rada di Corneto, il 5 dicembre, e rimase in questa città con tutta la curia circa un mese, trascorrendovi il Natale. Il suo cameriere Gilberto, ci descrive in un suo manoscritto, questo approdo: “Il Papa disceso dalla triremi pontificia, prostratosi al suolo, pregò e rese grazie a Dio per il suo ritorno alla romana sede... indi avviossi verso Corneto, città nobile e antica.... i cittadini del luogo in gran numero e bene in arnese, su generosi destrieri, precedevano il Pontefice. Gli addetti alla corte furono serviti di sì copiosi desinari, che stanchi del viaggio si trovarono con grande amore ristorati dagli abitanti”. Il Papa nel partire colmò la città di privilegi ed esenzioni. Però, come dice il Gregorovius”... Gregorio XI celebrò tristemente a Corneto le feste natalizie. Aveva rimandato indietro tutte le navi salvo tre o quattro galere provenzali, che trattenne per propria sicurezza personale, poiché il Prefetto di Civitavecchia lo minacciava dal mare. Il primo gennaio (1377) mandò un contingente di cavalieri contro Viterbo ma il Prefetto locale batté le truppe papali e fece duecento prigionieri.... Finalmente dopo cinque penosissime settimane, il 13 gennaio Gregorio mosse da Corneto, fece vela verso Civitavecchia che riconosceva la signoria del Prefetto e il 14 gennaio prese terra ad Ostia”. I cittadini cornetani in gran numero lo accompagnarono fino alle porte di Roma ma lì il pontefice li obbligò a ritornare nella loro città. Oramai il loro posto sarebbe stato preso dai romani. Il ritorno dei Papi a Roma, non riporta la pace in seno alla cristianità, prova ne è il fatto che, alla morte di Gregorio XI (1378), con la nomina di Urbano VI, inizia il Grande Scisma d’Occidente. Papi e Antipapi si combattono senza esclusione di colpi e in questa lotta vengono coinvolte anche le città italiane. Pure Corneto è investita da questo turbinio di avvenimenti: si ribella al Papa Urbano VI, poi chiede perdono per tornare quindi nuovamente a ribellarsi per essere ancora perdonata. Nel 1385 il Papa, non avendo il denaro necessario per le galee genovesi, che aveva noleggiato per fuggire dal Regno di Napoli, giunto a Corneto, per sdebitarsi, cede la città alla Repubblica di Genova. Così, per qualche tempo, Corneto dipese da questa repubblica e prestò anche ad essa giuramento di fedeltà. Ma la storia prosegue nella sua corsa: la città, di volta in volta vede al suo interno prevalere la parte a favore del Pontefice di Roma o dell’Antipapa e quindi la vita politica è confusa ed agitata. Le sue campagne vengono spesso saccheggiate dagli eserciti dei contendenti. Comunque Corneto, malgrado tutto, riesce ad essere economicamente forte, tanto da ricevere nel 1425 l’invito a mandare al Concilio di Costanza (dove si doveva risolvere lo Scisma) un suo ambasciatore. Sotto il pontificato di Martino V, pontefice eletto appunto in questo Concilio, comincia a farsi notare”..... un prelato.... molto fido, prudente, ed esperto negli affari”: Giovanni Vitelleschi, appartenente ad una delle famiglie più vista in Corneto. Il culmine della sua carriera lo raggiungerà sotto il pontefice Eugenio IV, che lo nominerà cardinale, Legato Apostolico e Vicario Generale, ma la sua vita, nel 1440, si concluderà tragicamente, vittima di un complotto ordito contro di lui dai suoi nemici. Alla scomparsa del cardinale, seguono anni agitati, fino a quando, con la morte di Eugenio IV, il nuovo Papa, Niccolò V, non riuscì a pacificare la situazione venutasi a formare. Si cominciò a costruire un porto, che desse maggiore sicurezza alle navi, e questa ristrutturazione venne portata avanti anche sotto Pio II. Il problema del porto è presentato anche a Sisto IV che, nel 1476, visitò la città. Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, eletto pontefice nel 1471, era, secondo il cardinale Bessarione, una delle persone più erudite del suo tempo ed anche uomo politico di prim’ordine, però non sempre fortunato. Il suo pontificato avvenne in un periodo critico per la politica degli stati italiani, data la discordia esistente fra di essi e l’incombente pericolo turco. Il popolo romano ricordò a lungo il suo pontificato. La figura di Sisto IV si presenta luminosa nelle sue relazioni con le scienze e con le arti poiché egli contribuì grandemente allo splendore di Roma. Superò il mecenatismo di Niccolò V. Nell’anno 1476, Sisto IV, con una lettera, promette ai Cornetani di venire nella loro città, con una gran comitiva di cardinali e baroni. Quando giunse fu accolto non solo con gran giubilo dalla popolazione, ma gli furono elargiti splendidi doni. In quell’anno fu distrutto dal fuoco il Palazzo dei Priori ed il Papa accordò allora l’uso gratuito di alcuni pascoli della Camera, per aiutare la città a ricostruirlo. Nel 1478 Corneto fu travagliata dalla peste, molti morirono e molti se ne andarono, per cui la città rimase con pochi abitanti. S.S. allora concedette per quindici anni privilegi a tutti coloro che fossero venuti a ripopolarla e si fossero dedicati ai lavori dell’agricoltura. Nell’anno 1481 Sisto IV tornò nella città con la sua corte, sostando per alcuni giorni nel palazzo, che Giovanni Vitelleschi aveva fatto costruire con grande magnificenza quando era papa Eugenio IV. Oltre al Palazzo, visitò gli orti ubertosi per l’abbondanza delle acque. Vide ed ammirò l’insenatura del mare, vicino alla città ed esaudendo il desiderio dei cittadini, che ne volevano fare un porto, concesse per quest’opera diecimila scudi d’oro da elargire in dieci anni e comandò che, inizialmente, ne fossero consegnati mille in acconto. Corneto accolse con gioia la decisione di Sisto IV che, benevolmente, aveva concesso tali benefici ai suoi figli diletti. Durante questa sosta (4 ottobre) concesse pure l’indulgenza plenaria a tutti i cornetani che, pentiti e confessati, avessero visitato la Chiesa di Santa Maria di Castello in occasione della Festività della Vergine in settembre e marzo. Sisto IV concluse la sua vita nel 1484 ed il suo posto fu preso dal cardinale Cybo, che divenne pontefice con il nome di Innocenzo VIII. Anche questo Papa assunse il potere tra difficoltà enormi (tutti i poteri dello stato erano nelle mani dei cardinali e il Papa poteva esercitare solamente il potere spirituale), aumentati dal fatto di aver avuto dei figli in gioventù con una donna napoletana. Sotto di lui l’infuriare delle fazioni e la “congiura dei Baroni” seminarono il disordine a Roma. Durante questo periodo, Nicolò Orsini, conte di Pitigliano, generale dei fiorentini, legato al re di Napoli nemico della Chiesa di Roma, con un numeroso esercito di fanti e cavalieri, si portò sotto le mura di Corneto, accampandosi vicino al ponte del Marta. Il luogo era stato fortificato validamente dai Cornetani ma le sorti della battaglia furono contrarie alla città assediata per cui i difensori dovettero indietreggiare e ritirarsi entro le mura della città. Malgrado il pericolo, i rappresentanti di Corneto rifiutarono, per la fedeltà al Pontefice, di esaudire le richieste di vettovagliamento avanzate dall’Orsini per il proprio esercito. Il Conte allora rispose che li avrebbe considerati come nemici e devastò le campagne facendo uccidere quasi tutto il bestiame, quindi si allontanò, rifugiandosi nello Stato Fiorentino. Nell’anno 1491, Innocenzo VIII venne nella fedele Corneto, accolto con grande entusiasmo dalla popolazione che lo gratificò di donativi e lo onorò con archi di trionfo. Egli ricambiò con privilegi, elargendo un sussidio alle famiglie dei Lombardi, che si erano stabiliti in città e lasciò le rendite, spettanti alla Camera, per sistemare la parte della Torre del Porto diruta per le incursioni belliche. Questo Papa morì il 25 luglio 1492 ed ebbe sepoltura in San Pietro. Terminate le esequie di Innocenzo VIII, si procedette alla nomina del suo successore nella persona di Rodrigo Borgia, che prese il nome di Alessandro VI. Nel 1492 il nuovo Pontefice, perdurando la peste a Roma, scrisse un Breve ai Cornetani, con cui comunicava che sarebbe venuto nella loro città con alcuni cardinali e la sua corte e che preparassero quindi, alloggi e provvedessero ai viveri. Egli giunse in Corneto il 5 dicembre, passando da Viterbo e Toscanella e alloggiò nel Palazzo dei Vitelleschi. Il Magistrato ed il Cancelliere, in abiti curiali, si prostrarono a baciare il suo piede e gli fecero dono di “300 capponi, 100 some d’orzo, 50 some di grano, 20 vitelle, 25 castrati, 300 some di fieno, 25 torce, 26 candele di cera, 25 scatole di confetti, 25 marzapani, 6 some di vino, e 100 some di legna. Ai cardinali fu fatto donativo di 2 some di orzo, 4 scatole di confetti e 4 paia di capponi per ciascheduno. Addì 18 i Signori del Magistrato, accompagnati da Vittuzio, Giulio, Mariano, e Lituardo, tutti dei Vitelleschi, Pietro Ugolino ed Aurelio Mezzopane, insieme con Ludovico Leandri, cancelliere del Comune, si presentarono a S.S. ed ottennero molte grazie e privilegi particolari”. (Dasti). Corneto ebbe vari rapporti con il Borgia, non solo, ma anche con i suoi figli in special modo con Cesare. Con lettera del 6 agosto, a forma di Breve, il Papa informa i cittadini di Corneto, che una flotta francese con un forte esercito era in arrivo sulle rive pontifice del Tirreno e li esorta a prepararsi a respingerli, a munire bene la spiaggia e a ben usare di ogni fortificazione, armandosi adeguatamente, difendendo in tal modo non solo se stessi ma anche la Madre Chiesa. Altri due Brevi il Papa invia a Corneto prima della fine del secolo e precisamente il primo (1495) per avere dai Cornetani l’occorrente per il vettovagliamento dell’esercito del re Carlo VIII che, a Roma, sta soffrendo per la carestia, ed il secondo (1499) per comunicare agli agricoltori del luogo la concessione della libertà di commerciare fino a ottomila moggia di grano con i paesi “esteri”. I diletti figli cornetani sono chiamati in causa anche in occasione dei preparativi per le nozze di Lucrezia, figlia del pontefice, con il primogenito del Duca di Ferrara, in quanto, prevedendo l’enorme quantità di viveri occorrenti per far fronte al grande numero degli invitati, Alessandro VI ordina loro di dedicarsi alla caccia e alla pesca e di mandare a Roma oltre alla cacciagione e al pescato, capponi, pollastre, galline “in quella maggiore quantità che” potranno. Il tutto deve giungere nelle cucine pontificie in tempo per il Natale (1501). Il Papa tornò a Corneto nel 1503, durante il viaggio per andare a Piombino, recentemente conquistata dal Valentino, e vi alloggiò tanto nell’andare che nel tornare, con grande accompagnamento di nobili, cortigiani e servi. Si imbarcò su sei galee, con tutto il suo seguito, nel porto della città, e si diresse presso Piombino. Durante il viaggio di ritorno una grande burrasca colpì le navi mentre il Papa, dopo aver corso un serio pericolo, si rifugiò a Porto Ercole, il Valentino riuscì ad approdare al porto di Corneto e da qui andò incontro al padre con cavalli dati dai cittadini di questa città. Ritornati a Corneto, per ringraziamento Cesare Borgia consegnò ai Cornetani un salvacondotto da lui firmato in data 2 marzo 1502. La città però risentiva della pestilenza che aveva decimato la popolazione ed allora, il 4 ottobre, Alessandro VI concesse privilegi e indulti a quelle persone che fossero venute ad abitare nella città, stremata, impoverita e spopolata. Corneto non fa nemmeno in tempo a riorganizzarsi che, con Breve del 10 gennaio 1503, il Papa incita i Cornetani a prepararsi a difendere il loro territorio ed i loro averi, dall’Orsini che, a capo delle sue truppe, stava devastando la provincia marittima del Patrimonio. Anche i Tolfetani avvertono la città che il duca sta avvicinandosi pericolosamente, dopo aver devastato le zone vicine ai confini cornetani. Con una cruenta ed eroica lotta le milizie cornetane riescono a battere gli armati dell’Orsini salvaguardando così il proprio territorio. Quando il 19 agosto 1503 Alessandro VI morì improvvisamente a Roma, da molte parti cominciarono a circolare voci di un suo possibile avvelenamento nella villa del cardinale Adriano da Corneto (Castelleschi), avvenuto per un errore da parte di un servo. Il suo successore, Giuliano della Rovere, con l’aiuto di Cesare Borgia, cui aveva promesso di crearlo capitano generale della Chiesa, e di alcuni cardinali, suoi fautori, entrò in conclave già come papa. Aveva 60 anni. Pensiero preponderante di questo Pontefice fu quello di rinforzare lo Stato della Chiesa. Comunicò subito agli altri principi alleati della Chiesa di voler abbattere i Turchi. Quindi esortò i vari regnanti a riappacificarsi fra loro in modo, di fare, al momento giusto, un fronte compatto contro i Mori. Il Valentino, contrariamente a quanto promessogli, non ebbe la carica di capitano, anzi fu fatto arrestare dal Papa e condurre a Roma, dove fu rinchiuso nella Torre Borgia. I rapporti di Corneto con Giulio II furono quasi sempre abbastanza buoni e la città fu in questo periodo, più che in altri, il granaio di Roma. Già nel 1504 il Pontefice richiese ai Cornetani di mandare ai romani 3000 moggi di grano, dato che essi ne avevano in abbondanza e fa appello alla loro fedeltà verso la S. Chiesa ed offre e ricorda loro la sua “benignità” nelle loro occorrenze”, in quanto già nel 1503, appena eletto, aveva con un suo Breve, confermato gli Statuti e i Privilegi di Corneto e il condono della terza parte del sussidio dovuto alla Camera per la restaurazione dei fiumi della città. Nel 1505, dopo la richiesta di altri mille moggi di grano, nel mese di ottobre il Pontefice giunse a Corneto nel giorno di San Francesco e celebrò solennemente la Messa nella Chiesa dedicata al Santo, assistito da vari cardinali tra i quali anche il cornetano Adriano Castelleschi, e portò in dono la testa d’argento di S. Agapito. L’anno dopo, in marzo, fece restaurare e ampliare la Chiesa della Madonna di Valverde, fuori le mura. Nel 1509, Giulio II volle ritornare a Corneto, con un seguito di alte personalità, di cui si premurò di notificare il nome ed il numero affinché l’accoglienza fosse perfetta. Dopo essere passato da Viterbo a Toscanella, egli giunse a Corneto accolto solennemente da un grande numero di cittadini e da dodici giovanetti ben vestiti e portanti ramoscelli di olivo (un vecchio rito della città). In sedia, sotto ad un baldacchino, fu portato, fra l’esultanza unanime, per tutto il territorio cornetano. Si fermò poi nella Chiesa di Valverde e da lì, in corteo, si diresse verso la Cattedrale. All’ingresso baciò il Crocefisso e fu incensato, e dette la sua benedizione ai presenti, concedendo poi indulgenze per sette anni. Ricevette in cambio doni e altre attestazioni di sudditanza. Si trattenne tre giorni, ospitato nel palazzo Vitelleschi, e quando partì promise di tornare presto. Infatti il 9 di marzo 1510, era di nuovo nella città, ed ancora il 15 agosto dello stesso anno. Al Lido lo attendevano le galee veneziane, comandate da Girolamo Contarino, con il quale il Papa desinò con grande familiarità. Quattrocento fanti cornetani si unirono allora ai veneziani, per andare a combattere contro Genova. Giulio II onorò ancora Corneto con la sua presenza, il 15 novembre del 1511, sempre accolto con entusiasmo e gioia. Per suo interessamento, fu rifatto il ponte sul Marta, fu restaurato, quasi dalle fondamenta il Palazzo Priorale e fu costruita la Nuova Torre (avendo fatto “discaricare” la torre del Campanile antico). Dopo appena due anni da questa visita, Giulio II, pontefice generoso, risoluto e forte, morì (1513). Il Gregorovius giudica questo Papa nel seguente modo: “Sulla Cattedra di San Pietro fu uno dei più profani e antisacerdotali tra i pontefici, appunto perché fu uno dei principi più eminenti del suo tempo”. Di Giulio II si disse che avesse gettato nel Tevere le chiavi di San Pietro per non serbare che la spada di San Paolo. A Michelangelo, che abbozzava la sua statua da erigere a Bologna, e che gli chiese cosa mettere nella mano sinistra dato che la destra era in posizione benedicente, rispose: “Mai un libro, non mi trattare da scolaro. Voglio una spada”. Gli successe Leone X. Il cardinale Giovanni dei Medici, quando venne eletto papa aveva trentotto anni, ma già ventiquattro di cardinalato, per quanto fosse ancora soltanto diacono. Era figlio di Lorenzo il Magnifico e aveva avuto come maestri, Pico della Mirandola, Ficino e Poliziano. Era malfermo di salute tanto che, quando ci fu il conclave, dovette starsene a letto e subire anche delle operazioni. Fu quindi consacrato sacerdote e vescovo ed il 19 marzo venne incoronato papa. L’11 aprile con pompa mai vista, prese possesso di San Giovanni in Laterano. Le spese furono ingenti ed anche le elargizioni al popolo alquanto cospicue. Di indole dolce e pacificatrice, perdonò ai cardinali a lui contrari e scismatici, Carvayal e Sanseverino, che i fiorentini avevano imprigionato prima del conclave. A Leone X stava a cuore più l’ingrandimento della sua famiglia che quello dello Stato Pontificio. Non amò le guerre, ma si prodigò nella pacificazione dei vari principi e delle varie case rivali. Non fu molto amato, tanto che fu fatta una congiura contro di lui dai card. Petrucci, Bandinelli, Riario, e, successivamente Soderini e forse Adriano di Corneto. Questi ultimi due si salvarono dopo aver pagato una multa di 25.000 ducati; il Soderini, il chirurgo, che doveva avvelenarlo, e il segretario di Petrucci furono giustiziati fra atroci tormenti. La cosa destò orrore e molto vuoto si fece attorno al Pontefice, che rimediò, nominando, in una sola volta, trentun altri cardinali a lui familiari ed amici. Sorse in quest’epoca il movimento del protestantesimo con a capo Martin Lutero. Il Papa, comprendendo le gravi proporzioni di questa eresia che si espandeva sempre più, il 7 agosto 1518, convocò Lutero a Roma entro settanta giorni, ma, non essendo questi venuto, lo scomunicò. Leone X durante il suo pontificato si recò molte volte a Corneto. Nel 1514 fu accolto con archi trionfali, fuochi e con molti doni e fu condotto in Sedia, sotto baldacchino per tutto il territorio. Tornò a dimorare nella città otto volte, dal 1514 al 1520, attratto sia dalla bellezza del luogo che dalla possibilità di cacciare e pescare che offriva. Nel 1516, essendosi alcune fuste di corsari mori, presentate, dopo aver fatto scorrerie lungo le spiagge tirreniche, fin sotto il Porto di Corneto, vi fu grande timore nella città e fu avvisato il Papa, che emanò subito un Breve affinché si facessero “diligenze e difese”. Il cardinale Castelleschi imprestò alla città 250 ducati d’oro per provvigioni di armi e di altre attrezzature belliche. Ma i Mori si limitarono a razziare presso l’Argentario delle barche, facendo prigionieri gli occupanti cornetani. Nel 1517 caddero piogge copiose ed il ponte sul fiume Marta ne fece le spese, così come la lega del Mulini. Il Papa raccolse il grido di aiuto della città e fece molte concessioni in favore del Comune per rifare i mulini. In quest’anno egli ritornò a Corneto, sempre accolto con entusiasmo, onori e regali e in compenso privilegiò i cornetani col dare loro facoltà di tenere il medico ed il maestro di scuola a spese della Camera, confermando, cioè, quanto già concesso dal papa Pio II. Anche nell’ottobre e nel novembre del 1518, il Pontefice ritornò in Corneto, ricevuto “trattato e regalato secondo il solito”, e poi ancora nel 1520, ricevendo sempre onori conformi allo stile dei pontefici. Nel 1521, non venne, ma con un Breve da Roma, datato 8 febbraio, dopo averlo lodato la fedeltà e le benemerenze della nobile ed antica Corneto, concesse grandissimi privilegi alla sua agricoltura. Fu l’ultima cosa che fece per questa città, poiché morì il 1 dicembre 1521. Tra il 1521 e il 1534, anno in cui di nuovo un pontefice giungerà a Corneto, lo Stato Pontificio, deve superare una delle prove più tremende della sua storia: il Sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi (1527). Comunque da quel periodo tragico, la Chiesa riuscì ad uscire, anche se vinta militarmente, quasi “purificata” dal sangue versato, e rafforzata nell’idea di un rinnovamento spirituale, che porterà alla Controriforma. Ed il Concilio di Trento (1545-1563), nel corso del quale tanto il Papa che i Vescovi fisseranno i principi fondamentali della fede cattolica senza scendere a compromessi con le idee luterane, calviniste, anglicane ecc., fu aperto dal Pontefice Paolo III, Alessandro Farnese, il quale dopo un periodo, in cui i suoi predecessori avevano “dimenticato”, per motivi inerenti ai vari momenti di lotta contro i signori ribelli e contro lo stesso imperatore Carlo V, la nostra città, ritornò a Corneto per trovare quella tranquillità così lontana dalla corte pontificia. Quando Paolo III fu eletto Papa, i Romani ne furono entusiasti perché, dopo 103 anni, avevano finalmente avuto un papa loro concittadino. Questo pontefice tentò, ma sempre invano, di far pacificare Carlo V ed il re di Francia, Francesco I, che speravano, ciascuno, di tirarlo dalla propria parte. Ma Paolo III non si lasciò ingannare nè dall’uno nè dall’altro, respingendo lusinghe e promesse. Il suo pontificato fu uno dei più importanti e benefici. Con esso comincia la ripresa definitiva della Chiesa Cattolica verso la Restaurazione. Paolo III prese a fare delle riforme, incominciando dalla Curia Romana. Pubblicò numerosi decreti per emendare la vita licenziosa degli ecclesiastici e per restaurare la vita religiosa dei monasteri. L’unica cosa, che gli si può rimproverare, fu la sua tendenza al nepotismo. Creò i suoi nipoti cardinali. Desiderando poi elevare la propria famiglia al rango di famiglia sovrana, incominciò la costruzione di un piccolo ducato, incentrato nella città di Castro, nello Stato Pontificio, e lo diede in feudo (1537) al figlio Pier Luigi ed ai suoi discendenti, a questo aggiunse il governo di Nepi e la contea di Ronciglione e Caprarola. Era sinceramente affezionato a questo figlio violento e superbo e provò grande dolore quando lo seppe assassinato. Paolo III, come dicevamo, venne più volte a Corneto, città di cui era stato Vescovo per vari anni (1501-1519) e la cittadinanza lo accolse sempre con grande entusiasmo, onori e regali, tanto nel 1534 che nel 1549, anno in cui si concluse la sua vita terrena. I successori di Paolo III, furono tutti impegnati, tra gli altri avvenimenti più strettamente politici, a portare avanti il Concilio di Trento, che subì lunghe pause nei propri lavori, proprio in conseguenza delle movimentate vicende storiche della Chiesa. Finalmente, nel 1563, Pio IV riuscirà a condurlo a termine. Intanto Corneto proseguiva la sua vita in una alternanza di pace e di lotte, di luci e di ombre. Accanto ad opere civili, quali l’erezione del Monastero delle Monache Benedettine all’interno delle mura della città (1564) o la ricostruzione del grande ponte a quattro arcate sul fiume Marta (1567), ad esempio, ci fu l’arrivo nella città, per ordine del Santo Pontefice Pio V, di un nutrito numero di soldati che dovevano imbarcarsi nel suo porto, per andare a combattere la crociata contro i Turchi, crociata che ebbe il suo momento più esaltante nella vittoria di Lepanto (1571). Fu il successore di Pio V, Gregorio XIII, che ritornò a visitare Corneto. Infatti nel 1574 dopo due anni dalla sua elezione, giunse nella città con la sua corte ed i Cornetani furono pronti ad accogliere con calore e magnificenza anche questo pontefice che, sulle orme dei suoi predecessori, cercò di estendere l’attuazione dei decreti tridentini presso tutta la cristianità, pur non possedendo una virtù o una costanza d’azione simile alle loro. Anche se i papi seguenti non vennero personalmente nella città, pur tuttavia influirono sulla sua vita inviandovi un proprio Governatore (Sisto V) o chiedendo contributi per le guerre intraprese (Clemente VIII). Il XVII secolo iniziò piuttosto bruscamente per il Comune cornetano, infatti mai come nel 1618 il fiume Marta fece sentire la violenza delle sue acque, che non si limitarono ad inondare le campagne limitrofe, ma trascinarono nel loro impeto distruttore greggi ed uomini verso il mare. Numerose furono le vittime di questa furiosa piena e, tra le cose che subirono ingenti danni, c’è da ricordare quella che il Dasti chiama “la fabbrica meravigliosa delle Mole”. Il Comune non perse tempo e per rimetterla nuovamente a posto fu, non solo, pronto a spendere settemila scudi, ma fece anche intervenire l’architetto più importante della Roma di questo periodo: Carlo Maderno. Subito dopo, però, fu costretto a darne diecimila al Papa Paolo V, per l’imperatore d’Austria. Quando poi Urbano VIII, nel 1641 si trovò a lottare con il duca di Parma, Odoardo Farnese, signore di Castro, Corneto venne scelta come luogo più idoneo per essere il centro delle provvigioni per l’esercito, malgrado ciò, non poté esimersi dal contribuire alle spese sostenute dal Pontefice, con la solita somma di diecimila scudi. Eppure quel denaro le avrebbe fatto molto comodo perché, dopo circa due anni, il 7 agosto 1643, un furioso incendio, scoppiato per la sbadataggine di un giovane prete, distrusse quasi completamente la Cattedrale, risparmiando solo il coro. Andarono così perduti molti monumenti di famiglie e uomini illustri, tra i quali anche quelli dei cardinali Giovanni e Bartolomeo Vitelleschi. Per la ricostruzione della sua cattedrale, tutto il popolo cornetano fu pronto a concorrere con le proprie offerte. Partecipò a questa “colletta”, con una somma considerevole, anche il Vescovo Cecchinelli. Prima che si concludesse la prima metà del XVII secolo, nel 1645, Corneto fu ancora una volta coinvolta nella guerra che il pontefice Urbano VIII portò ai signori di Castro, i Farnese, guerra che si concluse con la sconfitta di quest’ultimi sotto il Pontefice Innocenzo X. La città di Castro venne completamente rasa al suolo e a questo atto parteciparono anche soldati cornetani. Il secolo si concluse tra minacce di guerra e momenti di relativa quiete. E questa quiete Corneto sembrò riuscire a mantenerla per molti anni, fino a quando la ventata della rivoluzione francese non giunse sino ad essa. In questo periodo fu costruito all’interno del Palazzo Comunale un Teatro pubblico, e, per ordine del Pontefice Benedetto XIII, anche l’Ergastolo, ossia la “Pia casa di Penitenza” per quegli ecclesiastici che si fossero macchiati di qualche colpa. Nel 1746 la città ha l’onore di accogliere Benedetto XIV, il quale, dopo aver ricevuto l’omaggio delle autorità civili e religiose e la festosa accoglienza del popolo, ripartiva, accompagnato dalla cavalleria cornetana verso Civitavecchia. Questo Pontefice era molto amato dal popolo e la sua elezione era stata accolta con un unanime entusiasmo, in quanto di lui si conoscevano tanto la vita, improntata a costumi seri e aderenti alla spiritualità cristiana, tanto la pietà e la semplicità nei suoi rapporti con gli umili. Nel 1757 Benedetto XIV tornò ad interessarsi della città, che l’aveva accolto con tanto calore e, con un suo Breve, concesse la fascia d’oro al Gonfaloniere di Corneto, motivandola con i meriti dei cittadini e con l’antichità delle città. Ancora qualche anno di pace, che vede la costruzione del Cimitero nella zona di San Giacomo, nel 1759, e, sempre nello stesso anno, la concessione dell’uso, da parte del Comune a S. Paolo della Croce, di “quattro rubbia di terreno selvoso nella tenuta di S. Pantaleo per fondarvi il Ritiro dei Passionisti” (Dasti). Nel 1762 Clemente XIII riprese l’abitudine dei Pontefici di visitare Corneto. Papa Clemente, umile, retto, di indole mite, dolce e candida, era zelante ed inflessibile nel compiere ciò che reputava essere suo dovere. Tutta la sua forza la riponeva nel cielo e non nei governi terreni, dai quali rivendicava i diritti nella Chiesa. Profondeva quanto aveva in aiuto dei poveri e questo lo dimostrò apertamente quando a seguito della carestia che colpì l’Italia nel 1763-64, cercò di sfamare tutti quelli che, spinti dalla fame, venivano a Roma. Della visita che fece a Corneto il 4 maggio del 1762, nella “Memoria” presente nell’Archivio Falzacappa troviamo una accurata e precisa testimonianza: “Nell’anno 1762 il quattro maggio Clemente XIII Rezzonico, preceduto dalla sua Croce Papale da Civitavecchia giunse in Corneto verso le 13. Era accompagnato da circa 100 persone tra Nobili e Guardie, col card. Guidobono Cavalchini e coi suoi nipoti il card. Carlo Rezzonico e mons. Gio.Battista Rezzonico Governatore delle armi pontificie. Dalla porta Maddalena ove gli furono dal Magistrato presentate le Chiavi della città e i comuni ossequi, si portò, passando i due archi trionfali ed in mezzo agli evviva, spari e suoni di campane della soldatesca urbana ed innumerabil Popolo alla Chiesa Cattedrale, ivi mons. nostro Vescovo Saverio Giustiniani lo complimentò e sulla porta della Chiesa ove faceva ala tutto il Clero secolare e Regolare, gli consegnò l’aspersorio dell’acqua benedetta. Andò poi alla visita del SS. Sacramento esposto sull’altare maggiore (il Papa si trattenne una buona ora genuflesso) osservò la Chiesa e a piedi andò all’Episcopio. Dopo breve riposo ammise al bacio del sacro piede il clero secolare e regolare, il Magistrato che a nome pubblico gli offrì un bel calice di argento dorato coi suoi consiglieri ed altri cittadini. Andò in appresso dentro la porta della clausura delle monache Benedettine di S. Lucia ed ammise al bacio del sacro piede quelle religiose ed educande ed altre Signore Cornetane, poi passò per la Piazza e si fermò per un poco sul Portone dell’Ergastolo e fatto cammino per la strada di S. Francesco alla Piazza del Pubblico, ritornò all’Episcopio e ricevette il trattamento fattogli dallo stesso mon. Giustiniani; e dopo aver riposato data alla finestra che dall’Episcopio corrisponde sulla piazza di S. Giovanni, la Benedizione Pontificia al numeroso Popolo, ivi per tale oggetto accorso, vero le 22 ore partì per far ritorno a Civitavecchia”. Corneto nel 1770 viene ad arricchirsi di un nuovo ospedale, quello delle Donne, nella zona occidentale della città, vicino alle Mura; nel 1771, invece c’è la fondazione del Monastero delle Passioniste, nel quale, inizialmente, entrano undici monache per seguire la regola del nuovo Ordine Religioso, che ha la sua guida spirituale in San Paolo della Croce. Quando i francesi, dopo la rivoluzione del 1789, scenderanno in Italia, anche lo Stato Pontificio sarà interessato dagli sconvolgimenti politici che ne deriveranno e quindi anche Corneto, prima farà parte della Repubblica Romana, poi nel dipartimento di Roma nell’Impero Francese. Prima di essere “ospitato” da Napoleone I nel castello di Fointainebleau, il pontefice Pio VII dà modo alle Saline, poste lungo il litorale cornetano, di svilupparsi e di migliorare la loro produzione. Corneto resterà sotto la giurisdizione francese fino alla caduta dell’Impero Napoleonico (1814), quando ritornerà sotto lo Stato Pontificio. Si sta riorganizzando la vita all’interno della città, allorche S. Maria di Castello, una delle opere architettoniche più insigni, viene ad essere particolarmente colpita dal terremoto. La cupola, che per alcuni studiosi, poteva ritenersi la prima costruita nell’Italia Centrale (1200-1207), a seguito della tremenda scossa, precipitò sul pavimento, rovinando anche il mosaico cosmatesco che lo ornava. E’ un terribile colpo per questa Chiesa che, già provata dall’incuria degli uomini, rimase priva di qualsiasi difesa contro le profanazioni fino alla sua riconsacrazione avvenuta, dopo la riparazione del tetto e delle porte, nel 1834. Si tenga presente, però, che per vari anni, dal 1849 al 1869, verrà utilizzata insieme al vicino convento, dai soldati francesi come stalla e caserma, con gravissimo danno per la sua parte artistica. Una intensa giornata di gioia e di fede viene vissuta dai Cornetani in occasione della visita di S.S. Gregorio XVI, il 22 maggio 1835. Questo Pontefice, molto pio ma poco esperto di politica, durante il suo pontificato, si dimostrò amante dell’arte; fece infatti restaurare il Palazzo Laterano per accogliervi il Museo Gregoriano Lateranense, che doveva ospitare cimeli e sculture dell’antichità. Promosse anche opere pubbliche quali la rettifica del corso del fiume Aniene, i lavori alla foce del Tevere e al porto di Civitavecchia, il compimento del cimitero del Verano e la pavimentazione delle strade cittadine. Il periodo del suo pontificato fu turbolento e instabile, in quanto lo spirito rivoluzionario prendeva sempre più piede in Italia. Della visita da lui fatta a Corneto, parlano tanto la “Memoria” già ricordata che documenti dell’Archivio Storico Comunale. A questo proposito, anche sul n.12 de “Il Procaccia”, giornale dell’Archivio Storico, si riporta quanto segue: “.... Il Pontefice giunse a Corneto con la sua Corte e a breve distanza dalla Porta Maddalena, il cui ingresso era stato decorato con spalliere di verdura, fu circodanto da un drappello di giovani vestiti di nero e cinti con fasce di velluto cremisi, i quali dopo aver chiesto ed ottenuto dal Santo Padre il permesso di staccare i cavalli della carrozza, fra il rimbombo dei mortari e le acclamazioni della popolazione esultante, lo condussero alla volta del Duomo, preceduti dalla civica banda musicale. Sulla piazza San Marco era stato eretto un grande arco trionfale, decorato con gli stemmi papali e con iscrizioni. Dopo aver visitato la Cattedrale, il Papa, preceduto da quattordici fanciulli vestiti con tonache bianche orlate di giallo con palme e rami di olivo, si avviò a piedi all’Episcopio. Dal balcone impartì la benedizione al popolo e più tardi ammise al bacio del piede le Autorità ecclesiastiche e civili, i notabili della città e gli appartenenti alle diverse comunità religiose. Uscito dall’Episcopio, Gregorio XVI visitò il monastero delle Benedettine e quello delle Passioniste, nei quali ammise al bacio del piede le monache e varie signore della città. Sua Santità ha voluto anche visitare la Pia Casa di penitenza fatta costruire nell’anno 1728 da Benedetto XIII e si è informato sullo stato e trattamento dei detenuti. Nel tardo pomeriggio fece quindi ritorno a Civitavecchia”. Il giorno dopo “gran parte della popolazione si è recata alla marina per accogliere il battello a vapore “Mediterraneo” con il quale Sua Santità ha fatto scalo al Porto Clementino per andare a visitare lo stabilimento delle Saline, formato sotto Pio VII con disegno ed esecuzione del cav. Giuseppe Lipari il quale trovandosi nel luogo poté avere l’alto onore di corrispondere alle Sovrane ricerche. Quindi il Papa fece ritorno al Porto Clementino e partì alla volta di Roma. La visita di Gregorio XVI è stata particolarmente apprezzata in quanto sono passati ben 73 anni dalla visita del Pontefice Clemente XIII. Chiara Memoria il quale venne a Corneto con la sua Corte il 4 maggio 1762”. Appena un anno dopo la visita pontificia, Corneto accoglie nella Chiesa delle Monache Passioniste, le spoglie mortali di Madama Letizia, la madre di Napoleone, e quindi, nel 1839, anche quelle del card. Fesch, zio del grande corso. Queste salme resteranno nella raccolta chiesina della “Presentazione di Maria SS.” fino al 1851, anno in cui vennero traslati in Corsica con tutti gli onori. Intanto c’è, nel 1848, la proclamazione della Repubblica Romana ed anche Corneto si dà un governo repubblicano che, però, dura poco perché, nel 1849, le armi francesi ristabiliscono il dominio pontificio. Anzi, come già si è detto, nella città resterà dal 1849 al 1869, una guarnigione francese che aveva appunto il compito di difendere il governo pontificio. E’ del 1854, la Lettera Apostolica con la quale Pio IX istituisce il nuovo Vescovado di Corneto e Civitavecchia, puntualizzando bene che “i canonici di Corneto avranno la dritta nelle funzioni ecclesiastiche tanto dai canonici civitavecchiesi che dagli altri della diocesi, e che due Vicari generali, risiederanno uno in Corneto, l’altro in Civitavecchia, indipendenti fra di loro”. Pio IX, il Pontefice che aveva iniziato il suo pontificato, riempiendo di speranza i cuori dei liberali, emanando riforme, riconoscendo la libertà di stampa e di riunione, amnistiando i detenuti politici, fu a Corneto il 15 ottobre 1857 con la sua corte. Anche se l’accoglienza fu piena di rispetto ed il popolo fece ala festosamente al suo passaggio, si cominciava a notare come le idee che erano state alla base della Republica Romana del ‘48/’49, fossero ancora vive in parte della popolazione. La figura del Pontefice però era tale che tutti si sentirono devotamente suoi sudditi: i clericali perché in lui vedevano il Papa che aveva ristabilito, dopo un periodo agitato, il potere temporale dei Pontefici, i liberali perché riconoscevano in lui, per quello che aveva fatto durante i primi anni del suo pontificato, l’iniziatore di quei cambiamenti nella politica italiana che avrebbero poi portato alle lotte risorgimentali per l’unificazione e l’indipendenza dell’Italia. Pio IX è stato l’ultimo pontefice a visitare Corneto. Finisce qui questo rapido excursus dedicato alle visite ed ai soggiorni pontifici nella nostra città, excursus che non vuole essere niente più di questo: solo una memoria recente di tanta storia passata. Lilia Grazia Tiberi BIBLIOGRAFIA C. CASTIGLIONI - Storia dei Papi A. GUGLIELMOTTI - Storia della Marina Pontificia BUSSI - Storia di Viterbo MURATORI - Antichità italiche POLIDORI - Croniche di Corneto DASTI - Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto SUPINO - Margarita Cornetana VILLANI - Storia fiorentina ARCHIVIO STORICO COMUNALE ARCHIVIO FALZACAPPA GREGOROVIUS - Storia di Roma nel Medio Evo CANCELLIERI - Storia dei Sommi Pontefici BOSQUET - Gesta Urbani V J. B. LABAT - Voyage en Espagne et en Italie Storia del periodo medievale - Garzanti VALESIO - Codice capitolino CHIESA E CONFRATERNITA DI SANTA MARIA DEL SUFFRAGIO IN CORNETO Un’antica “Memoria” dice che sarebbe “difficil cosa voler ricercare l’origine primaria della Venerabile Confraternita di S. Maria del Suffragio essendo del tutto sepolte le memorie di essa, se non che la bolla dell’aggregazione che ebbe con la Venerabile Arciconfraternita di Roma contrasse fin dall’anno 1622: eretta come dalla bolla si ricava per ordinaria autorità nella chiesa parrocchiale di S. Antonio Abate di questa città...” 1) “Ebbe principio la pia società chiamata del Suffragio,nell’anno 1617 nella chiesa parrocchiale di S. Antonio dove alcune pie donne fecero un oratorio con un solo altare. Più tardi Mons. Laudivio Zacchia Vescovo Cornetano con sua giurisdizione la eresse a congregazione chiamata della Disciplina, che nel 1622 il 2 maggio, venne aggregata all’Arciconfraternita del Suffragio in Roma”. 2) “Alla nuova congregazione presto si ascrissero anche degli uomini che con lodevole zelo ne rialzarono le sorti”. 3) Dopo il 1622 e per lungo tempo, nel Sodalizio forse nacquero dei contrasti tra i fratelli, Ufficiali ed esterni, poiché nei documenti antichi è detto che “Le diaboliche frodi... tutto inventorono per debellarla e distruggerla... essendo solamente rimasta al curato pro tempore l’ingerenza in detta cappella ed a terza persona l’elemosine che da particolar cercante si raccoglievano affinché con mezzo di esse ne venivano in qualche parte suffragate le già derelitte anime purganti....” 4) 1) Origini e Fondazioni della Ven.le Confraternità di Santa Maria del Suffragio di Corneto, in Chiese, t.17 La Madonna del Suffragio. Si crede che analogo o stesso manoscritto sia quello riportato al n° 3 di una Rubricella... di Brevi, Lettere e Rescritti, con questa denominazione: Quinterno di Memorie sulla Origine e Fondazione della nostra Ven. Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Corneto,p. 9. 2) D. I. BENEDETTI, Ven. Confraternita di Maria SS.ma del Suffragio, Corneto- Tarquinia 1909, p. 4. Al n°1 dei “Brevi, Lettere, e Rescritti”, è annotata la “Bolla di Aggregazione alla Ven. Arciconfraternita di Santa Maria del Suffragio di Roma, in carta pecora, ottenuta il 2 maggio 1622”, ed al n° 2 la “Copia semplice di detta Bolla scritta senza abbreviature” (Rubricella... cit..,p. 9). Secondo il Falzacappa, “Questa Confraternita riconosce la sua istituzione sin dal 1592 sotto il Pontificato di Clemente VII”, Chiese cit, nota 7, ripresa in Moroni , Dizionario di Erudizione..., t. II, p.309. Il Moroni, si riferisce all’Arciconfraternita della Beata Vergine del Suffragio di Roma, allora “... presso la chiesa di S. Biagio della Pagnotta”. ARCICONFRATERNITA “della B. Vergine del Suffragio. Riconosce la sua istituzione sino dal 1592, sotto il Pontificato di Clemente VII, il quale colla costituzione, “ Ex debito, si legge nel tom. V, p. 11 del Bollario, l’approvò. Allora risiedeva presso la chiesa di S. Biagio della Pagnotta, che al presente per concessione del Sommo Gerarca Gregorio XVI è in possesso degli Armeni. Paolo V, nel 1620 la elevò al grado di Arciconfraternita. E’ di lei scopo suffragare viemmaggiormente i fedeli defunti con le preghiere, elemosine e sacrifizi. Col progresso si edificò una chiesa nalla strada giulia, e là appunto risiede. I Confrati vestono sacchi bianchi con mozzetta di sajo, cordone, bordone e cappello nero, ad uso dè pellegrini hanno per istendardo l’immagine di Gesù Cristo colla beata Vergine e S. Gregorio Magno”. ( Moroni cit.). Al n°1, nei Brevi, Lettere e Rescritti della Rubricella... cit., è riportato l’oggetto di una Lettera inviata dalla Ven. Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Roma, in data primo gennaio 1674 dove invita a “ portarsi la nostra Confraternita a Roma all’acquisto del S. Giubileo nel prossimo futuro Anno Santo 1675” ( pp. 9-10). Al n°2 di una Memoria si dice “che la nostra Confraternita si portò a Roma nel passato Anno Santo 1725” (pag. 10). Il “ Valesio”, nelle sue Memorie Istoriche della Città di Corneto, manoscritto della prima metà del XVIII secolo, dice che nella chiesa di S. Antonio Abate “... vi è l’altare della disciplina delle Donne,...”, p. 281. La cappella è citata ancora a p. 25 nella Visita Vescovile di Mons. Giustiniani del 1755, dove è detto, che “oltre l’altare Maggiore eranvi gli altari della Vergine del Suffragio appartenente alla Confraternita di questo nome, e quello di S. Sebastiano ( S. Antonio Parrocchia, in Chiese t. 4). Nella chiesa di S. Antonio Abate, nel 1856, esisteva ancora il vecchio altare della prima Confraternita, dedicato alla Madonna del Suffragio: “ In Cornu Evangelj l’altare dedicato alla Madonna SS.ma del Suffragio, con in alto un quadro di S. Barbara” (S. Visita Bisleti 1856). 3) D.I. BENEDETTI, Ven. Confraternita... cit., p. 4. Origini...cit.: cfr. Risposte ai Quesiti, fatti a questa Ven.le Confraternita di Santa Maria del Suffragio della Città di Corneto, dall’E.mo e R.mo Signor Cardinal Filippo De Angelis Arcivescovo Vescovo di Corneto e Montefiascone, in occasione della Sagra visita Pastorale delle suddette Diocesi Riunite, nell’anno 1840, in Chiese, cit., t. 17. La 4) Tra gli altri prodigi si narra, che “non soffrendo alquanti malevoli il ristabilimento di questa Confraternita, fecero nascere delle ombre nella mente dell’E.mo Vescovo Aldovrandi, che gli furono poco dopo tolte da alcuni incogniti Forestieri disubito comparsi, e nella stessa maniera poi partiti, alla presenza di esso Porporato, che in contanente si protestò, e promise sia in pubblico, che in privato, che non solo avrebbe approvato il ristabilimento della Confraternita del Suffragio di Corneto, ma che ne sarebbe ancor stato il più fervido Protettore, e con tutto calore ne adempì in ogni occorrenza la promessa”. 5) La prima congregazione dopo la parentesi dei “contrasti” fu tenuta dai fratelli della Madonna del Suffragio nella chiesa di S. Antonio Abate di Corneto, ed è annotata nella prima pagina del Registro delle Congregazioni della Venerabile Confraternita di S. Maria del Suffragio in Corneto, registro che elenca le congregazioni dal 1745 al 1831: “A di 25 aprile 1745. Fu tenuta Congregazione delli Fratelli del SS. Suffragio nella Chiesa Parrocchiale di S. Antonio Abate alla qual Congregazione intervennero li quì sottoscritti Fratelli cioè: Il Sig. Ten. Fabrizio Raffi, il Sig. Antonio Manti, il Sig. Tommaso Rossi, il Sig. Lazzaro Nardeschi, Francesco Beretta, Francesco Valentini, Sebastiano Pazzaglia, Simone Sensoni, Domenico Ferri, Pietro Pozzi, Giuseppe Turi, Giovan Battista Buti, Curato D. Giuseppe Agostini, Filippo Antonio Giacchetti. Da quali dopo intonato l’inno Veni Creator Spiritus, furono estratti per la prima volta gli Ufficiali della Confraternita, e sono chiamati: Il primo Ufficiale Primicerio, il secondo Primo Custode, il Terzo, Secondo Custode Il Camerlengo, o sia depositario, e Priora, e prima fu estratto: Primicerio = Il Sig. Tenente Fabrizio Raffi, Esattore Depositario Primo Custode = Luca D’Alessio (certamente Luca Alessi come si dirà in appresso). Secondo Custode = Giuseppe di Taddeo Mattioli. Priora = Angela Marchetti. Siamo adunati nel nome del Signore tutti i suddetti Fratelli alla presente Congregazione per discutere alcune cose in vantaggio et augumento della medesima, et in onore e gloria della B. Vergine del Suffragio, e per sollevare con maggior fervore l’Anime Sante del confraternita, “durò in questo stato di languore fino al giorno 8 settembre 1745 festa della Natività di Maria SS.ma, avvocata e Titolare della Confraternita medesime” (“Risposte...” cit.). 5) Risposta ai quesiti... cit. Il Vescovo Aldovrandi fu il più fervido protettore della Confraternita e dopo il ristabilimento di questa “fece subito per sua memoria dipingere un Quadro Colla SS.ma Trinità colle Anime del Purgatorio in fondo”, per la loro cappella nella chiesa di S. Antonio Abate “come tuttora si osserva in questo Episcopio” (Ibidem). Anche la Ven. Arciconfraternita di Santa Maria del Suffragio di Roma, in data 7 febbraio 1750”... si rallegra del ripristinamento della nostra Confraternita; ringrazia del Dono Mandatole di una torcia di libbra quattro; e promette all’occasione tutta quella assistenza, che potrebbe occorrere alla stessa nostra Confraternita”. (Lettera annotata in “Brevi, Lettere e Rescritti”, in Rubricella...cit. p. 10). Purgatorio; ed in primo luogo si è venuto all’elezione degli Ufficiali, quali furono eletti di comun consenso li Sigg. come sopra: In secondo luogo fu determinato che nel di 8 settembre festa della Natività della B.V. si celebri la festa da tutti i Fratelli con Messa Cantata e Vesperi et in quell’istesso giorno si darà secondo la pietà de suddetti, qualche elemosina in beneficio dell’Altare Stesso, o delle Suppellettile Sagri che bisogneranno per la celebrazione delle Messe. Il Sig. Manti, et il Sig. Berretta Deputati approvorno in compagnia di tutti i Fratelli radunati a quanto di sopra si è detto, e così intonato, et detto il Te Deum, fu terminata la Congregazione. Lazzaro Nardeschi Segretario”. 6) Nel 1748, per mezzo del Cardinal Pompeo Aldovrandi, vescovo di Corneto e Montefiascone (1734 - 1752), i confratelli ottennero “... una nuova ricognizione dell’aggregazione all’Arciconfraternita di Maria SS.ma del Suffragio in Roma”. 7) Se si riuscì ad ottenere la nuova aggregazione all’Arciconfraternita di Roma, fu anche per interessamento del Sig. D. Lorenzo De Bonis Romano. 8) Il “16 agosto 1748 Fu fatta, et antecedentemente intimata dal nostro sagrestano la Congregazione nella nostra Cappella della Mad. SS.ma del Suffragio nella chiesa di S. Antonio Abbate, et alla presenza dell’infrascritti Fratelli presenti e Congregati furono lette dal Rev. curato D. Giuseppe Agostini, nostro Direttore, le infrascritte lettere con le quali, a tenore dell’istanza fatta alla S. Congregazione de Vescovi e Regolari, mediante la Bolla esistente in questo nostro Archivio, vien di nuovo approvata, e ristabilita la nostra Confraternita nel primiero suo essere come chiaramente si legge, cioè: All’Ill.mo, e R.mo Sig. Provicario Generale di Corneto. 6) L. NARDESCHI, Registro delle Congregazioni della Ven.le Confraternita di Santa Maria del Suffragio in Corneto, ms., p. 1. LAZZARO NARDESCHI, Corneto 1716 - 1787, pittore architetto. Così il Rettore della Cattedrale di Corneto D. Giacomo Serena si esprime nella pagina dove ha annotato il decesso dell’artista; “... abitava in una casa in Parrocchia S. Leonardo insieme a sua moglie Amelia Scacchia. Per la singolare bravura ed intelligenza nelle arti dell’architettura, pittura ed anche nella “aritmetica”, godeva in tutta la città la stima dei suoi concittadini. Amato e rimpianto da tutti, dopo le esequie, fu sepolto nella nostra cattedrale Libro dei Morti dal 1736 al 1823). Il Nardeschi, come segretario della Confraternita di S. Maria del Suffragio, firma la sua ultima Congregazione nello stesso anno della sua morte (Registro... cit. pp. 111 r. e 112). Anche la Stima fatta agli arredi e quadri appartenenti alla famiglia Costantini, posti nel loro palazzo di Piazza S. Giovanni in Corneto e portati poi nel Monastero delle Passioniste porta la stessa data, 1787 del decesso dell’artista (Archivio Monastero delle Passioniste di Tarquinia). Le successive pp. 112r e 113 del Registro...., non accennano all’avvenuta morte del Nardeschi. Di questo pittore si conoscono a Tarquinia alcune opere, restauri, e stime fatte a Corneto durante l’arco del XVIII secolo. Dagli Inventari 1709-1830, (Fondo Serviti), si sa che nel 1744 restaura la tavola della “Madonna di Valverde” avendo alla destra della Madonna ed in fondo i panneggiamenti alquanto patiti”. 7) P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17. Ill.mo Sig.re Per sollecitare all’Anime Purganti quei suffragi che potranno derivare loro dalla nuova erezione di cotesta abbandonata Confraternita della Mad. SS.ma del Suffragio comunico sollecitamente a V.S. quelle medesime facoltà che mi vengono concesse nella compiegata lettera della S. a Congregazione de’Vescovi Regolari, affinché secondando l’istanza delli fratelli della med.a Compagnia dia pronta esecuzione a quanto vien prescritto, ed ordinato dalla stessa S.a. Congr. ne le auguro per fini veri contenti. Roma 10 agosto 1748. Aff.mo per servirla Card. Aldovrandi = Lettera dell’E.mo Sig. Card. Cavalchini all’E.mo Sig. Card. Vescovo di Corneto. = E.mo e R.me Sig. mio Oss.mo = Essendosi riferito in S. Congregazione quanto V.Em.nza si è compiaciuta rappresentante con lettera delli 7 del corrente ag.to in ordine all’istanza de Fratelli della Compagnia della Mad.a SS.ma del Suffragio di cotesta Città, questi E.mi Sig.ri hanno rimesso al di lei arbitrio, e prudenza conceder loro la richiesta facoltà, con condizione però che le limosine che si raduneranno s’impieghino in onore di M. Vergine, a suffragio delle Anime Purganti e se ne faccia il diposito in mano del Parroco pro tempore, o di altra Pia, e sicura persona, e che ogn’anno sia tenuta render conto al Vescovo pro tempore o suo vicario G.nle per riconoscere le dette Limosine siano state erogate come sopra. Tanto mi dò l’onore di Significare all’E.nza Vescovo all’E.nza V.ra, e le bagio umilmente le mani = D V E a = Roma 9 Ag.to 1748 Card. Cavalchini Terminata la Congreg.ne con le solite orazioni, e cerimonie secondo il Rito e consuetudine delle Confraternite si è stimato bene registrare le soprascritte Lettere alla perpetua memoria dei Confratri, e poi furono restituite le sud.e Lettere originali in mano del Sig.re Leonardo Querciola Cancelliere Vescovile perché le tenesse depositate nella Cancelleria Vescovile secondo l’ordine de superiori Lazzaro Nardeschi Seg.rio”. 9) Dopo il riconoscimento della nuova aggregazione del 1748, i Confratelli lavorarono per un solo scopo: l’erezione di una nuova e propria chiesa nella città, che non tardò a venire. Il lavoro, le elemosine dei cittadini di Corneto, ed in primo luogo il sostegno e le 8) Ibidem. molte elargizioni fatte dai fratelli Fabrizio e Stefano Raffi, dal Primicerio Leonardo Falzacappa e da tutta la sua famiglia, permisero di dare inizio alla desiderata chiesa. Intanto, il 5 febbraio 1751 vi fu altra riunione della congrega esclusivamente per l’erezione della nuova chiesa; ciò si può leggere: “Congregati e Coadunati li sud. Fratelli, il Sig. Primicerio Abb. e Leonardo Falzacappa insorse, et ad volta voce incominciò a dire = Volendo noi venire all’esecuzione d’incominciare la nuova fabbrica della Chiesa nel sito ceduto dalli Sig.i Fratelli Ten.ti Raffi, Marchese Serlupi, et altri comprati, esistenti nella piazza comune di questa nostra città perché vadano tutte le cose con ogni buon ordine, e senza confusione si è determinato eleggere i Deputati et ogni ufficio che occorre; e perchè vadano ripartite l’ingerenze a quelle persone atte e profittevoli per li vantaggi della nostra Confraternita. Quindi è che essendo in atto d’incominciare a fare lo sterro e ripolire li detti siti, e fare quelle provigioni necessarie, ad incominciare la detta fabbrica, siamo oggi adunati perché tutti concorrono con i loro voti ad eleggere i detti Deputati et assistenti acciò con fervore insistano a quest’opera pia, et avendone scritta questa nostra volontà all’E.mo e R.mo sig. Card. Aldovrandi nostro Vescovo, perché con la sua assistenza, et autorità voglia porgerci mano in ciò che potrà occorrerci, egli benignamente si è compiaciuto di approvare, e permetterci di venire all’effettuazione desiderata con la lettera che quì si descrive il tenore della quale è come siegue. Alli M.to Ill.ri Sig.ri li Sig.ri Primicerio, e Guardiani della Confraternita del Suffragio di Corneto. Molto Ill.mi Sig.ri = Lodo, non che approvo il desiderio che mi dimostrano Le Sig.rie V.re per la costruzione di una nuova chiesa dedicata all’Anime Sante del Purgatorio, e mi pregio di potere in qualche parte contribuire all’effettuazione della medesima come riconosceranno dalla Compiegata Lettera, che scrivo a M.ro Angelo Ghirlanda Capo M.ro Muratore affinché, egli non solo assuma l’impegno della suddetta fabbrica ma che ancora procuri di servire al loro zelo con tutta l’esattezza, ed attenzione maggiore e mentre godo meco stesso, e seco Loro mi congratulo della Commendabile premura che dimostrano nel far risorgere in cotesta Città la divozione (per) l’Anime Sante del Purgatorio mi dichiaro prontissimo a secondare questo loro pio desiderio in qualunque altra maniera mi sarà da Loro somministrata, e resto Delle Sig.rie Aff.mo per servirli di cuore. Roma 20 del 1751 9) L. NARDESCHI, Registro... cit., pp. 6-7. p: Card.Aldovrandi. 10) Nella stessa congregazione furono assegnate, a quelle persone più idonee, le cariche spettanti alle varie mansioni per dare inizio ai lavori della nuova fabbrica della chiesa. Così vediamo che i Fratelli Stefano Raffi, Sisto Vipereschi, Saveriano Panzani e Felic’Angelo Spinetti “furono proposti per Deputati assistenti allo sterro, et alla fabbrica”. Curzio Bevilacqua e Domenico Ricci, “furono proposti deputati al Careggio della Rena”, mentre i fratelli Lorenzo di Sebastiano Confalone fu “Deputato al careggio de’ sassi e calce”. “Depositario per li denari dell’elemosine da impiegarsi nella fabbrica fu proposto il Fratello Primicerio Leonardo Falzacappa”, “quale Depositario della roba” fu proposto il Fratello Filippo Ponti, così “Esattori delle Elemosine” furono li Fratelli Nicola Donati e Fabrizio Raffi. Le Sorelle Flavia Fracassa ed Angela Marchetti furono “Esattrici delle Sorelle”. 11) Stabilito di dar principio alla fabbrica, “fu pertanto appoggiata come a valevole e forte colonna l’incombenza di ciò alla somma vigilanza ed intendimento dell’Ill.mo Sig. Leonardo Falzacappa”. Questi trovò il posto, dove doveva sorgere la nuova chiesa, non molto idoneo qualora non si fosse provveduto alla già esistente area di aggiungerne altre; le quali ultime furono le aree di due case, “che molto impedivano alla costruzione”, comperata la prima dai RR. PP. Servi di Maria dallo stesso Falzacappa, e l’altra dalla Confraternita, spettante al Rev.mo Capitolo della Cattedrale. 12) 10) L. NARDESCHI, Registro... cit., pp. 20.-21; cfr. Brevi..., in Rubricella..., p. 11. Dentro la “Lettera esiste il Memoriale in Copia, ossia lettera scritta dalla Confraternita al suddetto Vescovo” (Ibidem, p. 11). 11) L. NARDESCHI, Registro... cit. p. 21. STEFANO RAFFI, Corneto 1711 - 1769, pubblico Agrimensore. Di lui si conoscono alcuni pregevoli disegni ed un prezioso Catasto illustrato del 1749, di tutti i “Beni Rurali et Urbani spettanti alla Cappella di S. CRISPINO dell’Università dell’Arte dé CALZOLARI fatti in tempo del Camerlangato di M° Marco Lottieri”, cfr. L. Marchese, Tarquinia nel Medioevo, Civitavecchia 1974, p. 27. Nel frontespizio e nella pagina seguente di questa, a volte, spiritosa raccolta, fa spicco un prospetto di altare ed una allegoria decorativa, disegnati ed acquarellati con la sicurezza di un provetto pittore, nella quale l’artista ha saputo ben inserire, nel tutto, anche lo stemma della famiglia Raffi e la firma “STEFANO RAFFI” Agr.re. FABRIZIO RAFFI, Corneto 1715 - 1786 è il fratello di Stefano, fu primo Primicerio della Confraternita subito dopo la sua ricostituzione. Insieme al fratello Stefano, i Raffi, ebbero molti meriti per l’erezione della chiesa. Il 6 agosto 1784 Fabrizio Raffi, essendo Confaloniere della Città di Corneto, prende parte alla benedizione della Cappella o Chiesa pubblica, data dal Vicario Paluzzi, nel Palazzo Comunitativo della Città (P. Falzacappa, (Cappella) della Comunità..., in Chiese, t. 21). La presenza della famiglia RAFFI, è annotata in Corneto sin dal 1639 (Falzacappa, “Armi gentilizie delle famiglie di Corneto”). 12) P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17. “Rescritto del sud.o E.mo sig. Cardinal Vescovo Aldovrandi, che autorizza la Confraternita alla Compra, pel pezzo di Scudi otto, di un piccolo Sito che impediva la fabbrica della nuova Chiesa, spettante al R.mo Capitolo della Cattedrale “(Rubricella... cit., p. 13. “Compra di un piccolo Sito che spettava a questo Rev.mo Capitolo cornetano, esistente nel luogo, ove al presente è fabbricata la nostra Chiesa, fatta nell’anno 1751. Si dice però donato questo sito, in Testamenti ed Istrumenti..., in Rubricella... cit., p. 23. “Copia semplice d’istrumento di Compra della Casa, e Stalla, acquistate dalla nostra Confraternita dal Ven. Convento dei Servi di Maria, nel giorno 5 aprile 1752, che impedivano la Fabbrica della nuova chiesa, quell’Istrumento fu rogato per gli Atti di Leonardo Querciola Notaro e Cancelliere Vescovile. Appresso siegue altro Istrumento di quietanza finale del Pagamento di detto stabile in scudi 250, sotto il 29 aprile 1758. Il tutto è stato trascritto dal Processetto Civile esistente nell’Archivio della Curia Vescovile nella cassetta del Convento dei Servi di Mari al n°12.” (Ibidem). La Chiesa ebbe inizio il 12 marzo 1752 e data la morte, avvenuta da poco del “l’amorosissimo Protettore” il Cardinale Pompeo Aldovrandi benedì la prima pietra del nuovo tempio “il Vicario Capitolare con Autorità Apostolica”. 13) Tuttavia notiamo che in un “Rescritto” è detto che in data 6 marzo 1752 si “autorizza l’Arcidiacono Martellacci Vicario Capitolare a dare la benedizione alla Prima Pietra della nuova fabbrica della nostra Chiesa in mancanza del deceduto Vescovo Aldovrandi”. 14) Si cominciò a fabbricare dopo aver fatto una solenne processione dei fratelli con l’intervento del R.mo Capitolo, ponendo coi soliti riti “.... la prima pietra fondamentale e le Croci alli tre altari”. 15) Leonardo Falzacappa fece un atto “degno d’esporsi al pubblico” prestando “una grandissima somma di danaro” per poter terminare la fabbrica della nuova chiesa, colla condizione soltanto di ritirarselo a poco a poco dalli sopravanzi delle miserabili vendite della Confraternita senza percepire di esso alcun fruttato”. 16) I maggiori benefattori che contribuirono all’erezione del tempio ed al suo corredo furono: Raffi Stefano e Fabrizio, che nel 1750 donarono l’area dove è fabbricata la chiesa: Mattioli Giuseppe, nel 1754 donò scudi 400; Marini Angelo nel 1759 lasciò una metà di una casa sita in parrocchia S. Antonio Abate: Leonardo Falzacappa, oltre alle molte altre cose, donò il bel quadro dell’altare maggiore “e prestò assistenza gratuita alla fabbrica della chiesa”; De Dominicis Giovannangela, nel 1761 lasciò scudi 200; Boccioni Caterina in Miniati, nel 1766 lasciò scudi 50; Fantucci De Santis Caterina, nel 1767, “lasciò un pezzo di terreno da chiudersi sotto l’orto di S. Antonio Abate verso la Chiesa della Madonna del Mare”; Marini Marc’Antonio, nel 1773 donò scudi 60; Tesi Teresa in Cecchini, nel 1793 donò scudi 323,50; Sgarra Antonio, nel 1797 lasciò scudi 300; Scarinci Benedetto e Barbini Maria sua consorte, nel 1815 lasciarono parte dei loro beni; Agostino Can. Quaglia e suo fratello Paolo, “assisterono gratuitamente alla fabbrica del casamento presso la nostra LEONARDO FALZACAPPA, Corneto 1710 - 1807 architetto. E’ il padre del Cardinale Giovanni Francesco Falzacappa (1767 - 1840). Si deve a lui, come ai Fratelli Raffi l’essere riusciti a terminare la costruzione della chiesa. Egli fu il primo Primicerio, fondatore della Chiesa. I confratelli, per le sue molte elargizioni e meriti che ebbe nell’erezione della chiesa e per la giusta guida data al Sodalizio, vollero essere riconoscenti verso il loro Primicerio e la propria moglie, assegnandogli, in seguito, alcune messe. “E nell’altro altare in Cornu Epistola, vi si celebra nei venerdì una messa in suffragio della bo. me di Leonardo Falzacappa, e Teresa Guerrini di lui consorte” (Visita di Mons. Bisletti, 1856, p. 4). 13) P. FALZACAPPA? Risposte ai Quesiti... cit. 14) Rubricella... cit., p. 3. Al n°5 delle Lettere, si conserva la “Copia Autentica di Lettera, in data 15 aprile 1752, colla quale si dichiara dalla Sacra Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica, che il luogo, dov e è stata posta la prima pietra per la fabbrica della nostra nuova Chiesa, godeva l’Immunità” (Ibidem, p. 11). 15) Origini e Fondazioni..., cit. 16) Ibidem. chiesa”; Giacomo conte Quaglia, nel 1833 donò molti oggetti per il culto; Ridolfi Simone, nel 1833 donò un pezzo di terreno prativo di staia sei in contrada S. Matteo. 17) Luigi Gignoni, Fratello Camerlengo, nell’anno 1834 donò il “quadro ovato di S. Andrea Avellino”. 18) Se i Falzacappa furono insigni benefattori della chiesa, non di meno lo furono i fratelli Stefano e Fabrizio Raffi; vista la fabrica della chiesa in condizioni economiche non tanto floride, e ancora mancante del “mattonato, sepoltura e di tuttii lavori da falegname”, la Congregazione, nel 1758, deputò “L’Ill.mo T.te Fabrizio Raffi”, Confratello e Camerlengo di detta Confraternita, a perfezionare un “censo” di scudi 1.500. Il censo, come attesta il segretario della Confraternita, Lazzaro Nardeschi, era necessario per portare a termine i lavori della fabbrica della chiesa”. 19) Il conte Pietro Falzacappa così descrive l’erezione della chiesa ed annota che “tutta la città concorse alla detta fabrica” e “si vidde ogni sera molto aumento di ogni sorte di persone che trasportavano per più ore sassi, calce ecc.” 20) Mons. Mario Maffei, Vescovo di Foligno ed Amministratore e Vicario Apostolico delle Chiese unite di Montefiascone e Corneto (1752-1754), concesse l’indulgenza di quaranta giorni a tutte quelle persone che gratuitamente prestavano la loro opera per l’erezione della chiesa. 21) Sappiamo da uno scritto del 19 aprile 1761 che la chiesa fu finalmente utilmata. La cerimonia inaugurale è riportata a pagina 43 del Registro delle Congregazioni, più volte citato; qui un breve riepilogo: “... Essendosi terminata la nuova Chiesa con l’aiuto di Dio, di Maria SS.ma nostra avvocata e delle Anime del Purgatorio, il sud.o Giorno 19 aprile, giorno di Domenica fu benedetta e vi si celebrò per la prima volta la Santa messa. Si partì la nostra Confraternita dalla Chiesa di S. Antonio Abate, e Processionalmente si portò alla Chiesa Cattedrale a 17) “S. Visita Bisleti del 1856” “Obblighi”, pp. da 27 a 34; cfr. D.I. Benedetti, “Ven. Confraternita... cit., pp. 5 - 6 - 7. Rubricella..., cit., “Contratti Privati”, p. 46. “Carte relative al Contratto ed Esecuzione del Quadro Ovato di s. Andrea Avellino nell’anno 1834; la di cui spesa quasi fu fatta tutta del proprio dal Fratello Camerlengo Luigi Ghignoni e spese fatte nella Festa del medesimo Santo in detto anno”. 19) L. NARDESCHI, Registro..., cit., pp. 36 - 37. 20) P. FALZACAPPA, (?) Risposte ai quesiti..., cit.; cfr. Chiese cit., t. 17. PIETRO FALZACAPPA, Corneto 17881875, storico della sua città. Lascia ai suoi concittadini una voluminosa raccolta manoscritta di memorie e documenti della città di Corneto, oggi in gran parte nell’Archivio della Società Tarquiniense di Arte e Storia (S.T.A.S.). 21) P. FALZACAPPA (?) Ibidem. “Lettera di Monsignor Mario Maffei, Vescovo di Foligno, ed Amministratore Apostolico di Corneto e Montefiascone, in data 4 giugno 1752, con Editto Annesso in cui concede l’Indulgenza di 40 giorni, a chiunque presterà mano gratuitamente alla Fabbrica della nostra nuova Chiesa” (è conservata nei “Brevi..., in Rubricella..., p. 11). 18) prendere il R.mo capitolo, che di lì unitamente si portorono parimenti processionalmente alla Piazza avanti alla detta nuova Chiesa, dove giunto Mons. Ill.mo e R.mo Giustiniani nro. Vescovo fu incominciata la funzione della Benedizione quale terminata si diede l’ingresso prima al R.mo Capitolo poi alli Confrati e popolo che in gran numero ivi era concorso, et uscì la prima messa che fu celebrata dal R.mo Sig. D. Lorenzo Paluzzi Vicario Generale di questa Città, assistendovi a detta Messa il d. Monsg. Vescovo ed insieme uscirono altre messe agli altari laterali che si celebravano contemporaneamente con la sud: che terminate una dopo l’altra uscirono di nuovo le altre che così durò; sino al mezzo giorno essendovene state in gran numero, e furono distribuite in tempo della prima messa: Sonetti, e Medaglie, et al R.mo Capitolo e Vescovo furono date di argento. Gli Ufficiali di detta nostra Confraternita furono = L’Ill.mo sig. Leonardo Falzacappa, Primicerio, Primo Guardiano - il F.llo Lucidonio Gigli - Secondo Guard.: Giò Battista Benedetti, Terzo Guardiano: Girolamo Maggiorana, e Prora l’Ill.ma Sig. Teresa Falzacappa. La detta funzione seguì li 19 sud. come costa dagli atti registrati in questa Cancelleria Vescovile nel libro “Jurium Ecclesiasticorum”, è ad perpetum memoriam riportata in questo libro...”. 22) L’erezione di questa chiesa costò diciotto mila scudi e nove anni di lavoro, ebbe termine il 19 aprile 1761, sotto il Vescovo delle chiese unite di Corneto e Montefiascone Saverio Giustiniani ( 1754-1771), ed il Vicario Generale Don Lorenzo Paluzzi vi celebrò la prima messa. 23) Già nel 1761 la Confraternita teneva le sue Congregazioni in casa del Primicerio Sig. Leonardo Falzacappa, “come luogo deputato dai Sig.ri Ufficiali”, mentre prima di quella data, erano soliti “congregarsi”, al suono della campana, nella cappella della chiesa di S. Antonio Abate, essendo Primicerio il sig. Tenente Fabrizio Raffi.” 24) Sappiamo che pochi anni dopo (1764) l’apertura della nuova chiesa del Suffragio, la Confraternita ebbe una grande lite con il curato D. Giuseppe Benedetti, in quei tempi parroco della chiesa di S. Pancrazio Martire. Secondo quanto scritto dal Benedetti 25) le 22) L. NARDESCHI, Registro... cit., p. 43. Il Vescovo Mons. Giustiniani, secondo un “Rescritto...” cit., p. 14, approva, “che la nostra Confraternita, dalla Cappella dalla Ven. Chiesa di S. Antonio Abate, venisse trasferita alla nuova Chiesa già terminata, in data 2 aprile 1761”. 23) P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17. 24) L. NARDESCHI, Registro... cit., pp. 42-43. 25) D. GIUSEPPE BENEDETTI, “Lite con la Compagnia del Suffragio”, in Annali e Memorie della Chiesa di S. Pancrazio Martire della Città di Corneto, scritte dal Sacerdote Cornetano D. Giuseppe Benedetti, ms. del 1764. All’atto della stesura degli Annali, il Benedetti era Rettore della chiesa di S. Pancrazio. Nel Registro delle Congregazioni...cit., non si fa nessun accenno a questa lite, che stando alle Memorie risulta non essere la prima fatta del Benedetti. Si sa solo che esisteva una “Lettera della Ven. Arciconfraternita di S. Maria del Suffragio di Roma, in data 14 settembre 1763, in risposta ad altra scrittale dalla nostra, relativamente ad alcune Intenzioni del Parroco di S. Pancrazio di Corneto” (“Brevi Lettere e Rescritti”, nella Rubricella... cit., pp. 11-12). La lettera, per la data che porta, non poteva riguardare la lite sopra accennata, penso che il diverbio sia cominciato molto prima. cose sarebbero andate circa in questo modo: La confraternita di S. Maria del Suffragio, quasi con arbitrio e sfida, volle fare nei giorni del Santo Natale una processione nella parrocchia di S. Pancrazio, senza l’autorizzazione del curato della chiesa. Il Benedetti, con tutte le dovute maniere, cercò di far capire che a decidere certe cose spettava esclusivamente a lui e che la chiesa di S. Maria del Suffragio, fino a prova contraria, dipendeva dalla sua parrocchia. Di ciò il curato interessò anche l’avvocato Marchetti, e siccome il curato non poteva imporsi alle prepotenze dei fratelli del Suffragio, “stimò bene di attendere nuovo vento sopportando di mal cuore le jattanze dé suddetti e ne fece istanza al Vescovo, ed al Vicario Lelj’ ottenendo “che li suddetti confrati domandino licenza nella Processione solita da farsi il S. Natale al suddetto Curato...” Nel 1777, non molti anni dopo l’apertura della chiesa, la Confraternita fece acquisto dalla Compagnia del Suffragio di Viterbo di un primo organo usato. 26) Quest’acquisto non dovrebbe essere stato un grande affare se, appena sette anni dopo, “si è ritrovato in ogni sua parte deteriorato talmente, particolarmente il Bancone”, e per suggerimento del fratello Agostino Mastelloni, si decise “di rinnovarlo quasi tutto... per l’onesto prezzo di circa scudi centocinquanta da pagarsi in tre rate”. 27) Da una Scheda, sappiamo che l’interno della Chiesa del Suffragio “... è un unico vano con pianta poligonale a lati diseguali i cui quattro maggiori ricordano la disposizione a croce. Le due pareti laterali sono occupate da due altari quella d’ingresso dal portale e quella di fondo aperta per il proseguimento della cappella maggiore. I quattro lati minori del poligono, a guisa di angoli smussati, presentano nella parte inferiore quattro piccole porte lunettate e nella superiore quattro palchetti barocchi. La Cappella maggiore ha pianta rettangolare con due finestre nelle pareti laterali ed è coperta a volta schiacciata al centro”. Lo stato è “buono”, appartiene alla “Chiesa” ed è datata “fine del XVIII sec.” 28) L’interno della chiesa è a pianta ellittica, oggi si presenta con tre altari e nel maggiore vi è un quadro di Anonimo del XVIII secolo, ove sono raffigurati, la Madonna, un Confratello, Anime Purganti e Donatore. Sulla parte sinistra di questa tela, in abiti settecenteschi, è raffigurato il donatore del dipinto nella persona dell’architetto Leonardo Falzacappa, primo Primicerio nell’erezione della Chiesa. 29) 26) “Per maggior decoro et onorificenza della nostra Chiesa si era fatto l’acquisto dell’ORGANO della Compagnia del Suffragio di Viterbo” (Registro... cit., p. 93). 27) “Da Calogero La Monaca, professore di Organi si fece il nuovo acquisto dell’organo” (Registro... cit. p. 103 e ss.). 28) MARIA GABRIELLI, Scheda n. 126 datata Tarquinia 26 giugno 1929, vistata, per la Soprintendenza alle gallerie e Opere d’Arte dal dott. Roberto Papini, soprintendente e dalla parte della Confraternita dal Sig. Gio. Batta Lucarini. 29) Parlando dei doni fatti da Leonardo Falzacappa, si dice “.... che il dono che fece delli due quadri maggiori costituirono a favore di tutta la sua gentilissima casa ed a perpetua memoria di tanti benefici un anno” (Chiese, cit., t. I due Altari in marmo nelle piccole cappelline laterali sono opere recenti del maestro marmorario Comm. Giulio Romiti, di Civitavecchia, che li eseguì nel 1947 in sostituzione di quelli in muratura, decorati a finto marmo. Quello di sinistra entrando la chiesa, è stato donato dalla famiglia Alessandro Nardi di Tarquinia, in memoria di Corrado e Mario, suoi figli, caduti nell’ultimo conflitto, come si evince da una scritta incisa sopra la mensa dell’altare. 30) Le decorazioni di questa cappella, sono opera del pittore anconetano Rutilio Fagnani, che li eseguì nel 1883, come attesta lo scritto dipinto nell’interno della sede delle tavole. 31) La tela di questo altare è opera di Gioacchino Paver, dipinta nel 1759; la Confraternita la pagò scudi 60. 32) Questo quadro dai confratelli è chiamato S. Isidoro Agricola e raffigura un Miracolo di S. Isidoro. 17). Lo stesso legato, cfr. la Visita Bisleti del 1856. Esso fu stabilito dalla congregazione Segreta del 10 dicembre 1760, “... per averci oltre le altre cose donato il magnifico quadro dell’altare Maggiore”. (Ibidem, p. 28). “n° 4, Falzacappa Leonardo donò fra le molte altre cose il bel quadro dell’Altare Maggiore” (D.I. Benedetti, Ven. Confraternita... cit., p. 5). Il quadro subì un piccolo restauro di pulitura da parte mia, durante i rifacimenti che si apportarono alla chiesa nel 1960. 30) “QUESTO ALTARE SACRO A MARIA RICORDA L’EROISMO E LA FEDE DEI FRATELLI NARDI CAP. DI CORV. CORRADO E MAGG. ING. NAV. MARIO CHE NELL’ULTIMA GUERRA CADDERO PER L’ONORE DELLA PATRIA. IL PAPA’ COMM. ALESSANDRO E LA MAMMA AUGUSTA ARIETI. A. 1947”. 31) Nella sede che contiene il quadro è scritto: “RUTILIO FAGNANI FECE 1883”. E’chiaro il riferimento alle decorazioni della cappellina. RUTILIO FAGNANI, Ancona 1867 - 1912, pittore decoratore. Ha eseguito in Corneto molti lavori di decorazione e doratura; nella nostra cattedrale nel 1882, e nella Villa Bruschi Falgari nel 1910, ed altre opere in chiese e palazzi della città. 32) P. FALZACAPPA, Chiese cit., t. 17. “Il sig. Gioacchino Galassi, 1° Guardiano, nella congregazione del 14 novembre 1819, fece noto alli Sig. i Congregati, che essendo cosa indispensabile il venire al riattamento dei due quadri degli altari laterali della nostra Chiesa, per trovarsi in uno stato assai rovinoso era stato convenuto col pittore Giuseppe Folchi il prezzo netto di scudi 15 mta., per effettuarsi dallo stesso un tale riattamento, con tutta la possibile esattezza, e ad uso d’arte”. La proposta fu approvata con dieci voti favorevoli e nessuno contrario (Registro... cit., p. 168). Nella tela sono ben visibili gli interventi subiti nei restauri. Il dipinto risulta rintelato ed ha un ben conservato telaio in legno di castagno; nella parte dietro si avverte una stampigliatura, “F. SS. 4 G.B.”, cifre e lettere che si crede non abbiano nessun riferimento con l’esecutore o la datazione dell’opera. GIUSEPPE FOLCHI, pittore e decoratore. Il Folchi è chiamato nel 1806 dai Fratelli Giovan Battista e Francesco Maria Bruschi, ad eseguire nel proprio palazzo di Corneto alcuni lavori di decorazione e restauri. Vi lavora per oltre un anno, e ritorna per nuove commesse nel 1818, undici anni dopo, e si trattiene fino al 1822, tanto da essere chiamato “attual Pittore dell’Ill.ma Casa Bruschi Falgari in Corneto”. (Arch. Bruschi). In questo periodo, il Folchi oltre il restauro completo di tutti i “Quadri della Galleria” Bruschi, decora nel Palazzo alcuni soffitti, la “Cappella del Palazzo” ed esegue molti altri lavori, tra cui tanti restaurati a dipinti di famiglia. (Ibidem). Nel 1819, esegue nella chiesa di S. Maria di Valverde molti restauri e dipinge alcuni personaggi (Fondo Serviti). Nello stesso tempo lavora, aiutato dal”giovane Geremia” (si crede Geremia Pasquini) nel Palazzo della Comunità, impegnato nella “Cappella del Palazzo Comunitativo” e nella “Cappella delle Carceri” (Archivio Bruschi). Da una “nota di lavori straordinari”, fatti per i Fratelli Bruschi, alcuni di questi riguardano un restauro fatto nella cappella di famiglia nella chiesa di S. Francesco, al dipinto di S. Filippo Neri e S. Bonaventura, oltre a quello della “Cappella di Casa”, dove nella tela si vedono raffigurati; un Angelo, la Madonna e il Signore. (Ibidem). Si crede che il pittore Folchi, nella sua ultima venuta a Corneto, oltre i vari lavori detti, abbia anche decorato il vano della vecchia cappella nel Palazzo Vescovile. Di queste decorazioni, che si pensa siano state fatte al tempo del Vescovado di Mons. Bonaventura Gazola, ne restano ancora visbili una buona porzione, difatti, sono ancora ben mantenute due figure dipinte a monocromo grigio, raffiguranti i Santi Pietro e Paolo, ed un S. Francesco che mostra le Stimmate, forse questo, sollecitato al pittore dal buon vescovo francescano. La cappella, si crede sia stata tramezzata e resa inservibile, creandovi in parte un Nell’altare di destra, la tela rappresenta i Santi Giovanni Napomuceno martire, Luigi Gonzaga, Francesco di Paola e Giuseppe Calasanzio; essa fu dipinta da Teodoro Rusca nel 1759 e la confraternita la pagò scudi 84,07. 33) Il Bozzetto ad olio di questo dipinto è conservato in Ancona presso un parente del decoratore Fagnani. Nel fondale della sede che contiene questo quadro, è dipinto un elaborato monogramma di colore nero ed una data “R. F. 1900”, molto probabilmente riferibili al nome del decoratore Rutilio Fagnani ed alla data dell’esecuzioni delle decorazioni della cappellina. Nel 1760 il pittore Giovanni Mazzetti decorò l’ovale della volta per il prezzo di scudi 20. 34) Una memoria assegna al pittore locale Domenico Gianfelici 35) questo lavoro di decorazione prospettica. E’ molto probabile però che l’assegnazione si riferisca a qualche restauro apportato dal Gianfelici alla pittura del soffitto. L’attuale “nuova bussola” all’ingresso della chiesa è opera del falegname Gervasio Pasquini, che la eseguì nell’anno 1825. Questo Pasquini è certamente un antenato dell’altro Gervasio, 36) più conosciuto per i molteplici e preziosi lavori lasciati in Corneto. Nella nicchia dove oggi è esposto il quadro della Madonna del Rosario veniva mostrato, nel periodo natalizio, fino a qualche anno fa, un artistico Presepio in legno del ‘700 di Autore Anonimo; 37) oggi, lo stesso è esposto a Natale in una cappella della Chiesa di altro ambiente, al tempo del vescovo Mons. Emilio Maria Cottafavi, quando nel 1928 vennero apportati al Palazzo Vescovile molte opere di restauro e trasformazioni. 33) P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17. Nel dietro della tela è scritto: “PROVENZA DI GIOACCHINO” (Paver o Roma), (Prov.enza = provenienza?); con un carattere diverso, poi: “GIUSEPPE FOLCHI 1819”. Il tutto è scritto nella metà rimasta della traversa centrale del telaio. Il dipinto non è stato rintelato ed ha ben visibili gli interventi apportati nei restauri. Questo nome, trovato scritto nella monca traversa del telaio, crea una certa confusione, poiché il Falzacappa assegna a Gioacchino. Paver l’altra tela raffigurante: S. Isidoro Agricola. Che siano stati nella trascrizione invertiti i nomi dei pittori? 34) P. FALZACAPPA, Chiese, cit., t. 17. Il Falzacappa riferendosi alle notizie dei dipinti nei due altari laterali, ed all’ovato della volta, cita alla nota n°2 come notizie prese nel Libro dei rendiconti alli sud. anni, manoscritto non trovato sia nell’Archivio della Confraternita di S. Maria del Suffragio, che in quello della Curia Vescovile di Tarquinia. Mentre per quanto riguarda la denominazione degli altari, secondo la Sacra Visita di Mons. Banditi del 1773-1774, p. 66, risulta la stessa di quella oggi esistente: Altare Maggiore, S. Maria del Suffragio e nei due altari laterali; S. Isidoro Agricola e S. Luigi Gonzaga, S. Francesco di Paola, S. Giuseppe Calasanzio, S. Giovanni Napomuceno, cfr. Sacra Visita di Mons. Bonaventura Gazola del 1814. 35) DOMENICO GIANFELICI, detto “Lo Staccionataro”, Corneto 1840 - 1894, pittore e decoratore, cfr. L. Balduini, La Resurrezione di Tarquinia, p. 47, 1983. Si possono ancora vedere, nel Palazzo Bruschi Falgari, alcune sue decorazioni risalenti alla metà del XIX secolo. La notizia sull’ovale della volta del Suffragio l’appresi dall’artigiano cornetano Giovanni Guerri, un tempo allievo del Gianfelici. 36) Dopo varie controversie i Confratelli assegnarono il lavoro al falegname locale Gervasio Pasquini, figlio di Egidio (Corneto 1802 - ?), che si trovò in concorrenza con altri artigiani locali, quali: Benedetto Draghi e Ippolito Fortunati (Registro... cit., s.n.p.). L’altro Gervasio Pasquini, figlio di Giuseppe, (Corneto 1836 - 1904), falegname ed intagliatore, ha lasciato in Tarquinia molti lavori, e nella nostra cattedrale, una lapide ricorda il più impegnativo quello della bella bussola nella porta centrale della chiesa, eseguito insieme al fratello Protasio nel 1882. 37) Il Presepio è annotato in una Sacra Visita nel 1818, fatta alla chiesa di Santa Maria del Suffragio da Mons. Gazola, vescovo di Corneto e Montefiascone (p.26). Il Porporato, dopo “aver raccomandato e lodato il Presepio situato presso la porta della stessa Chiesa, affidò al confratello D. Giacomo Quaglia che era presente di rinnovare le vesti dei pastori e S. Francesco di Tarquinia. La nicchia, che si crede eretta con la chiesa, serviva anche a mostrare nella ricorrenza della festa della Natività della Madonna entro cinque pareti domestiche componibili, una statuina a grandezza naturale di Maria Bambina, Titolare Speciale ed Avvocata della Confraternita. 38) Mentre oggi, nella festività, è mostrata, una scultura in cera di Maria Bambina entro un’urna dorata, posta sopra l’altare di S. Isidoro Agricola. 39) In questa chiesa proprietaria la Confraternita, è esistito un grande Stendardo Processionale, un tempo, “vanto e decoro della Ven.le Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Corneto”. Nel dipinto, mostratomi in fotografia si potevano vedere raffigurati, da una parte, La Vergine, Confratelli ed Anime Purganti, e dall’altra La Natività della Madonna. In questa circostanza, consultati alcuni scritti del Falzacappa, 40) si venne a conoscenza che, nella parte bassa di questo stendardo, un tempo vi erano tre stemmi appartenenti uno all’allora regnante Pontefice Gregorio XVI (1831-1846), l’altro al Cardinale Giuseppe Maria Velzi, vescovo di Corneto e Montefiascone (1832-1836), ed il terzo alla nobile famiglia Falzacappa. La data ed il nome del pittore che dipinse lo stendardo si trovano in altro scritto. 41) delle altre statue che si vedono nel detto Presepio” (p.28). Difatti nella congregazione del 13 dicembre 1818, il lavoro di rinnovo delle vesti è già avvenuto, ed il R.mo Sig. D. Michele Can.co De Domnis dice che, “essendo state di nuovo rivestite per Elemosine da alcune Pie Persone, con non piccola spesa, le Immagini di rilievo, addette al Presepio della nostra Chiesa, non era confattibile il riporle nel solito luogo per essere d’esso assai umido ed incapace, ma che si dovesse fare una credenza di legno da collocarsi in luogo asciutto, per riporvi con sicurezza e mantenervi bene le dette Immagini” (Registro... cit., p. 165). Negli anni ‘70 per interessamento della Società Tarquiniense d’Arte e Storia vennero restaurate le vesti di quelle statuine del Suffragio (Bollettino S.T.A.S. 1978, p. 164), che circa 180 anni prima, “con non piccola spesa” vennero rifatte di nuovo, nel 1818, per incarico dato dal vescovo Mons. Gazola al conte Giacomo Quaglia. Il restauro del 1970 fu eseguito da Madre Leonia del Sacro Cuore e Madre Gabriella di S. Giuseppe, monache Passioniste nel Monastero della città. Nella Sacra visita che Mons. Bisleti fece alla chiesa del Suffragio nel 1856, a p. 51, si ha una completa descrizione del Presepio: “Un Presepio composto di Numero sedici statuette, intagliate in legno, ben vestite, che consistono, cioè: nelle Immagini di Gesù Bambino in culla, Maria SS.ma, S. Giuseppe, due Angeli, tre Magi, tre Paggi dei medesimi, due Pastori, una Pastorella, il Bue e l’Asino, ed inoltre un Angelo per la Gloria”. 38) “Entro una scatola vi esiste Maria SS.ma in fasce, con culla corona e scettro: n°5 telai con tela dipinti che formano una stanza, per coprire la Grotta del Presepio quando ci si mette nella sua Natività la detta Bambina” (S. Visita Bisleti 1856, p. 51). 39) L’attuale scultura in cera fu realizzata nel nostro secolo, da Madre Leonia e Madre Gabriella, monache Passioniste. Essa ha le vesti dipinte a tempera, con rami e fiori, ed è mostrata entro un’artistica urna di legno dorata a zecchino. L’opera è conservata nel Monastero delle Passioniste di Tarquinia. Il Titolo della Chiesa, secondo la Sacra Visita fatta dal Cardinal Giuseppe Garampi, vescovo di Corneto e Montefiascone, alla chiesa di S. Maria del Suffragio, era “LA NATIVITA’ DELLA MADONNA”, di cui vi si celebra solennemente la festa (p. 133). Tra le varie feste che vi si fanno, quella della Natività di Maria Santissima, è la principale della chiesa del Suffragio S.V. Bisleti 1856, p. 2), mentre il Venerdì Santo si espone la reliquia del Legno della Croce e ci si da la benedizione. “Esiste un Rescritto del nostro Monsignor Vescovo Bonaventura Gazola, col quale permette di poter fare la Processione nel di 8 settembre, Festa della Natività della Madonna SS.ma nostra specialissima Avvocata” (Rescritti... cit., p. 15), in Rubricella... cit. 40) P. FALZACAPPA, Chiese cit., 17; cfr. Risposte ai Quesiti... cit. 41) Alla voce n. 6 dei “Contratti Privati” è detto: “Carte relative al Contratto de nuovo Stendardo fatto nell’anno 1834 da Adriano Becchio pittore in Roma, pagamento delle spese occorse, e lettere sull’Oggetto ecc.” (Rubricella... cit., p. 46). La Scheda cit., n°125, dice che la facciata della chiesa del Suffragio è “completamente intonacata, ha un profilo molto movimentato. La parete centrale è piana, le laterali sporgono e presentano pilastri che reggono la trabeazione spezzata, sostenuta anche da due colonne, le quali hanno la base posta di spigolo in corrispondenza dell’andamento della trabeazione. Al centro si apre il portale sormontato da lunetta. Il secondo piano ripete il primo e presenta una finestra con cornice ornata da festoni. Un timpano curvilieo, spezzato, con al centro fastigio ed ai lati due vasi con fiamma, corona tutto l’edificio”. La facciata “E’in via di restauro”, appartiene “alla Chiesa” e viene datata “alla fine del XVIII sec.”. La parte bassa della facciata della chiesa ha sempre offerto del forte aggravio di peso che sostiene e che maggiormente si riversa sulle basi delle colonne, creando sempre allarme e preoccupazione, anche per la continua sfaldatura del nostro sasso per erosione da sale, essendo un sedimento marino. Si ha notizia che la facciata, sin dal 1819, nei confronti di altri lavori da eseguire nella chiesa “non ammette dilazioni”. 42) Dopo oltre un secolo di presenta altro caso di restauro; questa volta assai complicato e molto pericoloso per la stabilità della bella facciata. Se non fosse stato per la capacità di alcune maestranze locali, molte conseguenze ne sarebbero potute derivare. Difatti, negli anni ‘20 circa, l’impresa locale Luigi Conti appaltò un importante e complicato restauro alla facciata della chiesa. Il lavoro, in effetti eseguito dal bravo capo mastro cornetano Giovanni Piastra, consisteva nella sostituzione di un rocchio di colonna alto più di un metro, oltre il dado di base e tutta la modanatura circolare dell’intera colonna sulla destra, prima dell’ingresso della chiesa. 43) Nel 1960, per interessamento del Delegato Vescovile di allora, Mons. Agostino Peracchi (1911 - 1977), l’interno della chiesa subì importanti restauri di manutenzione e rinnovamento da parte di maestranze di Tarquinia e Civitavecchia. Nel restauro furono lucidati il pavimento in marmo bianco di Carrara e bardiglio, ed alcune zoccolature dello stesso marmo. In quell’occasione, furono applicate alle campane congegni per essere suonate attraverso un’apprecchiatura elettrica. 42) Nel 1819, il Sig. Galassi, 1° Guardiano, avendo saputo che nella passata Congregazione si era deciso di porre mano ad alcuni lavori nella chiesa, conoscendo indispensabile “il risarcire la facciata della nostra Chiesa, che minaccia ruina”, è del parere che questo lavoro preceda gli altri poichè “la facciata non ammette dilazioni”. La proposta fu approvata all’unanimità (Registro... cit., pp. 166-167). 43) Sono ancora ben visibili i segni dei sostegni vicino all’intervento di questo restauro, che ho conosciuto grazie alla buona memoria del carissimo amico e collega Walter Pampersi. “Tarquinia, la cittadina etrusco-romana, ben poco ha di barocco, solo la Chiesa del Suffragio, con facciata movimentata propria di questo stile” (U. G. Ferrante, Architettura..., in La Tuscia, p. 216). Nel 1818, per comodità di accesso dei Fratelli, per portarsi in Sacrestia dalla Piazza Grande, fu aperta una porta sulla Pubblica Piazza, vicino alla facciata, accesso ancora ben visibile da una porta murata che passa attraverso il campanile della chiesa (Registro... cit., p. 165). In quegli anni, dalla ditta Corrado Persi, furono messi dei collarini in ferro con sbarre verticali, per comprimere le colonne sopra la trabeazione della facciata, onde sostenere le murature corrose dal salnitro e ridotte ad uno stato assai preoccupante. Più tardi, nel 1978, la bella facciata di stile barocco fu completamente restaurata da maestranze locali e di Roma: nella parte alta, sopra la trabeazione, furono rifatti tutti gli intonaci e le vecchie e pericolanti colonne in muratura vennero sostituite con altre create sul posto in cemento armato. Questi lavori furono diretti dall’Ing. Cesare De Cesaris e dal geometra Carlo Grispini, ed il nostro concittadino Cardinale Sergio Guerri, in memoria di “Don Agostino” - che si era molto interessato per riportare la sua chiesa al primitivo splendore - pagò l’intera spesa del restauro, che comprendeva anche il rifacimento di tutti i tetti della chiesa. Secondo il citato “Bollettino” del 1978, nella facciata, “Nulla è stato modificato nell’aspetto, ma sono state eliminate nel coronamento le due mezze testate di timpano sovrastanti le colonne di centro. Non appartenevano alla originale Costruzione e nascondevano le parti terminali inferiori delle due belle volute discendenti ai due lati del Timpano centrale che corona la facciata”. Nel 1792, l’architetto Paolo Nardeschi, fatto il disegno per la “fabbrica dell’appartamento contiguo alla nostra Chiesa”, era prossimo dare inizio ai lavori. Infatti, presa visione delle offerte presentate dai vari mastri si indudiava per esaminare i vari preventivi. La congregazione si tenne in casa Raffi, ed il Nardeschi si riservò di dare il suo giudizio in una prossima congregazione. Le offerte furono presentate da Bartolomeo e Gregorio Draghi, quali mastri muratori: Sebastiano Fortunati, i Fratelli Pasquini, Elia Bruni e Mariangelo Massi, come mastri falegnami, mentre Stefano Scappini e Figli ed i Fratelli Marzi, in qualità di fabbri ferrai. 44) 44) L’Architetto Paolo Nardeschi, cornetano, è figlio dell’illustre artista Lazzaro. Alla fabbrica, oltre il Nardeschi ebbero una manzione di controllo anche il Canonico D. Agostino Quaglia, Giovan Battista Benedetti, Agostino Mastelloni, Guido Raffi, Giovan Vincenzo Galassi e Crispino Mariani, mentre i Sigg. Simon Antonio de Domnis e Sebastiano Marcucci curarono il ricevimento dei materiali (Registro... cit., p. 120). “Ratifica di Vendita, fatta nell’anno 1810, del Sito scoperto appartenente agli Eredi Polidori, il quale fu venduto indebitamente dal fu Giuseppe Bovi alla Confraternita del Suffragio, del quale ne ha pagato di nuovo la Confraternita la somma di scudi venticinque agli Eredi suddetti, per rivalersene contro il Canonico Bovi; figlio di detto Giuseppe; nel qual Sito fu fabbricata la Casa contigua alla Chiesa verso S. Pancrazio” (nei “Testamenti...”, in Rubricella... cit., p. 29). Di questo lavoro, al n°1 è esistito il “Rendiconto dell’Introito, ed Esito, che si è avuto nella Fabbrica della Chiesa e Casamento annesso verso S. Pancrazio” (nelle “Fabbriche”, in Rubricella.... cit., p. 43). “N°2 Ricevute e Giustificazioni del Rendimento de’ Conti della detta Fabbrica della nuova Chiesa di Santa Maria del Suffragio, e Casa contigua verso S. Pancrazio, amministrato dall’Ill.mo Sig. Leonardo Falzacappa di bo: me Primicerio della Confraternita (Ibidem). “N°3 Carte spettanti, ed appartenenti alla Fabbrica del Nuovo Casamento in Piazza, ed amministrato dai Signori Deputati sul medesimo, fino all’intiera estinzione del Debito” (Ibidem). Dal Registro delle Congregazioni..., dalle Schede e da alcuni scritti, oltre a quanto è stato detto sopra, si viene a conoscenza dei molti doni che la chiesa ricevette, alcuni dei quali di grande valore; oltre gli acquisti e le cessioni fatte: Tra gli oggetti d’arte, appartenenti alla chiesa di S. Maria del Suffragio di Tarquinia, catalogati nel 1929 per conto della Soprintendenza dalla D.ssa Maria Gabbrielli risultano: SCHEDA n°127 OSTENSORIO - “E’in lamina d’argento sbalzata. La base a tre facce, posa su tre piedi in foggia di volute; ciascuna faccia presenta una cartella ovale priva d’insegna. Il fusto s’ingrossa in un nodo a tre facce con volute sporgenti, mentre la raggiera è decorata da ovulato a teste di cherubo”. Si trova “in Sacrestia”, è in “Buono stato”, appartiene “alla Chiesa”, ed è un “Discreto lavoro d’oreficeria del XVIII sec.”. SCHEDA n°128 CALICE - “E’ in lamina d’argento sbalzata. Il piede, sagomato è diviso in tre parti da volute con foglie, ciascuna parte presenta una cartella con gli emblemi della passione di Cristo. Il fusto è a tre facce con decorazioni a volute, e la coppa riprende il motivo ornamentale del piede”. E’ conservato “in Sacrestia”, è in “Buono stato”, appartiene “alla Chiesa”, ed è un “Discreto lavoro d’oreficeria del XVIII sec.”. SCHEDA n. 129 PACE - “In ottone argentato. La parte centrale contiene a basso rilievo la Resurrezione di Cristo. Ai lati, pure a bassorilievo, si vedono due erme finienti in volute con festoni. Al sommo la cornice è decorata da volute con cherubi e conchiglie”. E’ conservato “in sacrestia”, è “molto consumato”, appartiene “alla Chiesa”, e “Dato il cattivo stato di conservazione non si può esattamente giudicare questa Pace del XVII sec.”. SCHEDA n. 130, DUE LANTERNONI DA PROCESSIONE - “Sono in legno intagliato e dorato, a tre facce. Alla base sono ornati da volute e festoni che continuano sugli angoli fino a scendere sulle lastre di vetro con una ghirlanda. Il coperchio è anch’esso triangolare con volute che al sommo formano cesto”. Si trovano “nei locali della Confraternita”, sono in “Buono stato”, appartengono “Alla Confraternita del Suffragio”, e sono “Lanternoni di discreta fattura probabilmente del XVIII sec.”. Nel 1784, “dal nostro Fratello Sig. Capitano Fabrizio Raffi fu donato alla Confraternita un Tronco di cartapesta con anima di legno, lavorato dallo stesso fratello e completo di tutti gli accessori per essere portato in processione”. 45) Nel 1784, il fratello Sig. Raniero Falzacappa regalò alla Confraternita un grande Crocifisso in legno con su una croce e gabbia. 46) N.B. In detto Involto di Carte si trova la Perizia dell’Architetto Minozzi, le offerte, Obbligazioni e Conteggi degli Artisti, con Ricevute, e Conteggi dei Sig. Deputati Amministratori dei denari pagati, ed esatti ecc.” (Ibidem). 45) Registro... cit., p. 103. 46) Ibidem. Nel maggio 1789, “Il sig. Pietro Paolo Fabrizi cornetano abitante in Roma e nostro confratello mandò in dono alla nostra Chiesa del Suffragio un bellissimo calice d’argento con coppa e patena”. Nel piede del calice vi è lo stemma di Casa Fabrizi ed il nome del confratello donatore. 47) Nel 1818, la Sorella Carolina Bruschi, donò alla Chiesa un Incensiere d’argento, con navicella e cucchiaino di ottimo disegno. Sotto la base dell’incensiere e della navicella vi è lo stemma di Casa Bruschi con le lettere “C. B. 1818”. 48) Maria Carolina era nata a Corneto nel 1768 da Capitan Lucantonio Bruschi e Maddalena A’Volta. 49) Nel 1818, per suo volere manifesto, la Sorella Sig.ra Maria Eroli Bruschi è lasciata al suo posto di Priora per un altro anno. 50) La contessa Eroli di Narni aveva sposato nel 1809 il conte Giovanni Battista Bruschi Falgari. 51) “Calice d’argento con patena dorata, dono della bo. me di Giacomo Quaglia, con suo stemma nel fondo e memoria in lettere”. 52) “Un piatto d’argento, dono di Giuseppe Ghignoni; un Incensiere con Navicella che porta il nome di Giacomo Quaglia e l’anno 1817. Anche Simone Ridolfi e Angela Simini donarono degli argenti”. 53) Alla voce n. 8, nella “Contabilità”, esiste una “Nota, e Ricevuta degli Argenti dati dalla Confraternita per mandarsi a Roma al Governo nel di 16 luglio 1796”. 54) In una Nota del 1 gennaio 1978 riguardante cose appartenenti alla Chiesa della Beatissima Vergine del Suffragio di Tarquinia, si ritrova: “55 - un piatto in argentone con la scritta “GHIGNONI”, diametro cm. 26, e al n. 56 una brocca in argentone con la scritta “CHIGNONI”, h. cm. 28 con relativo piatto in argentone con la stessa scritta. Nella Nota, al n. 64 è annotato “un calice dorato con scritto: dono del Vescovo Bianconi a D. Ezio Ghidini, ed al n. 53 “un turibolo con navicella” in argento con scritta: “GIACOMO QUAGLIA DONO’”, 1818. 55) 47) Ibidem, p. 113. Ibidem, p. 156. 49) R. CIALDI, Notizie Genealogiche della Famiglia Bruschi Falgari dal 1592 al 1923, p. 11. 50) Registro... cit., p. 165. 51) R. CIALDI, Notizie... cit., p. 14. 52) S. Visita di Mons. Bsleti del 1856, p. 39. 53) Ibidem, p. 1. 54) Rubricella... cit., p. 2. 55) Inventario della Chiesa di S. Maria del Suffragio, fatto il 1gennaio 1978. Nell’Archivio della Chiesa. 48) “Nel 1819, il Camerlengo, previa ordine degli Ufficiali, comperò per scudi 20, dalle Monache Passioniste della Città, un Baldacchino magnifico, adatto per le funzioni della nostra Chiesa. 56) Nel 1821, 19 agosto, “vennero sotto il riferito giorno, benedette ed erette da questi RR. PP. Minori Osservanti di S. Francesco, le Sacre Stazioni della Via Crucis, in questa nostra Ven.Le Chiesa di S. Maria del Suffragio con le medesime indulgenze”. 57) Nella chiesa dove sono sepolti vi sono due lapidi: “Davanti la porticina della balaustra, Antonio Ramaccini Miloduensis, dom. dalla tenera età a Corneto. Onesto, industrioso morì il giorno 9 giugno 1859, nell’età di anni 59 posero i figli, Lorenzo, Sacerdote e Domenico e la moglie Angela”, 58) fuori posto al Campanile Mattia Sacchi Cornetano uomo integerrimo morì il giorno 26 marzo 1857. Pose la moglie Marianna”. 59) Di questa chiesa, anche la storia delle campane può essere cosa interessante se si considera che alcune di queste appartennero a chiese molto più antiche di quella del Suffragio. Se ne dà una breve descrizione, come si ritrova in alcune raccolte locali: Nel 1760, dal curato di S. Martino, per il prezzo di scudi 100 furono vendute le campane alla Confraternita di S. Maria del Suffragio, che già appartennero alla Chiesa di S. Egidio. 60) Nella Congregazione dei Fratelli del Suffragio, tenuta il 22 maggio 1825, il Sig. Giacomo Galassi “propone di acquistare le campane di Castello stante le nostre attuali sono poco servibili, e si avrebbero le medesime ad un discreto prezzo”. Posta a scrutinio questa risoluzione si ebbero tutti i voti favorevoli. 61) Infatti, un foglio, 62) ci dà conferma che due campane il 22 giugno 1825 furono calate dal “Campanile di Castello” 63) e “poste nel campanile del Suffragio il 13 luglio 1825”. Nella “Campana maggiore di libbre 1703 ½ della Chiesa di Castello “secondo il Foglio appariva questa dicitura che nella trascrizione viene riportata con le abbreviazioni sciolte e chiudendo fra parentisi tonde le lettere ricostruite: 56) Registro... cit., p. 165. Ibidem, p. 169. 58) D.C. SCOPONI, Iscrizioni..., p. 255. 59) Ibidem. 60) P. FALZACAPPA, S. Egidio, in Chiese, t. 29 cfr. t. 17. 61) Registro... cit., s.n.p. 62) E’ riportato in P. Falzacappa, Notizie sulla Chiesa di S. Maria in Castello di Corneto, già nell’Archivio Falzacappa oggi in quello della S.T.A.S.. Il Foglio è riportato per intero dall’originale in C. De Cesaris, “Santa Maria di Castello catrtedrale di Corneto”, a p. 22 del “Bollettino S.T.A.S. 1988”. 63) Il Foglio cit., annota che “li 22 giugno 1825 calata la campana grossa dal Campanile di Castello malamente, per cui uscita improvvisamente detta dal Billico e caduta sul tetto provocò la morte non immediata di.... Chiavanna, e la rottura di un piede di Giuseppe.... muratori”. 57) + A(NNO) D(OMINI) MCCIC AD HON(O)RE(M) DEI ET B(EA)TE MARIE VIRG(IN)IS ET O(M)NIU(M) S(AN) C(T)ORUM T(EM)P(OR)E PRIOR (IS) BARTOLOMEI+ CHR(ISTU)S VINCIT CHR (ISTU)S REGNAT CHR(ISTU)S IMPERAT ANDREOCTUS CONDAM GUIDOCTI PISANI ME FECIT + Nell’anno del Signore 1299 (sono stata costruita) in onore di Dio e della Beata Vergine Maria e di tutti i Santi al tempo del priore Bartolomeo + Cristo vince Cristo regna Cristo impera Andreotto del fu Guidotto pisano mi ha costruita Sulla “campana minore di libre 1383 ½ della detta Chiesa” secondo il Foglio appariva questa dicitura che nella trascrizione viene riportata con le abbreviazioni sciolte e chiudendo fra parentisi tonde le lettere ricostruite: + I (N) NO (M)I (N)E D(OMI)NI AM (EN) A(N)NNO D(OMI)NI MCCCCXXVII. ME(N)TEM S(AN)C(T)AM SP(E)C(ULO)R HO(NO)R(ANDO) D(OMIN)O ET P(AT)RIE LIB(E)RATIO (N)EM AMEN+ CHR(ISTU)S REX VENIT IN PACE, D(OMINU)S H (OM)O F(A)C(TU)S EST AD HONOREM BEATE MARIE FACTA SUM HORA. + Nel nome del Signore amen. (Sono stata costruita) nell’anno del Signore 1427. Onorando il Signore io ricerco una mente santa e la liberazione della patria. Amen.+ Cristo re viene in pace; il Signore si è fatto uomo. Io sono diventata una campana che scandisce l’ora in onore della Beata Maria. 64) Sempre nel 1825, il Fratello Camerlengo Luigi Ghignoni propone ai Confratelli del Suffragio “che nell’occasione favorevole della fusione delle Campane per la chiesa dei PP. Serviti, dovendosi rompere dai medesimi una Campana nuova già della Congregazione degli Umili...”, di “barattarla” con altra piccola rotta della nostra Chiesa. Il P. Chialva Priore dei Servi, si contenterebbe “.... solo d’essere pagato dell’esuberanza del peso...”. La proposta è approvata con tutti i voti favorevoli. 65) Nei “Quesiti”, posti nella Sacra Visita fatta alla Chiesa di S. Maria del Suffragio nel 1856 da Mons. Bisleti, p. 7, risultano nel campanile della chiesa esserci tre campane. 64) 65) Si ringrazia il professor Giuseppe Giontella per la traduzione delle scritte in latino, riguardanti le due campane. Registro... cit., s. n. p. Da una ricognizione fatta nel 1978 alla torre campanaria della chiesa di S. Maria del Suffragio, risultano esserci n.5 campane di vario diametro e fatte in più epoche, 66) delle quali, la n. 5, fatta nel 1766 è riportata in una “Raccolta...”. 67) Questa ultima campana potrebbe essere quella mandata da Montefiascone nel 1766 dal vescovo Mons. Saverio Giustiniani, il quale, in una lettera si rallegra con Leonardo Falzacappa”... che la nuova campana da lui benedetta, sia felicemente giunta a Corneto, e posta al suo luogo”. 68) Nella campana, secondo la Raccolta... cit., “vi sono quattro medaglioni cioè”: al primo il SS. mo Crocefisso, nel 2. la Madonna del Suffragio, nel 3. l’arme del Vescovo Giustiniani, e nel 4. quella di Leonardo Falzacappa Primicerio. 69) La campana, probabilmente è quella che risulta anche da un “Rescritto del suddetto nostro Vescovo Monsignor Saverio Giustiniani, in data 31 maggio 1766, che da il permesso alla nostra Confraternita di poter erogare li scudi 50 del Pio Legato della fu Caterina Boccioni Miniati nel rifondimento della nuova Campana, con obbligo peraltro, che nel termine di anni cinque venghino depositati li detti scudi nel S. Monte di Pietà, ad effetto di rinnovarli”. 70) Nei Contratti Privati, al n. 1, sono conservate le “Carte appartenenti all’acquisto delle Campane della nostra Chiesa e descrizione delle medesime”. 71) Peccato che non si sia potuto visionare il Conteggio degli Artisti, che sappiamo essere esistito per altri lavori. 72) Da questo si sarebbe potuto conoscere il nome dei marmorari che lavorano le quattro belle loggette barocche e l’altare maggiore con la magnifica balaustra. Si sarebbe venuti a conoscenza anche del nome delle maestranze che presero parte al lavoro della movimentata facciata, da dove, molti anni fa, venne tolto quello stemma policromo della Confraternita di S. Maria del Suffragio di Corneto, che campeggiava sopra il timpano curvilineo, in asse con la porta centrale, e che possibilmente bisognerebbe rimettere al suo posto, anche per rompere quella monotonia che oggi presenta nel colore la facciata e che la renderebbe molto più sobria e più accettabile. Lorenzo Balduini 66) C. DE CESARIS, Restauro della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, in “Bollettino 1978”, pp. 136 - 137. P. FALZACAPPA, Raccolta d’Iscrizioni Lapidarie...., p. 7. 68) Lettera del 24 agosto 1766 inviata dal vescovo Mons. Giustiniani al Primicerio della Confraternita di S. Maria del Suffragio, Leonardo Falzacappa, in Rubricella... cit., p. 12. 69) P. FALZACAPPA, Raccolta... cit., p. 7; cfr. “Bollettino 1978...” cit., p. 137. 70) Rubricella.... cit., p. 14. 71) Ibidem, p. 46. 72) Ibidem, p. 43. 67) “N.B. In detto involto di Carte vi si trova la Perizia dell’Architetto Minozzi, le Offerte, Obblazioni e Conteggi degli Artisti,...” BIBLIOGRAFIA -------- Origine e Fondazione della Ven.le Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Corneto, ms. riportato in Chiese, T. 17, La Madonna del Suffragio nell’Archivio della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, (S.T.A.S.). -------- Quinterno di Memorie sulla Origine e Fondazione della nostra Ven. Confraternita di Santa Maria del Suffragio di Corneto, titolo ms. riportato al n. 3 nei “Brevi, Lettere e Rescritti”, annotati nella Rubricella... (Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia). ----------- CAMILLO FALGARI detto “Il Valesio”, Memorie Istoriche della Città di Corneto, ms. della prima metà del XVIII secolo, “Chiesa di S. Antonio Abate”. (Archivio del Campidoglio). (S.T.A.S.). 1709- Libro dei Morti della Parrocchia di S. Giovanni Battista di Tarquinia, dal 1709 al 1783, ms. nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa. 1736 - Libro dei Morti della Chiesa di S. Maria e Margherita dal 1736 al 1823, ms. nell’Archivio della Cattedrale di Tarquinia. 1745 - LAZZARO NARDESCHI, Registro delle Congregazioni della Ven. Confraternita di S. Maria del Suffragio in Corneto, ms. dal 1745 al 1831 nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1749 - STEFANO RAFFI, Catasto di tutti i beni rurali et urbani spettanti alla Cappella di S. CRISPINO dell’Università dell’Arte de’ Calzolari fatto in tempo del Camerlengato di M. Marco Lottieri, ms. con acquerelli originali, nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1764 - D. GIUSEPPE BENEDETTI, Annali e Memorie della Chiesa di S. Pancrazio Martire della Città di Corneto, scritte dal Sacerdote Cornetano D. Giuseppe Benedetti, “Lite, con la Compagnia del Suffragio”, ms. (1764). 1773 - Sacra Visita fatta da Mons. Francesco Maria Banditi (vescovo delle Chiese unite di Corneto e Montefiascone (1772-1775) alla Chiesa di S. Maria del Suffragio, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1779 - Sacra Visita fatta dal Card. Giuseppe Garambi (vescovo delle Chiese unite di Corneto e Montefiascone (1776 - 1792) alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio di Corneto, ms. nell’archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1784 - Libro dei Morti nella Chiesa Parrocchiale di S. Giovanni Battista dal 1784 al 1835, ms. nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa. 1787 - LAZZARO NARDESCHI, “Stima fatta da me sottoscritto delli quadri, et altro esistenti nella casa delli SS.ri fratelli Costantini di B.M. come appresso siegue. A di 14 Maggio 1787 in Corneto” (Arch. del Monastero delle Passioniste di Tarquinia). 1814 - Sacra Visita fatta da Mons. Bonaventura Gazola (vescovo delle Chiese unite di Corneto e Montefiascone (1820-1832) alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio di Corneto”, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1818 - Sacra Visita fatta da Mons. Bonaventura Gazola alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1820 - Inventari della Chiesa di S. Maria di Valverde, “Fondo Serviti” nell’Archivio Storico Comunale. 1840 - GAETANO MORONI, “Dizionario di Erudizione”, Venezia 1840. 1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 29. S. Egidio, ms. nell’Archivio della S.T.A.S. 1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 21. Della Communità sotto il titolo della Pietà e dei SS. Secondiano e Lituardo, ms. nell’Archivio S.T.A.S. 1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 17. La Madonna del Suffragio, ms. nell’Archivio S.T.A.S. 1844? - PIETRO FALZACAPPA, Chiese, t. 4 S. Antonio Abate ms. nell’Archivio S.T.A.S. 1844? - PIETRO FALZACAPPA, Raccolta d’Iscrizioni Lapidarie ed altre degne di memoria esistenti in Corneto riunite a cura di Pietro Falzacappa, ms. nell’Archivio S.T.A.S. 1844? - PIETRO FALZACAPPA, Armi Gentilizie delle Famiglie di Corneto, ms. Arch. S.T.A.S. 1840 - Risposte ai Quesiti fatti a questa Ven. Confraternita di Santa Maria del Suffragio della Città di Corneto, dall’E.mo e Rmo Signor Cardinal Filippo De Angeli Arcivescovo Vescovo di Corneto e Montefiascone (1838-1842), in occasione della Sacra Visita Pastorale delle suddette Diocesi riunite, nell’anno 1840, ms. nell’Archivio S.T.A.S. --------- PIETRO FALZACAPPA, Appunti sulla Chiesa di S. Maria in Castello, t. 4 ms. --------- Rubricella di tutte le Scritture etc., esistenti nell’Archivio della Ven. Confraternita di Santa Maria del Suffragio della Città di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1856 - Sacra Visita fatta da Mons. Camillo dei March. Bisleti (vescovo delle Chiese unite di Corneto e Civitavecchia (1854 - 1868) nel 1856 alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio della Città di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1856 - Sacra Visita fatta da Mons. Camillo dei March. Bisleti (vescovo delle Chiese unite di Corneto e Civitavecchia (1854-1868) nel 1856 alla Chiesa e Confraternita di S. Maria del Suffragio della Città di Corneto, ms. nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. 1862 - D. FRANCESCO CALVIGIONI, Indici dei Battezzati a Corneto, ms. nell’Archivio della Cattedrale di Tarquinia. 1869 - LUIGI DASTI, Statitstica della Città di Corneto e suo territorio, quale fu constatata dal sottoscritto nel 1869, al suo ritorno in patria dalla Moldavia dopo nove anni di assenza, Corneto 6 novembre 1869, (Archivio della S.T.A.S.). 1909 - D. IVO BENEDETTI, Ven. Confraternita di Maria SS.ma del Suffragio, CornetoTarquinia 1909. 1910 - D. CARLO SCOPONI, Iscrizioni Lapidarie delle Chiese di Corneto - Tarquinia raccolte dal Sac. Carlo Scoponi 1910 ms. Corneto - Tarquinia 1910. 1923 - ROBERTO CIALDI, Notizie Genealogiche della Famiglia Bruschi Falgari dal 1592 al 1923. (Archivio Famiglia Bruschi Falgari S.T.A.S.). 1929 - MARIA GABBRIELLI, Schede dal n. 125 al 130 riguardanti la Chiesa di S. Maria del Suffragio di Tarquinia. 1974 - LEONIDA MARCHESE, Tarquinia nel Medioevo, Civitavecchia, 1974. 1978 - INVENTARIO delle cose appartenenti alla Confraternita della Beatissima Vergine del Suffragio, Tarquinia 1978, f. 3, nell’Archivio della Chiesa del Suffragio. 1978 - CESARE DE CESARIS, Restauro della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, in “Bollettino S.T.A.S. 1978”. 1983 - LORENZO BALDUINI, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia 1983. 1985 - LORENZO BALDUINI, Stendardo Processionale della Confraternita di S. Maria del Suffragio della Città di Corneto, in [Pro Tarquinia], n. 8, p. 3. 1985 (Giornale locale). 1988 - CESARE DE CESARIS, Santa Maria in Castello Cattedrale di Corneto, in “Bollettino S.T.A.S. 1988” Tarquinia. s.d. - UGOLINO GIUSEPPE FERRANTI, Architettura Barocca e Moderna, in [La Tuscia, Fisica Etrusca Storica Artistica Folkloristica, Roma s.d.]. s.d. - Pro Memoria della Ven. Confraternita e Chiesa di Santa Maria del Suffragio di Corneto, manoscritto inserito nella Sacra Visita del 1844 fatta dal Cardinal Parracciani Clarelli (Vescovo delle Chiese unite di Corneto e Montefiascone (1844-1854) nell’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. P. GIACOMO MARIA LATINI DA CORNETO MINORE OSSERVANTE DEPORTATO IN CORSICA E MORTO IN ODORE DI SANTITA’ (11.11.1779 - 16.8.1812) Fino a qualche anno fa la figura storica del P. Giacomo Maria Latini da Corneto, ora Tarquinia (Viterbo), era rimasta nell’ombra, non perché non fosse interessante, ma perché nessuno si era messo seriamente a cercarne i documenti ancora esistenti. Quando nel 1934 il suo pronipote, l’avvocato Latino Latini, si rivolse al P. Sebastiano Nanni, suo amico e futuro ricercatore, che era stato nel convento di S. Francesco di Tarquinia prima della chiusura del 1928, non ottenne notizia su di lui. 1) Io stesso ero completamente all’oscuro di tutto. Mentre facevo le mie ricerche su un’altro argomento nell’Archivio Provinciale d’Aracoeli in Roma, mi fu presentato il Passionista P. Adriano Spina che stava puntualizzando le notizie su alcuni nostri frati deportati in Corsica nel periodo napoleonico. Cercai di fargli vedere alcune raccolte di documenti di quel periodo, ma su P. Giacomo non gli fui utile perché egli era indicato nei 1) Latino Latini (1869 - 1956?) era ispettore onorario di Tarquinia e la sua corrispondenza col P. Sebastiano Nanni di Morlupo (Roma), dal 1940 collaboratore della Commissione Scotista e morto il 26.6.1975 a 81 anni in Roma, è di particolare rilievo per la storia del convento S. Francesco di Tarquinia di questo periodo. Lettere dell’avv. Latino Latini a P. Sebastiano Nanni 8.2, 13.2, 31.3, 12.4., 9.6, 18.6.1931, e 11.7.1934. ASFT. Per il nostro argomento porto quella dell’11.7.1934. “Avvocato Latino Latini Tarquinia li 11 luglio 1934 XII Procuratore Tarquinia Gentmo Revdo P. Sebastiano Orte Perdoni se vengo a disturbarla per una notizia: desidererei avere qualche cenno biologico (sic) e genealogico del fu P. Giacomo Latini che nel 1809 e 14 fu P. Guardiano del Convento di S. Francesco in Corneto. Ne parlammo altra volta; io avea anzi un appunto che mi è andato smarrito. Ricordo che il fratello del detto P. Giacomo, a nome Giuseppe, fu sepolto, per speciale concessione del Papa (Definitorio Provinciale), nella chiesa di S. Francesco, dove esiste infatti una lapide con il di lui nome, sotto uno stemma. Dunque anche P. Giacomo doveva avere lo stesso stemma. In attesa di un suo cortese riscontro con stime distinta la riverisco. Devmo A.L. Latini Risposta Dopo la risposta veduto il libro in Aracoeli che parla di tutti i frati della provincia, manca un foglio forse proprio in quello ov’è notata P. Giacomo Latini, poichè il 1819.... 20 e dal 183 (sic) non è notato”. In pratica nessuno seppe dargli qualche notizia. La scrittura è tutt a dell’avvocato. manoscritti, da lui rinvenuti, come riformato e non osservante, per cui lo indirizzati all’archivio di S. Francesco a Ripa. Egli riuscì a chiarire il problema ed io, attraverso i suoi scritti, ho conosciuto il P. Giacomo da Corneto. 2) Trovandomi nel convento S. Francesco di Tarquinia negli anni 1984-1987, ho raccolto molto materiale di archivio, tra cui alcune notizie inedite sul P. Giacomo. Avendo ampliato la mia ricerca, ho creduto opportuno che essa meritava di essere conosciuta. 1 - Famiglia ed adolescenza di Biagio Latini. Il secolo XVIII fa conoscere Corneto per la presenza momentanea o continua di spiccate personalità sulla via della santità: il servo di Dio card. Marcantonio Barbarigo, vescovo di Corneto e Montefiascone (6.3.1640 - 26.5.1706), S. Lucia Filippini, fondatrice delle Maestre Pie Filippini, nata vicino al convento di S. Francesco a Tarquinia (13.1.1672 25.3.1732); S. Leonardo da Porto Maurizio (20.12.1676 - 25.11.1751) che vi predicò la sua missione (6.1.1739 - 20.1.1739) e lasciò tanto fascino da essere considerato comprotettore e per aver riempito la città del monogramma del nome di Cristo: S. Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti del Monastero della Presentazione (3.1.1694 - 18.10.1775); la Venerabile Maria Crocifissa di Gesù (Faustina Geltrude Costantini), confondatrice del Monastero delle Passioniste e prima abbatessa (18.8.1713 - 16.11.1787), B. Giovanni da Triora (15.3.1760 - 7.2-1816), guardiano dal 1790 al 1791 e lettore sessennale di teologia a S. Francesco (1790-1791). Il clero secolare e regolare era sovrabbondante per una popolazione che il 12 maggio 1810 contava appena 2667 cittadini. Vi erano ben 6 comunità maschili di religiosi: Agostiniani a S. Marco, Osservanti a S. Francesco, Conventuali a S. Maria in Castello, Serviti a Valverde e S. Maria Addolorata, Passionisti al Ritiro, Fate Bene Fratelli all’ospedale S. Croce. Naturalmente non mancarono anche motivi di attrito o contrasto, come qualche volta avviene tra gli uomini. Così i Frati di S. Francesco ebbero discussioni con i Serviti che dal santuario di S. Maria di Valverde si erano trasferiti dentro la città, a poca distanza da essi, ed avevano costruito la bella chiesa di S. Maria Addolorata, ora S. Leonardo o Chiesuola. 3) 2) Spina Adriano “La deportazione in Corsica di cinque Osservanti del Lazio (1810 - 1814)” Archivum Franciscanum Historicum 77 (1984) 452-453, Diario della deportazione in Corsica del canonico di Albano G.B. Loberti (1810- 1814) (Albano Laziale 1985) 24, 82, 125, 142. 3) Foschi Rossella, “La chiesa di S. Maria Addolorata in Tarquinia” Bollettino dell’anno 1980 (Società Tarquiniense d’Arte e Storia) 119, 122. Il lodevole lavoro della ricercatrice si svolge solo sui documenti di archivio dei Padri Serviti, trascurando quelli del convento S. Francesco di Tarquinia. Il clero secolare faceva le sue rimostranze per la processione di S. Agapito, protettore della città; infatti partivano contemporaneamente due processioni, una dalla chiesa di S. Pancrazio col clero secolare e l’altra da S. Francesco con i Frati per incontrarsi nella chiesa di S. Croce, portando ognuno alcune reliquie del santo. Anche i Padri Conventuali contestarono agli Osservanti la novena e la festa di S. Antonio di Padova, che dovette essere alternata ogni anno. Lo stesso B. Giovanni da Triora nel 1790 dovette sostenere una dura controversia col Comune. 4) In questo clima religioso l’11.11.1779 nasceva a Corneto Biagio Latini da Domenico Pallotta Latini di Viterbo ed Anna Rossetti dell’Aquila. Essi erano quindi ambedue immigrati, come avveniva spesso per la manodopera che si recava nella Maremma, allora zona malarica. 5) Essi si erano sposati nella chiesa di S. Pancrazio, una delle più antiche della città, e li aveva uniti in matrimonio il 6.5. 1765 il parroco D. Giuseppe Benedetti, proprio quello che il 10.8.1768, come egli stesso racconta, ebbe a che dire col guardiano di S. Francesco, P. Vincenzo Antonio da Roma, per l’incensazione delle reliquie di S. Agapito durante la processione, per cui ricorse alla Congregazione. 6) La sua famiglia era numerosa, tanto che egli era l’ottavo di ben dieci figli, forse non tutti sopravvissuti alla stessa infanzia, come spesso avveniva, ma che ci è possibile conoscere attraverso il loro certificato di battesimo: Alessandro 17.1.1767, Luigia 13.1.1768, Antonio 12.6.1769, Bernardino 25.7.1770, Callisto 28.7.1772, Pietro 24.2.1775, Giuseppe. 22.9.1777, Biagio poi P. Giacomo Maria 11.11.1779, Francesco 4.10.1781, Mariano 8.12.1783. Essi furono battezzati tutti nella cattedrale di Corneto, S. Margherita, eccettuati i fratelli Antonio e Bernardino che lo furono in quella di S. Giovanni di Gerusalemme della stessa città. 7) E’ segno che i Latini abitarono almeno in due quartieri diversi per qualche tempo. Biagio Latini fu battezzato da D. Giovanni Donati a S. Margherita l’11.11.1779 e gli furono imposti i nomi di Biagio, Pietro, Antonio, Martino. Gli furono padrini Giacomo Cardini di Santa di Giuseppetto e Maria Maneschi. L’ostetrica era Maddalena Pozzi. 8) 4) Mecocci Sergio, “Il B. Giovanni da Triora e Tarquinia” Bollettino dell’anno 1988 (Società Tarquiniense di Arte e Storia) 151 - 162; Mecocci Luigi Sergio, “Il B. Giovanni Lantrua da Triora a Tarquinia (Corneto). Documenti inediti (1790-1798)2. Archivum Franciscanum Historicum 82 (1989) 406-424. 5) Allegretti Girolamo, “L’apporto marchigiano al popolamento di Corneto” Bollettino dell’anno 1986 (Società Tarquiniense di Arte e Storia) 7 - 31. 6) Atto di matrimonio di Domenico Pallotta Latini e Anna Rossetti 5.5.1765. Registro dei matrimoni di S. Pancrazio ASMT; Domenico Pallotta Latini e Anna Rossetti 6.5.1765, Certificati di Matrimonio 1763-1799, Memorialia 45678 ASCT; G. Benedetti, Memorie della parrocchia S. Pancrazio di Corneto (fotocopia di manoscritto presso Lorenzo Balduini) ff. 15 v - 16. 7) Registro dei battesimi 1766 - 1778 ff. 21, 45, 159, 245, 331; Registro dei Battesimi 1778 - 1791 ff. 37, 84, 139 ASMT; Registro dei battesimi 1759 - 1814 ff. 77, 85 ASGT. 8) Registro dei battesimi 1778 - 1791 f. 37 ASMT. Egli crebbe nell’ambiente familiare dove ricevette una buona formazione. Certamente frequentò il convento di S. Francesco, come attestò di conoscerlo da ragazzo il P. Bernardino Musetti da Gragnana; e probabilmente tra quei ragazzi disordinati che erano a contatto col terziario durante il guardianato del B. Giovanni da Triora ( 1790-1791), vi era anche lui. 9) Il Card. Giuseppe Garampi vescovo di Corneto e Montefiascone (20.5.1776 - 4-51792) gli conferì la cresima il 14.5.1786. Gli fu padrino lo stesso Giacomo Cardini. 10) 2 - La sua formazione religiosa Quando il giovane Biagio Latini si decise di farsi religioso si rivolse naturalmente al P. guardiano del convento di S. Francesco che in quel momento era P. Pietro Maria da Corneto, suo conterraneo, uomo molto equilibrato e giusto e che vi sarebbe morto forse il 28.10.1796. Vicario e maestro dei chierici studenti di teologia era P. Antonio Maria da Torrice o Torria. Vi era anche come lettore sessennale di teologia il B. Giovanni da Triora. 11) Egli fu presentato al P. Provinciale Flaminio Maria Annibali da Latera 28.1.1794 30.1.1797) che gli ottenne il permesso del Commissario Generale P. Bonaventura Gazola da Piacenza ( 1792 - 1796), in pratica allora Vicario Generale per la famiglia cismontana dei Frati Minori, futuro vescovo di Cervia (Ravenna) (7.6.1795), amministratore di Corneto e Montefiascone (1814 - 21.12.1820) e quindi vescovo diocesano, poi cardinale (3.5.1824). Morì il 29.1.1832. 12) Egli fu ricevuto come novizio nel convento S. Bernardino di Orte (Viterbo) dove lo vestì per la prima volta dell’abito francescano il vicario del convento, P. Francesco Felice Maria da Maranzana (Asti), il 28.11.1794, che gli impose il nome di Fra Giacomo Maria da Corneto. Vi era guardiano P. Antonio Maria da Carpineto dal 31.1.1791. Vi morì il 14.1.1795. Il nuovo P. guardiano fu scelto nella persona del P. Desiderio da Casabasciana, ma alla sua rinunzia, lo sostituì il P. Bonaventura da Pizzo (Catanzaro), uomo di spiccate virtù ed attaccato all’osservanza della regola francescana che presente alle tre votazioni che si facevano di rito per accertare l’idoneità di Fra Giacomo alla vita francescana. Esse avvennero il 28.3.1795 con 8 voti favorevoli su 8 votanti, il 6.8.1795 con altrettanti, ed il 3.10.1795 con 9 voti favorevoli su 9. 9) Attestato del P. Bernardino Musetti 19.12.1805 - Dimissorie per il diaconato AA.VV.; Mecocci Luigi Sergio, “Il B. Giovanni da Triora a Tarquinia (Corneto). Documenti inediti (1790-1798) “Archivum Franciscanum Historicum 82 (1989) 422. 10) Registro dei Cresimati 1707 - 1826 f. 145 ASMT. 11) Mecocci Luigi Sergio: “Il B. Giovanni da Triora a Tarquinia (Corneto). Documenti inediti (1790-1798)”Archivum Franciscanum Historicum 82 (1989) 406 - 424. 12) Registro delle vestizioni e professioni della Provincia Romana 1782 - 1834 f. 65 APA Ms. 44. Egli quindi fu ammesso alla professione solenne, come allora si usava, dallo stesso P. vicario, col permesso del P. Provinciale Flaminio Maria da Latera, il 28.11.1795. Funsero da testimoni il maestro dei novizi P. Clemente da Castelpina (Alessandria) ed il suo vice P. Isidoro da Pavia. 13) La comunità del convento di Orte però era più numerosa. Vi erano tra gli altri almeno i suoi compagni di noviziato: Fra Celestino (Sebastiano Pettiti) da Carmagnola chierico, Fra Anselmo (Paolo Vanelli) da Lucca laico, Fra Cassiano (Giacomo del Chierico) da S. Cassiano chierico, Fra Giuseppe Maria (Marco Rosati) da Tivoli chierico, Fra Giustino (Angelo Maria Rosati) da Grotte di Castro, Fra Filippo (Nicola Romitelli) chierico che dopo 20 giorni ritornò a Casa sua, Fra Gioacchino (Luigi Ridolfi) da Caprarola chierico, Fra Francesco Antonio (Domenico Rozzi) da Caprarola chierico. 14) Era una comunità in pieno ordine e bene organizzata per la formazione religiosa che poteva ricevere i giovani prima del vento di libertà che tra qualche anno sarebbe spirato anche in mezzo a loro, mettendo a prova veramente la rispettiva vocazione religiosa. Non sappiamo dove egli trascorse l’anno di recollezione che era riservato ad un’ulteriore formazione religiosa subito dopo il noviziato. Con tutta probabilità potrebbe essere stato Valentano o Palombara Sabina. Certamente egli fu a Roma nel convento di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina nel 1797 per lo studio di filosofia. Vi era guardiano P. Giovanni Nepomuceno da Castellaro, vicario era P. Clemente da S. Romolo, maestro dei chierici P. Carlo Vittorio da Rocca di Papa, suo coadiutore P. Francesco Andrea da Caprarola e P. Bernardino da Gragnana che attesta la presenza di Fra Giacomo in tale anno. 15) Il 4 giugno dello stesso anno Fra Giacomo veniva mandato al convento S. Maria del Paradiso di Viterbo per iniziare il Corso teologico, ma il 13.12.1797 si recava a Corneto per 15 giorni dove il 13.1.1798 venne mandato per studiare teologia. Improvvisamente il 31 gennaio egli è inviato a Valentano a fare “gli esercizi (spirituali) e trattenervisi fino a nuovo ordine”. Nello stesso giorno era stata mandata l’obbedienza per gli esercizi spirituali ad un altro giovane chierico. Fra Giovanni Francesco, da Pereto per Cori. Ambedue i luoghi erano casa di noviziato. E sia Fra Giacomo che Fra Giovanni divennero sacerdoti. P. Giovanni 13) Registro delle vestizioni e professioni a Orte 1756 - 1844 f. 148 APA. Registro delle vestizioni e professioni a Orte 1756 - 1844 ff. 147, 147 v, 148, 148 v, 149, 149 v, 150, 150 v, 151. APA. 15) Attestato del P. Bernardino Musetti 19.12.1805 - Dimissorie per il diaconato AVV. Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 88, 89, 90, APA Ms. 54. 14) Francesco da Pereto era a Cori nel 1802 all’età approssimativa di 35 anni e morì in Roma all’Aracoeli il 21.1.1850. 16) Era un motivo disciplinare, come spesso avveniva a quei tempi dovuto anche al cambiamento dei superiori locali, o un motivo precauzionale per dare maggior consistenza alla loro formazione spirituale per gli avvenimenti politici che stavano maturando? Nel convento di S. Francesco a Tarquinia il P. Bartolomeo da Carbognano passava le consegne del suo ufficio di guardiano, che esercitava dal 28.1.1797, al P. Antonio Maria da Torria o Torrice, già suo vicario e maestro dei chierici teologi; ed a costui subentrava nei due uffici il P. Giovanni Benedetto da Montefegatesi. 17) Dal punto di vista politico le cose cominciavano a mettersi male per lo stato Pontificio perché a Trastevere a Roma vi era stata un’insurrezione, respinta il 28.12.1797 dai soldati pontifici, ma gli insorti si riversarono su palazzo Corsini, sede dell’ambasciata di Francia. Il generale lionese Leonardo Duphot (1769 - 1798), acceso giacobino, si mise tra gli insorti, ma fu colpito ed ucciso. Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, volle andarsene a tutti i costi e pretese un intervento armato, quantunque il cardinale di Stato Ignazio Busca ( 23.11.1731 - 12.8.1803) gli porgesse le sue scuse. Era il casus belli per invadere tutto lo Stato Pontificio e Roma. Quello che più volte era stato minacciato da Napoleone veniva eseguito dal generale Luigi Alessandro Berthier (1753 - 1815). Egli occupò Roma il 2 febbraio. Il 10 febbraio le truppe francesi entrarono nel convento d’Aracoeli, allora sede generalizia e provincializia dell’Ordine dei Frati Minori. Andò perduto irrimediabilmente la maggior parte dell’archivio antico dell’Ordine e della Provincia Romana degli Osservanti. Anche la Biblioteca ebbe grandi perdite e dispersioni. 18) Il 15 febbraio fu proclamata la repubblica ed il 20 Pio VI fu fatto prigioniero e portato in Francia dove morì a Valenza il 29.8.1799. Nella zona di Civitavecchia i Francesi vi giunsero il 10 febbraio 1798. Molto presto a Tarquinia si cominciarono a sentire le conseguenze. Avevano già iniziato ad espellere i frati dai conventi ed il P. guardiano di S. Francesco, P. Antonio da Torria o Torrice (Frosinone), il 13.4.1798 si rivolse al consiglio comunale chiedendo “di restare qui stanziato, e guardiano, qualora voi municipalisti vi degnaste di considerarlo come Nazionale, e ammetterlo, come Cittadino, essendo a voi ben nota la Savia condotta che ha tenuto per lo Spazio di anni quindici, in cui ha dimorato in questo nostro Convento”. A presentare la 16) 17) Registro delle obbedienze 1797 - 1816 ff. 98, 99, 132. APA Ms. 68. Atti della Provincia Romana 1791 - 1956 ff. 86, 89, 90, 97, 98, 99, APA Ms. 54. richiesta era il consigliere Carlo Avvolta, amico dei frati, e l’ottenne per lui come era avvenuto il giorno 11 per i Padri Passionisti del Ritiro. 19) Questo era segno della stima verso il P. Antonio e della particolare gravità del momento. Il 3.6. 1798 fu pubblicato nella cittadina il decreto di espulsione per i preti e frati esteri, cioè non sudditi della repubblica, ed il 5 era già partito per Massa Carrara l’Osservante P. Bernardino Musetti da Gragnana. Erano stati autorizzati a restare gli Agostiniani P. Nicola Cavanna, piemontese, di 70 anni, P. Antonio Sà portoghese di 89 anni, 5 padri Conventuali, i Passionisti P. Paolo Giacinto e P. Antonio Maria di S. Francesco perché ivi residenti da 35 anni ed altri cinque per motivi di salute. Dovettero fare invece il loro rendiconto gli Agostiniani di S. Marco, P. Pietro Negrini e Fra Giovanni, ed il guardiano di S. Francesco, P. Antonio da Torrice. 20) Così escono fuori in questo frangente alcuni di questi frati presenti a Tarquinia. Il 20 luglio giunge la legge del generale Lorenzo Gouvion Saint Cyr (1764-1830) sulla soppressione dei monasteri e conventi con la riunione di membri in alcuni centri esclusivi. Questo serviva per impadronirsi dei beni mentre si procuravano difficoltà da parte di chi doveva subire tale azione. Così gli stessi religiosi non si curavano di presentare il rendiconto, cercando di prendere tempo, come gli stessi Agostiniani ed il superiore di S. Francesco. Era infatti ancora il 21 luglio 1798 e con tutte le prescrizioni vi sostavano ancora 5 agostiniani, il guardiano degli Osservanti di S. Francesco e cinque Passionisti indisposti. Nessuno voleva andarsene, come chiaramente asserito, “questo ritardo dovete ascriverlo alla circostanza, in cui ci troviamo, che tutti ricusano di prepararsi a questa operazione”. 21) Il problema grave era che i conventi soppressi a Corneto e a Montalto erano proprio quelli dei Fate-Bene-Fratelli che erano tanto più necessari in estate per la malaria che regnava nella Maremma. Di questo si preoccupava in modo particolare e giustamente l’amministrazione comunale. 22) Sempre sull’argomento di concentrare i religiosi, il 31 agosto dall’amministrazione del dipartimento viene richiesto se vi sono conventi con tre individui. Il 2 settembre è 18) Lemmens Leonardus, “De sorte archivi generalis Ordinis Fratrum Minorum et bibliotheacae aracoelitanae tempore Reipublicae Tiberinae (An. 1798 - 1799)” Archivum franciscanum Historicum 17 (1924) 30 - 54. 19) Reformationes 1796 - 1800 ff. 108 - 108 v. ASCT. 20) Lettera all’Amministrazione Dipartimentale 5.6.1798, Registro letter 1794 - 1798 sf. ASCT. 21) Lettera del segretariato all’amministrazione Dipartimentale del Cimino - Viterbo 20.7.1798. Lettera dell’Amministrazione Dipartimentale del Cimino - Viterbo 21.7.1798. Lettera dell’Amministrazione Dipartimentale del Cimino - Viterbo 21.7.1798 Registro Lettere 1794 - 1798 sf. ASCT. 22) Lettera all’Amministrazione dipartimentale del Cimino - Viterbo 21.1.1798, Lettera alla municipalità di Montalto 24.7.1798 Registro lettere 1794 - 1798 ASCT. possibile sapere che a Tarquinia vi erano ancora 8 Agostiniani, 6 Osservanti, 3 Serviti e 3 Conventuali. 23) Con tutte le restrizioni imposte, erano molti. Quello che veramente interessava allo stato era di impossessarsi dei beni dei religiosi. E la legge di soppressione del 14 luglio, che era stata sospesa, viene rimessa in esecuzione il 15 settembre 1798 per i conventi già soppressi. 24) In una situazione così precaria e difficile a qualcuno cominciarono a saltare i nervi. Nel convento S. Francesco le cose non dovevano essere più nello stato ottimale. Il giovane P. Domenico Vincenzo da Veroli cominciava a dare qualche preoccupazione ed il P. Guardiano Antonio da Torrice presentò all’amministrazione comunale una lettera del P. Provinciale Bartolomeo da Roma (31.1.1797 - 8.3.1800) che diceva che se costui fosse mandato via, ci sarebbe stato “un discolo di meno”. Le autorità locali però non si accontentavano di ciò, ma volevano apparire zelanti. Si informavano sulle qualità “indesiderabili” del P. Domenico, ma anche di qualche attrito ed esuberanze dei giovani chierici, Fra Luigi da Ferentino e Fra Giacomo da Corneto, per poterli espellere dalla comunità religiosa. Altrettanto guardinghi si mostravano verso il P. Francesco Antonio da Vitorchiano che aspirava a ritornarvi, dopo esserci stato lettore il 26.5.1796 coi Padri Antonio Maria da Torrice, P. Pietro da Castelnuovo, P. Alessandro da Farnese e P. Giovanni Francesco da Fabrica, certamente ancora presente nella comunità di S. Francesco nel 1798. 25) Le informazioni provenivano dall’ex sindaco apostolico del convento Domenico Maria Avvolta che facilmente doveva essere a conoscenza delle piccinerie che avvenivano in convento e di cui se ne serviva per screditare i Frati. Questo avveniva il 30 ottobre 1798. 26) In realtà qualche cosa ci sarà stata, ma non così grave ed allarmante come descritta, perché P. Francesco Antonio da Vitorchiano morì poi come guardiano della Santissima Trinità di Orvieto (Terni) il 15.8.1804 ed il P. Domenico da Veroli, pur nella sua vita 23) Lettera all’Amministrazione Dipartimentale 2.9.1798 Registro lettere 1794 - 1798 sf. ASCT. Lettere all’Amministrazione Dipartimentale 26.9.1798 (2 lettere, Registro lettere 1794 - 1798 sf. ASCT. 25) Lettera al Ministro degli Interni Zanotti 30.1.1798 Registro lettere 179 - 1798 sf. ASCT; Prestito dei Minori Osservanti di S. Francesco al Comune 26.5.1797 Carte sparse secolo XVIII 1797 ASCT P. Giovanni Francesco da Fabrica era certamente a Corneto come è possibile constatare per la sua applicazione della messa nei giorni 27, 28, 29 Novembre; 1, 3, 10, 11, 12 Dicembre 1797; 1, 2, 13, 14, 15, 22, 24, 26, 27, 28, 29 Giugno; 1, 3, 4, 5, 8, 10, 13, 15, 17, 18, 19, 20, 22, 23, 25, 26, 29, 31 Luglio; 1, 2, 3, 5, 6, 13 Ottobre 1798. Obblighi perpetui della confraternita del Gonfalone 1795 - 1809. AVT. 26) Lettera al Ministro degli Interni Zanotti 30.10.1798. Registro lettere 1794 - 1798 sf. ASCT. 24) discretamente movimentata, morì presidente del convento S. Liberata in S. Angelo in Capoccia ora S. Angelo Romano (Roma) il 29.9.1825. 27) Allo stato però non interessava affatto l’andamento interno del convento, ma solo come incamerare i loro beni. Basterebbe considerare la mordace ironia del ministro degli interni Fabrizio Zanotti nella sua risposta al comune il 6.11.1798: “Ogni qualvolta li tre Religiosi Minori Osservanti non turbano la pubblica tranquillità, ed il serpe velenoso si avvinchia soltanto nello stretto circondario claustrale, la Repubblica non prenda alcuna parte sulle private discordie di essi; ciò vi serva di regola a questo consimili”. 28) Si trattava quindi di qualche punto diverso fra i tre frati del convento. Pur con queste considerazioni che avrebbero dovuto portare a chiarire le cose, le polemiche non si sopirono così facilmente, tanto che l’amministrazione comunale il 16.11.1798 ricorse all’amministrazione dipartimentale ponendo dei quesiti chiari per due chierici che chiedevano di secolarizzarsi, usufruendo del mobilio della loro stanza del convento: “Due chierici dell’Ordine dei Minori Osservanti di famiglia nel convento di S. Francesco di Corneto, ci hanno esibito le accluse memorie che portano la facoltà da essi ottenuta di potersi secolarizzare e l’istanza di poter profittare del letto e del mobilio della respettiva cella a norma dell’art. 2 della legge del 27 pratile anno sesto (15.6.1798). Simile facoltà non ci è stata dai medesimi esibita, onde non sappiamo precisamente se la possino effettivamente avere. Nel caso affermativo non sappiamo se possa aver luogo la suddetta legge”. 29) I due chierici erano Fra Luigi Angelisanti da Ferentino che aveva studiato grammatica a Cori nel 1794 e Fra Giacomo da Corneto. Il documento non lo dice esplicitamente, ma si può supporre anche se non se ne ha la certezza, perché pur presumendo che i sei frati di S. Francesco fossero il P. Guardiano Antonio da Torrice, P. Domenico Vincenzo da Veroli, P. Giovanni Francesco da Fabrica, Fra Luigi da Ferentino e Fra Giacomo da Corneto, ne manca sempre uno che non sappiamo chi sia. Mentre per Fra Luigi da Ferentino nella Vacchetta dei Religiosi del 1798 vi è aggiunto con mano tardiva “espulso”, per Fra Giacomo invece sempre con notizia tardiva vi 27) P. Domenico Vincenzo (Pietro Crescenzi) da Veroli di Gerolamo e Clementina Farina nato a Veroli (Frosinone) 18.1.1773 - 27.9.1827. A Città della Pieve per 15 giorni 10.8 , di famiglia ad Acquapendente 23.8.1797, a Veroli “ a spasso” 27.5.1800, a S. Angelo di Famiglia 21.1.1801, a Roma per 8 giorni 8.2.1801, “a spasso per Caprarola” 16.11.1802, in patria 40 giorni 19.2.1803, di famiglia Tivoli 30.3.1803, in patria per affari 13.4.1803, a Magliano di famiglia 8.8.1804, a S. Angelo di famiglia 17.10.1806. Registro delle vestizioni e professioni della Provincia Romana 1782-1834 f. 27 APA; Vacchetta dei Religiosi 1798 APA Ms. 49, Registro dei religiosi defunti 1825 - 1885 f. 95 APA Ms. 73; Registro delle obbedienze 1797 - 1816 APA Ms. 68. P. Francesco Antonio da Vitorchiano (19.4.1764 - Agosto 1801) Monti Vacchetta dei Religiosi 1798 APA Ms. 49. Vi è differenza di data di morte nei manoscritti. 28) Lettera del Ministro degli Interni Fabrizio Zanotti 6.11.1798 Carte sparse secolo XVIII 1799 ASCT. 29) Lettera all’Amministrazione Dipartimentale del Cimino 16.11.1798 Registro lettere 1794-1798 sf. ASCT. è aggiunto, con imprecisione cronologica e locale, “morto il 1813 in mari esule in concetto di santità”. E’ l’unica notizia che i frati tramandano della sua morte e dell’alone di santità. E’ poco e non spiega molto su di lui. Del resto i Frati, subito dopo la soppressione napoleonica, avevano molto da ricostruire dalle macerie e poco raccolsero anche di ciò che poteva essere valido nella ricostruzione storica. Basterebbe pensare a ciò che viene presentato nella conclusione introduttiva del necrologio “Necrologium sive Mortilogium” del 1895: “In tanta rerum vicissitudine, non omnes Fratres captivitatis tempore defuncti ad nostram notitiam pervenerunt, sed illi tantum pauci, qui in hoc Necrologio adnotatur cum sequenti inscriptione Tempore oppressionis Galliae”. E su P. Giacomo nota con imprecisione al 23 settembre: “Nono Kalendas Octobris in Insula Corsicae P. Iacobus de Corneto illuc deportatus tempore oppressionis Galliae 1812”. 30) Questi sono gli unici documenti seri dei Frati sulla sua morte, senza lasciare altro di scritto sulla sua vita, che poteva essere interessante per noi. Anche se ci fosse stata qualche sua debolezza giovanile, che sarebbe poi da provare, resta la sua testimonianza di fedeltà alla chiesa con la sua morte. In un periodo così incerto dal punto di vista politico, anche il fratello poco più grande di lui, Giuseppe, che gli rimase affezionato per tutta la vita, più volte aveva preso parte al consiglio comunale dal 23 febbraio al 20 luglio 1798. Era forse la novità che attrae sempre i giovani. 31) Passato questo periodo veramente duro e di sbandamento sia per gli studi che per gli altri problemi formativi, il 10 ottobre 1803 Fra Giacomo fu mandato a Palombara Sabina dove era superiore il P. Samuele Platoni da Farnese, che morirà a Bellegra in concetto di santità (8.4.1748 - 13.3.1807). Forse egli vi rimase fino al 21 settembre 1805, quando nella cappella del palazzo vescovile di Magliano Sabino (Rieti) fu ordinato suddiacono dal vescovo suffragraneo Mons. Giuseppe Corari del titolo di Eucarpia (29.3.1749 - morto prima del 29.3.1819). Egli 30) Vacchetta dei religiosi 1798 APA Ms. 49; Necrologium sive Mortilogium 1895 APA Ms. 30. Necrologio (di Orte) 1865 f. 269 APA Ms. 15 ha la stessa notizia in italiano. 31) Reformatione 1796 - 1800 ff. 71, 86 v, 89, 91 v, 93, 96 v, 101 v, 107 v, 109, v, 111 v, 112 v, 114, 114 v, ASCT. Fu richiamato in consiglio anche per la repubblica del 1849 il 18 febbraio. Consigli 1849 titolo IV, fasc. 9 ASCT. Dal definitorio provinciale d’Aracoeli aveva ottenuto di potersi creare un sepolcro in S. Francesco il 13.9.1843 atti definitoriali 1830 - 1862 f. 25 APA Ms. 57. Nel 1851 egli aveva 76 anni ed era sposato con Clementia Propersi fu Angelo di 55 anni ed avevano due figli Costantino di 42 anni celibe impiegato e la figlia Anna di 36, ed abitavano in Piazza Sacchetti 5. Censimento della popolazione 1851 titolo XV, fasc. 5. infatti non compare in nessun modo tra i religiosi e studenti di quegli anni del convento S. Maria del Giglio di Magliano. 32) Il 12 ottobre 1805 egli fu inviato al convento S. Lorenzo di Velletri dove era lo studio generale di teologia. Vi era guardiano P. Raffaele da Medicina (Lucca) e vicario e maestro dei chierici P. Bernardino Musetti da Gragnana che il 19 dicembre dichiarò di conoscere Fra Giacomo fin dalla sua fanciullezza, e riguardo a S. Bartolomeo all’Isola Tiberina in Roma nel 1797, in mancanza del certificato di battesimo, attestò l’età necessaria, cioè superiore ai 24 anni, per il diaconato. Per lo stesso scopo il Provinciale P. Antonio Maria Manni da Gerano (7.2.1803 - 3.2.1806) rilasciava le dimissorie firmate anche dal segretario provinciale P. Bernardino da S. Giusto. Il 19 dicembre Fra Giacomo sostenne gli esami per il diaconato davanti al canonico Raimondo Rospigliosi che era stato vicario generale di Velletri. Con lui superò gli esami per il suddiaconato anche Fra Luigi La Monaca da Viterbo, fratello del futuro deportato napoleonico P. Francesco Maria La Monaca da Viterbo. 33) Il 21 dicembre 1805 Mons. Silvestro Scarani, suffraganeo di Velletri e titolare di Dulma (13.2.1731 - 13.3.1807), lo consacrò diacono nella parrocchia di Velletri, S. Maria in Trivio. 34) Il 3.2.1806 divenne guardiano di Velletri P. Paolo Antonio da Roma e P. Domenico da Terzorio (Imperia) suo vicario e maestro dei chierici. L’11 marzo 1806 lo stesso canonico Rospigliosi esaminò Fra Giacomo da Corneto per l’idoneità al sacerdozio. Il nuovo Provinciale P. Filippo Cecchini da Orte (3.2.1806 6.2.1809) gli diede le dimissorie il 15.3.1806, firmate anche dal segretario provinciale P. Francesco Maria da Casacalenda. Il sabato santo 5 aprile 1806 lo stesso vescovo Silvestro Scarani lo consacrava sacerdote a Velletri nella chiesa di S. Maria della Neve del conservatorio delle fanciulle, retto dalle Orsoline. 35) 3. - Sua vita sacerdotale, deportazione e morte in concetto di santità. 32) Registro delle obbedienze 1797 - 1816 APA Ms. 68; Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 f. 130 APA Ms. 54; Documento di ordinazione suddiaconale 21.9.1805. AVV. Stati d’anime della parrocchia S. Liberatore di Magliano Sabino - Convento S. Maria del Giglio 1803; 1804, 1805, AVM. 33) Dimissorie per il diaconato di Fra Giacomo da Corneto AVV; Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 147, 148, 149 APA Ms. 54; Registro delle obbedienze 1797 - 1816 APA Ms. 68. 34) Documento di consacrazione diaconale di Fra Giacomo da Corneto 21.12.1805 AVV. 35) Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 156, 157, 158 APA Ms. 54; Dimissorie per l’ordinazione sacerdotale di Fra Giacomo da Corneto, e relativa documentazione sezione Prima, Titolo VII, Buste 1805, 1806. AVV. Ringrazio vivamente l’amico archivista Fausto Ercolani che, su mio invito, ha rinvenuto questi preziosi documenti. P. Giacomo giunse alla sua ordinazione sacerdotale a 27 anni, diciamo ad un’età ancora giovanile, ma con qualche ritardo per le vicende che già conosciamo. Tra i primi impegni che gli furono affidati fu scelto il 19.1.1808 come coadiutore del maestro dei novizi, P. Giovanni Domenico da Torano (Massa Carrara), nel convento S. Bernardino di Orte. Il P. Domenico vi era maestro almeno dal 23.2.1804, ed ex definitore: aveva predicato nella cattedrale S. Margherita di Corneto per l’Avvento del 1793 e quello del 1804. Con loro erano il guardiano P. Vincenzo da Fornovolasco (Lucca) ed il vicario P. Giovanni da Valentano, oltre i novizi ed il resto della comunità che doveva essere consistente. 36) Il 16.2.1809 egli diveniva vicario del convento S. Bernardino di Orte. Con lui dovevano essere il guardiano P. Luigi da Brandeglio (Lucca) che rinunziò, P. Giovanni Domenico da Torano maestro dei novizi, P. Gioacchino Basili da Velletri, secondo maestro dei novizi e futuro Provinciale (25.1.1831 - 21.1.1834). In realtà il 28.2.1809 la comunità risultò composta con più elementi alcuni dei quali completamente diversi da quelli enunciati. Ne abbiamo il quadro completo: P. Dionisio da Fiano guardiano, P. Giacomo da Corneto Vicario, P. Clemente da Castelpina confessore e commissario del 3. Ordine, P. Giovanni Domenico da Torano ex Definitore, maestro dei novizi, lettore di morale e confessore, P. Francesco da Veroli 2 maestro, P. Ludovico da Castelferro, i fratelli laici Antonio da Piè di Moggio, Bernardino da Olevano, Diego da Cori, Mansueto da Paranzana, Vincenzo da S. Lorenzo, i novizi chierici Fra Giovanni Antonio da Grasciana e Fra Cherubino Maria da Cori, vestiti il 23.9.1808, Fra Luigi Antonio da Caprarola vestito il 22.1.1809, Fra Raffaele da Canistro vestito il 27.2.1809, il novizio laico Fra Francesco Maria da Massa vestito il 25.12.1808, i terziari Fra Luigi d’Orte e Fra Domenico da Bologna. Tra di essi vi è il P. Francesco da Veroli, morto in concetto di santità a Sipicciano (Viterbo) durante la predicazione il 31.1.1834 e sepolto nella chiesa S. Bernardino di Orte, e P. Cherubino Maria Zampini da Cori, futuro Custode di Terra Santa, morto durante il ritorno in Italia a Malta alla Valletta il 26.9.1843. 37) Nonostante le persecuzioni imminenti i frati non si perdono d’animo. Il 30.1.1810 il Provinciale Giovanni Carlo da Roma (6.2.1809 - 6.2.1816) elesse P. Giacomo da Corneto guardiano del suo paese nativo, forse con la prospettiva che se vi fossero state delle restrizioni si potesse, in qualche modo, salvare la situazione. Con lui vi erano P. Filippo (Teodoro Pellegrino Uccelletti) da Castel Viscardo (Terni) che era vicario, ma già 36) Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 ff. 168, 169 APA Ms. 54. aveva dato prova di sé nell’insegnamento elementare ai bambini. Il maestro dei chierici studenti di filosofia era il P. Nicola da Valentano che già vi stava dall’anno precedente. I luoghi di studio di filosofia almeno nominalmente erano ancora a Roma (S. Maria d’Aracoeli, S. Bartolomeo all’Isola Tiberina), Caprarola, Tivoli e Corneto; quelli per la teologia, invece erano Viterbo e Velletri. Ma da quanto è possibile rilevare dallo stato d’anime del gennaio - maggio 1810 della parrocchia S. Liberatore di Magliano Sabino, nel convento di S. Maria del Giglio vi erano almeno due chierici dell’anno precedente, Fra Odorico da Vico di 22 anni e Fra Cherubino da S. Anna di 20, oltre la numerosa comunità di 4 sacerdoti e 4 fratelli laici. 38) Nella stessa comunità di S. Francesco di Tarquinia, da notizie sia pure frammentarie raccolte dai libri delle messe celebrate, è possibile stabilire la presenza di alcuni frati che vi rimasero anche dopo il 30 gennaio 1810: P. Francesco da Grotte di Castro ex guardiano del convento, futuro segretario e Custode di Terra Santa, P. Giustino da Valentano, P. Leonardo da Pomeiana, P. Giacomo Antonio (Domenico Maceroni) da Valentano. Alcuni di essi vi compaiono in forma transitoria come P. Francesco da Grotte di Castro e P. Giustino da Valentano, ma P. Filippo Uccelletti da Castel Viscardo vi è sempre presente. Non vi mancano altri religiosi forse agostiniani o serviti fino al mese di maggio 1810; P. Cosimo Antonio Bianchi 3, P. Leonardo Heraldi 4, P. Giacomo Noccarini 5, P. Girolamo Maria Biasini 7, P. Angelo Ragghianti 8. Il P. Pietro Negrini agostiniano di S. Marco vi è fino al 31 Marzo 1811 ed il conventuale P. Antonio Clarke di S. Maria in Castello invece vi è fino al 26 febbraio 1811. 39) Su questi frati dimenticati che hanno dovuto affrontare i loro problemi, ho cercato qualche spiraglio di luce, nella speranza che qualcuno più fortunato di me possa trovare altre documentazioni per metterli in rilievo, come ha fatto il P. Carmelo Amedeo Naselli per i Padri Passionisti. 40) P. Giacomo Maria da Corneto aveva 31 anni ed i tempi in atto e quelli che si preparavano, dovevano mettere a dura prova la sua persona, mostrando ciò che c’era di positivo nella sua vita religiosa, attraverso la propria testimonianza di fedeltà alla chiesa. Su ordine dell’imperatore dei Francesci Napoleone I, il generale Sestio Alessandro Francesco Miollis (1759 - 1828) il 2 febbraio 1808 occupò Roma. 37) Atti della Provincia Romana 1791 - 1856 sf. APA Ms. 54; Vacchetta 1809 - 1829 APA. Atti della Provincia Romana 1798 - 1856 sf. APA; Stati d’anime della parrocchia S. Liberatore di Magliano Sabino Convento S. Maria del Giglio 1809, 1810 AVM. 39) P. Francesco da Grotte di Castro 11; 12 13 febbraio 1810; P. Giustino da Valentano 13 febbraio; P. Giacomo da Valentano 11, 12 aprile, P. Leonardo da Pompeiana 28 marzo, 16 aprile 1810, 7, 8, 9, 11, 13, 14, 15, 16, 17 agosto 1815; P. Filippo Uccelletti vi è presente dal 1 gennaio 1810 al 7 febbraio 1815. Gli altri degli altri ordini nei giorni indicati nel testo. Obblighi perpetui delle messe del Gonfalone di S. Croce 1.1.1810 - 22.11.1822 AVT. 38) Il generale Stefano Radet (1762 - 1825) completò l’opera, arrestando Pio VII nella notte tra il 5-6 luglio 1809 nel palazzo del Quirinale per trasferirlo prima in Francia e in ultimo a Savona dal 17 agosto fino al 9 giugno 1811, quando fu di nuovo riportato in Francia a Fontainebleau. Questo clima così difficile inevitabilmente si ripercosse anche su Tarquinia. Negli Stati Romani cominciò prima una campagna di informazione sui beni ecclesiastici dei singoli comuni, attraverso l’ufficio del demanio, che nell’aprile 1810 si fece più pressante. Anche a Tarquinia il 26 aprile con una sua lettera, il ricevitore G. Palini di Civitavecchia, al maire (sindaco) Francesco Maria Boccanera; esplicitamente lo richiedeva ed il sindaco gli rispose che era “attribuzione demaniale quella di inquirere e di farsi render conti dagli Ecclesiastici, ed amministratori dei Luoghi Pii, delle annue rendite dei loro Beni, per indi conoscere se sono affittati, la durata degli affitti, e se gli affittuari restano debitori, o no a tutto aprile cadente”. 41) Questo corrispondeva ad un piano stabilito da Napoleone che doveva cominciare con l’espulsione dagli Stati Romani dei Religiosi e preti esteri, il ridimensionamento delle diocesi prima attraverso il giuramento costituzionale dei vescovi e poi dei canonici. In fine con la soppressione totale dei religiosi entro il 15 giugno 1810. 42) Il 16 aprile 1810 Napoleone aveva decretato l’espulsione dai dipartimenti di Roma e del Trasimeno di tutti i religiosi, obbligandoli a tornare nella diocesi di origine e mettersi a disposizione del vescovo, pagando loro il viaggio a secondo della distanza. La consulta degli Stati Romani lo recepisce come pubblicato il 17 aprile e ne dà le sue disposizioni il 27 aprile. Il sottoprefetto di Viterbo Giulio Zeli Pozzaglia lo comunica con lettera il 3 maggio 1810 al maire Francesco Maria Boccanera mettendo in risalto i punti essenziali, ed incaricandolo dell’esecuzione esatta di essi. Vi si nota la preoccupazione di fare le cose accuratamente “trattandosi di un soggetto, che sommamente preme a Sua Maestà Imperatore, ed essendo dell’interesse de’ Preti e Frati medesimi di eseguire puntualmente ciò che è stato loro prescritto”. 43) La risposta fu immediata e secondo le norme perché il 5 maggio erano pronti gli elenchi dei religiosi e preti che sarebbero dovuti partire. 40) Naselli Carmelo Amedeo, La soppressione napoleonica delle Corporazioni Religiose. Il caso dei Passionisti in Italia (1808 - 1814) (Roma 1970). 41) Lettera al ricevitore Palini 27.4.1810. Registro lettere 1809 - 1810 f. 127 ASCT. 42) Sarebbe sufficiente la sostanziosa documentazione riportata all’appendice del suo volume dal P. Naselli per rendersene conto. Naselli Amedeo Carmelo, La soppressione napoleonica delle corporazioni religiose 1808 -1814. (Roma) 1986 - 213-226. 43) Lettera del sottoprefetto Giulio Zelli Pazzaglia 3.5.1810 Tit. XVII, fasc. 14 ASCT. Purtroppo questo elenco come altri non sono giunti a noi. Ci resta solo quello di coloro che dovettero presentare il certificato medico: i Passionisti P. Vincenzo Ghiglia di S. Andrea di Garressio di 73 anni, P. Giacomo della Presentazione e D. Lazzaro Fontanarosa di Chiavari di anni 71, ma dimorante ivi da 37 anni. 44) Il 12 maggio 1810 religiosi o preti esteri non erano ancora allontanati da Corneto e la popolazione raggiungeva appena 2.667 abitanti. 45) Il 16 e 18 maggio però il sottoprefetto si rivolse di nuovo al maire Boccanera per avere un inventario o stato dei preti o religiosi esteri e questi si mise in contatto coi parroci, i superiori dei conventi e gli agenti dei monasteri. Inventario che potè spedire il 21 e il 23 maggio. Altrettanto aveva fatto il ricevitore del demanio di Civitavecchia G. Palini il 26 maggio; ma forse in questo caso si trattava di inventari di beni. Il 27 Boccanera gli faceva sapere: “Corrispondo alla di Lei delli 26 maggio cadente con la trasmissione in triplice copia conformi dell’inventari fatti in questa comune alli Conventi de Frati Serviti, Minori, Osservanti, Minori Conventuali. Tutte queste copie simili d’inventari sono state da me sottoscritte, e dalli Superiori di essi conventi. Quando ancora Lei vi avrà apposta la sua firma me ne ritornerà due copie per sorta, ad oggetto di dare esecuzione agli ordini del signor Sotto Prefetto. Compiego ancora in triplice copia conformi, li processi verbali sul convento dei Padri Agostiniani, e sopra il Ritiro dei Padri Passionisti nella stessa mia comune, ad ognuno dei quali processi troverà annessi, parimenti in triplice copie come sopra gli attestati del Priore di essi Agostiniani, e del Rettore del divisato Ritiro, i di cui originali ho ad ogni buon fine presso conservati. Di questi processi ancora da me firmati, e di esse copie conformi di attestati, quando ancor Lei avrà sottoscritti detti Processi, me ne ritornerà due copie per sorta, per l’oggetto surriferito”. 46) Non si sa che fine abbiano fatto tali documenti. Forse dopo la restaurazione dello Stato Pontificio qualcuno ha creduto bene farli sparire perché troppo compromettenti. A questi elenchi trasmessi il 23 maggio il sottoprefetto richiedeva alcune specificazioni che l’aggiunto Lodovico Casciola gli forniva il 30 maggio, facendo conoscere anche a noi i nomi di questi religiosi: Carlo Brini (P. Girolamo baccelliere), Pietro Vincenzo Garibaldi (P. Antonio Guardiano conventuale di S. Maria in Castello), gli Agostiniani Giovanni Malto Pignatta (P. Vincenzo ex Provinciale e priore), Lorenzo Negrini (P. Pietro sotto priore), Giovanni Battista Ricolfi (P. Giovanni Battista segretario della Provincia, depositario e 44) Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto del circondario di Viterbo 5.5.1810 f. 134 Registro lettere 1809-1810 ASCT. 45) Lettera al prefetto del dipartimento del Tevere 12.5.1810 f. 143 Registro lettere 1809-1810 ASCT. 46) Lettere del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto (2 lettere) 19.5.1810, e 23.5 e lettera al ricevitore del registro di Civitavecchia G. Palini 27.5.1810. Registro lettere 1809-1810 ff. 150, 151, 156 - 157, 157, 164-165. ASCT. procuratore del convento). Vi erano anche altri di cui non viene detto il nome e la qualifica. Vi mancano totalmente i frati del convento di S. Francesco che pure vi dovevano essere. 47) Il 26 maggio il ricevitore del demanio Palini richiedeva ancora al sindaco gli inventari dei conventi con chiare intenzioni per poter procedere nella soppressione dei conventi”. Non vedendo ancora Sig. Maire le Copie Originali dell’Inventari fatti nei Conventi di codesto Comune. Le rinnovo con la presente le premure affinché me le facci avere al più presto possibile, giacché senza di esse non posso continuare le operazioni che riguardano il medesimo oggetto”. 48) Doveva essere iniziato il rimpatrio, se il sottoprefetto il 31 maggio si rivolse al sindaco per sapere se c’era qualche prete che doveva andarsene, perché considerato estero e bisognoso di essere sovvenzionato del viaggio, mostrandogli il certificato di povertà. 49) Il 30 maggio il sottoprefetto gli richiese l’inventario dei libri dei conventi, che il 6 giugno era già pronto; come pure erano state ritirate le chiavi delle relative stanze. Ma nello stesso giorno il sottoprefetto richiedeva un più specifico inventario di tutti i mobili, stabili, crediti, debiti, azioni, qualsiasi proprietà, utensili sacri, vasi sacri preziosi. Ne incaricava lo stesso sindaco o egli scegliesse persone competenti, tranquillizzasse gli altri sindaci del cantone suo che il culto vi sarebbe stato esercitato ugualmente, e che i religiosi rimanessero sul luogo fino al 15 giugno. C’era dietro la preoccupazione del prefetto Tournon di non sconvolgere inizialmente l’animo della gente. L’11 giugno il sindaco si rivolse a questo scopo ai cinque superiori dei conventi ed agli agenti dei due monasteri: S. Marco degli Agostiniani, S. Maria in Castello dei Conventuali, S. Francesco degli Osservanti, S. Maria di Valverde e Addolorata dei Serviti, Ritiro dei Passionisti, S. Lucia delle Benedettine e la Presentazione delle Passioniste. Il 19 giugno erano pronti anche gli inventari dei ritardatari cioè dei due monasteri, degli Agostiniani e dei Passionisti. 50) Intanto il 15 giugno entrava in vigore il decreto di soppressione dei religiosi. Non era più permesso di portare l’abito religioso e questo non era poco in quel tempo. I sacerdoti dovevano vivere di quello che veniva promesso loro; una pensioncina che offriva loro il governo in un primo tempo senza molte difficoltà, anche se variava con la condizione diversa tra sacerdoti e fratelli laici. 47) Lettere dell’aggiunto Lodovico Casciola 30.5.1810 ff. 166 - 167 Registro lettere 1809-1810 ASCT. Lettera del ricevitore del registro G. Palini 26.5.1810 tit. XVII, fasc. 14 ASCT. 49) Lettera del sottoprefetto Giulio Zelli Pazzaglia 31.5.1810 tit. XVII, fasc. 14. ASCT. 50) Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto 6.6.1810, Lettera ai superiori dei cinque conventi ed agenti dei due monasteri 11.6.1810, Lettere dell’aggiunto Lodovico Casciola al sottoprefetto 19.6.1810 (2 lettere) ff. 171, 176, 180, 182 Registro Lettere 1809-1810. ASCT. 48) L’aggiunto Lodovico Casciola il 26 giugno si rivolse al sottoprefetto per chiarire come i religiosi spogliati dell’abito in attesa di trasferirsi a Roma o nei Luoghi di nascita, potesseroottenere il passaporto ed il denaro promesso per il viaggio; e dare garanzie qualora fossero rimasti nei comuni in cui si trovavano. Riguardo alle pensioni da ricevere nel paese d’origine, per il 1 luglio, come avrebbero potuto averle senza i passaporti? E tali pensioni apparterrebbero anche ai chierici studenti che avevano professato la loro regola, con l’indennizzo del viaggio? Dalla sottoprefettura giunge il 27 giugno la notifica al sindaco di far presentare a Viterbo per il ritiro del passaporto, Guglielmo Walik agostiniano, Antonio Clarke minore osservante (era conventuale), Luigi De Canni servita, Giacomo Vari passionista, Giacomo Martini servita, Vincenzo Ghiglia passionista, Vincenzo Giovanni Pignatta agostiniano, Pietro Antonio Garibaldi di S. Maria in Castello, Luigi Stracci mendicante francescano (non identificato). 51) Non vi è ricordato nessun frate del convento di S. Francesco che pure ci sarebbe dovuto essere, come il P. Leonardo da Pompeiana (Imperia), a meno che non fosse già partito. Intanto anche gli altri frati del convento di S. Francesco sono mandati nei loro paesi di origine; P. Francesco da Grotte di Castro, P. Giustino da Valentano, P. Nicola da Valentano, P. Giacomo Antonio (Domenico Maceroni) da Valentano. Gli unici che restano a Tarquinia sono P. Giacomo Maria da Corneto che rimane col fratello Giuseppe e P. Filippo (Teodoro Pellegrino Uccelletti) da Castel Viscardo che rimane come maestro delle scuole elementari ed economo parroco di S. Pancrazio. Anche in altri luoghi, come nel convento S. Bernardino di Orte, i Frati furono tollerati, purché in abiti borghesi, senza pensione, vivendo di elemosine e pagando l’affitto per il convento. Vi furono infatti in tale stato dal 1 luglio 1810 all’8 settembre 1814 il guardiano P. Giandomenico da Torano, il maestro dei novizi P. Alessandro da Roma, P. Francesco da Veroli, Fra Diego da Cori, Fra Bernardino da Olevano, il terziario Fra Luigi da Orte, e dopo pochi giorni giunsero l’ex Provinciale P. Filippo Cecchini da Orte, proveniente da Farnese e Fra Giuseppe da Orte, a cui si unì il P. Giovanni Battista Vanni dell’Ordine della Penitenza o Terzo Ordine Regolare. 52) 51) Lettera del sottoprefetto Zelli Pazzaglia 14.6.1810 tit. XVII, fasc. 14, ASCT; Lettera dell’aggiunto Lodovico Casciola 26.6.1810 Registro lettere 1809-1810 f. 185 ASCT. Lettera dalla sottoprefettura di Bonomi 27.6.1810 tit. XVII, fasc. 14 ASCT. 52) Per alcuni di essi si è già vista la loro presenza alla nota 39. Memoria del 1814 del convento S. Bernardino di Orte ASBO. Dopo il 19 giugno furono scelte come luogo di culto dai parroci: la chiesa di S. Francesco perché vi si conservava il corpo del patrono della città, S. Agapito; l’Addolorata, S. Lucia, S. Marco, S. Maria in Castello, S. Maria di Valverde. Vi mancavano la Presentazione delle Monache Passioniste e la chiesa del Ritiro dei Passionisti, fuori città. Questo forse era nella speranza di potervi mantenere una parte del clero religioso alla loro custodia, ma il convento di S. Francesco veniva proposto dal sindaco Francesco Boccanera al sottoprefetto come “capace di una buona caserma per truppe di passaggio, e di permanenza, e per l’uso delle cisterne di proprietà della Comune, in tempo d’estate in cui manca l’acqua alla popolazione”. 53) Vengono mandate le schede dal sindaco al sottoprefetto con le rispettive fedi, cioè attestazioni documentate e firmate dal sindaco e dai superiori per i religiosi che devono ricevere la pensione. Nella stessa data 24 luglio gli manda altri due elenchi di religiosi mancanti in quelli del 17. A noi però tale nota non è pervenuta. Abbiamo invece quella del 31 luglio 1810 in una minuta, corretta in più punti, ma particolarmente interessante perché fa conoscere i nomi dei religiosi che dovettero affrontare il ritorno alle loro case, secondo le varie provenienze, ordine religioso, età. Anche qui mancano i Frati di S. Francesco di Tarquinia. Vi sono gli agostiniani P. Agostino (Paolo Mancini) di 37 anni da Soriano che aveva professato il 15.1.1790, proveniva da S. Agostino di Roma, e si riuniva alla sua famiglia; P. Tommaso (Tommaso Walsch) da Clonmell (Irlanda) di anni 34, professato il 25 aprile 1792, di S. Marco di Corneto e partito per Parigi, P. Pietro (Lorenzo Negrini) di Gattinara, di anni 55, di S. Marco di Corneto, professato 22.2.1775 asserendo di avere il permesso della commissione generale di Civitavecchia, il Passionista P. Vincenzo di S. Andrea (Vincenzo Chiglia) di Garresio, professato il 30.11.1758 del Ritiro l’Addolorata di Corneto per grazia del sottoprefetto per infermità ed età avanzata, il Conventuale P. Antonio (Antonio Clarke) di Dublino, di 54 anni, professato 4.8.1778, di S. Maria in Castello di Corneto ha il predisposto passaporto per Dublino (dove andarà chi lo conduce) cancellato, D. Lazzaro Fontanarosa di Chiavari, di anni 71, domiciliato a Corneto con tutta la famiglia da 37 anni, (cagionevole di salute, come al testimoniale alla sottoprefettura 5 maggio 1810) cancellato D. Domenico Ferraud, di Cavaglione, di anni 50 beneficiato sagrestano della cattedrale e custode della chiesa S. Maria in Castello, D. Giuseppe De Soto di Obildo, di anni 44 asserendo di trattenersi col permesso del commissario generale di polizia di Civitavecchia. Provenienti dal convento S. Bernardino di Viterbo sono le Suore Francescane Suor Marianna Crocefissa (Petronilla Bruschi) velata di Corneto di anni 84 professata 9.10.1796, tornata nella famiglia, Suor Maria Clementina (Mariangela Belli) conversa, di Corneto di anni 76, professata 20.5.1753, Suor Francesca Giacinta (Francesca Lucchetti) velata, di Civitavecchia, di anni 52, professata 5.9.1773, Suor Maria Michelina (Maria Michelina Betti) velata, di Civitavecchia, di anni 29, professata 20.5.1797, Suor Maria (Maria Teresa Carabelli) conversa, di Ronciglione, di anni 35, professata il 30.1.1800 (queste ultime tre erano tornate a Corneto dai loro benefattori). Vi erano due suore del monastero di S. Rosa di Viterbo, le Francescane Suor Rosa Celeste (Lucia Rosa Bruschi) velata, di Corneto, di anni 50, professata 9.3.1774, Suor Teresa Maddalena (Clemetina Bruschi) velata, di Corneto, professata 8.10.1793, di anni 36, ambedue tornate in famiglia. Una sola carmelitana tornava da Vetralla, Suor Margarita Celeste del Divin’Amore (Teresa Falzacappa) velata, di Corneto, di anni 31, professata 1.10.1797. Ben quattro ne tornavano dalle clarisse da S. Chiara di Orvieto, 1 da S. Paolo di Toscanella (Tuscania), 1 dai SS. Agostino e Rocco di Caprarola: Suor Anna Grisolde (Virginia Forcella) velata, di Corneto, di anni 34, professata 5.6.1796, Suor Candida Rosa (Maria Bruschi) velata, di Corneto, di anni 52, professata 23.10.1777, Suor Maria Adelaide (Angela Bruschi) velata, di Corneto, di anni 49, professata 23.10.1778, Suora Chiara Maria (Francesca Bovi) velata, di Corneto, di anni 53, professata 23.4.1789, Suor Maria Maddalena (Maddalena Petrighi) di Corneto, di anni 50, professata 17.10.1790, tutte tornate nelle loro famiglie. Solo Suor Maria Eletta (Margarita Bellen, cancellato Apollonia) clarissa di anni 19, nata a Fiume in Dalmazia, professata 31.12.1807 in S. Chiara di Orvieto, si deve ritirare presso benefattori perché orfana dei genitori. Vi sono ancora tre Passioniste del Monastero della Presentazione che restano per motivi di salute ed una Benedettina del Monastero di S. Lucia di Corneto per lo stesso motivo. Esse sono le Passioniste Suor Maria Vincenza di S. Caterina (Caterina Casamajor) velata, di Orbetello, di anni 53, Suor Maria Arcangela della Presentazione (Francesca Casamajor) velata, di Orbetello, di 48 anni, Suor Rosa di S. Giovanni Evangelista (Rosa Fanciulli) velata, di Porto S. Stefano, di anni 57, professata 8.12.1778 con “asma di petto continua” e la Benedettina Suor Maria Arcangela (Maria Domenica Ranucci) conversa, di Barga di Lucca, di anni 68, professata 29.9.1765. Non erano veramente pochi i religiosi che 53) Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto 4.7.1810, Lettera del maireFrancesco Boccanera al prefetto di Roma 31.7.1810 e al sottoprefetto 15.9..1810. Registro lettere 1809-1810 ff. 193-194, 230, 263 ASCT. ritornavano nella loro città. Specialmente tra le monache molte appartenevano alle famiglie patrizie o ricche della cittadina su cui contava la politica imperiale. 54) Solo per il problema delle pensioni delle pensioni promesse anche ai religiosi ci è possibile scoprire la presenza di due frati del convento di S. Francesco ancora nella cittadina: P. Giacomo Maria Latini da Corneto e P. Filippo Uccelletti da Castel Viscardo. Non mancarono contrattempi nel presentare la documentazione necessaria per ottenere la pensione. Ed il 12 agosto proprio P. Giacomo (Biagio Latini) dovette presentarla in ritardo ed il maire Francesco Maria Boccanera se ne scusava di non averla potuta includere in quella del giorno precedente al sottoprefetto, pensando di essere ancora in tempo. Altrettanto succedeva al P. Filippo da Castel Viscardo che richiedeva al P. Giacomo una dichiarazione, rilasciata il 22 agosto 1810. In modo un po' diverso si comportava il P. Giacomo da Valentano, che dal suo paese nativo si rivolgeva al sindaco con una lettera affidata a suo fratello, non sapendo se n’era superiore per fare la dichiarazione di rito. Tutto questo ci fa capire in che clima ci si doveva muovere. Preferisco trascrivere queste due testimonianze perché la prima è l’unico scritto del P. Giacomo Latini anche se stereotipato perché ufficiale ed il secondo per capire meglio l’ambiente, con le relative difficoltà. Ecco i testi: “In nome di S.M.I. Napoleone dei Francesi Re d’Italia e Protettore della Confederazione del Reno. Certifico io sottoscritto già Guardiano nel soppresso convento di S. Francesco de’ Minori Osservanti di questa comune di Corneto, che l’ex religioso D. Pellegrino Uccelletti, in Religione P. Filippo da Castel Viscardo, faceva realmente parte del convento sudd. di S. Francesco in qualità di Vicario all’epoca della soppressione, e che vi risiedeva. Corneto questo 22 agosto 1810 Biagio Latini in Religione Giacomo M. di Corneto. Visito alla Mairie di Corneto per legalizzazione della di cui sopra firma dell’ex Religioso D. Pellegrino Uccelletti, in Religione P. Filippo da Castel Viscardo e Vicario del sudd. soppresso Convento di S. Francesco dell’Ordine dei Min. Osservanti della Città di Corneto. In fede etc... Dato dalla Mairie di Corneto questo 22 agosto 1810.” L’altro documento del P. Giacomo da Valentano è: 54) Lettera del maire Boccanera al sottoprefetto 24.7.1810, Lettera del maire Boccanera al prefetto di Roma 31.7.1810, ff. 217, 229 Registro lettere 1809 - 1810 ASCT; Elenco dei religiosi rimpatriati o esiliati 31.7.1810 tit. XVII fasc. 14 ASCT. “Valentano 27 agosto 1810. Poichè giusta il recente Ordine del governo rapporto a quei, che hanno diritto alla pensione, infra le altre cose richiedesi un certificato rilasciato dal superiore, ed in caso di assenza del Maire del luogo della situazione del Conv. comprovante che facevano parte del Conv. sud. all’epoca della soppressione e che vi risiedevano; non sapendo io se il mio superiore sia in Corneto; quindi accingomi a supplicare l’Innata Bontà di V.S. Ill.ma, ad oggetto, che abbia la compiacenza di mandarmi il certificato richiesto dal Latore della presente, e mio fratello di sangue. Che della Grazia. Um. D.mo, ed ob.mo Servo D. Domenico Maceroni e nella Religione P. Giacomo da Valentano”. 55) Il problema era pienamente calzante. Il sottoprefetto Zelli Pazzaglia il 26 agosto rilasciava al sindaco Boccanera 42 certificati di pensione da consegnarsi agli interessati, facendosene sottoscrivere la ricevuta. 56) In realtà il periodo per presentare la documentazione di pensione fu prorogato al 20 settembre: atto di nascita, di professione, certificato di residenza. Anzi il 22 settembre il sindaco manda ancora al sottoprefetto Zelli Pazzaglia due certificati di nascita di due religiosi ma a lui risulta solo quello dell’agostiniano Nicola Salerno, come si esprime in una lettera del 28 settembre 1810. 57) Con tutto questo trambusto, nessuno dei religiosi era ancora morto fino al 15 settembre 1810. 58) Il problema centrale per i religiosi che erano usciti dalle loro case senza il necessario, perché non si erano potuti appropriare di nulla, era quello della pensione promessa e necessaria per vivere. Fino al 10 ottobre Boccanera lamentava di avere ricevuto 10 schede in meno delle 59 che dice di avergli consegnato il sottoprefetto. Ne ha distribuite quarantatrè le altre le ha presso di sè perché le religiose sono fuori. Quello che è più grave però è che anche dagli ex-religiosi si esige il Giuramento come egli chiaramente afferma: “Riceverà ancora accluso lo stato degli Ex-Religiosi, ai quali ho fatto sapere di dover prestare il giuramento di fedeltà e di obbedienza nei luoghi della rispettiva nascita. 55) Lettera del maire Francesco Boccanera al sottoprefetto 12.8.1810 Registro lettere 1809-1810, f. 239 ASCT; dichiarazione del P. Giacomo Maria Latini da Corneto 22.8.1810; Lettera del P. Giacomo (Domenico Maceroni) da Valentano 27.8.1810 tit. XVII, fasc. 14 ASCT. 56) Lettera del sottoprefetto Giulio Zelli Pazzaglia 26.8.1810 tit. XVII fasc. 14 ASCT. 57) Lettera dell’aggiunto Lodovico Casciola 5.9.1810 f. 256 Registro lettere 1809-1810 ASCT; Lettera del sottoprefetto 28.9.1810 tit. XVII, fasc. 14, ASCT. 58) Lettera del maire Boccanera al sottoprefetto 15.9.1810 Registro lettere 1809 - 1810 f. 264 ASCT. Similmente compiego il Processo verbale dell’ Ex-Religioso, che ha giurato con la sua schedola sottoscritta dal medesimo; in mancanza per questo la schedola da consegnarli per la pensione. Per la grave infermità delli Ex Religiosi ed assenza di uno di essi da Corneto, sottoposti al giuramento, non ho potuto unirli a detto Processo. Lo farò in altro mandandovi intanto per questo quattro altre schedole per ottenere la detta pensione”. 59) Vi è chiaramente espresso che per ricevere la pensione era necessario fare il giuramento, cosa che alcuni accettavano come sembra dal documento, ma altri per un motivo o per un altro cercavano di evitare perché proibito. Alcuni religiosi per non prestare tale giuramento rinunziarono alla loro misera pensione; basti pensare a P. Filippo (Antonio Giupponi) a Cori, ai frati della comunità di Orte. 60) Credo che proprio qui cominci la crisi più forte del P. Giacomo Latini da Corneto. C’è ancora una lettera del maire Boccanera di risposta al sottoprefetto del 29 novembre 1810 sulle pensioni ecclesiastiche agli Ex Religiosi e dice senza spiegare nulla in realtà, il 5 dicembre 1810, “ho reso publiche le istruzzioni (sic) nella medesima contenuta a proposito degli Ex-Religiosi che hanno diritto alle medesime pensioni, e per di loro regala il governo”. 61 Ci si dimentica che il governo li aveva spogliati di tutto e messi in mezzo alla strada, promettendo loro questa pensione. Era solo un mezzo per toglierli via. Naturalmente i Frati dovettero affrontare quello che veniva loro offerto; P. Filippo da Castel Viscardo, che già aveva insegnato nelle scuole elementari, continuò a farlo finché glielo permisero, rimase economo parroco di S. Pancrazio, e proprio per questo facilmente giurò e vi rimase fino alla restaurazione dello Stato Pontificio. 62) P. Giacomo Latini invece rimase a carico del fratello Giuseppe per circa “un anno e mezzo”. Poi per provvedimento del commissario generale di Civitavecchia fu imprigionato. 59) Lettera del maire Boccanera al sottoprefetto 10.10.1810 Registro lettere 1809 - 1810 ff. 278-279. Memoria del 1814 del convento S. Bernardino di Orte ASBO; Mecocci Sergio, Francescani a Cori (Cori 1986), 167. 61 Lettera del maire al prefetto di Roma 5.12.1810 Registro lettere 1809-1810 f. 339 ASCT. 62) Vi sono documenti che alludono a due religiosi parroci che hanno giurato, senza fare il nome 29.8.1811 Deliberazioni 1809-1814 f. 35. Lettera al sottoprefetto 2.6.1812 Copialettere VI A 13, 1812, ff. 458 - 459 ASCT. Era economo parroco di S. Pancrazio Registro dei Battesimi 1807 - 1819 (5.11.1811 - 15.5.1814) ff. 102 - 119; Registro dei Matrimoni - 1710-1816 (3.6.1811 - 25.4.1814) ASMT; Maestro di scuola elementare per i ragazzi 30.12.1803, 11.12.1807, 9.12. e 13.12.1808. Ogni volta è messo in concorso per l’anno successivo e vince. Carte sparse secolo XIX 1803, 1807, 1808 ASCT. 13.12.1804, 13.12.1805, 13.12.1806, 13.13.1807, 30.10.1808, 13.12.1808. Libro dei consigli 1799-1809 ff. 283, 313, 322, 324, 354, 363, 367. Questo era un segno della sua stima. Vi era confermato 13.3.1810 Lettera al sottoprefetto 14.3.1810 Registro lettere 1809 - 1810 f. 101 ASCT. Anche nel 1811 fino a luglio è pagato per questo 30.6.1811 e 31.11.1811. Mandati 1810-1811 sf. ASCT. 60) O non volle assistere alle solite preghiere che si facevano per l’imperatore o non volle giurare. In genere questi erano i capi di accusa che si portavano. Con tutta probabilità, nel settembre 1811, egli fu rinchiuso nel carcere di Civitavecchia mentre il fratello Giuseppe cercò di soccorrerlo con qualche risparmio che gli aveva messo a disposizione lo stesso P. Giacomo, data la ristrettezza dei tempi correnti. I carcerati dovevano provvedersi del necessario per sopravvivere e a Civitavecchia egli dovette spendere per sé 10 scudi. 63) Egli con altri 19 (secondo Loberti), o 18 (secondo Mercati) fu mandato a Bastia in Corsica dal commissario generale di Civitavecchia dove giunse il 23 ottobre 1811. Vi è indicato come residente a Roma e nativo di Corneto, come D. Angelo Galassi. Certo questi elenchi hanno delle imprecisioni come quella di chiamarlo “Lattini Jacques” invece di Latini, ma non vi è dubbio sulla persona. Non vi era nessuna condanna nei suoi riguardi per essere trasferito, come è chiaramente indicato dalla parola “néant” = nulla. Dal punto di vista giuridico si tratta quindi di un puro arbitrio usato nei suoi riguardi e una punizione contro un innocente e così anche verso gli altri. Tra i deportati vi erano D. Angelo Galassi e P. Giacomo. Della stessa città è anche il canonico D. Filippo Benedetti. Vi è pure un altro minore osservante, P. Luigi Antonio (Francesco Lusinasco “Lusignasco”) da S. Remo, guardiano di S. Bartolomeo all’Isola di Roma. Essi ottennero 30 franchi con cui dovevano trovarsi un alloggio ed il vitto per un mese, quando un chilogrammo di pane costava 7 soldi. 64) Per questo P. Giacomo Latini ricorse ancora al fratello Giuseppe che gli sovvenzionò 15 scudi, cinque forme di formaggio del valore di 5,40 scudi, probabilmente 6,40 scudi per medicine, 6 per abito di bogenzone, 7 per corpetti e due paia di calzoni. Egli certamente in primo tempo rimase presso una famiglia di Bastia a dozzina dove poi morì, quando le sue condizioni fisiche si aggravarono per l’etisia. 65) A Corneto intanto ci si preoccupava di ottenere uno stanziamento per S. Francesco in una caserma per gendarmeria, essendo esso capace di 30 individui che fu poi attuato. Più tardi si pensò di affittarlo ai privati ed il 14.10.1810 il ricevitore Palini mandava l’avviso che il 25 gennaio 1811 vi sarebbe stata l’asta al prezzo iniziale di 30 scudi ed il 16 gennaio 63) Conto di Giuseppe Latini al convento S. Francesco 5.12.1814 ASFT. Mercati Angelo, “Elenchi di ecclesiastici dello Stato Romano deportati per rifiuto del giuramento imposto da Napoleone “Rivista della storia della chiesa in Italia 7 (1953) 58, (64 - 65); Spina Adriano, Diario della deportazione in Corsica del canonico di Albano G. B. Loberti (1810-1814) (Albano Laziale 1985) 73 (Non vengono fatti nomi, ma viene riportata solo la notizia). 65) Conto di Giuseppe Latini al convento S. Francesco 5.12.1814 ASFT. 64) 1811 (non 1810 come nell’originale) mandò 4 manifesti per gli affitti dei conventi e monasteri da farsi il giorno 25. Se lo aggiudicò Luca Peruzzi di Corneto, pagando il 6.11.1811 per il primo semestre fino al 31 agosto 88 franchi 27 centesimi e 7. 66) Non credo che fu questo a incidere sul problema del P. Giacomo, anche se certamente dovette dispiacergli. In Corsica oltre al P. Giacomo erano stati deportati altri suoi concittadini: i canonici Gianvincenzo Falzacappa, ed il fratello Gianfrancesco, futuro cardinale, Gaspare Erasmi, Cristoforo De Cesaris, Francesco Garigos, Angelo Galassi e Filippo Benedetti. Anche se molti dei canonici o preti di Corneto avevano giurato, vi era però una buona rappresentanza di sacerdoti che avevano accettato l’esilio. Non bisogna dimenticare che il vescovo di Corneto era proprio il cardinale Giovanni Sifredo Maury, fanatico bonapartista e dal 1810 amministratore riprovato da Pio VII di Parigi (1746 - 1817). Vi furono anche numerosi Minori Osservanti o Riformati oltre al P. Giacomo: P. Gianantonio Gandolfi, P. Luigi Antonio (Francesco Lusinasco) da S. Remo, P. Lorenzo (Giovanni Giovannoli) di Roma, P. Francesco Maria (Giovanni La Monica) da Viterbo, P. Benedetto Veneri, Girolamo Prosperi da Frascati e Fra Bernardino Veralli da Roma. 67) Dai contemporanei si nota una particolare attenzione alla figura del P. Giacomo Latini. La sua morte veramente esemplare deve avere particolarmente colpiti. Il Loberti si ferma alle notizie essenziali: “17 (Agosto 1812) Funerale per il d. Giacomo Latini riformato, riportato etico, morto in Bastia.” Più circostanziata è la testimonianza trascritta da Faloci Pulignani secondo cui per l’acuirsi della malattia tra i carcerati, furono chiamati i medici ed il chirurgo per paura di un epidemia e tra gli aggravati vi fu proprio il P. Giacomo Latini che erroneamente chiama Giacinto: “Fra gli ammalati si contava un certo Padre Giacinto Latini, Guardiano de’ Minori Osservanti di Corneto, sua patria, già dimorante in casa di un buon cittadino di Bastia, il quale aggravato nel petto ed attaccato da grossa febbre, malgrado tutte le premure de’ medici ed i più valevoli rimedi, dovette tra il settimo ed ottavo giorno di decubito soccombere, munito di tutti i Santissimi Sacramenti, con l’assistenza del Vice- 66) Lettera del maireFrancesco Boccanera al sottoprefetto 4.7, 1.9 1810 Lettere al prefetto di Roma 31.7, 27.10.1810. ff. 195, 230, 263, 293 Registro lettere 1809 - 1810 ASCT. Bando di asta del ricevitore G. Palini 14.11.1810, Manifesti da affiggersi 16.1.1810 (nell’originale, ma è certamente 16.1.1811). Ricevuta di pagamento dell’affitto di S. Francesco da parte di Luca Peruzzi da Corneto 6.11.1811. tit. XVII, fasc. 14 ASCT. 67) Mercati Angelo, “Elenchi di ecclesiastici dello Stato Romano deportati per rifiuto del giuramento imposto da Napoleone” Rivista della storia della chiesa in Italia 7 (1953) (64-65, 69, 70, 71, 72, 73, 81, 82); Spina Adriano Diario della deportazione 120, 121, 122, 123, 124, 125. Canali Giuseppe “Memorie di un prete romano deportato al tempo di Napoleone” La civiltà cattolica 3 (1934) 169. Parroco di S. Maria e di vari compagni, passare agli eterni riposi. Nella mattinata del 17 agosto fu trasportato il suo cadavere alla chiesa cattedrale di S. Maria, accompagnato da quattro Confraternite e da numeroso popolo che piangeva la di lui morte, esaltando le sue virtù; investito degli abiti Sacerdotali, con decente funerale, con l’assistenza di tutti i compagni Deportati che gli cantavano l’ufficio e Messa di morti celebrata dal canonico Dias, ora economo per quell’Arciprete ch’era stato Deportato alle Finestrelle, e terminata la S. funzione da tutti applicatagli la messa, chiusa la cassa, fu trasportato, e seppellito nel Campo-Santo con dispiacere universale”. Più oltre aggiunge che per la morte del cappuccino viterbese P. Francesco Antonio Corradi vi partecipò la folla come per il P. Latini, ma non poterono parteciparvi i deportati. 68) Il P. Adriano Spina ha centrato pienamente l’episodio della morte, nell’alone di santità riconosciuta dai contemporanei di P. Giacomo, manifestatasi forse con più chiarezza proprio nel tipo di malattia da lui sopportata, l’etisia, che in genere lascia al malato lucidità di mente fino all’estinzione della vita. Mi piace riproporla come lo fu dal suddetto Padre: “La notizia di questa morte e diciamo pure l’esemplarità di quell’avvenimento da aureorarlo da martirio, colpiù più di un cronista”. Infatti anche l’anonimo componente del clero romano che scrisse le Memorie sottolineò come pur essendo malato, avesse chiesto con gesto di eroica offerta il permesso di poter condividere la vita durissima del carte del Donjon riportando poi i particolari preziosi dei suoi funerali: “Uno dei nostri deportati che per cagione di infermità non era potuto entrare con noi al Donjon come ardentemente desiderava, nel dì 16 fu richiamato dal Signore all’altra vita per godere il frutto della sua deportazione e della pazienza ed uniformità praticata nella sua infermità che innamorò quelli che si fecero un pregio ed un onore di prestare al medesimo tutta la cristiana ed amorevole assistenza. Nel dì seguente fu condotto in chiesa il suo cadavere dove anche i deportati si ritrovarono per assistere alla Messa cantata colla recita dei tre Notturni, essendovi intervenuto anche il pietoso popolo che accompagnaca il lugubre canto dei sacerdoti con molta pietà e sentimento di Religione. Tutti i corpi delle Compagnie di Bastia entrarono in una pietosa gara di accompagnare alla Chiesa il cadavere ed assistere alle esequie con la cera del proprio, abbondantissima che consumarono nella funzione, nulla volendo con una generosità degna del loro cuore che produsse negli animi dei deportati una eterna gratidune e riconoscenza. 68) Spina Adriano, Diario della deportazione 82. Faloci Pulignani Michele, Storia della deportazione dei sacerdoti dello Stato Pontificio nella Corsica (Foligno 1895) 184, 207. Egli trascrive un diario di un deportato di Foligno. Il dì seguente alla sepoltura del defunto P. Giacomo Latini, Minore Osservante di Corneto, uscì dal governo l’ordine che i deportati non potessero sortire più dal forte”. 69) Quel poco che si può conoscere di valevole del P. Giacomo Latini, Minore Osservante di Corneto, uscì dal governo l’ordine che i deportati non potessero sortire più dal forte”. 70) Al 30 di ottobre 1812 si sa che le chiese dei religiosi erano state affidate al canonico prete giurato Domenico Ferraud, S. Maria in Castello, S. Maria di Valverde, e l’Addolorata dei Passionisti; all’avvocato Cesarei, S. Francesco e la Chiesuola; al canonico Sebastiano Forcella, S. Lucia e la Presentazione; a Mancini S. Marco. 71) Quando Pio VII ebbe la possibilità di essere liberato dalla prigionia, e ritornò in possesso dello Stato Pontificio, il cardinale Giovanni Sifredo Maury fu chiamato a rendere ragione del suo operato e rinchiuso in Castel S. Angelo giudicato, sospeso dalla propria giurisdizione episcopale su Corneto e Montefiascone il 16 maggio 1814, ed in sua vece succede come amministratore apostolico Mons. Bonaventura Gazola vescovo di Cervia, minore riformato. Alla riunione del 16 maggio furono presenti il clero secolare e regolare cittadino, ex deportati napoleonici ed ex giurati. Non avendo potuto consultare le ritrattazioni del clero come era avvenuto in altre diocesi, perché non mi è stato possibile trovarle, credo opportuno riprendere questa testimonianza sia pure amara, ma significativa. “Anno Domini millesimo octingentesimo decimoquarto die vero decima sexta maii. Praevia intimatione convocatum fuit Capitolu, in quo interfuerunt RR Dni Canonici Archidiaconus Ioannes Baptista Falzacappa, Archipresbyter Dominicus Lastrai, Ioannes Franciscus Garrigos, Ferdinandus Bovi, Ioannes Dominicus Ferraud, Iacobus Gori, Cajetanus Cesarei, Sebastianus Forcella, ceterique de Clero Parocus Aloysius Donati, F. Secondianus Alessi, F. Agapitus Daste, Angelus Galassi, Cristophorus de Cesaris, Gregorius Antonj, Petrus Tognarini, Egidius Mancini, F. Augustinus Mancini, Revmus F. Nicolaus Salerno, Procurator Generalis Ordinis Eremitarum S. Augustini, Ioannes Baptista Urbani, F. Peregrinus Uccelletti, Gaspar Battaglia, Dominicus Verroni, Iacobus Boccanera quibus per Revmum D. Archidiaconum denunciatum fuit. 69) Spina Adriano, “La deportazione in Corsica di cinque Osservanti del Lazio (1810-1814) “Archivcum Franciscanum Historicum 77 (1984) 453. 70) Lettera al sottoprefetto 10.3.1812, Lettera al signor Carlo Fiorelli 10.3.1812 Rapporto al commissario di polizia 30.3.1812, Lettera al sottoprefetto 2.6.1812, Lettera al Vicario Generale 1.6.1812, Copialettere VI A 13, 1812 ff. 83, 110, 251, 458-459 ASCT. 71) Vi erano due sacerdoti di nome Mancini P. Agostino Mancini e D. Egidio, come si potrà osservare tra poco, ma con probabilità che si tratta del P. Agostino. Certificato del maire 30.10.1812 tit. XVII, fasc. 14 ASCT. Em. mum, et Rev. mum D. Ioannem Sufredum Maury Episcopum nostrum suspessum esse a Summo Pontifice ab omni jurisditione spirituali, et temporali supra Diocaeses Corneti et Montisfalisci, et in eius loco suffectum Illmum, et Revmum D.P. Bonaventuram Gazola Episcopum Cervien”. E su questo tono annunzia l’estromissione del precedente vicario generale con l’elezione di D. Giovanni Francesco Garrigos, già canonico capitolare ed ex deportato. 72) L’unico frate del convento di S. Francesco era quindi il P. Filippo (Pellegrino Uccelletti) da Castel Viscardo. E fu proprio esso ad essere presente alla visita che Mons. Bonaventura Gazola compì nell’ospedale S. Croce dove era cappellano il 26 giugno 1814, essendo parroco di S. Pancrazio D. Giacomo Boccanera, fratello dell’ex maire Francesco Boccanera. Inoltre egli lo accompagnò il 30 giugno per la visita alla chiesa di S. Francesco, essendo segretario di visita P. Gaudenzio Patrignani da Coriano (Forlì) consultore della suprema inquisizione e teologo, ma che il 10 agosto Pio VII lo nominò Procuratore Generale dell’Ordine Francescano ed il 30 settembre Generale e successivamente vescovo di Ferentino (Frosinone) 25.5.1818 - 18.2.1823). Mons. Gazola vide il 30 giugno la chiesa di S. Francesco in cattivo stato ma vi ritornò il 2 agosto per l’indulgenza del Perdono di Assisi e in questa occasione per la prima volta visitò anche il convento che trovò sconquassato per il cattivo uso che ne aveva fatto la guardia civica durante l’occupazione napoleonica: “conventum accessit, plurimasque ruinas vidit, inter quas ea notanda, qua in tectis observantur, quaequae aliter, aliter visi, per tegularum et laterculorum raptum a popularibus exercitum, contingere potuit”. 73) Di questo si ricordava bene il P. Gaudenzio Patrignani quando da Generale indirizzò la sua lettera del 10 dicembre al comune di Corneto, promettendo di interessarsi presso il Provinciale P. Giovanni Carlo da Roma (6.2.1809 - 6.2.1816) perché mandasse i religiosi. Fu scelto come guardiano di S. Francesco il P. Francesco Maria (Giovanni La Monaca da Viterbo (2.9.1782 - 27.2.1856) che era stato deportato in Corsica. Egli accettò dopo molte tergiversazioni proprio per lo stato miserando del convento e le difficoltà economiche che vi avrebbe incontrato, per l’elevazione dei generi e con una comunità di 12 frati. Bisognerebbe rileggersi le sue lettere per capire bene questo periodo. 72) Risoluzioni delle congregazioni capitolari 1800-1873 f. 38 v. (Vi è inclusa tutta la documentazione del caso nei ff. 38 v - 39 v) ASMT. 73) Visita Pastorale di Mons. Bonaventura Gazola vescovo di Cervia ed amministratore apostolico di Corneto e Montefiascone 26, 30 giugno 1814 e 2 agosto ff. 55, 62; 75 - 76 AVT. Egli vi rimase fino a quando fu sostituito dal P. Benedetto da Caprarola il 9.2.1816. 74) Trattandosi di un periodo difficile ricostruzione storica perché non sempre completo nella documentazione, come gli elenchi dei religiosi molte volte annunziati e raramente trovati, ho cercato di presentare ciò che mi è stato possibile reperire. Credo che questo sia già un apporto storico giusto specialmente per Tarquinia e la sua storia religiosa e civile. Vi si nota per esempio il sindaco Francesco Maria Boccanera che da una parte deve collaborare con le autorità costituite e dall’altra non può fare nulla di particolare a favore del campo religioso, pur avendo un fratello prete D. Giacomo, che egli cerca di non fare comparire e proteggere. La figura del P. Giacomo Maria Latini da Corneto acquista dei contorni più precisi. Si conoscono i genitori, i fratelli, la sorella, il loro apporto nelle sue sofferenze, i confratelli e sacerdoti diocesani espulsi con lui, alcune comunità religiose in cui si formò e visse, le difficoltà che vi incontrò e l’aiuto che ne ebbe, la sua sofferenza finale con la deportazione in Corsica, la sua morte in totale donazione a Dio e in fama di santità a Bastia il 16 agosto 1812, nonché le date ed i documenti delle sue ordinazioni suddiaconali, diaconale e sacerdotale. Cose inedite e quindi meritevoli di essere conosciute. Luigi Sergio Mecocci APPENDICE E’ possibile ricostruire una parte della genealogia dei Latini. Domenico Pallotta Latini di Viterbo sposa Anna Rossetti dell’Aquila Alessandro - Luigia - Antonio - Bernardino - Callisto - Pietro - Giuseppe - Biagio Francesco e Mariano. Giuseppe sposa Clementina Pampersi 74) Lettera del P. Generale Gaudenzio Patrignani da Coriano 10.12.1814; Delle 4 lettere del P. Francesco Maria (Giovanni La Monaca) da Viterbo una sola è datata 27.1.1816, alle altre invece è attribuito l’anno (1 1815 e 2 1816). Vi è un’altra del delegato G. A. Benvenuti 6.2.1816. Del nuovo guardiano P. Benedetto da Caprarola è quella del 20.7.1816 Tit. XVII, fasc. 7 ASCT. La completa comunità del (1815), compreso un prete con gli 11 religiosi è nella Vacchetta 1809-1829 APA. Il P. Benedetto da Caprarola è eletto guardiano e P. Fortunato da Boscomare vicario il 9.2.1816 Atti della Provincia Romana 1796-1856 APA. Costantino e Anna Callisto sposa Francesca Moretti Domenico sposa Vittoria Giacchetti Giuseppe Domenica risposa Giulia Annibali Francesca, Anna, Callisto, Maria Luisa, Guendalina, Lorenzo, Giuseppe, Latino Latini Lorenzo sposa Maria Ducci Giulio - Teresa - Fernando Giulio sposa Venturina Giacchetti Manrico e Vera Latini Falzacappa (Suor Giuliana benedettina di S. Lucia di Tarquinia). SIGLE ARCHIVISTICHE APA Archivio Provinciale Aracoeli - Roma ASBO Archivio S. Bernardino - Orte ASCT Archivio Storico Comunale - Tarquinia ASFT Archivio S. Francesco - Tarquinia ASGT Archivio S. Giovanni di Gerusalemme - Tarquinia ASMT Archivio S. Margherita - Tarquinia AVM Archivio Vescovile - Magliano Sabino AVT Archivio Vescovile - Tarquinia AVV Archivio Vescovile - Velletri BIBLIOGRAFIA Blasi Bruno “Un infausto viaggio” Bollettino dell’anno 1987 (Società Tarquiniense di Arte e Storia) 45 - 77. Canonici Claudi “Giuramenti, adesioni e ritrattazioni nel periodo napoleonico e nella restaurazione: il caso della diocesi di Sutri” Rivista di storia della chiesa in Italia 40 (1986) 405-445. Canali Giuseppe “Memorie di un prete romano deportato al tempo di Napoleone” La Civiltà cattolica 85 (1934) vol. II, 611 - 626; Vol. III 41 - 58, 167, 183, 274 - 286, 401411. Faloci - Pulignani Michele Storia della deportazione dei sacerdoti dello Stato Pontificio nella Corsica. (Foligno 1895). Gioacchini Delfo “Lorenzo De Dominicis da Foligno vescovo giurato (1735-1822) Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria (1967) Vol. LXIV - fasc. 1, 129-183. Naselli Carmelo Amedeo La soppressione napoleonica delle corporazioni religiose (Roma 1986). Spina Adriano “La deportazione in Corsica di cinque Osservanti del Lazio” (18101814)2. Archivum Franciscanum Historicum 77 (1984) 448 - 454. Spina Adriano Diario della deportazione in Corisca del canonico di Albano G.B. Loberti (1810-1814) (Albano Laziale 1985). PRESENZE EBRAICHE A CORNETO Io, gli Ebrei, li ho guardati, per un motivo o per un altro, sempre con gli occhi del sentimento. Non tanto per le avverse vicende e le diaspore subite nel corso della loro storia, quanto per alcuni brani musicali che toccavano più profondamente la mia sensibilità. Alludo alle note del “Va pensiero” di Giuseppe Verdi, imparato fin dalle prime classi elementari; e più tardi, all’accorata sofferenza del salmo musicato da Pier Luigi da Palestrina, il “Super flumina Babylonis”, appreso casualmente in una modestissima “Schola Cantorum” della mia parrocchia. Per la qual cosa, ogni volta che mi accade di riascoltare quelle note musicali, sento sempre salire dal cuore un momento di commozione sia per gli Ebrei schiavi in Babilonia, sia per quei patrioti del Risorgimento Italiano a cui Verdi faceva riferimento con le più conosciute note del “Nabucco”. Per restare ancora a questi ricordi infantili, io degli ebrei conservo un’altra memoria. Ed è questa. Quando seguivo mia madre nella visita annuale in quell’estrema parte, non consacrata, del Cimitero del mio paese, dove trovavano sepoltura i bambini non battezzati (e noi in famiglia ne avevamo più d’uno) e gli Ebrei, provavo un’immensa pietà nel constatare come dopo la morte si dovesse ancora subire una discriminazione laddove il comune destino ci conduce tutti per il disfacimento della nostra presenza fisica nel mondo. Ricordo infine di aver notata più volte una breve iscrizione ebraica su di un rocchio di marmo bianco, all’angolo della chiesa di San Giuseppe, che disparve per non so quale destinazione al momento che la pubblica Amministrazione dette inizio alla colata di asfalto su tutte le strade interne del mio paese. Ora che sono in là con gli anni, mi son messo a scoprire quale influenza abbia avuto nella storia di Corneto la presenza degli Ebrei, così come feci l’anno scorso riguardo ad alcune radici albanesi nel territorio della Tuscia. Mancando qui del tutto, oggi, una presenza ebraica vera e propria, ho cercato di accedere alle fonti documentate per avvedermi come in un passato assai remoto la Comunità ebraica a Corneto abbia avuto una notevolissima presenza da essere trascritta nei documenti d’archivio. Il più antico dei quali, noto come la “Margarita Cornetana”, riporta i nomi e le vicende di parecchie famiglie semitiche che presiedevano a Corneto ad operazioni finanziarie di grande portata, almeno per quei tempi, quando le banche forse non esistevano ancora, e quando più tardi si pensò di istituire un vero e proprio Monte di Pietà per venire incontro ai bisogni della gente in affari e sfuggire così alle speculazioni dell’usura. La prima testimonianza a Corneto la troviamo in un documento notarile del 28 settembre 1297 che si riporta nella stesura originale: “In seguito al pagamento eseguito in tornesi 1) d’argento e carlini 2) d’argento da Accuncia di Passannante a nome proprio e di Alberigo di Matteo, Angelo di Jacopo di Ranuccio di Franco, Francesco di Giorgio, Rollando del fu Rollando giudice e Ranieri di Egidio, Manuele di Elia ebreo, garantendo la ratifica di Vitale del fu Sabato ebreo, rilascia quietanza di 200 fiorini 3) d’oro somma dovuta a lui e a detto Vitale, come da istrumento del notaio Ranuccio di Rollando, e al pagamento della quale Accuncia e i suddetti erano 1) Moneta coniata nella zecca di Tours (Francia): il denaro ai tempi di Carlo Magno, e il grosso ai tempi di Luigi IX. Parola derivata dall’antico francese Torneis, che è trasformazione dell’aggettivo latino Turonensis, abitante cioè di Tours. 2) Moneta d’oro e d’argento fatta coniare per la prima volta da Carlo d’Angiò; quella d’oro fu del valore di 14 carlini d’argento, ma ebbe breve durata. Quella d’argento divenne moneta di conto al ragguaglio di 10 per ducato. Ebbe larga diffusione anche fuori del Regno di Napoli. 3) Moneta fiorentina: dal secolo XI alla prima metà del XII, solo denaro d’argento. Nel gennaio 1253 fu coniata la moneta d’oro alla quale rimase il nome di fiorino del peso di gr. 3, 54 della bontà di 24 carati. stati condannati da Guido, già giudice del Comune di Corneto, come da istrumento del notaio Gepzio di Pietro. In Corneto, nel Palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Donadeo, Fortunato banchiere, Lituardo di Giovanni, frate Gianni camerario del Comune, Bocca di Graziano, Tuccio del fu Angelo, testi. Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, illustre prefetto notaro dell’Alma Roma”. Da questo primo atto notarile si evince una sentenza grazie alla quale la magistratura, chiamata a dirimere una contesa sorta fra i sei debitori cornetani e i due creditori ebrei, condanna i primi a versare 200 fiorini d’oro, come interessi maturati, per un prestito non precisato, ma certamente finalizzato a non rendere inerti” quelli che pure un giorno furono instancabili agricoltori e commercianti”. 4) Cosicché venne a scatenarsi quella “eterna battaglia che si faceva allora fra i due elementi sociali in guerra tra loro, il frate e l’ebreo, l’uno nel nome di Cristo per la redenzione economica delle genti, l’altro, nel nome unico e solo del Dio l’argent per il maggiore incremento dei propri interessi”. A tal proposito lo storico cornetano Muzio Polidori, nelle sue “Croniche Cornetane” 5) riporta la seguente notizia, datata anno 1446. “Il capitolo dei Frati Minori di S. Francesco fu fatto in Corneto, et per provinciale fu eletto un certo fra Jacomo 6) che con sue prediche et persuasioni indusse i Cornetani a giurar di non ricever più in Corneto Hebrei che esercitavano usura sopra pegni con intentione di eriggere il Monte di Pietà con l’aiuto di più cittadini. Partito il frate del Monte restò imperfetto, onde i Cornetani erano necessitati mandar pegni in Viterbo e Toscanella a gli Hebrei di detti luoghi”. 7) Nell’anno 1297, secondo la “Margarita Cornetana”, vengono emesse altre tre sentenze del seguente tenore: “28 settembre 1297, Corneto. In seguito al pagamento eseguito in tornesi e carlini grossi d’argento, Bocca del fu Graziano, a nome anche di maestro Benvenuto notaio, di Giovannino di Iacopo di Alda, di Francesco di Ventura Speculi, di Pellegrino giudice e di Giovanni del fu Mainardo, Vitale di Daniele ebreo, garantendo la ratifica di Gionata di Abramo ebreo, rilascia quietanza di 200 fiorini d’oro, dovuta loro da Bocca e dai suddetti, come da istrumento pubblicato dal notaio 4) Francesco Guerri - “L’origine del Monte di Pietà di Corneto”. Roma, tip. Forzani e C. - 1907. Muzio Polidori - “Croniche di Corneto”. Grotte di Castro, Tipolitografia C.Ceccarelli - 1977. 6) Francesco Guerri - “L’origine del monte di Pietà di Corneto”. Roma, tip. Forzani e C. 1907 - pag. 212. “Assai probabilmente altri non era che fra Giacomo da Rieti”. 7) Muzio Polidori - “Croniche di Corneto”. Grotte di Castro, Tipolitografia C. Ceccarelli - 1977. 5) Ranuccio di Rollando, al pagamento della quale erano stati condannati da Guido, già giudice del comune di Corneto, come da istrumento del notaio Gepzio di maestro Pietro. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Donadeo, Fortunato banchiere, Lituardo di Giovanni, frate Gianni camerario del Comune, Tuccio del fu Angelo, testi. Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, illustre prefetto notaro dell’Alma Roma.” Sempre il 28 settembre 1297, a Corneto, si stende il seguente documento notarile: “In seguito al pagamento eseguito in tornesi e carlini grossi d’argento da Giovanni Doane, a nome anche di Simeone di Taddeo, di maestro Pietro del fu Bernardo, di Rollando di Crescenzio, di Paolo di Tommaso e di maestro Pietro di Salvo notaio, Goialo del fu Deodato e Goialo del fu Elia Ebrei, rilasciano quietanza di 200 fiorini d’oro, somma dovuta loro da Giovanni e dai suddetti, come da istrumento del notaio Ranuccio di Rollando, al pagamento della quale erano stati condannati da Guido, già giudice del comune di Corneto, come da istrumento del notaio Gepzio di maestro Pietro. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Donadeo, Fortunato banchiere, Lituardo di Giovanni, frate Gianni camerario, Tuccio del fu Angelo, testi. Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, illustre prefetto notaro dell’Alma Roma”. Ed infine, in data 29 settembre 1297, in Corneto, ultima sentenza del seguente tenore: “In seguito al pagamento eseguito in monete d’argento da Pietro di Donadeo, a nome anche di Benencasa di Gianni calzolaio, di Lituardo di Rollando di Cristoforo, di Gado Focis, di Coronato giudice e di Lituardo di Giovanni Malbocti, Sabato di Vitale e Benedetto di Salomone ebrei, garantendo il consenso anche di Dactulo di Consiglio ebreo, rilasciano quietanza di 200 fiorini d’oro, somma dovuta loro da Pietro e dai suddetti, come da istrumento del notaio Ranuccio di Rollando, al pagamento della quale erano stati condannati da Guido, già giudice del comune di Corneto, come da istrumento del notaio Gepzio di maestro Pietro. In Corneto, nella casa di Paolo di Tommaso, alla presenza di Ildibrandino notaio, Saladino di Pietro di Saladino, Vanni di Paolo e Jacopo di Angelo di Angeluccio, testi. Rogito di Crescenzio di Accuncia di Passannante, prefetto illustre notaro dell’Alma Roma”. Da queste quattro sentenze, ci si avvede non solo dell’entità dell’operazione finanziaria, ma anche e soprattutto dei gravosi interessi che Manuele di Elia, Vitale del fu Sabato, Vitale di Daniele, Gionata di Abramo, Goialo del fu Deodato, Goialo del fu Elia, Sabato di Vitale e Benedetto di Salomone, ebrei, pretesero dai rispettivi debitori. Interessi gravati sicuramente dall’usura se consideriamo, nel primo caso, che i sei debitori dovevano non solo rifondere il denaro avuto in prestito, ma addirittura pagare una condanna di 200 fiorini d’oro. Allora un fiorino pesava 3,54 grammi in oro a 24 carati, perciò senza lega; e se si moltiplicano i grammi di un fiorino per il numero dei fiorini si viene al risultato di 708 grammi per un valore, rapportato ai nostri giorni, di oltre 14 milioni di lire. Due anni dopo, nel 1299, il sindaco di Corneto, tale Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome anche di quelli che lo scriba chiama “boni homines”, vale a dire coloro che gestivano con lui la responsabilità del potere comunale, cioè Rollando di Crescenzio, Rollando di Rollando, Pellegrino di Gentile giudice, Angelo di Biagio, Rollando di Ranieri e del maestro Ventura Cerusico, viene a trovarsi al centro con una grande operazione finanziaria: cioè alla vendita della dogana del sale. Da alcuni documenti giacenti nell’archivio Falzacappa, si viene a sapere che per la costruzione delle Saline di Corneto ci fu un tale contenzioso da promuovere una vera causa che venne discussa nella Sacra Consulta per iniziativa della Comunità degli Ecclesiastici e del popolo di Corneto contro il proponente Giuseppe Lipari, nel 1803, ma che aveva provenienza fin dal 1788. Non sappiamo dire se alla fine del XIII secolo esistessero o meno le Saline a Corneto, ma nei documenti notarili sopra citati si viene a parlare di una Dogana del sale. Si sarebbe potuto trattare di un dazio o di una gabella per il pagamento del sale prodotto sulle rive del mare e commercializzato sia nell’abitato di Corneto che nei paesi interni del Patrimonio di San Pietro. Fatto sta che il sindaco, quel tale Francuccio di Pietro Cinnelli, con il consenso dei sei “boni homines”, fu costretto a dare in appalto o a vendere la dogana con il cui ricavato pagare gli interessi per debiti contratti con i diversi creditori ebrei i quali, per non perdere il denaro prestato, erano ricorsi alla mallevadoria di Ventura cerusico ed altri, alla presenza del notaro Giovanni di Angelo di Amatore. Non si è a conoscenza della somma avuta in prestito, ma considerando tutti gli interessi che assommano a 1.268 lire di paparini, 8) 250 fiorini d’oro e 101 lire e 1 soldo 9) e 8) Designazione generica della moneta dei papi coniata nelle zecche del Patrimonio di San Pietro, a Viterbo prima (circa il 1269), poi a Montefiascone. Comprendeva denari di mistura e grossi d’argento che hanno per tipo la croce e le due chiavi pontificie con la dicitura Patrimonium B. Petri. 9) Nome di una moneta la quale, nell’età carolingia, rappresentò la ventesima parte della lira ideale. Mentre la lira, nel Medio Evo, rimase moneta di conio per molti secoli, intendendosi, di solito, la lira di denari piccoli (del valore di 20 mezzo, si deve arguire che il prestito richiesto dal Comune agli ebrei e loro soci, doveva essere stato notevole e dettato da gravi necessità. Quali? Si prenda in considerazione il regesto “Margarita Cornetana” del 23 gennaio 1283, dove si legge: “In seguito al giuramento di fedeltà al Comune di Roma, prestato dal sindaco del comune di Corneto in rinnovamento di analogo giuramento fatto ai tempi di Castellano degli Andalò e in seguito ad adeguata soddisfazione, da parte cornetana alla Camera dell’Urbe, dei danni recati all’esercito romano sopra Corneto, e all’impegno del Comune di Corneto di provvedere, nella misura richiesta dal Senato, alla retribuzione dei grascieri...” si condanna il Comune “al pagamento di 2000 marche d’argento 10) per non avere inviato a Roma, dietro richiesta del senatore di Roma, venti cornetani de melioribus, i quali rendessero conto dell’insubordinazione del Comune verso gli ufficiali dell’Urbe addetti alla custodia della grascia lungo le coste del distretto, vale a dire del rifiuto di consegnare a questi ultimi le imbarcazioni necessarie all’esportazione di grascia cornetana...” 11) In parole povere, il Comune di Corneto doveva adempiere a tutte le incombenze per il fatto di essere incluso nel Patrimonio di San Pietro per cui doveva non solo far fronte alle necessità alimentari di Roma - che poi furono ripagate a puro titolo onorifico con il titolo di “granaio di Roma” - ma anche al mantenimento delle soldatesche pontificie e dei mercenari. Cosicché gli obblighi fiscali dovevano essere mantenuti senza troppe di discussioni. Se poi si considera ancora le richieste che fece ad esempio il papa Alessandro VI alla nostra Comunità per le nozze della propria figlia Lucrezia Borgia ed il mantenimento dello stesso pontefice e della corte papale, rifugiati a Corneto a causa delle pestilenze che infuriavano nell’Urbe, allora si viene anche a spiegare la necessita di chiedere prestiti forzosi agli ebrei di stanza a Corneto e dintorni che venivano a trovarsi creditori della Comunità cornetana. Oggi, con parole più acconcie, si sarebbe detto “les affaires, sont les affaires”. Ma ritorniamo all’argomento. Ritroviamo sempre nella “Margarita Cornetana”, nel periodo compreso fra il 1 ottobre e l’8 ottobre 1299, una serie di regesti notarili grazie ai quali il Sindaco di quel tempo, Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome anche dei suoi collaboratori definiti “boni soldi, ognuno, o 12 denari piccoli), mentre per gli affari di maggiore importanza si usava la lira di grossi (del valore di 240 soldi). 10) Nome di numerose monete e unità di peso di metalli preziosi, in uso nell’Europa occidentale a partire dall’XI secolo. 11) La “Margarita Cornetana” regesto dei documenti a cura di Paolo Supino - Roma Biblioteca Vallicelliana - 1969. Pag. 51. homines” vende, come si diceva più sopra, la dogana del sale per rifondere, coi denari ricavati, agli ebrei e i loro soci, i debiti contratti. Eccone i testi. “1 ottobre 1299 In seguito al pagamento eseguito da Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome anche di Rollando di Crescenzio, di Rollando di Rollando, di Pellegrino di Gentile giudice, di Angelo di Biagio, di Rollando di Ranieri e di maestro Ventura cerusico, boni homines 12) destinati dal comune di Corneto ad estinguere, con denari ricavati dalla vendita della dogana, il debito con interessi contratto con gli infrascritti ebrei, Goialo di Deodato e Goialo di Mosteto, garanti anche della ratifica di Emanuele di Elia, di Genectano di Abramo e altri sotii 13) ebrei, rilasciano quietanza di 250 lire di paparini, dovute loro a saldo del mutuo di 400 lire di paparini, per il quale si erano professati debitori principali Ventura cerusico, Bartolomeo Accemmani, Stefano di Martina e Matteo di Ottaviano, come da istrumento del notaio Giovanni di Angelo di Amatore. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni da Monte Casoli, Pietro di Angelo di Giovanni, Giovanni di Pietro di Niccolò, Gregorio di Pietro banditore, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, prefetto auct. notaro, ora scriba della camera del comune di Corneto”. “1 ottobre 1299. In seguito al pagamento eseguito con danari ricavati dalla vendita della dogana, da Francuccio di Pietro Cinnelli, a nome dei suddetti boni homines, Vitale di Daniele di Zacaria procuratore di Benedetto, garanti del consenso anche di Manuele di Elia, di Salomone di Vitale e di altri sotii ebrei, rilasciano quietanza di 250 lire di denari paparini dovute loro a saldo del mutuo di 400 lire della stessa moneta, per il quale si erano professati debitori principali Leonardo di Rollando di Cristoforo, Angelo di Biagio Gado Focis, Griffulo di Niccolò e Jacopo di Ferraguto, come da istrumento del notaio Giovanni di Angelo di Amatore. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni da Monte Casoli podestà del Comune, Giovanni di Pietro di Niccolò, Gregorio di Pietro banditore, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, prefetto auct. notaro, dell’alma Roma, ora scriba della camera del comune di Corneto”. 12) Boni homines - Buoni cittadini scelti fra i migliori, ossia gli eletti. Si potrebbero configurare come gli odierni assessori, o collaboratori e consiglieri del podestà o del sindaco. 13) Sotii - I soci degli ebrei. “1 ottobre 1299. In seguito al pagamento eseguito, con denari paparini ricavati dalla vendita della dogana, da Francuccio di Pietro Cinnelli, sindaco del comune di Corneto, a nome anche dei suddetti boni homines, Genectano di Abramo, Matasia di Leone e Vitale di Datilo, procuratore di Datilo suo padre, garantendo la ratifica anche di Salomone, di Datilo e di altri sotii ebrei, rilasciano quietanza di 250 fiorini d’oro, dovuti loro a saldo del mutuo di 400 lire di denari paparini, per il quale si erano professati debitori principali Fortunato banchiere, Lituardo di Giovanni Malbocti, Tommaso di Pietro di Bellafonte e Rollando di Crescenzio, come da istrumento del notaio Giovanni di Angelo di Amatore. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni da Monte Casoli podestà, Giovanni di Pietro di Niccolò, Pietro di Angelo di Giovanni, Gregorio di Pietro banditore, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not. ora scriba della camera del comune di Corneto”. “1 ottobre 1299. In seguito al pagamento eseguito da Francuccio di Pietro Cinnelli, sindaco del comune di Corneto, Vitale di Sabato e Goialo di Mosteto, garantendo la ratifica anche di Datilo di Consiglio e di altri sotii ebrei, rilasciano quietanza di 250 lire di denari paparini, dovute loro per mutuo di 400 lire, per il quale si erano professati debitori principali Benvenuto bottaio, Pellegrino giudice, Matteo di Bonifacio e Pietro di Salvo, come da istrumento del notaio Giovanni di Angelo di Amatore. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Gianni di Monte Casoli podestà, Pietro di Angelo di Giovanni, Giovanni di Pietro di Niccolò, Gregorio di Pietro banditore, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme pref. auct. not. ora scriba della camera del comune di Corneto”. “2 ottobre 1299. Benedetto de Valle ebreo rilascia al suddetto Francuccio sindaco di Corneto, pagante a nome anche dei sei suddetti boni homines, con denaro ricavato dalla vendita della dogana, quietanza di 30 lire di paparini dovutegli dal Comune per mutuo da lui concesso, come da istrumento del notaio Ranuccio del fu Rollando. In Corneto, nella camera del podestà, alla presenza di Tuzio di Angelo e Luca famulus 14) del podestà, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not. ora scriba della camera del comune di Corneto”. “4 ottobre 1299. In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro eseguito con denari ricavati dalla vendita della dogana dal Sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche di suddetti boni homines, Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza di 88 lire di denari paparini, dovutegli per mutuo di tale somma concesso al Comune, per il quale si erano professati debitori principali Rollando di Crescenzio e Pietro di Salvo, come da istrumento di debito del notaio Pietro del fu Tommaso e da istrumento di condanna del notaio Leonardo di Paolo Guidete. In Corneto, nella apotheca 15) di detto Francuccio, alla presenza di Provenzale di Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Gerardo, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not., ora scriba della camera del comune di Corneto”. “4 ottobre 1299. In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denari ricavati dalla vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei suddetti boni homines, Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli ad estinzione di un mutuo per tale somma concesso al Comune per il quale si erano professati debitori principali Nicola Marronis e maestro Accuncia di Pietro Scorticanis come da istrrumento di debito del notaio Leonardo di Paolo. In Corneto, nella apotheca di detto Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Gerardo, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urbis pref. auct. not. ora scriba della camera del comune di Corneto. “4 ottobre 1299 In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei suddetti boni homines, Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli per 14) Famulus - Servitore. mutuo di tale somma da lui concesso al Comune, per il quale si erano dichiarati debitori principali Paolo di Tommaso e Muzio di Corrado, come da istrumento di debito del notaio Pietro del fu Tommaso e da istrumento di condanna del notaio Leonardo di Paolo Guidete. In Corneto nella apotheca di detto Francuccio, alla presenza di Procenzale del fu Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Gerardo, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme, Urb. pref. auct. not., ora scriba della camera del comune di Corneto”. “4 ottobre 1299 In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei sei suddetti boni homines, Vitale di Daniele ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli per mutuo di tale somma concesso al Comune per il quale si erano professati debitori principali Lituardo di Rollando e Angelo Cerii come da istrumento di mutuo dei notai Paolo di Tommaso e Cristofano del fu Cristofano. In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu Gerardo di Provenzale, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urb. pref. auct. not., ora scriba della camera del comune di Corneto”. “4 ottobre 1299 In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome anche dei sei suddetti boni homines, Benedetto di Salomone ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro dovutigli per mutuo di tale somma concesso al Comune per il quale si erano professati debitori principali, presso di lui e presso Zacaria di Zacaria suo rappresentante, Francesco Cerruti e Iacopo fisico, come da istrumento del notaio Iacopo di Gianni Letie. In Corneto nella apotheca di detto Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme, Urb. pref. auct. not, ora scriba della camera del comune di Corneto”. “4 ottobre 1299 15) Apotheca - Bottega o magazzino. In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito dal sindaco di Corneto Francuccio a nome anche dei sei suddetti boni homines, Amore di Matasia e Salomone di Vitale ebrei rilasciano quietanza a saldo, l’uno di 50 fiorini d’oro dovutigli per mutuo di tale somma concesso al Comune, per il quale si era professato debitore principale Gianni Bussantis, come da istrumenti dei notai Mattia di Nicola e Giovanni di Angelo di Amatore. In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Rub. Pref. act. not. ora scriba della camera del comune di Corneto”. 4 ottobre 1299 In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito dal sindaco di Corneto Francuccio a nome anche dei sei suddetti boni homines, Amore di Matasia e Salomone di Vitale ebrei rilasciano quietanza a saldo, l’uno di 50 fiorini d’oro dovutigli per mutuo di tale somma concesso al Comune, per il quale si erano professati debitori principali Biagio di Perna e suo figlio; l’altro di 44 lire 16) e 1 soldo, dovutigli per mutuo da lui concesso al Comune, per il quale si era professato debitore principale Gianni Bussantis, come da istrumenti notai Mattia di Nicola e Giovanni di Angelo di Amatore. In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Provenzale del fu Gerardo, Conoscentulo di Guglielmo, Puccio di Bartolomeo di Provenzale, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Rub. Pref. act. not. ora scriba della camera del Comune di Corneto”. “8 ottobre 1299. In seguito al pagamento eseguito con denaro ricavato dalla vendita della dogana dal sindaco di Corneto Francuccio, a nome suo e dei suddetti boni homines, Zacaria del fu Zacaria ebreo, garantendo il consenso anche di Benedetto di Salomone, rilascia quietanza di 57 lire e mezza di denari paparini dovutigli per mutuo di tale somma concesso al comune di Corneto per il quale si erano professati debitori principali Ventura Bondimanni, Angeluccio fabbro e Angelo di Romano detto Amicaster, come da istrumento del notaio Leonardo di Paolo Guidete. In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Crescenzio di Accuncia, Bavoso del fu Guglielmo, Vitello di Rollando di Ranieri, testi. 16) Vedi nota n°9. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urb. pref. auct. not., ora scriba della camera del comune di Corneto”. “9 ottobre 1299. In seguito al pagamento di 29 fiorini d’oro, eseguito con denaro ricavato dalla vendita della dogana da Francuccio, sindaco di Corneto, a nome anche dei sei suddetti boni homines, Moscetto di Gaio ebreo rilascia quietanza a saldo di 50 fiorini d’oro, dovutigli per mutuo di tale somma concesso al Comune, per il quale si erano professati debitori principali Accettante di Griffulo e Secondiano di Stefano, come da istrumento del notaio Giovanni di Andrea. In Corneto, nella apotheca di Francuccio, alla presenza di Giovanni tubator 17) e Fazio di Gottifredo, testi. Rogito di Ranuccio del fu Rollando, alme Urb. pref. auct. not., ora scriba della camera del comune di Corneto”. Fra Cornetani ed Ebrei i rapporti difettarono di cordialità se i “prestatori” di denaro si videro costretti a ricorrere al Senato dell’Urbe perché venissero rispettati gli accordi intercorsi e stipulati fra le parti “pro bono pacis”. Accadde infatti che nel 1301, tali “Musetto ebreo e suoi soci” fecero ricorso contro Rollando di Cristofano sindaco e procuratore del Comune di Corneto per aver loro impedito di esportare del grano. Naturalmente il Comune venne condannato non solo a rifondere un mutuo di 600 fiorini d’oro, ma ricompensare pure i danni per aver ostacolato l’operazione commerciale. La sentenza, sempre registrata nella “Margarita Cornetana” è del seguente tenore: “11 aprile 1301. Alberigo del fu Matteo di Fortunato rilascia a Paolo di Giovanni Burdini, giudice sindaco e procuratore del comune di Corneto, come da istrumento di istituzione rogato e letto nel consiglio speciale e generale da Ranieri di Simeone notaio, quietanza di 600 fiorini d’oro dovutigli dal Comune per aver egli concesso un mutuo di tale somma a Lituardo di Rollando di Cristofano sindaco e procuratore del comune di Corneto come da istrumento di sindacato del notaio Angelo di Gentile, il quale sindaco versò parte di detti fiorini alla Camera dell’Urbe, in occasione di una diffida senatoriale per 1000 lire di 17) Tubator - Suonatore di tromba, probabilmente banditore. provisini contro il Comune, e parte impiegò pro recolligendis bestiis et vaccis 18) di Alberigo e di altri Cornetani trattenuti a Roma per mandato dei senatori, a causa di detta diffida, motivata dal fatto che il Comune aveva impedito a Musetto ebreo e ai suoi sotii di esportare da Corneto una certa quantità di grano. Alberigo rilascia altresì quietanza di 107 lire, 4 soldi e 4 denari, 19) somma riconosciuta spettagli da Giovanni tubator sindaco di Corneto, come da istrumento di Sindacato di Angelo di Gentile notaio, pro scripturis et expensis factis et pro recolligendo 20) detto bestiame sequestrato a lui ed altri Cornetani dai senatori di Roma, in occasione della suddetta diffida. In Corneto, nel palazzo comunale, presente il consiglio speciale e generale e Tancredi giudice, maestro Iacopo medico, Cezio, Lituardo di Rollando di Cristoforo, Angelo Cefi, Ranuccio di Rollando di Cristoforo notaio, Ranieri di Simeone, notaio, testi. Rogito di Egidio di Ranieri giudice di Corneto, auct. alme Urb. pref. not”. Intercorse poi fra le parti una tregua se nel 6 gennaio 1305 tale Salomone ebreo venne a vendere la dodicesima parte della dogana del sale, come si diceva nel contratto notarile del 1. ottobre 1299, offerta probabilmente come garanzia per un precedente prestito. “6 gennaio 1305. Fazio del fu Gottifredo dona a Paolo del fu Francesco, per i meriti di questi presso di lui, ogni diritto goduto sulla dodicesima parte della dogana del sale di Corneto, per la vendita già fattagliene da Salomone ebreo, come da istrumento di vendita del notaio Matteo di Nicola. In Corneto, nell’apotheca di Muzio di Corrado, presente Muzio, Rollando di Ildibrandino, maestro Egidio di Ranieri, maestro Pietro di Pietro di Niccolò e maestro Angelo di Simone, testi. Rogito di Fortunato del fu Bartolomeo da Corneto, auct. alme Urb. pref. not”. Ma nello stesso anno o alla fine dell’anno precedente, accadde un fatto di sangue e di estorsione in casa di Benedetto di Salomone il quale, forse troppo frettolosamente, aveva sporto denuncia contro alcuni cittadini cornetani, accusandoli della responsabilità di 18) Pro recolligendis bestiis et vaccis - al fine di riunire insieme le bestie e le vacche. Moneta medioevale d’argento del peso di circa gr. 1,50, posta da Carlo Magno a base della sua riforma monetaria. 12 denari costituivano un soldo e 20 soldi una lire. Per molti secoli venne coniato in Germania, in Francia, in Italia, ma la moneta non conservò a lungo la composizione metallica e il peso fissati in origine da Carlo Magno. 20) Pro scripturis et expensis factis et pro recolligendo - rimborso per le trascrizioni e le spese fatte come pure per riunire il bestiame sequestrato. 19) alcuni delitti. Ma o per mancanza di indizi sicuri o per minacce avute o per evitare maggiori conseguenze all’interno della propria casa e della propria famiglia, ritirò la querela e pagò i danni morali ai presunti responsabili. Non esistono documenti e testimonianze sufficienti a stabilire la verità di quel misfatto; ma fra i Cornetani e gli Ebrei non doveva correre buon sangue se non altro per l’usura ed il rigoroso rispetto delle convenzioni stipulate fra prestatori e debitori. Ecco il testo di quell’accadimento: “11 gennaio 1305” Benedetto di Salomone ebreo, il quale sua temeritate volens nocere communi et specialibus de Corneto, 21) aveva sporto denuncia presso i senatori di Roma contro il Comune e determinate persone di Corneto, vale a dire Gerrado di Guglielmo complice macellaio, Locio suo figlio, Giordano di Gianni di Giordano calzolaio, Pucio di Amicaste, Pucio di Paolo di Guidetta, accusandoli di furto di beni dalla sua casa, sita in contrada S. Clemente, confinante con le vie pubbliche per due lati, e con i beni di Benvenuto bottaio e Nicola di Leonardo vascellarius 22) per gli altri, nonché della morte di suo figlio Salomone, danni per il risarcimento dei quali avrebbe fatto richiesta presso la Curia del Campidoglio, o la Camera del capitano del Patrimonio o la Curia del camerario pontificio, di una forte somma di denaro, dichiara a Gianni di Gianni di Guido da Viterbo, podestà del popolo e del Comune di Corneto, di rinunciare a qualsiasi pretesa avesse avanzato per detto furto e per le violenze che aveva detto connesse con la morte di suo figlio, di ritirare le denunce sporte contro il Comune e di liberare a proprie spese i cornetani Angelo di Romano detto Amicaste, Nicola di Bartolomeo Celamelli detto Scapetla e Nardo di Giordano, già incorsi nella sentenza di bando ed ora da lui riconosciuti innocenti. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Rollando di Rollando giudice, Rollando di Crescenzio giudice, Ranuccio di Rollando notaio, Gianni di Bongianni, maestro Aiuto medico, Coccus, Simeone, maestro Accuncia di maestro Pietro cerusico, Barnabeo Cerruti et plures alii testes. Rogito di Iacopo di Gianni Lectie, alme Urb. pref. auct. not”. 23) 21) Sua temeritate volens nocere communi et specialibus de Corneto. - Intendeva fare del male, per sua sconsideratezza, al Comune e a particolari cittadini di Corneto. 22) Vascellarius - vasaio. 23) Et plures alii testes - e numerosi altri testimoni. In un atto del 1311, risulta che un tale Benedetto ebreo era proprietario di un terreno che confinava con altro terreno di tale Tartarino di Cozio, venditore al Comune, nella persona del sindaco Tuzalo di Angelo, di due terre site in Corneto. Ecco il testo: “21 ottobre 1311 Tartarino di Cozio vende al comune di Corneto, in persona del sindaco Tuzalo di Angelo, due terre site in Corneto, delle quali una confinante con le proprietà di Pandolfuccio da Tarquinia, di Cecco di Gottifredo, di Benedetto ebreo e di Oddone da Tarquinia, l’altra con le proprietà di Baldo da Tolfa Nuova, di Tommaso di Vincenzo e di Lucarello di Ceccolo Caprette, per il prezzo di 39 lire e 5 denari di paparini ed un tornese d’argento, somma interamente versatagli, in fiorini d’oro, da detto sindaco. In Corneto, nel palazzo del Comune, alla presenza di Pietro di Salvo, Ranieri di Ruggero e Rollando di Paolo, testi. Rogito di Niccolò di Martocio da Amelia, imp. auct. not. ed ora notaio della camera del comune di Corneto”. Verso la fine del XIV secolo, un tale Bernardone de Serris, alla testa di un esercito di Brettoni, orde feroci con le quali il cardinale Roberto dei conti di Ginevra aveva incominciato una guerra in Italia, su mandato di Gregorio XI, approdò alle nostre contrade. Spingendosi fino al nostro territorio e minacciando le popolazioni del Patrimonio di San Pietro, costrinse il papa Bonifacio IX alla difesa dello Stato Pontificio. Cosicchè dietro richiesta della popolazione cornetana, il Pontefice autorizza una convenzione fra il Comune di Corneto e gli Ebrei residenti nella nostra città, grazie alla quale quest’ultimi dovevano contribuire alle spese per la difesa della città e del territorio. Ecco il testo: “ 6 marzo 1397 Bonifacio IX, in seguito ad una supplica rivoltagli dalla popolazione cornetana, autorizza la convenzione prevista tra il comune di Corneto da una parte e Vitale, Deodato del fu Manuele di Deodato ed altri ebrei residenti in Corneto dall’altra, in base alla quale detti ebrei verseranno mensilmente al capitano e ai consoli di Corneto, per contribuire alle spese necessarie per la difesa del Comune da Bernardone de Serris e dai suoi seguaci bretoni, otto fiorini fino al ritorno di Bernardone all’obbedienza della Chiesa e, successivamente, quattro fiorini. In Roma, in S. Pietro. Copia di Paolo di Angelo di Cecco di Pandolfuccio da Corneto, alme Urb. auct. not. publ. et iudex ordin., 24) ora cancelliere e notaio delle rifomagioni del comune di Corneto, eseguita per mandato di Pietro di Giovanni Tardi gonfaloniere, Giovanni di Francesco e Antonio di Muzzalo consoli, Cello di maestro Gerardo, capitano dei Cinquecento”. Di questo avvenimento, troviamo conferma nelle “Croniche Cornetane” di Muzio Polidori il quale così registra nel suo manoscritto: << Li medesimi Brittoni, guidati da Bernardone Serra, continuavano nel far scorrerie et invasioni in quel di Corneto, et li Cornetani per meglio resistere alle spese della difesa, imposero agl’Hebrei che habitavano in Corneto un datio a raggione di otto fiorini per testa durante la guerra, et cessante a raggione di quattro fiorini per testa. Et il Papa con sua bolla registrata nei Privilegi conferma la sudetta impositione di gabella>>. Mentre un secolo dopo, lo stesso Camillo Falgari, detto Vallesio, nelle “Memorie Istoriche della città di Corneto” ritorna in argomento con maggiori dettagli. <<Ma l’anno seguente passato ad altra vita il Cardinale di Ginevra che nello scisma aveva preso il nome di Clemente VII, gli fu surrogato Pietro di Luna col nome di Benedetto XIII, uomo astutissimo, il quale abboccatosi col Re Martino d’Aragona, a Marsiglia, ed invitatolo ad Avignone, seppe sì bene impegnarlo per la sua parte che unitamente stabilirono d’opprimere Bonifazio al quale effetto doveva venire con l’armata a Civitavecchia, che lì sarebbe consegnata con lo sborzo di 12 mila fiorini da Giovanni di Vico e di lì sarebbe passato a Roma scortato dal Conte di Fondi che aveva intelligenza con alcuni Romani; per dar calore a questo disegno vennero in grosso numero i Bretoni condotti da Bernardo Serra nella campagna di Corneto minacciando d’assediarla; onde li cittadini si posero sollecitamente a raccorre soldati, e per supplire alle spese imposero con licenza del Pontefice un dazio d’otto fiorini a testa per Ebreo che dimorasse in città durando la guerra e quando questa cessasse quattro, ma non avendo per varie difficoltà insorte potuto venir sù l’armata in Italia, l’Antipapa, e ricusando Giovanni di Vico di consegnare ad altri, che all’istesso Benedetto la rocca di Civitavecchia, svanì questo disegno, e li bretoni doppo avere inferiti de danni al territorio, si ritirarono>>. 24) Alme Urb. auct. not. publ. et iudex ordin. Notaro pubblico dell’alma Roma e giudice ordinario. Il documento più lungo, che si trova nell’Archivio Storico Comunale, è registrato nel libro delle “Reformationes” ossia delle deliberazioni che il Comune prendeva a quei tempi. Siccome gli Ebrei, almeno si suppone, avrebbero minacciato di lasciare il nostro territorio per cui sarebbero venuti a mancare i prestatori di denaro che permettessero ai privati e alla comunità di contrarre mutui, purtroppo necessari per far fronte alle calamità naturali, alle invasioni militari e alle richieste del Senato Romano, il Comune di Corneto si vide costretto a richiamare qualche ebreo il quale, cognito di tutte le vicende del passato e più sopra riportate, accettasse di trasferire sè e la sua famiglia in Corneto a condizioni precise così come risultano dalla trascrizione della surriferita deliberazione. Siccome l”incipit” e la conclusione sono stati scritti in latino, il testo vero e proprio della convenzione si riporta com’è stato scritto, in volgare: <<Nel nome di Dio Amen. Nell’anno 1453 dalla nascita di Nostro Signore, Indizione prima; nel tempo del Santissimo in Cristo Padre e Signore Nicola, per divina provvidenza Papa V; nel giorno ventisei del mese di agosto. In presenza di me, Fazio notaio e vice cancelliere e degli infrascritti testimoni, espressamente a ciò chiamati, i Magnifici Signori; Signor Egidio Cerrino Dottore in Legge e Gonfaloniere, Pantaleone Paltoni e Angelo di Antonio Bartolomeo Truzi Consoli e Battista Villani Capitano dei Cinquecento del Comune, popolo e città di Corneto; con autorità, arbitrio e potestà loro concessa e attribuita dal Santissimo nostro Signore Papa con Suo Breve e col potere loro conferito dal Consiglio generale e speciale, come diffusamente si legge nel libro delle Riforme di detto Comune per mano di me Vice cancelliere suddetto, di condurre un giudeo con o senza la propria famiglia da qualunque luogo e dove più facilmente si potrà avere, al fine di farsi prestare e concedere denari ad interesse, come è ampiamente previsto nel medesimo breve ed autorizzazione; del quale breve il tenore è il seguente, vale a dire sul retro. Ai diletti figli Ufficiali al Consiglio e al Comune della nostra città di Corneto. Papa Nicola V. Diletti figli salute ed apostolica benedizione. In base a quanto riferitoci da molte persone degne di fede, specialmente dal nostro venerabile fratello Bartolomeo Vitelleschi vostro Vescovo che con insistenza e umilmente ha avanzato suppliche a vostro favore, apprendemmo la, diremmo quasi, incredibile vostra necessità, tanto in ogni tempo quanto presentemente, di messi e biade che ogni anno vi affligge, al punto che se non si procurano denari (altrui, forestieri) ottenuti anche ad usura, certamente ne seguiranno gravi danni ed un intollerabile pregiudizio. Dunque, al fine di porre il giusto rimedio a questa vostra necessità, con autorità apostolica, concediamo liberamente e impunemente il permesso di condurre presso di voi un giudeo, con o senza la propria famiglia, da qualunque luogo e dove più facilmente e comodamente si potrà avere, al fine di farsi prestare e concedere denaro a prestito per i cittadini e abitanti vostri ed anche altri che desiderino averlo, con le promesse, patti, benefici, convenzioni e con la opportuna garanzia; e questo permesso comandiamo che venga osservato da tutti e singoli ufficiali nostri e della Chiesa Romana, presenti e futuri, di qualunque stato, grado e preminenza, non ostanti diritti, disposizioni apostoliche, statuti, anche vostri e seppur confermati con apostolica autorità, e qualsivoglia altri che stabiliscano il contrario; anche riguardo a questi, stabiliamo in modo particolare secondo quanto premesso, pur essendo tali affari di quelli che meritano una menzione speciale che il loro concetto sia impresso parola per parola nell’animo dei presenti. Vogliamo ancora, che detto giudeo, del quale vogliamo sapere espressamente il nome e a quale famiglia appartenga, porti in evidenza il segno con il quale (gli Ebrei) vengono distinti dai cristiani e faccia tutto ciò che deve ed è tenuto a fare a norma delle disposizioni comunali. Dato in Roma a San Pietro, sotto il sigillo del Pescatore, nel giorno VIII giugno 1453 nell’anno settimo del nostro pontificato. Pietro di Luna>>. Per il bene generale di detto comune e delle sue persone, con autorità concessa dalla Sede apostolica e dal detto Consiglio, i medesimi Signori Ufficiali a nome di detto Comune da una parte, e Salomone di Angelo da Montefiascone ebreo, dall’altra, addivennero agli infrascritti capitoli, come nel presente istromento particolarmente ed in gergo volgare è contenuto; ed anche in virtù di attento esame ed incoraggiamento del Reverendissimo in Cristo Padre e Signore Nicola Albergati di Bologna, Rettore della Provincia del Patrimonio, nostro eccellente Signore, fattici con sue lettere il tenore delle quali, a garanzia di detto Salomone, più sotto viene riportato. 25) Et primo lu decto Salomone comanda et stipula per sè et sua famiglia, suoi garzoni et factori tucti et singuli capituli infrascripti che possano et vogliano prestare supra pegni che allora saranno portati ad impegnare ad rascione di bolognesi dui per ciaschun ducato d’oro per ciasche mese alli ceptadini et alli forestieri ad rascione de bolognesi tre per ducati d’oro per ciasche mese et da uno ducato in giù denaro uno per bolognese cioè per ciasche mese intendendosi dì per mese et mese per dì non obastante lege canonica et civile di Corneto et constitutione del patrimonio con questo inteso che se nesciuno errore o abaglio 25) Questa premessa alla “reformatio” e la conclusione dell’atto notarile sono scritte in latino; perciò, per facilitare il lettore, le abbiamo tradotte in italiano; mentre la parte centrale, scritta in gergo volgare, viene riportata nella sua integrità, perché facilmente decifrabile. ci fusse che sia tenuto lu decto Salomone at satisfactione del doppio dell’abaglio tollendo più ch’el debito senza altra pena di corte. Item che lu decto Salamone famiglia garzoni et factori possano et ad essi et ciaschuno d’essi sia lecito et quanto fusse de lor voluntà et non più altra prestare supra li pegni delli ceptadini di Corneto et habitatori d’essa ceptà et che ad esso Salamone et ad suoi factori et garzoni debiano observare tucti li pacti et conventioni da farsi a loro et suprastessero supra alcuna posessione che omne pacto et conventione che facesse vaglia senza alcuna exceptione di rascione o vero di facto ad senno del savio delli decti prestatori. Item che possano et a loro sia lecito de prestare grano et orzo a qualunque persona la domandasse et che del decto grano et orzo per essi giudei et ciaschuno di loro possano e digano recavare et adomandare la terza parte più, cioè sieno tenuti et obligati rendare et respondere et adomandare la terza parte più, cioè sieno tenuti et obligati rendare et respondere la terza parte più in nella exstate tunc proxima de venire et secondo li pacti et convectioni se farano infra essi. Item che de omne instrumento et scriptura publica overo private che facessero o facessero fare se intenda essere valido et valide et senza alcuna finctione o exceptione di pura et necta quantità fuor che nelli decti instrumenti et scripture se conterrà non obstanti statuti delle ceptà de Corneto reformationi o constitutioni del patrimonio o altre legi che in contrario dicessero et che si dia fede alli loro libri et bastardelli grandi e picculi come fossero carte pubbliche senza alcuna exceptione così di denari prestati come di credenze. Item dictus Ludovicus Salamonis famiglia garzoni et factori siano tenuti ad tenere et conservare li pegni che li serano impegnati per essi ceptadini et habitatori d’essa ceptà per spazio et termine di mesi XVIII et alli furistieri per termine d’uno anno et se in del dicto termine non si reschotessero li decti pegni per li patroni che li impegnassero o per altro in loro nome o che non si concordassero con essi giudei che esso termine passato o decorso di intenda essi pegni esser perduti delli quali li decti prestatori possano vendere et alienare et farne come di loro cose proprie senza alcuna exceptione nè restitutione di pegno impegnato che più valesse. Item che li decti iudei possano et vogliano trarre et mutare pegni da impegnarsi o da vendere o da impegnare fore di Corneto et dentro in Corneto di qualunque persona fussero ad loro arbitrio et voluntà in omne loco che piacesse portarli che piacesse portarli senza alcuna gabella o vero passagio o licentia di dì et di notti palesemente et ocultamente et similmente li furistieri che non habitassero in Corneto possano arrecare ed impegnare et cavare omne pegno che recassero ad impegnare alli detti prestatori senza alcuna consegnatione di gabella o licentia di gabellare non obstante alcuno statuto o altra cosa che facesse in contrario. Item che lu decto commune di Corneto et li offitiali d’esso comune per li tempi fussero sieno tenuti et debiano lu decto Salamone et famiglia predicta et li suoi beni defendere da ciascuna persona lor volessero molestare o vero derobare indebitamente nella ceptà di Corneto et li offitiali d’essa per li tempi fussero sieno tenuti et obligati essi giudei et lor pegni defendere da tucti et singoli officiali volenti loro per cascione delli decti capituli in alcuna cosa molestare o vero inquietare. Item che lu decto Salamone per sè et suoi garzoni et factori possano et sieno tenuti ad prestare nella ceptà di Corneto da mo et dal dì della stipulatione del presente capitolo et da poi a loro petitione et voluntà salvo non ce fusse cascione legitima che impedissero essi giudei li fussero manchati alcuno pacto delli capitoli supradecti o vero factoli alcuno rencrescimento per lu quale s’intentassero o deliberassero non sequire et mantenere lu decto prestito allora vogliono potere riscotare et recavare tutto quello havessero prestato con utile come è decto di sopra et più che lu decto Salamone sia tenuto et obligato in termine d’uno anno incomenziando a dì XXVI del presente mese sopradecto havere prestati ducati octo cento et più se più porrà ad sua voluntà. Item che tucti et singoli capitoli et pacti in infrascripti remangano et sieno tenuti et observati rari et fermi in suo robore et fermezza et che possano rescotare et fare reschotare tucte et singole cose duessero exsigere recepare et havere sopra le pignora o alla fede o per istrumento o scriptura publica et privata et per qualunque altro modo recepare duessero della qual cosa li sia administrata sumaria rascione senza alcuna exceptione et senza piato nè lite non obstante statuto et reformatione che in contrario facesse o dicesse. Item che tucti et singoli capitoli suprascripti et infrascripti se intenda et devianosi intendere puramente et senza alcuna exceptione dolo o ver fraude ma sulamente et puramente come facciono et sono scripti ad litteram senza alcuna interpretatione et alcuno dubio nascesse o vero nelli decti capituli supponesse che lu decto dubio si intenda in favore et utilità delli decti giudei et non il loro detrimento nè danno se debia interpretare et intendare et non altramente. Item che li decti Giudei possano mantenere et havere loco per loro sepulture et possano seppellire li loro corpi delli morti loro dove seppellire l’altri è stato et è consuetudine et in nello loro loco consueto et dire lu loro offitio alli loro morti come è stato consueto et che le loro sepolture non li sieno molestate nè facto recrescimento tanto di dì quanto che di notte et che li sia lecito bisognando comperare novo territorio per seppellire essi morti e che possano dire lor uffitii nella sinagoga et fare loro cerimonie come fano et dicono l’altri giudei. Item che lu decto Salamone sua famiglia garzoni et factori in ciascuna cosa occurrente delle predecte nella ceptà di Corneto debiano esser tractati tenuti et reputati come ceptadini d’essa ceptà di Corneto oltra li decti capitoli et ciascuno di loro così nelle questioni civili come criminali et etiam diu non sia facto contra li decti capitoli o infrascripti nè pozano nè debiano essi giudei esser constrecti ad prestanza alcuna in commune nè ad datio o pagamento sì ordinario come exordinario et sieno franchi et liberi da omne subsidio che occurresse per l’avvenire o bisogno del commune o vero che per li offitiali di sancta ecclesia fusse imposto et sieno essi giudei exempti di guardia sì di dì come che di notte et da omne altra angaria et per angaria et factioni del commune et da cavalcate et hoste. Item che per alcuno modo o cascione li decti denari o vero robbe delli decti prestatori non si debiano molestare nè sequestrare per nesciuna rephensaglia nè per nesciuna cascione debito o diveto malleficio ex ordinatione o danno dato per alcuno delli principali o famiglia o factori o vero garzoni del decto prestatore che contra d’essi supra d’essi per nesciuno modo o vero cascione nesciuno officiale nè altra persona possa nè debia directe vel indirecte adrestare et inquietare nè alcuna cosa pigliare pertinenti et spectanti ad essi prestatori et si li decti officiali overo alcuna altra persona de qualunque conditione se fusse li decti prestatori ed denari et robba fusser molestato che lu commune della ceptà di Corneto sia tenuto et obligato ad defendarlo da omne molestante persona. Item che se per nesciuna reprensaglia concessa o vero da concedarsi per alcuno tempore durante li decti capitoli non si intenda nè possa intendersi esser facta supra li denari o robbe delli decti iudei prestatori ma li decti denari et robbe se intendano esser franche et securi senza nulla conditione o vero che essi denari si possano recepare et restituire a quelle persone che l’hanno prestati nelli decti prestiti et similmente per nesciuno officiale non possano li decti denari et robbe per nesciuno modo se possano intersire o vero sequestrare ad petitione de nesciuna persona et se fussero intersiti o vero sequestrati lu decto intersimento et sequestramento non vaglia nè tenga nè intendasi come se non fusse facto. Item pui dice lu decto Salamone che li sia lecito ad sè et ad sua famiglia et garzoni et ad omne ceptadino et forestiero a chi prestassero loro denaro che li decti prestatori possano adomandare utile et capitale secondo pacti et conventioni che havaranno colli decti prestatori et sola tenuta rascione somaria secundum scripitutu di iudicio tanto d’utile quanto di capitale non obstante legi et costitutioni. Item che li decti denari prestati con pegno o senza pegno per lu decto Salamone garzoni o factori per lu tempo passato li sia lecito rescotere lu capitale e l’utile et si alcuna persona volesse pagare parte della quantità delli denari li quali havesse receputi in prestito che prima debia pagare lu merito in sino ad quel dì et lu resto mectarlo ad suo capitale non obstante lu tempo dichiarato di supra del tenere li decti pegni uno anno et mezzo ad ceptadini et alli furistieri uno anno et ad voluntà di quelle persone che volessero impegnare fussero et determinassero colli decti Iudei di diminuire et abreviare lu decto termine d’uno anno et mezzo come si permecte alli cornetani et alli foristieri uno anno che li sia lecito farlo et intendasi li decti pegni essere delli decti prestatori propri passato lu decto termine determinato infra loro secondo che apparirà nelli libri et scripture loro et questo capitolo si intenda quando lu decto Salamone non paresse el pegno esser sufficiente all’utile et al capitale. Item che li decti Iudei possano andare adtorno per Corneto la septimana santa excepto che da una campana all’altra, cioè lu iudeì sancto che incomenza ad non sonare la campana infino al sabato sancto che sona le campane salvo che per necessità non havessero licentia del confaloniere et compagni alla pena d’uno ducato et che li officiali sieno tenuti di fare et dare opera che non li sia facto dispiacere nè di dì nè di notte et nella pasqua epifania. Item che lu decto Salamone et sua famiglia li sia lecito et possano comperare in piaza et in omne altro loco di Corneto tucte cose necessarie alla vita naturale ad terza et poi sicome fanno l’altri ceptadini senza alcuna pena di statuto. Item che possa esso Salamone et sua famiglia mectare in Corneto per loro uso et necessità vino per omne tempo durante lu decto prestito senza pagamento di gabella o passo o entrata. Item che li decti capitoli pacti et conventioni suprascripti et infrascripti se intenda et vaglia per anni XV proximi futuri et finito lu decto tempo possano tollare et reschotare utile et capitale che occurressero nelli tempi impegnati infra tempo non obstante el tempo finito de capitoli. Item che al decto Salamone li sia lecito d’accattare et fare accattare denari pochi et assai da giudei cossì terrazzani come da foristieri et che li giudei che prestano denaro al predetto Salamone non caschino in nulla pena ma li sia lecito di tollare lo fora secondo li pacti et conventioni che seranno infra loro et sie li facta alli decti prestatori rascione somaria senza alcuno litigio. Item vole lu decto Salamone che possa recare et fare recare per sè o per altri tucte et singule suoi robbe et masseritie nella ceptà di Corneto vecchie et nove senza alcuno pagamento di gabella et consegnatione di pagamento d’esse cose et robbe et similmente li pozza trarre et reportare finito lu tempo. Item che lu decto Salamone o vero sua famiglia et garzoni o vero alcuni d’essi prestasse o prestare facesse sopra alcuno o vero alcuni pegni furati et furtivamente subtracti alcuna quantità di denaro che ad restitutione d’essi pegni non sieno tenuti sì primamente a loro non fusse satisfacto del capitale et dell’utile ma essi iudei sieno tenuti et debiano iurare nelle loro littere ebrayce secondo l’usato che tali pegni non sapivano essere facti. Item che lu decto Salamone et suoi figlioli maschi d’età di XIII anni et garzoni et factori sieno tenuti ad portare lu segno de come fanno l’altri giudei di Corneto excepto le donne femine che sieno tenute tanto ad portare li sercelli nelle orecchie et si fussero trovate senza segno antro in Corneto sicome si permecte solamente caschi in piena di soldi quaranta di denaro et non ultra. Item si addicesse lu decto Salamone et famiglia che andassero fore della ceptà di Corneto per loro facti o ad pie’ o ad cavallo et retornassero che in esso itinere et tornata advenga che fusser trovati senza segno non vogliono essere tenuti ad nulla pena et non possano essere accusati da nulla altra persona excepto dalli officiali dellu exordinario del potestà et si fussero trovati essi Salamone et famiglia alcune fiate col segno coperto advenga che lu portasse non vogliono essere tenuti ad pena. Item acciò che li prestiti sopra li pegni facti et da farse o vero denari prestati alla fede senza pegno o pegni prestati alli patroni loro li quali senza memoria nelli loro libri li quali promectano di rendare della qualcosa non se fa scriptura publica se non solamente per loro mano o vero garzoni o factori d’essi iudei et in nelli loro usati libri grandi et picculi nelli quali la memoria sie labile et non recordevole per la qual cosa possano lite et questione di legiero nasciare et venire per cascione di decto prestito alle qual cose obvenire et tollere schusare vogliono li decti iudei che al loro libri cossì grandi come picculi nelli quali se fanno et scrivano le dette memorie sia data piena fede et indubitata senza alcuna exceptione et ad essi lor libri si stia et credarsi come si fussero publiche scripture et sie li facta rascione somaria senza exceptione. Item che lu decto Salamone nè sua famiglia non possano essere costrecti per lu podestà nè per nullo ofitiale di Corneto contro loro voluntà ad prestare nesciuno locto nè alcuna massaritia non obstante nullo stactuto o altra cosa che in contrario facesse. Item che lu decto Salomone et famiglia predecta non sieno tenuti ad prestare nè fare rascione nè si possa recogliare pegno impegnato nè pagare denaro nè fare altra cosa in dì di sabato o in dì di festa loro oltra loro volontà et similmente non possano esser convenuti dì feriati et altri dì festivi comandati dalla ecclesia et statuti non obstante alcuno mandato o commissione facta per qualunque officiale di sancta ecclesia. Item che tucti li decti capitoli suprascripti se intendano et debiansi intendare cossì in favore et utilità et exemptione et cautela della sua famiglia del decto Salomone famigli garzoni et factori come per sè proprio modo et forma come di supra sonno scripti et apparischono. Item vole lu decto Salamone acciò che per nullo officiale oltra rascione per alcuno tempo indebitamente li sia facto che contro di lui o sua famiglia factori et garzoni non si possa procedere senza veri inditii omni exceptione maioris secondo ricerca la rascione et la forma delli statuti di Corneto. Item che alli decti prestatori li sia lecito di prestare supra ad omne pegno li fusse impegnato excepto che supra calici pianete et croci grandi di ecclesia et contrafacendo caschi in pena di X ducati alla camera del commune di Corneto. Item che non li sia lecito ad essi prestatori prestare supra li pegni darne oltre la loro voluntà. Item che decti giudei habitanti in Corneto et ciaschuno d’essi possano prestare sopra posessioni stabili et etiam dio sopra grano et orzo secondo po fare du decto Salamone senza nulla pena non si intenda per li decti capitoli aquistare dicono nè per dire alcuna loro immunità exemptione nè rascione nè consuetudine. I detti signori ufficiali promisero per sè e per i loro successori (di osservare) tutti i singoli capitoli e i patti soprascritti riguardo al detto Salamone, presente e legittimamente stipulante; e allo stesso modo il detto Salamone ebreo promise e convenne con i suddetti signori ufficiali e con me Fazio, vice-cancelliere presente e operante, di non fare nè dire nulla in contrario, entro il termine stabilito, per qualsiasi ragione nè eccezione, titolo o causa, sotto l’obbligo del detto Comune di farsi garante con i propri beni sotto la pena di cento ducati d’oro, qui promessa e solennemente stipulata, la quale venga comminata ed esatta per tante volte per quante volte si è agito contrariamente ai predetti capitoli, non appena ratificato il contratto; i restanti (testimoni) descritti nel presente istrumento generalmente e singolarmente, i detti signori e il predetto Salamone, riguardo ai predetti (capitoli) mi incaricarono di redigere pubblicamente l’atto. Fatto in Corneto nel palazzo dei suddetti gonfaloniere e consoli e del capitano dei cinquecento della suddetta città, alla presenza di Luca Neri, mercante, e Matteo Panzetta speziere, invitati quali testimoni di quanto predetto>>. In cronologia, si riportano altre notizie, sempre relative alla presenza degli Ebrei a Corneto, desunte dalle “Croniche Cornetane” di Muzio Polidori. <<Nel detto anno 1449, havendo i Cornetani supplicato il Papa per mezzo del loro Cancelliero, non so che per conto delle bandite de bovi et pescatori, et per conto d’haver licenza di ritener doi Hebrei per medici in Corneto, il Papa rescrive che ha notificato sopra di ciò la sua intentione a detto Cancelliero”. <<Nell’anno 1453, il Papa con suo breve concede facultà di condurre un’Hebreo con sua famiglia a imprestar moneta sopra pegni”. <<Nel detto anno 1493, per il sospetto del mal contaggioso che in Roma e Napoli faceva progressi, in Corneto si facevano esatte diligenze. Et perciò fu difficultato ricevere otto famiglie d’Hebrei sbarcate a questa spiaggia, che venivano di Spagna, di dove quel Re assieme con tutti gl’altri Hebrei et marrani, haveva discacciati. Alla fine, doppo più repulse furno ricevuti con diversi capitoli stabiliti nel Consiglio”. Mentre negli “Statuti della Città di Corneto” del 1457, al capitolo XCII si legge: <<Delle disposizioni circa gli Ebrei. Stabiliamo inoltre, imitando i sacri canoni, che tutti gli ebrei dell’uno e dell’altro sesso, e dall’età dieci anni, debbano portare un segno di panno rosso sulle loro vesti, che sia palese e non nascosto, cosicchè possa apertamente vedersi, sotto la pena per ogni volta di un ducato d’oro, senza alcuna riduzione, eccettuati quelli che riguardo a ciò ricevano l’esenzione od il privilegio da parte della comunità. Stabilendo altresì che i detti ebrei non possano uscire dalle loro abitazioni cominciando dall’ora terza del giovedì, e per tutto il venerdì santo, fino al suono della campana grande del Comune nel giorno di sabato santo, eccentuati tuttavia i medici in caso di necessità, i quali possano uscire, ed andare per Corneto, tuttavia con il permesso dei Magnifici Signori Priori”. Dopo tali documentazioni storiche, non si conoscono altri avvenimenti relativi alle comunità ebraiche nella nostra città. L’unico ebreo che ebbi modo di conoscere a Tarquinia nel corso della mia giovinezza, è stato il sor Ernesto Moscati, scomparso prima che si concludesse sinistramente l’ultimo conflitto mondiale. Riuscì ad evitare appunto la persecuzione e la diaspora messe in atto non appena i tedeschi iniziarono i rastrellamenti e le deportazioni dal nostro suolo verso i campi di sterminio. Egli era stato accolto in una curiosa comitiva di anziani, fatta di bontemponi e di scanzonati personaggi, che appena vedevano spuntare la figura minuta e un po' curva del sor Ernesto, esclamavano: “Ecco pinzo!” per via della sua barbetta pizzuta che portava ad onor del mento, come si diceva allora a giustificazione di un ambito ornamento. Era di una discrezione rarissima e di una tale signorilità che non faceva mai pesare la sua presenza in mezzo alla comitiva, nemmeno in occasione di qualche piccola merenda campestre o di qualche pappata più sostanziosa. Ascoltava quasi sempre e interveniva assai raramente. E lo ricordo oltre che per la sua figura caratteristica - allora la barba era appannaggio di pochi - soprattutto per la sua bella prole, due magnifiche ragazze che fecero spasimare d’amore il fior fiore della borghesia del mio paese. Bruno Blasi P.S. Sento il dovere di ringraziare il cardinale Sergio Guerri per aver provveduto alla trascrizione della “reformatio” da parte di un paleografo dell’Archivio Vaticano; e la signora Lidia Perotti dell’Archivio Storico del Comune per la sua cortese disponibilità. VITA ED OPERE DELL’ELETTRONICO GIOVANNI BATTISTA MARZI Introduzione Nei vari bollettini annuali che la SOCIETA’TARQUINIENSE DI ARTE E STORIA fa stampare e distribuire ai Soci, molte pagine sono state dedicate spesso a quei tarquiniesi che nei tanti campi dell’arte e della scienza hanno dato lustro alla nostra città, taluni addirittura all’Italia. Così, hanno trovato considerevole spazio i Cardinali di Santa Romana Chiesa GIOVANNI BATTISTA VITELLESCHI e ADRIANO CASTELLESCHI, la Santa LUCIA FILIPPINI, il poeta e scrittore VINCENZO CARDARELLI, il pittore PIETRO GHIGNONI, il musicista GIACOMO SETACCIOLI, il drammaturgo romanziere ed amministratore LUIGI DASTI, il poeta GIOVANNI BATTISTA MARINI (alias TittaMarini). Per completare il quadro dei “GRANDI” di casa nostra, voglio ricordare, nel Bollettino di questo straordinario 1989, GIOVANNI BATTISTA MARZI, uomo di scienza, alla cui feconda attività si debbono diverse geniali invenzioni ed applicazioni dell’elettrotecnica con particolare riguardo alle telecomunicazioni. Infatti, la prima centrale automatica telefonica del mondo, costruita sotto il Pontificato di papa LEONE XIII, è opera del nostro concittadino. Quella americana venne circa sei anni dopo. Nello spazio che il Dizionario Europeo Universale dedica a Giovanni Battista Marzi si legge così: “INVENTORE DEL TELEFONO AUTOMATICO CHE INSTALLO’ NELLA BIBLIOTECA VATICANA: PRECURSORE ANCHE NEL CAMPO DELLA RADIOFONIA”. Ci troviamo quindi di fronte ad una delle figure più interessanti e prestigiose della nostra città. Con il proprio ingegno e col proprio lavoro, spesso tra difficoltà, incomprensioni e gelosie di ogni genere, GIOVANNI BATTISTA MARZI seppe onorare, sulla via dell’umano progresso, non soltanto la terra che gli diede i natali ma anche e soprattutto l’ITALIA per la quale nutrì sempre un profondo amore. La PATRIA! Così era solito chiamarla. Un sentimento che, purtroppo, sta sciogliendosi nei cuori degli italiani come la neve sotto i raggi cocenti del sole. Ottimo conoscitore della lingua latina, dettò anche l’Epigrafe per una corona d’alloro offerta alla Salma del MILITE IGNOTO nella solenne tumulazione sotto l’ALTARE DELLA PATRIA il 3 novembre 1921: ITALIAE MASCULA VIRTUS ARCE ALPIBUS IMPOSITA DISIECIT SUPERBO TRIUMPHO FUNERA VERTIT ORBE PACATO CAPITOLIO QUIESCIT ET VIGILAT ROMAE MATRIS AD ARBITRIUM RESURRECTURA Il maschio valore italiano distrusse le fortificazioni erette sulle Alpi convertì la disfatta in superbo trionfo. Ridonata la PACE nel mondo sul Campidoglio riposa e veglia al centro della Madre Roma pronto a sorgere in armi. Giuseppe Santiloni Anno 1866 Giovanni Battista Marzi nacque a Corneto (oggi Tarquinia) nel 1860. Nella sua giovinezza seguì il corso degli studi classici, eccellendo per la versatilità nella coltura della lingua latina - che mai abbandonò durante la sua vita - fondendola con la sua meravigliosa attività industriale, tanto da ottenere l’ambito riconoscimento della Internazionale “ACADEMIA REGIA DISCIPLINARUM NEDERLANDICA EX LEGATO HOEUFETIANO” con il suo indimenticabile carme latino “ITALICO MILITI IGNOTO”, affermazione di profondo amore patrio, tanto che viene spontaneo chiedersi se le onde sonore del suo telefono e l’eco dolcissimo dei suoi carmi possano essere tratti dalla stessa fronte. Ultimati i suoi studi, anzichè seguire le orme paterne e dedicarsi all’agricoltura ed alla zootecnica assumendo la direzione della importante Azienda patrimoniale, si sentì fortemente attratto dalla elettromeccanica, dimostrando di avere per essa specialissime attitudini. Anno 1875 In qualità di aiuto fu assunto nel locale Ufficio Postale e Telegrafico, dove, in breve tempo, riuscì ad affermarsi quale valente telegrafista. Anno 1879 La chiamata di leva per il servizio militare obbligò il Marzi a trasferirsi nella Capitale, dove, riconosciuta la sua abilità quale telegrafista, fu immediatamente assegnato, sotto tale qualifica, al Comando della Divisione Militare di Roma che affidò al Marzi l’installazione del primo telefono venuto in Italia, collegando detto Comando, allora in Via del Burò, con il Castel Sant’Angelo. Anno 1881 Ultimato il servizio militare, a soli 23 anni, fu nominato Direttore ed Organizzatore della nascente Rete Telefonica Romana, e nello stesso tempo Segretario per l’Italia della “Societè Generale des Telephones”, creata per lo sfruttamento, in Europa, dei brevetti di Graham Bell. Anno 1884 Fare l’emarginato non era nelle aspirazioni del Marzi che, rinunciando ad un posto di lucroso e grande avvenire, incoraggiato dalle Autorità Militari tanto di Terra che di Mare, abbandonò definitivamente la direzione dei Telefoni Urbani ed installò un’officina per la costruzione di apparecchi di precisione, la quale gli dette modo di realizzare, insieme a forniture elettriche e meccaniche, le idee nuove che gli maturavano in capo, dedicandosi principalmente ad applicazioni d’indole militare. Iniziò tale sua nuova attività, impiantando per conto della locale Direzione del Genio Militare, una complessa rete telefonica tra tutte le Caserme, Fortificazioni ed Uffici Militari della Capitale. Anno 1885 Studiò e costruì i BERSAGLI ELETTRICI di geniale concezione, nei quali veniva utilizzata la forza viva del proiettile per generare la corrente elettrica necessaria alle segnalazioni, che venivano poi a loro volta riprodotti con massima esattezza su di un piccolo quadro situato presso il tiratore. La corazza del bersaglio, formata da diverse lastre di acciaio di spessore resistente all’urto della pallottola, produceva, una volta colpita, delle vibrazioni che, a mezzo di generatori elettromagnetici sensibilissimi, applicate dietro le sezioni della corazza, venivano trasformate in correnti indotte capaci di far funzionare le segnalazioni del quadro situato presso il tiratore, riproducendo in scala ridottissima tutte le sezioni del bersaglio. Il valore dell’apparecchio consisteva in un dispositivo del tutto speciale per mezzo del quale veniva soppressa completamente, al momento della inversione della polarità. la resistenza dovuta alla attrazione magnetica, sensibilissima in tutti gli apparecchi magnetici ed elettromagnetici. E’ per questa singolare disposizione che l’urto della pallottola in un punto qualunque della lastra, sia nel centro, sia nei contorni, diretto od indiretto, d’intensità più o meno considerevole, veniva fedelmente segnalato sul quadro riproduttore. Tali Bersagli furono sperimentati con successo nei Poligoni di Roma e di Torino, e poi usati per il tiro notturno nella prima gara nazionale di Tiro, inaugurata da S.M. Umberto I. Anno 1886 Dopo aver costruito vari tipi di Apparecchi Telefonici per installazioni private, il Marzi pensò di risolvere il problema della congiunzione telefonica automatica. Il quesito, nato con il prima affermarsi della trrasmissione elettrica della parola, aveva tentato la genialità americana, ma era stato abbandonato per l’eccessivo costo degli impianti e per la complessa ed incerta realizzazione tecnica del sistema. Il Marzi non si scoraggiò; le difficoltà di realizzazione erano per lui un incentivo, un persistente stimolo a superarle: e, dopo molti tentativi e non indifferenti spese, immaginò ed attuò una serie di originali dispositivi, creando in tal modo il primo CENTRALINO TELEFONICO AUTOMATICO che sia stato conosciuto ed applicato nel mondo. Avendo saputo che in Vaticano si progettava la creazione di una rete telefonica interna, fece il Marzi l’offerta di assumerne l’installazione. La proposta venne accettata, ed a titolo di prova gli affidava la congiunzione automatica dei vari servizi della Biblioteca. La piccola installazione venne inaugurata sul principio del 1866 e continuò a funzionare ininterrottamente per oltre tre anni, fino a che venne poi esteso l’uso dei centralini ordinari per le installazioni interne e per gli allacciamenti alle reti urbane. S.S. LEONE XIII fu così il primo Pontefice che abbia fatto uso del telefono automatico, avendo avuto più volte l’occasione di servirsene nelle sue frequenti visite alla Biblioteca. La “RIVISTA TELEFONI E TELEGRAFI” - Organo ufficiale del Ministero PP.TT. - Anno II, n.3 del maggio-giugno 1921 in un articolo del competentissimo Ing. Respighi dice testualmente: “Sembra interessante far conoscere ai nostri lettori che 35 anni fa, qualche primo, anzi primissimo passo, venne fatto in Italia, fin dai primordi della Telefonia, nel campo della Telefonia Automatica, e precisamente dall’Elettronico Giovanni Battista Marzi. Qualche tentativo e brevetto di Telefonia Automatica apparve bensì in America tre anni dopo che Graham Bell presentava al pubblico di Filadelfia un apparecchio telefonico; ma solo dopo molti anni, nel 1892, entrò in pratico funzionamento la prima Centrale Automatica nella città di Laporte (Indiana - Stati Uniti) costruita da una Società che porta il nome di “AUTOMATIC ELETRIC COMPANY” di Chicago. Un gruppo di due apparecchi, costituenti il sistema automatico “MARZI” venne cortesemente offerto dal Comm. Ing. Federico Mannucci, Foriere dei SS. Palazzi Apostolici, al Museo del nostro Istituto Superiore PP. e TT.; ed un altro campione si conserva nel Museo Postale e Telegrafico di Berlino. Benché si tratti di un sistema primordiale, pure si rivelano già in detti apparecchi, i primi germi che ebbero poi rapida applicazione nello sviluppo della Telefonia Automatica, come ad esempio il “TRASMETTITORE D’IMPULSI” ad eccentrico (came), analogo all’elica che serve per liberare le spazzole nel sistema “WESTERN”, ed il “SELETTORE” semplice a passi successivi circolari adottato nello “STROWGER” ed in altri sistemi automatici, nonché nel “Pantelegrafo Cerebotani”. Sono notevoli negli apparecchi del MARZI la precisione e la solidità costruttiva, accompagnate con la semplicità del sistema, che rende scarsissima la probabilità di guasti e la facilità di riparazioni. Come poi ed il perché il sistema automatico del MARZI, benchè attivato e provato da un lungo esperimento negli Uffici della Biblioteca Vaticana, non abbia avuto poi ulteriore incoraggiamento e più estese applicazioni, è spiegabile come per tante altre invenzioni, che sono bensì sorte nel nostro Paese, ma poi per una ragione o per l’altra sono rimaste arenate; differentemente da quanto avviene all’estero per ogni novità che offra il campo ad applicazioni industriali. Certamente a quei tempi, quando il servizio telefonico anche nelle grandi città era limitato a reti di poche centinaia di abbonati era ancora prematuro, e poteva, tutt’al più, costituire un lusso in genere di telefonia. Ma certamente il MARZI, che ha realizzato applicazioni nel campo telefonico ed elettromeccanico, avrebbe potuto dare, senza dubbio, in un ambiente e tempo favorevoli, un valido impulso anche alla telefonia, automatica”. In occasione della Esposizione Scientifica che ebbe luogo a Firenze nel 1929, il “POPOLO D’ITALIA” del 5 settembre detto anno scriveva: “Tutte glorie nostre, luminosamente nostre, fra le quali non vogliamo dimenticare una da pochissimi conosciuta, e che è venuta in luce, come tante altre, soltanto attraverso questa grande Esposizione: si tratta dell’Elettrotecnico GIOVANNI BATTISTA MARZI, inventore del “COMBINATORE AUTOMATICO CON SELETTORE” dal medesimo impiantato nella Biblioteca Vaticana fin dal 1886. Mirabile cimelio, quando si pensi che moltissime città d’Italia, non conoscono ancora, neppure oggi, a 43 anni di distanza, il Telefono Automatico, e quando si consideri che anche quelle che lo conoscono e lo posseggono soltanto da qualche anno! Miniera davvero senza fondo questa nostra virtù creatrice, sorgente inesausta di verità sempre nuove e sempre più alte per la rivendicatrice gloria della stirpe”. Francesco Savorgnan di Brazzà, che ha dedicato una sua pubblicazione “DA LEONARDO A MARCONI - ITALIA DIFENDI LE TUE GLORIE” alla storia della scienza sperimentale, mostrando in modo semplice e documentatissimo l’incomparabile contributo recato dagli italiani alla somma del sapere positivo, e che non esiste si può dire scoperta, invenzione, applicazione tecnica, nella quale non ricorra un nome italiano, illustre od oscuro, noto a tutti o dimenticato, sotto il titolo: “IL PRIMO CENTRALINO TELEFONICO AUTOMATICO” scrive: “Ponendo in ordine taluni di quegli scaffali della mia biblioteca, in cui accumulo i documenti che possono servirmi per la storia delle invenzioni nate in Italia, mi è capitata sottomano una vecchia cartella. Su di essa vi era l’indicazione “CENTRALINO TELEFONICO AUTOMATICO” - sistema GIOVANNI BATTISTA MARZI”. L’ho riaperta con quella curiosità, velata di leggera malinconia, che spesso accompagna l’improvvisa rievocazione di persone e di fatti da anni dimenticati. Eppure, riandando ai miei ricordi, tra la folla degli inventori che ho conosciuto nella mia ormai lunga carriera di volgarizzatore scientifico, Egli resta tra le figure più caratteristiche”. Dopo aver accennato alle varie invenzioni del MARZI, così conclude: “Invenzioni queste ormai battezzate con nome straniero, come pure ad oltre Oceano è attribuito il merito di aver creato il primo Centralino Automatico”. L’Ing. Marco Busca, che nel 1937 dette alla stampa l’importantissimo e più completo volume sui “Moderni sistemi di Telefonia Automatica” così si esprime: “L’invenzione della Telefonia Automatica, intendendo con ciò quel sistema di commutazione mercè il quale un utente qualsiasi dell’impianto può mettersi in comunicazione, in pochi secondi, con un altro utente collegato all’impianto stesso manovrando uno speciale dispositivo automatico meccanico, senza l’intervento di alcun intermediario, (telefonista), trovò, come provano documentazioni inconfutabili, i primi cultori in Italia, allo stesso modo come si deve alla genialità di un altro italiano, il MEUCCI, la priorità sull’invenzione dell’apparecchio telefonico vero e proprio. Risulta infatti da documenti esistenti negli Archivi Vaticani che, sotto il Pontificato di LEONE XIII, e precisamente, nel 1886, un valente elettrotecnico italiano, GIOVANNI BATTISTA MARZI costruì e tenne in funzione per ben tre anni un ingegnoso “COMMUTATORE TELEFONICO AUTOMATICO” i cui principi fondamentali sono affini a quelli applicati nei sistemi attualmente in uso. Il MARZI infatti aveva pensato e costruito i due “organi basilari”: il “TRASMETTITORE D’IMPULSI” ed il “SELETTORE”. Nella ricorrenza del cinquantenario della invenzione del Centralino Telefonico Automatico, la Rivista Settimanale di divulgazione scientifica “SAPERE” n. 47 del 15 dicembre 1946, sotto il titolo “L’ITALIANO G.B.MARZI PRIMO INVENTORE DEL TELEFONO AUTOMATICO” rivendica all’Italia, in nome del MARZI la priorità di tale invenzione, e così conclude: “Noi dobbiamo anche qui amaramente riconoscere, che fu davvero un gran torto lasciare inaridire un così promettente germoglio quale era l’invenzione del “Telefono Automatico” il cui tempestivo perfezionamento avrebbe potuto assicurare all’Italia un cospicuo primato in quella che si è poi rivelata una delle più importanti innovazioni della moderna tecnica telefonica. Ad ogni modo rimane un fatto indiscusso che il “Sistema di Telefonia Automatica” ideato e realizzato in Roma dall’italiano G.B. MARZI nell’anno 1886, e cioè diversi anni prima dell’americano Strowger, costituisce il primo apprezzabile contributo che genialità di tecnici abbia dato nel mondo alla invenzione del Telefono Automatico”. Il nome di GIOVANNI BATTISTA MARZI ricorre per tale invenzione ben due volte sulla Enciclopedia Treccani; a pag. 408 Vol. XXXIII ed a pag. 469 Vol. XXII nonché in altre Enciclopedie e Testi scolastici. Anno 1887 - 1888 La guerra Ispano - Americana, tagliando corto a qualsiasi disputa accademica, con la logica dei fatti mise in evidenza i vantaggi incomparabili del Tiro Indiretto nella difesa delle coste. Le batterie invisibili della flotta nemica, poiché riparate dietro l’ostacolo naturale dei monti, baluardo indistruttibile, avrebbero potuto colpire il bersaglio senza tema di venire smantellate. Al MARZI, leggendo le relazioni delle azioni marittime della guerra IspanoAmericana, che in quell’epoca si combatteva, apparve evidente la superiorità delle Artiglierie Navali in confronto di quelle costiere, esposte all’offesa perché montate a Tiro Diretto, ed insufficienti alla difesa perché sprovviste di buoni strumenti di rilievo, come lo dimostrò l’incertezza del tiro. Indiscutibili quindi i vantaggi strategici ed economici che si sarebbero realizzati con batterie a Tiro Indiretto, potentemente difese dalla natura, alle quali non necessitavano opere artificiali di fortificazione, rappresentanti per il Tiro Diretto la maggiore spesa. Però tali batterie, per il fatto che eran coperte alla vista del mare, non avrebbero potuto eseguire direttamente il tiro su bersagli che non vedevano. Era quindi necessario in primo luogo rilevare la posizioni delle navi nemiche da un altro punto da cui era possibile scorgere la superficie del mare contro cui si doveva operare; era poi indispensabile poter trasmettere immediatamente, continuamente ed infallantemente alla batteria le indicazioni necessarie per puntare i pezzi. Tale problema fu risolto nel modo più brillante completo e sicuro dal TELEGONIOMETRO MARZI, come ne fanno fede irrefutabili testimonianze ufficiali dei Ministeri Italiani della Guerra e della Marina. Se le coste di Cuba fossero state convenientemente armate a Tiro Indiretto, la flotta Americana, più che decimata, avrebbe abbandonata la disastrosa impresa. Se di simile armamento fossero state provviste le estese e popolose coste NordAmericane; città capitali fiorentissime non sarebbero state continuamente esposte al panico di un improvviso apparire dalla leggendaria flotta fantasma Iberica. La Marina Italiana ed il suo Ministro di allora, il non mai abbastanza compianto Benedetto Brin, compresero l’importanza del “TELEGONIOMETRO MARZI” e ne vollero dotato il punto strategico per eccellenza della nostra difesa marittima: l’Arcipelago della Maddalena. Il principio sul quale si basa il “TELEGONIOMETRO ELETTRICO A BASE ORIZZONTALE” sistema MARZI per il tiro indiretto con obici, nelle batterie da costa, consiste nel riprodurre a distanza, in piccolissime proporzioni, l’angolo formato dalle linee di visuale di due cannocchiali piazzati lungo una spiaggia a qualche chilometro di distanza fra loro e puntati ambedue contro uno stesso bersaglio. Quindi il sistema è basato principalmente sulla riproduzione a distanza di tutti i più piccoli movimenti di un telescopio in ogni direzione ed a tutte le velocità. La caratteristica speciale del sistema “MARZI” è che ottiene il rovesciamento di marcia degli indici delle macchine riproduttrici senza il rovescimento di rotazione degli ingranaggi e senza avere alcun attrito da vincere. In tale maniera non accade mai che l’indice dell’apparecchio riproduttore continui a marciare in un senso determinato, mentre il telescopio abbia nel frattempo cambiato direzione, come si verifica molto spesso in altri sistemi: p. es. nel “Distanziometro Siemens” e nel “Telemetrografo de Tromelin”. L’intersezione degli indici rappresenta il punto dove si trova la nave da colpire, contro la quale sono diretti i telescopi dei due osservatori. Si possono in tal modo seguire gli spostamenti della nave e tracciare la rotta. Due contatori di giri, situati sulla piattaforma, indicano in ogni istante la posizione della nave in metri per la distanza ed in gradi e ventesimi di grado per la direzione. Inoltre vi è un dispositivo, particolare importantissimo, che serve a calcolare meccanicamente la posizione in cui si troverà la nave in un tempo prestabilito, onde poter fare il tiro preparato, colpire cioè nel punto in cui si troverà la nave dopo trascorso il tempo che impiega il projetta nella sua trajettoria. La praticità ed ingegnosità del sistema, la celerità con cui venivano trasmessi i dati di punteria, l’inutilità delle tabelle di spostamento fino allora usate, la precisione del tiro sui bersagli fissi e mobili, indussero il Comando Marittimo della Maddalena a dichiarare in un suo rapporto conclusivo (foglio n. 140 del 28.4.1890, a firma Contr’Ammiraglio F. Labrano): “Il TELEGONIOMETRO MARZI risulta il più perfetto tra i Telegoniometri esistenti”. Da sua parte il Ministero della Guerra - Direzione Generale di Artiglieria foglio n. 14001 del 15.09.1890) così si esprimeva: “Il Telegoniometro Marzi è uno strumento di pratico uso, che risponde completamente a tutte le esigenze”. Il Presidente del Comitato di Artiglieria e Genio, Ten. Gene. Mattei ne comprese talmente la grande importanza, che volle dal MARZI l’impegno scritto di non vendere, nè comunicare a Governi Esteri l’invenzione fino a che il Governo Italiano non avesse preso la decisione di tenerlo esclusivamente a sè riservato. Anno 1890 L’illuminazione elettrica, che allora cominciava ad imporsi nelle pubbliche vie e piazze ed anche presso i privati, non lasciò insensibile lo spirito d’iniziativa del MARZI, che, nella convinzione di compiere un atto utile alla cittadinanza romana, sollevandola dall’oneroso balzello monopolistico impostole dalla allora Società Anglo-Romana del Gas, unica concessionaria della illuminazione della Capitale, riuscì ad ottenere dal Sindaco S.E. l’On. Gaetani, Duca di Sermoneta, il nulla osta per l’installazione di una centrale elettrica ad accomulatori, vincendo i preconcetti radicati nella mente dei vari Assessori, e dissipando i pregiudizi di coloro che asserivano la inattaccabilità della sunnominata Società Anglo - Romana del Gas. Infatti, iniziata la distribuzione della illuminazione ad una vasta zona di Roma con batterie di accomulatori di grande capacità dal medesimo MARZI ideate e costruite; dalla stazione centrale di erogazione, sita in Piazza Grazioli, nei grandi locali terreni del Palazzo Doria, riuscì alla concorrente Società- Anglo - Romana a fare fortemente ridurre le tariffe vigenti, dimostrando in tale circostanza una audacia, un coraggio ed una fede, che ad altri, non della tempra del MARZI, sarebbero mancate. Il suo motto fu sempre: “AGLI AUDACI SORRIDE LA FORTUNA”. Anni 1893 - 1905 Questi anni passarono senza che il MARZI, pur continuando l’esercizio della sua industria, producesse alcunchè di particolare. Anno 1905 Avendo appreso che la Marina Militare stava divenendo tributaria dell’Estero per l’installazione a bordo delle RR Navi di Telefoni Altosonanti per trasmissioni di ordini, di dati di punteria per le artiglierie ed anche per le normali comunicazioni interne tra i vari servizi di bordo, difficilmente percettibili con i normali telefoni auricolari, dati i molteplici rumori che si riscontrano a bordo delle navi stesse, volle rendersi personalmente conto della reale efficienza di detti apparecchi. Constatò di conseguenza che i tipi di telefoni, cosiddetti “altoparlanti” fornite in scala molto ridotta dalle Società straniere “MIX & GENEST” - “SIEMENS e Lorenz”, nonchè della ditta Inglese “GRAHAM” ad alcune unità della nostra R. Marina, erano inadeguati al servizio cui erano adibiti. L’audizione di tali telefoni fu per il MARZI una vera disillusione. Tutto consisteva nel non dover tenere pressato contro l’orecchio il ricevitore telefonico, poichè la voce, leggermente semplificata, poteva udirsi nei momenti di relativa calma, a meno di un metro di distanza dall’apparecchio. Il voler insistere sui normali tipi di telefono allora in uso, aumentandone le proporzioni allo scopo di poter ottenere risultati più che soddisfacenti, fu dal MARZI considerato un errore in partenza; poichè l’aumento nel ricevitore della potenza dell’elettromagnete generatore del campo variabile, portava di conseguenza un aumento sia del diametro, sia dello spessore della membrana vibrante di ferro, a scapito della sensibilità della medesima, che, se mantenuta nello spessore più sottile, sarebbe stata dalla maggiore forza di attrazione inchiodata alle espansioni polari dell’elettromagnete. Era quindi necessario abbandonare la forma classica del Telefono “BELL”, ed ottenere l’altisonanza e l’amplificazione dei suoni con mezzi meccanici. E’ su questa base che il MARZI concentrò la sua attenzione. Il diaframma del grammofono dette al MARZI lo spunto della sua nuova invenzione; provocare cioè in un diaframma elettricamente quelle vibrazioni, che nei grammofoni. Il problema impostosi, fu dal MARZI genialmente risolto; e l’apparecchio, immediatamente costruito, dette risultati sorprendenti, superiori ad ogni aspettativa. Con il “TELEFONO ALTOSONANTE MARZI” si potè ottenere una potenza di ricezione talmente considerevole , da poter percepire voci e suoni a a distanze mai raggiunte, oltre i cento metri! Il limite di potenza era solo imposto dal trasmettitore, che, come tutti i microfoni a base di polvere e granuli di carbone, non permettevano passaggi di corrente superiori a 0,4/0,5 ampères senza surriscaldarsi e bruciare. ---------------------La completa indipendenza della membrana vibrante dal dispositivo elettrico, ha permessso al TELEFONO ALTOSONANTE MARZI di raggiungere amplificazioni assolutamente impossibili a realizzarsi con altri tipi di telefoni. Una estremità, curvata ad angolo, di un’asticella di ferro dolce, è fissata, come nel diaframma dei grammofoni, ad una membrana vibrante. Detta membrana può essere costituita da una qualsiasi materia rigida e capace di vibrare: ceramica, legno metallo, vetro ecc. A circa un terzo della sua lunghezza detta asticella è pilotata tra due punte di acciaio ed influenzata da un polo di una calamita permanente. L’altra estremità invece è libera di oscillare tra due nuclei, anche essi di ferro dolce, collegati tra di loro da un supportino dello stesso materiale, a sua volta influenzato dall’altro polo della calamita permanente. Su detti nuclei sono avvolte due piccole bobine unite tra di loro in serie ed attraversate dalla corrente di linea, proveniente da un secondario di un trasformatore, che cambia continuamente a seconda del senso della corrente stessa. In tal modo alle estremità opposte di detti nuclei si formano polarità di nome contrario; cosicchè il magnetismo dell’una sarà rinforzato quando quello dell’altra si indebolirà. L’asticella in tal modo sollecitata si uniformerà alle variazioni del senso della corrente provocando delle oscillazioni, che trasmesse alla membrana, verranno ancora maggiormente amplificate dalla differenza del braccio di leva risultante dal punto di pivotaggio dell’asticella stessa. -----------------------La nuova intenzione del MARZI apriva alla telefonia un nuovo vasto campo di sfruttamento: non solo per le applicazioni di indole militare, ma anche per tutte le altre molteplici applicazioni cui si sarebbe prestata nella vita civile. Il Telefono Altosonante “MARZI” destò il più vivo interessamento non solo nella nostra R. Marina, ma anche in molte altre Marine Estere ed in varie Società di Navigazione. E’ interessante quanto la “RASSEGNA UNIVERSALE” Organo ufficiale della Esposizione di Marina ed Igiene, tenuta a Genova nell’anno 1914, pubblicava: “Tre anni or sono nella circostanza dell’abituale suo passaggio per Venezia, S.M. l’Imperatore di Germania, dalla coperta del suo Yacht “Hoenzollern” ascoltò, senza perdere una parola nè una cifra, una serie di ordini di artiglieria, che si trasmettevano con un TELEFONO ALTOSONANTE MARZI ad oltre un centinaio di metri di distanza dall’opposta poppa dell’incrociatore “Hamburg”, quantunque spirasse un forte vento boreale, che tagliava normalmente la trajettoria della voce”. “S.M. lo Zar, venuto a conoscenza della meraviglia che avevano destato nella Marina Russa alcuni “TELEFONI ALTOSONANTI MARZI” installati dall’inventore sulla Nave Scuola “Pietro il Grande” a Reval, volle ascoltarli; e quell’incrociatore si recò, dietro l’augusto desiderio ed ordine, sulle coste della Finlandia, dove allora festeggiava la Famiglia Imperiale a bordo del suo Yacht”. “Al primo Concorso Ippico che ebbe luogo a Roma nel 1908 a Tor di Quinto tra gli Ufficiali di Cavalleria di varie Nazioni, i TELEFONI ALTOSONANTI MARZI, distribuiti tra la tribuna centrale del Comitato Direttivo, quelli laterali del pesage, e gli spazi occupati dal pubblico; oltreché servire per la direzione del Concorso, tenevano permanentemente al corrente delle fasi e degli incidenti del cimento”. “Ricorderemo poi a titolo di curiosità l’impiego fatto dei TELEFONI ALTOSONANTI MARZI nelle elezioni Amministrative di Roma. Alcuni di questi Telefoni, piazzati sul Corso Umberto I e precisamente dinanzi al noto Caffè Aragno, in Piazza San Silvestro dove è il palazzo delle Poste, nella frequentatissima Via delle Convertite, ed in quella adiacente di S. Claudio; comunicavano direttamente al pubblico le notizie dello svolgersi delle elezioni, che venivano trasmesse dagli uffici del giornale “La Vita”. “Nell’occasione poi dell’arrivo a Parigi del Principe Scipione Borghese, vincitore del raid Pechino - Parigi con l’Italia, raid indetto dal giornale “Le Matin”, ebbe luogo al giardino della “Tueleries”, a lato di Piazza della Concordia, una festa notturna con projezioni fisse di fotografie raccolte durante il raid. Telefoni altosonanti MARZI, a gran voce, riproducevano al pubblico brani di prosa del noto letterato Le ROUX inneggianti agli arditi viaggiatori”. ------------------------Installazioni importantissime di oltre 200 apparecchi, complete di centrali telefoniche, quadri di commutazione per il comando delle artiglierie e per i servizi interni, furono eseguite dal MARZI sulle seguenti RR Navi della nostra Marina Militare: “SARDEGNA” - “BENEDETTO BRIN” - “PISA” - “AMALFI” - “SAN GIORGIO” “SAN MARCO” - “DANTE ALIGHIERI” - “ROMA” - “CONTE DI CAVOUR” - “GIULIO CESARE” - “LEONARDO DA VINCI” - “DUILIO” - “ANDREA DORIA” - “NINO BIXIO” “MARSALA” - “QUARTO”. In queste ultime tre navi del tipo “Esploratori” installò pure un suo speciale tipo di TELEGRAFI ELETTRICI di MACCHINA, che si dimostrarono efficacissimi per la celerità di trasmissione degli ordini. Su navi di minore tonnellaggio, su piroscafi di varie Società di Navigazione e delle Ferrovie dello Stato, furono eseguite installazioni ridotti ai Comandi del Ponte di Comando in macchina ed a poppa per le manovre di ormeggio e disormeggio. Il MARZI, emancipata in tal modo la Marina Militare Italiana dall’importazione estera di sedicenti telefoni altosonanti, decise di voler conquistare altri allori nell’agone internazionale delle industrie, e dimostrare che l’Italia sa bastare a sè stessa per la concezione e produzione di nuovi trovati, s’impose la soluzione di un problema allora assillante; cioè la ricerca di un Trasmettitore per la Radiotelefonia, che modulasse, senza riscaldare, forti intensità di corrente. Anno 1913 Come il MARZI riuscì ad ottenere ciò che tanto altri eminenti tecnici inutilmente cercarono di raggiungere? Ossessionato dall’idea di risolvere il problema della trasmissioni telefoniche a distanza, fermò un giorno la sua attenzione sul classico orologio a sabbia; la clessidra, nel quale la sabbia, precipitando in misura uniforme di quantità e di tempo, marca l’ora che fugge. Così sbocciò l’idea semplice, che portò alla creazione di un apparecchio più semplice ancora. Il grande ostacolo che allora incontrava la radiotelefonia per entrare nel campo pratico e sostituirsi con vantaggio alla radiotelegrafia, era la mancanza di un microfono capace di sopportare correnti di una certa intensità. Gli ordinari microfoni, apparecchi delicatissimi, incapaci di sottostare a forti correnti, si dimostravano inadatti nelle trasmissioni radiotelefoniche, dove il superamento delle distanze era in proporzione diretta della corrente lanciata sull’antenna. Dato quindi l’ostracismo ai microfoni a carbone, si ricorse ai microfoni idraulici, e fra tutti risultò il migliore quello ideato dal prof. Majorana, che dette adito alle migliori speranze; ma si dimostrò in pratica inammissibile per la sua estrema delicatezza e per le specialissime condizioni ambientali in cui doveva funzionare. Il microfono Majorana apparteneva alla categoria dei microfoni idraulici o più propriamente idrodinamici. In essi l’acqua, resa conduttrice per la presenza di un acido o di un sale, si rinnova continuamente, in modo che anche la quantità di calore prodotto in ogni istante dal passaggio della corrente viene quasi eliminata. Detto microfono è basato sul principio che se una vena liquida fluisce verticalmente da una stretta apertura praticata in un tubo adduttore, essa scorre in forma cilindrica per un buon tratto e poi comincia a contrarsi e successivamente a rompersi in goccie. Il tubo adduttore, costruito in materiale assai rigido ha su di un piccolo tratto la parete molto sottile ed elastica. Detto tratto è connesso ad una membrana vibrante, che, sotto l’azione della parola o di altri suoni, fa oscillare il valore della pressione istantanea del liquido sulla bocca d’efflusso. Il getto subisce allora delle contrazioni che si ingrandiscono con l’aumentare della bocca d’efflusso; in modo che due conduttori, su cui il getto stesso si fa battere, sono congiunti da masse liquide variabili ad ogni istante, in dipendenza delle vibrazioni trasmesse per mezzo della membrana. Dato che il liquido del getto è conduttore (acqua acidulata o salata, mercurio ecc. ecc.) è facilmente comprensibile che la resistenza elettrica interposta tra i conduttori sopra nominati è variabile. E’ ovvio dimostrare come un simile microfono, pur ottenendo risultati incoraggianti, data la sua natura estremamente delicata, non potè essere considerato un apparecchio di pratico uso, ma solo un apprezzabile apparecchio da laboratorio di sensibilissima e difficile regolazione. Successivamente il prof. Vanni tentò di rialzare le sorti del microfono Majorana apportandovi alcune modifiche, ma sorte non dissimile lo attendeva. Fu allora che l’elettronico G.B. MARZI, con un sistema geniale ed originale, riuscì a risolvere il problema. L’originalità del sistema fu tale, che potè ottenere il brevetto tedesco in vero tempo di “record” cioè nel termine di circa un mese! Ammesso che la combustione del carbone disgregato sotto il passaggio di forti correnti non avveniva istantaneamente ma gradatamente, il MARZI si propose di non far permanere nell’alveolo microfonico il carbone disgregato oltre la metà del tempo richierso per produrne la combustione stessa; cioè espellerlo automaticamente per virtù delle stesse vibrazioni della voce. Siccome tali vibrazioni in origine erano troppo deboli per ottenere risultati efficienti, il MARZI si servì quale “relai amplificatore” del suo Telefono Altosonante, utilizzando le forti vibrazioni della membrana per modificare la distanza tra due carboni cilindrici messi tra di loro ad “ugnatura”, di cui: il verticale forato per il passaggio dei granuli di carbone, e l’orizzontale raccordato al centro della membrana vibrante del telefono altosonante, funzionante da relai. Ambedue i carboni sono a loro volta collegati ai capi di un circuito oscillatorio. I granuli di carbone, discendendo attraverso il carbone verticale forato, vengono dall’altro carbone orizzontale più o meno compressi, modificando la resistenza della corrente ed ottenendo le variazioni nel circuito oscillatorio prodotte dal microfono trasmittente. Questo lavoro, essenzialmente meccanico, permette la caduta dei granuli di carbone prima di essere soggetti a riscaldamento. Con tale sistema fu possibile lanciare forti correnti sull’antenna ed aumentare sempre l’intensità con la messa in parallelo di più relais, azionati da un solo normale microfono. Per realizzare questa sua invenzione il MARZI fu anche questa volta costretto a recarsi all’estero, poichè le prime esperienze eseguite in Italia, nell’Arsenale di La Spezia, con risultati soddisfacenti, anzichè rendergli quel guiderdone morale e materiale sperato, gli fruttarono disinganni ed amarezze! Il MARZI quindi, convinto delle impossibilità di dimostrare in Italia la superiorità del suo sistema in confronto di quelli da altri tentati e non realizzati, insofferente del bavaglio che le Autorità avevano applicato alla piccola stazione trasmittente installata nel suo stabilimento in Cornigliano Ligure, decise di accettare l’invito del Direttore della “Ecole pratique de Telegraphie sans fil”, Goldchimdt situata nella Villa Reale di Laeken - les - Bruxelles, il quale, avuto sentore dell’ostruzionismo e delle difficoltà che il MARZI incontrava in patria, gli metteva a disposizione, con alto senso di mecenatismo, oltre i suoi laboratori, i tecnici ai medesimi addetti. Anno 1914 La piccola stazione trasmittente fu subito installata ed immediatamente si iniziarono saltuarie trasmissioni di sondaggio. Gli innumerevoli ammiratori di Telegrafia senza fili del Belgio erano da tempo sorpresi curiosamente nel sentire nei loro apparecchi riceventi, oltre il monotono ticchettio della Tour d’Eiffel, che trasmetteva il bollettino meteorologico, il crepitio della stazione di Boulogne e di Nieuport, nonchè il sonoro appello delle navi costiere; parole, canti e suoni! Si domandavano se si trattava di un nuovo fenomeno che si manifestava in tale meravigliosa branca della scienza, oppure di induzioni della rete telefonica urbana. Il crudele enigma fu subito dissipato dall’annuncio sui giornali che un inventore italiano, l’elettrotecnico GIOVANNI BATTISTA MARZI, avrebbe dalla Stazione Trasmittente di Laaken - les - Bruxelles effettuato, ad ore stabilite, delle radio - audizioni. Spasmodica fu l’attesa; tutti gli amatori, non solo del Belgio, ma anche stranieri, alle ore indicate erano presso i loro apparecchi ricevuti con le cuffie serrate alle orecchie e l’occhio fisso sulla lancetta dell’orologio in attesa del desiderato momento. Fu un successo! Tutti i giornali, dal “COURRIER DE L’ESCAUT” a “LE SOIR”, da “Le XX SIECLE” alla “REVUE DE RADIOTELEGRAPHIE” di Bruxelles; il quotidiano “LE MATIN” di Parigi, riportarono l’avvenimento nelle prime pagine sotto grandi titoli: “LE MILLES ET UNA NUITS” - “DES CONCERTS RETENTISSANTS DONNES A BRUXELLES ILS SONT ENTENDUS JUSQU’A PARIS” - “LES EXPERIENCES DE TELEPHONIE SANS FIL EN BELGIQUE” - UNE EXPERIENCE SENSATIONELLE A EU LIEU HIER: ON A TELEPHONE SANS FIL DE CENT KILOMETRE ET LA VOIX A ETE MERVELLEUSEMENT ENTENDUE” - ecc. ecc. Ecco quanto si legge sul “COURRIER DE L’ESCAUT” del 31 marzo 1914: “Malgrè EIFFEL qui envoyait ses “bonsoir les amis” a toutes le postes francais d’Afrique, nous pûmes entendre à loisir l’orchestre de Laeken. Il exècuta ses plus beaux morceax; des artistes chanterent des duos ed des fragments d’opera et l’audition prit fin après d’une double et vibrante Brabanconne - Nous étion payès de nos peines. On eut voulu applaudir des deuw mains et crier: bravo Mr. MARZI, bravo les artistes; merci de nous avoir rèsérvé la primieur de cette invention nauvelle”. L’articolo conclude col dire che ciò che fino ad oggi era un desiderio, oggi è una realtà, e, senza filo, si può seguire dalla propria casa il valzer che ritma una invisibile orchestra, che suona a cento chilometri di distanza! Articoli altrettanto entusiasti possono leggersi sui giornali belgi, francesi, ed altri di oltre oceano. Fu un unanime inneggiare alla genialità del MARZI. I giornali italiani tacquero. Fu anche a loro applicato il bavaglio!!!! Uno speciale concerto vocale ed istrumentale fu trasmesso il 22 marzo 1914 su richiesta di S.M. il RE dei BELGI a chiusura della serie di esperienze che ebbero la durata di ben tre mesi, inframezzati da radioconcerti settimanali, che furono uditi a distanze fino allora da nessuno mai raggiunte! Numerosissimi sono gli attestati di ammirazione di radio amatori e di tecnici in materia. Questa preziosa riesumazione dei ricordi del genio nostro rappresenta un documento inconfutabile che segna i lampeggiamenti della civiltà italiana, preconizzanti l’avvento di sempre verità nuove, anche prima che esse si materializzassero in forma esatta e di sostanza vitale. APPENDICE GIOVANNI BATTISTA MARZI POETA LATINISTA NEL LIBRO DI FRANCESCO SAVORGNAN DI BRAZZA’ “DA LEONARDO a MARCONI L’Autore scrive: “................... Feci casualmente la sua conoscenza, sul finire del 1908, a Roma, in quella famosa, ed ora scomparsa, Terza Saletta del Caffé Aragno, che fu nell’anteguerra, per molti anni, centro di ritrovo di giornalisti, artisti ed uomini politici della capitale. Al tavolo al quale ero seduto era sorta una vivace discussione sopra il valore di una nuova collezione di classici latini. Era tra i più infervorati, distinguendosi per la sua cultura e specialmente per le sue citazioni, un signore sulla cinquantina che conoscevo appena di vista. Chiesi sottovoce ad un amico: “Chi è quel Professore?” La risposta fu del tutto inaspettata: “Sai, è MARZI, quello dei telefoni”. Il nome mi era ben noto, ma certo non avrei mai pensato di raffigurare in quel dotto commentatore di odi oraziane, il geniale creatore del telefono altisonante”........ Carme successivamente composto sullo stesso argomento ITALICO MILITI IGNOTO LATINAE VIRTUTIS HEREDI Non ignotus ades, nec Te dixisse carentem Nomine fas est, quem iam, immulgens ubera labris, Ore oculisque; inhians, animanque infundere totam Visa, parens puerum ferventi voce vocabat; Quem vocat et coniux casto viduata cubili, Sed putat errantem non coeca morte pereptum; Et, si forte levi crepitavit ianua flatu, Adventare virum lymphata mente videtur: Nescia suaderi curas sic corde voraces Et fovet atque auget, noctesque diesque laborat! Sit modus at lacrymis, compescant pectora luctum! Non ignotus ades, o fortunate, fuisti Nomen, post numerus, sed nunc sine corpore vita es! Bellicta facta manent, generis stat mascula virtus! Te prius accepit templis Aquileia sacratis, Unde triumphalis, vaporatae pulsus aquae vi, Trans tulit Ausoniae terras atque oppida currus, Nigris vectus equis dum Urbis per strata viarum, Innumero populi et bellatorum comitatu, Tandem devota capitoli sede quiescis Matris ad arbitrium semper prodire paratus! Tu Romanus ades! Patriae non millia centum Multa virum nuper pro libertate necatum Testaris, sed quot quot prima ab origine gentis Excidio Troiae profugos Tibris attulit arvis, Quae Latiom felix septenis collibus ornat; Rupibus Alpinis quot quot Venetaque lacuna usque ad Trinacriam Lacedemoniumque Tarentum (Sardinia heroum, haud te, nutrix alma, silebo) Una mente animoque immixto sanguine et ense, Fecerunt Itala Romam virtute potentem: Quot longe lateque Latina ex gente per orbem Magnis parva animis generat vel Belgica tellus, Barbaricas cohibere numas seu mittit ad undas Gallia Rhenanas, Memorare, Hispania, vellem Te siccis oculis spectantem funera fratrum! Tu Romanus ades! Genitae virtutis alumnus, Usque renascentes animas morti abripis atrae; Nec te deterret forunae ludus iniquae; Vinendi vires addit Romana voluntas! Caudinas olim furcas Cannasque cruentas. Expertus, sapiensque morari pectore forti “CARTHAGO DELENDA” - iubse non ante audito Iudicio firmus: Didonia moenia campis Post certas hiemes Romanum aequavit aratrum! Te CRUCIS invictae vidit signo sub codem Pugnantem, Victore duce, unda Timavi, Barbaricos hominum mores cultusque feroces Frenare armis, legibus informare receptis, Iustitiamque doces, humanae et gentis amorem, Non ignotus ades, nec fas dixisse carentem Nomine Te Capitolina Tu CAESAR in arce, Et Vaticana Tu PETRUS in aede vicaris; Sic PATRIAM ferro, MUNDUM pietate tueris! G.B. MARZI Carme successivamente composto sullo stesso argomento: Non sei un ignoto, nè Tu dir conviene senza nome; cui già una madre, mungendoti le mammelle fra le labbra, divorandoti con i baci e con gli sguardi, sembrando di trasfonderti tutta l’anima sua, chiamava a nome con i più appassionati accenti; cui invoca dal casto giaciglio una sposa orbata, che ti crede disperso, non da cieca morte spento; e se per caso aura fè la porta cigolare, lo sposo apparir s’illude con la sconvolta mente; a ragion ribelle edaci affanni nel cor cova ed accresce, e notte e dì s’angoscia. Sia tregua al pianto, i petti comprimano il dolor! Non sei un ignoto o fortunato, fostii già un nome, poi un numero di frale spirto or sei! Vivono i fatti d’arme, vive de la stirpe il valor! - Te pria accolse d’Aquileia il sacro tempio, d’onde trionfal cocchio da l’indrico vapor sospinto, Te portò d’Italia attraverso le terre e le cittadi, finchè, da negri destrieri tratto per le vie de l’Urbe con innumerevole scorta di popolo e di guerrieri, al fin riposi nel decretato Capitolino ostello, pronto sempre a sorgere al cenno de la madre. TU SEI IL ROMANO! Tu rappresenti non solo le molte migliaia di uomini or ora trucidati per la libertà della Patria, ma quanti e quanti dalla più antica origine di nostra gente scampati dallo sterminio di Troia il Tebro addusse ai campi, che l’avventuroso Lazio di sette colli adorno, quanti e quanti da le balze Alpine e da la Veneta laguna fino a le Sicane e Tarantine ultime sponde (te non tacerò, o Sardegna inclita madre d’eroi) con una sola mente ed un sol cor, frammisto il sangue e ‘l brando, Roma potente féro per virtù d’Italia tutta, quanti di Latina stirpe pel mondo in lungo in largo sparsi, o genera il picciol Belgio da le grandi anime, o Francia invia alle Renane sponde le barbariche minacce ad arginare! Ricordare vorrei te pure o Spagna, che con ciglio asciutto mirasti de’ fratelli le ruine. TU SEI IL ROMANO! De l’ingenito valor campione i redivivi spirti a la bieca morte ognor contendi: nè ti spaventa di nemica sorte il triste giuoco; forza t’aggiunge la ROMANA VOLONTA’ DI VINCERE! Le forche Caudine e Canne sanguinosa un dì sperimentato avendo, con animo saldo temporeggiar sapendo “SIA DISTRUTTA CARTAGINE” comandasti fermamente con non pria udita sentenza: dopo stabiliti inverni le mura di Didone agguagliò al suolo l’aratro Romano! De la CROCE invitta sotto la stessa insegna Te vide combattere, duce Vittorio, l’onda del Timavo! Degli uomini i barbari costumi e le religion feroci frenar con armi, foggiar con leggi imposte, e la giustizia insegni, e de l’uman genere l’amor! Ignoro non sei, nè Te dir conviene senza nome, CESARE ne la Capitolina arce Ti nomi: PIETRO ne la Vaticana magion T’appelli: così Tu difendi la PATRIA con la spada, il MONDO con la fede. G.B. Marzi LA DONNA ETRUSCA TRA MITO E REALTA’ La donna etrusca ha sempre rappresentato un personaggio controverso sia per le diverse concezioni che ci sono state tramandate sia per i numerosi aneddoti dei romani e dei greci i quali, volendo evidenziare positivamente e soprattutto esaltare le doti delle proprie donne, paragonandole alle etrusche, finivano inevitabilmente con lo sminuire le caratteristiche fondamentali di quest’ultime. Ancora oggi non sappiamo se esiste una certa esagerazione, da parte degli storici, nella descrizione, pur sommaria, della femminilità etrusca e quali siano veramente i confini tra mito e realtà. Nella vita domestica la donna aveva nella famiglia etrusca una parte preponderante e tanto dalla letteratura quanto dalla tradizione figurata è messa in evidenza la sua posizione elevata nella vita sociale e politica. Ciò appare immediatamente nello stato civile, dove uno dei particolari caratteristici è che il nome delle donne è preceduto dal prenome. Mentre le più illustri donne romane erano individuate nelle iscrizioni come Claudia, Cornelia e, anche se imperatrice e moglie di un Augusto, come Livia, le donne etrusche erano individuate con un prenome, Ramtha, Tanaquil, Fasti, Velia che assicurava alla loro personalità nel seno della famiglia, un’espressione più completa. Inoltre, mentre la forma latina menziona, dopo il prenome ed il gentilizio, solamente il prenome del padre, l’epigrafia etrusca vi aggiungeva regolarmente il nome della madre, spesso accompagnato dal suo prenome. Un pretore di Tarquinia si chiamava Larth Arnthal Plecus clan Ramthasc Apartrual, cioè “Lars, figlio di Arruns Pleco e di Ramtha Apatronia”. Questa può essere una prima dimostrazione circa la considerazione che gli etruschi davano alle donne, anche se le stesse avevano una reputazione molto cattiva nell’opinione dei Greci e dei Romani. Aristotele le accusava di banchettare con gli uomini, coricate sotto lo stesso mantello, Plauto pretendeva che si costituissero la dote vendendo i propri favori. Di tutto ciò va soprattutto considerato il fatto che la vita etrusca offriva a questo riguardo il fianco alla critica del malevoli e che, dal punto di vista della morale antica, appariva talvolta scandalosa; la donna etrusca godeva sempre di una libertà di movimento e di diritti che, per un greco dallo spirito gretto sembravano autorizzare le peggiori sregolatezze. Teopompo nel libro CLIII della sua Storia, dice che “... presso i Tirreni le donne sono tenute in comune, che hanno molta cura del loro corpo e che si presentano nude, sia tra gli uomini, sia talora, tra di esse, in quanto non è disdicevole il mostrarsi nude. Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle da vedere. I Tirreni allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi... Non è riprovevole per i Tirreni essere visti abbandonarsi in pubblico ad atti sessuali e neppure a subirli, essendo anche questo un uso del Paese. E tanta è la loro spregiudicatezza che quando il padrone di casa sta facendo l’amore e si chiede di lui, essi dicono senza pudore “fa questo o quello” dando impudicamente a tale genere di occupazione il suo vero nome...”. Continua Teopompo “.... In occasione di riunioni di società o di parentela, si comportano come segue: anzitutto, quando hanno finito di bere o si dispongono a dormire, i servi fanno entrare..... ora cortigiane, ora bellissimi giovani e qualche volta le loro mogli. Dopo aver soddisfatto le loro voglie con le une o con gli altri, fanno coricare i giovani vigorosi con questi o con quelle. Fanno all’amore e si danno ai loro piaceri talora alla presenza gli uni degli altri, ma più spesso circondando i loro letti di paraventi di rami intrecciati, sui quali stendono i loro mantelli....... “. Teopompo parla giustamente di estrema cura, da parte delle donne etrusche, del proprio corpo e del proprio aspetto esteriore; l’uso dei gioielli è molto diffuso, ma sono impiegati tuttavia con eleganza solo nel VI-V secolo. Ne sono testimonianza esemplari di collane con bulle ed orecchini lavorati con la tecnica della granulazione. Ci sono dei modelli greco-orientali, come gli orecchini a borchia, orecchini a “bauletto”, collane fitte di pendenti, di bracciali e fibule (questi ultimi elaborati in loco). Tutte le donne di cui abbiamo una immagine certa, dalla dolce e malinconica Gioconda della Tomba dell’Orco, conosciuta con il prenome Velia, a Persefone della Tomba Golini, dai biondi capelli svolazzanti, a tutte quelle che sono rappresentate sul loro sarcofago, hanno i capelli, il collo, i polsi carichi di diademi, di collane e di bracciali. Scrive Coche De Le Fertè”... come una creazione spontanea, scaturita dall’oscurità nella quale affondano gli inizi della civiltà etrusca, i gioielli appaiono, all’aurora di questa civiltà nella fioritura delle loro qualità tecniche e della loro ricchezza decorativa...”. Mentre la donna greca e la donna romana vivevano nell’ombra della casa, la donna etrusca usciva molto: la si vede ovunque, sul “davanti della scena”, tenere un posto considerevole, senza arrossire, dirà Tito Livio di una di loro, per il fatto di essere esposta agli sguardi degli uomini. In Etruria era un privilegio riconosciuto alle signore più rispettabili, e non solo alle cortigiane, quello di prendere parte con gli uomini ai banchetti. Del luogo e dell’ora di questi banchetti non si può dire nulla; si svolgono in uno scenario di fantasia; spesso gli arboscelli dalle foglie agitate o il cielo limpido sembrano suggerire un parco pieno di luce. Altrove corone, nastri, ventagli e armi sospesi a una tela invisibile del fondo invitano a immaginare lo scenario dell’interno di un triclinio ideale. In questi banchetti sia le donne rispettabili che le cortigiane si coricavano distese sui letti, mentre durante i pasti anche privati, la moglie se ne sta seduta. Così come esse non si vergognano di mettersi in mostra nei numerosi affreschi di Tarquinia nella tomba dei Leopardi e in quella del Triclinio, indossando una parrucca bionda (gli uomini hanno i capelli neri) e, sulla tunica, un pesante mantello. E’ la testimonianza della probabile moda di questo periodo e cioè di sbiondire i capelli. Mentre nel VIII - VI secolo le donne portano i capelli lunghi annodati a coda o intrecciati dietro le spalle, successivamente li lasciano cadere a boccoli o li annodano a corona raccogliendoli talvolta in retine. Nel IV secolo abbiamo una pettinatura a riccioli che cadono ai lati del volto. Successivamente predomina il ciuffo annodato sulla nuca. Nella tomba dei Leopardi di giovani banchettanti coronati di mirto si abbandonano con noncuranza ai piaceri del vino e delle feste galanti. La Tomba del Triclinio è ritenuta la più bella e la più importante del patrimonio pittorico tarquiniese e le ragioni vanno ricercate nelle esuberanti ricchezze decorative. Forse la prima donna della kline di sinistra, con il suo profilo, risponde più al tipo greco che etrusco. Tra la prima e la seconda kline, sul fondo, vi è una figura femminile in atto di colloquiare con una donna distesa e vicina al suo uomo. Sulla parete destra vi sono forse gli elementi più interessanti della intera composizione. Cinque personaggi, tre donne e due uomini, occupano la parete e compongono il fregio in vari atteggiamenti di musica e danza. A partire dal fondo vi è una suonatrice di nacchere che, leggiadramente vestita, accompagna a passo di danza e con le braccia alzate il ritmo degli strumenti che ella tiene con le mani. Segue il suonatore di doppio flauto, poi ancora tre danzatori: due donne e al centro l’uomo. Nel ritmo dei movimenti c’è l’interpretazione della musica e nell’atteggiamento dell’ultima danzatrice l’espressione della cerimonia che si sta svolgendo. Nell’abbigliamento sopra indicato le donne assistevano a danze, a concerti, a giochi atletici, a combattimenti di pugilato, a corse di cani, come è testimoniato da una pittura di Orvieto, che mette in evidenza come, talvolta, venivano allestiti dei palchi appositi. Questi palchi erano costituiti da una piattaforma di legno sostenuta da montanti alti meno di un metro dal suolo. Gli spettatori erano ammassati otto o dieci per tribuna, gli uni dietro gli altri e si riconoscono, nella promiscua libertà di cui accennavamo, uomini e donne indistintamente. Tale partecipazione della donna etrusca a tutte le manifestazioni della vita pubblica e privata poteva sembrare sconveniente, suscitava i sospetti dei popoli vicini e alimentava la propaganda ostile dei nemici, forse invidiosi. Della Tomba tarquiniese dei Giocolieri, Camporeale fa questa descrizione: “.... Sulla parete di fondo è dipinto un gioco di abilità in onore del proprietario della Tomba, pomposamente seduto su uno sgabello pieghevole; una figura femminile danza tenendo in equilibrio sulla testa un candelabro, mentre un flautista scandisce il tempo e un giovanetto lancia degli anelli che devono infilarsi nel candelabro. Lo stesso gioco, anche se privo del giovanetto con gli anelli per motivi di spazio, è dipinto nella Tomba delle Scimmie di Chiusi...”. Di questa situazione invidiabile ed in ogni caso diversa, che provocava tra il popolo greco e romano un senso di stupore e disapprovazione, si hanno esempi sorprendenti nel nostro Tito Livio, il quale fece tesoro di una quantità di fatti antichissimi, cerando di comprenderli, motivarli e spiegarli in base al carattere dei protagonisti. Troviamo infatti che narra frequentemente la storia dei tre re Etruschi: Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo, che avevano regnato a Roma nel VI secolo. Scrivendo sotto Augusto, lo storico racconta un aneddoto significativo, siamo sotto il regno di Tarquinio il Superbo, i giovani principi suoi figli sono all’assedio di Gabii nel Lazio, dove la caduta della città si fa spettare: “... In questa guerra di posizione, come in tutte le operazioni che richiedono più tempo che ardimento, si concedevano più facilmente licenze, ma piuttosto agli ufficiali che agli uomini di truppa. Quanto ai giovani figli del re, si riunivano talora per occupare il tempo in festini e in partite di piacere. Un giorno, convenute a bere presso Sesto Tarquinio, dopo un desinare al quale assisteva anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio, la conversazione cadde sulle rispettive mogli, vantando ognuno la propria in modo straordinario. La disputa si fece calorosa, fino a quando Collatino proclamò che era inutile discutere, perché entro poche ore tutti avrebbero potuto constatare che nessun’altra valeva la sua cara Lucrezia. “Giovani e vigorosi come siamo, perché non montare a cavallo per recarci a verificare noi stessi la condotta delle nostre mogli? In tal modo ognuno presterà fede a ciò che avrà constatato al suo arrivo inatteso. “Eccitati dal vino, tutti gridarono: “Si, andiamo!”, e a briglia sciolta volarono a Roma, dove arrivarono al calar della notte. In seguito raggiunsero Collatia, a qualche miglio da Roma. Lucrezia vi apparve molto diversa dalle nuore del re, che avevano trovato con compagne della loro età (o compagni, poiché il testo “cum aequalibus” non precisa il sesso) per affogare la noia in un festino sontuoso; Lucrezia, nel cuore della notte, era occupata in lavori di lana, vegliando con le schiave, seduta nell’atrio della casa...”. Il confronto, quindi, fu vinto da Lucrezia, nel cuore della notte, era occupata in lavori di lana, vegliando con le schiave, seduta nell’atrio della casa...”. Il confronto, quindi, fu vinto da Lucrezia, confronto che per me non è soltanto, come invece per Tito Livio, quello della virtù, ma di due diversi modi di concepire due civiltà diverse. Tito Livio, timorosamente, sorvola sulle occupazioni delle principesse, ma la Tomba dei Leopardi e quella del Triclinio non lasciano dubbi che vi fossero con loro bei giovani e quanto al modo con cui “affogavano la noia” sappiamo che erano bevitrici gagliarde. “... “Age, sane!”; omnes; citatis equis avolant Romam. Quo cum primis se intendentibus tenebris pervenissent, pergunt inde collatiam, ubi Lucretiam haudquaquam ut regias nurus quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedente inveniunt...” (Titi Livi ab Urbe Condita I - LVII). Si può peraltro evidenziare una certa esagerazione in questa rievocazione della vita delle signore etrusche, per far risaltare più che la dissolutezza delle etrusche, l’immagine della romana, custode del focolare domestico, che nella notte, fila la lana fra le sue schiave, e soprattutto non è coricata su un letto da festino, ma seduta. L’ideale etrusco, i costumi etruschi erano diversi. Si possono immaginare i conflitti domestici che dovettero sorgere quando le due società si mescolarono, quando un giovane romano presentava al pater familias la fidanzata portata da Chiusi o Tarquinia e l’esame per quanto riguardava le maniere, non era sempre favorevole. L’Etrusca non era donna di casa, non si teneva dritta sulla sedia, ma già a partire dal IV secolo sui dipinti di Tarquinia si vede che le donne etrusche avevano imparato a sedersi come tutte le altre donne con la conseguenza che furono i romani a trionfare. La caratteristica che contraddistingueva la donna etrusca da quella romana era abbastanza evidente nella vita sociale. In Etruria le donne non solamente godevano di maggior libertà delle romane nella vita privata, ma adempivano nella società civile una funzione preponderante, alla quale, nonostante l’autorità morale ben meritata per le loro virtù, le matrone della Roma antica non potevano aspirare. Ciò appare anche nel personaggio di Tanaquilla, quale Tito Livio lo ha descritto e nella parte presa da questa donna straordinaria nell’elevazione del marito, Tarquinio Prisco, figlio del greco Demarato, esiliato dalla sua patria e stabilitosi a Tarquinia, (cosa abbastanza verosimile in quanto il commercio dei Corinzi sulle coste etrusche intorno alla metà del VII secolo era intenso). Demarato sposò un’etrusca che diede alla luce due figli uno dei quali, che Tito Livio chiama Lucumone, sposò appunto Tanaquilla. “.... Per Lucumone, l’orgoglio delle proprie ricchezze si accrebbe con il matrimonio; sua moglie Tanaquilla, però, di alta condizione, non poteva ammettere che il matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. Il disprezzo degli etruschi per Lucumone, figlio di un esiliato, di un rifugiato, era per lei un’onta insopportabile e per vedere suo marito ammesso agli onori, decise di abbandonare Tarquinia. Roma faceva al suo caso: fra un popolo nuovo, nel quale la nobiltà si guadagnava la vita con il solo merito, vi sarebbe stato un posto per un uomo coraggioso ed intraprendente...”. Suggestivo a questo proposito il racconto di Tito Livio sulla loro venuta a Roma: “... ad Ianiculum forte ventum erat. Ibi ei, carpento sedenti con uxore, aquila suspensis demissa leniter alis pilleum aufert, superque cartentum cum magno clangore volitans, rursus, velut ministero divinitus missa, capiti apte reponit; inde sublimis abit. Accepisse id augurium laeta dicitur Tanaquil, perita, ut vulgo Etrusci, caelestium prodigiorum mulier. Excelsa et alta sperare complexa virum iubet; eam alitem ea ragione caeli et eius dei nuntiam venisse, circa summum culmen hominis auspicium fecisse, levasse umano superpositum capiti decus, ut divinitus et dem redderet. Has spes cogitiationesque secum portantes, urbem ingressi sunt, domicilioque ibi comparato, L. Tarquinium Priscum edidere nomen... “ (Titi Livi ab urbe condita I - XXXIV). “... Erano giunti per caso nei pressi del Gianicolo. Qui a lui seduto in cocchio con la moglie, un’aquila calandosi mollemente ad ali tese gli porta via il pilio e, svolazzando con grande strepitio sul cocchio, di nuovo glielo ricolloca per bene sul capo come se fosse stata mandata dagli Dei a officio sacro indi rivola in alto. Tanaquilla, si narra, accoglie con letizia quell’augurio, instrutta qual’era, come sono di solito gli Etruschi, nell’interpretazione dei celesti prodigi. Abbracciando il marito, lo incita a sperare eccelsi ed eccezionali eventi; e gli dice quale alato fosse quello, e da qual parte del ciel venuto, e nunzio di qual Dio; e come abbia effettuato il presagio su la più altra parte del suo corpo, e asportato l’ornamento sovrapposto al suo capo sto immaginare, entrarono in città, e quivi, presavi dimora, dichiararono come nome quello di Lucio Tarquinio Prisco...” (Trad. Guido Vitali). Trentasette anni dopo, alla morte di Tarquinio Prisco, Tanaquilla svolgerà un ruolo importante nell’avvento al trono, peraltro strano, di Servio Tullio del quale, ancora bambino, ella aveva conosciuto il futuro. Diventato suo genero, Tanaquilla con la sua autorità lo impose ai suffragi del popolo. “Eo tempore in regia prodigium visu eventuque mirabile fuit; puero dormienti, cui Sevio Tullio fuit nome, caput arsisse ferunt, multorum in conspectu. Plurimum igitur clamore inde ad tantae rei miraclum orto excitos roges, et, cum quidam familiarium aquam ad restinguendum ferret, ab regina retentum, sedatoque eam tumultu moveri vetuisse puerum, donec sua sponte experrectus esset. Mox cum somno et flammam abisse. Tum, abducto in secretum viro, Tanaquil “viden tu puerum hunc” inquit, “quem tum humili cultu educamus? Scire licet hunc lumen quondam rebus nostris dubiis futurum praesidiumque regiae adflictae; proinde materiam ingentis publice pribatimque decoris omni indulgentia nostra nutriamus”. Indi puerum liberum loco coeptum haberi, erudirique artibus quibus ingentia ad magnae fortunae cultu excitantur. Evenit facile quod Diis cordi esse...” (Titi Livi ab urbe condita I - XXXIX). “.... In quel tempo si vide nella casa del re un miracolo che fu molto meraviglioso; perocchè un fanciullo il quale ebbe nome Servio Tullio, dormendo nella sua casa in una culla fu veduta la sua testa attorniata di fiamme. A quel miracolo si levò là entro un grido e un rumore sì grande, che il re medesimo vi accorse. E conciofossecosacchè alcuno della famiglia vi portasse dell’acqua per inspegnere il fuoco, la regina lo trattenne, e comandò che il fanciullo non fosse tocco insin ch’egli si svegliasse per sè medesimo: e si tosto come il fanciullo si svegliò sparì la fiamma. Allora Tanaquil chiamò celetamente il re e dissegli: “vedi tu quel fanciullo colà il quale si nutrisse qua entro? Sappi certamente ch’egli sarà difensore di tutto il nostro albergo ai nostri grandi bisogni, e per lui saremo soccorsi e sostenuti ai nostrri grandi pericoli: e però sia egli tenuto e guardato con grande studio e diligenza. Allora lo cominciarono a guardare e a tenere si’ caro come se l’avessero ingenerato, e a fargli intraprendere ogni buona dottrina. Ciò che a Dio piace leggermente avviene...” (trad. P. Francesco Pizzorno). Sebbene non sia necessario ricorrere all’etruscologia per spiegare la condotta di tutte le donne autoritarie della storia, ve n’è stata una alla corte di Augusto che, nonostante i tempi cambiati, sembrò far rivivere intatta la tradizione di Tanaquilla: Urgulania, il cui nome, trovato in una iscrizione di Tarquinia, non lascia dubbi sulla sua origine. Dalla sua personalità altera e dominatrice, Tacito, in alcuni passi dei suoi Annali, ha tracciato un ritratto di grande stile. Grazie all’amicizia di Livia, moglie dell’imperatore, era pervenuta ad una situazione invidiabile che “la metteva al di sopra delle leggi”. Urgulania fu una donna di carattere imperioso ed orgoglioso, sposata con un certo Plauzio, e, per assicurare la fortuna alla sua discendenza, usò tutte le risorse derivanti dai legami con la moglie di Ottaviano Augusto. Ottenne per il figlio M. Plauzio Silvano, nel 2 a.C., un consolato che divise con lo stesso Augusto e la cui brillante carriera ci deriva da una iscrizione del Mausoleo fatto costruire nei pressi della città laziale di Tivoli, per sè e per i suoi parenti, gli epitaffi dei quali ci informano pure sulla storia della famiglia. Il figlio aveva sposato poi una Lartia, il cui prenome Lars, Lartis è di evidente origine etrusca. Viene tramandato inoltre che Urgulania, valida esponente di una rigorosa politica di endogamia nel seno dell’aristocrazia etrusca, ammise una sola eccezione alle regole: il matrimonio della nipote Urgulanilla con Claudio, nipote di Livia e futuro imperatore dopo la morte del Caesar Augustus Divi filius (Ottaviano). Eloquente anche ciò che Tito Livio ci dice su Tullia, altro personaggio forte ed autoritario. Tullia disprezzava la sorella minore in quanto, a suo dire, aveva un carattere mite e non finiva mai di far presente al cognato Lucio Tarquinio che sua moglie non era degna di lui. Vi è una frase in questa circostanza che è stata oggetto di numerose interpretazioni: “muliebri cessaret audacia”, “mancava di audacia femminile” (riferito alla sorella minore di Tullia). Uno storico inglese sembra voler sostituire il termine “audacia” con “ignavia” e tradurre la frase con “Tullia disprezza la sorella perché esitava a causa della viltà femminile”. Jean Bayet propone di leggere “muliebriter cessaret audacia”, “perchè donna qual’era mancava di audacia”. Livio invece vuole mettere in evidenza il fatto che Tullia non è contraria al proprio sesso nè si considera un essere superiore. Il suo disprezzo deriva essenzialmente dal carattere incompatibile con l’ambizione, l’audacia e l’energia che contraddistinguono le donne etrusche. Ma risalendo alla potenza di Urgulania, all’insolente ambizione di Tanaquilla, non si può fare a meno di individuare, più o meno lasciate in ombra o travisate da storici pervenuti, le tracce di uno statuto sociale della donna molto diverso da quello vigente nella Roma tradizionale. Su queste tracce uno scienziato tedesco contemporaneo e amico di Nietzsche, Johan Jakob Bachofen, aveva fondato la sua opera “Die sage von Tanaquil”. Bachofen, storico delle religioni, pose le prime fondamenta della conoscenza del simbolo come entità capace di “condurre lo spirito del mondo finito alla sfera dell’essere infinito”, individuando l’origine dei simboli delle antiche culture nella partecipazione della ragione e dei sensi dell’uomo al rapporto della vita con la morte. Costituendo sulla base di queste dottrine il suo metodo di interpretazione delle culture antiche, Bachofen si servì dell’indagine sulle figure del mito per rilevare alcune costanti della storia in ciò che oggi potremmo definire gli istanti del predominio dell’archetipo femminile e di quello maschile. La sua grande opera “Das mutterecht: eine untersuchung uber die gynaikokratie der alten wecht nach ihrer religiosen und rechtlichen natur” (il diritto matriarcale: un saggio sulla ginecocrazia del mondo antico nella sua natura religiosa e giuridica) è appunto dedicata alla ricostruzione dell’antico mondo mediterraneo negli aspetti che attestarono il prevalere dell’archetipo femminile. Quest’opera costituisce il primo approfondito sforzo di penetrare la qualità femminile dell’antica esperienza del divino, e ha aperto la via a tutte le ulteriori indagini sulla religione della grande Dea mediterranea. In particolare nell’opera “Die sage von Tanaquil” è descritto il tema dell’opposizione tra occidente ed oriente, da Bachofen studiata soprattutto nel quadro della tarda antichità. Lo storico presenta quest’opera “....... come esempio della popolarita di forze che agiscono entro il substrato delle vicende storiche...”. In questo saggio Bachofen definisce la società etrusca come un esempio di Mutterecht, matriarcato, sopravvivente nell’epoca storica. Nelle sue concezioni la società umana, nella sua parabola evolutiva, avrebbe attraversato una fase matriarcale, nella quale cioè la donna deteneva la massima autorità politica; ciò anteriormente all’affermarsi di una fase patriarcale, nella quale l’autorità passò definitivamente nelle mani degli uomini. La teoria si fonda sull’errato presupposto di una originaria promiscuità sessuale, anche se mai sufficientemente provata dalle varie osservazioni sui popoli di interesse etnologico, culturalmente più arretrati. Il matriarcato rappresenta la tappa di un lungo sviluppo, un equilibrio instabile tra le varie forze antagoniste in continua evoluzione e che assume un significato solo confrontandolo con ciò che si osserva in Grecia e a Roma. La civiltà etrusca era una civiltà arcaica ed il suo femminismo, per quanto strano, era più una vecchia caratteristica minacciata dallo sviluppo della vicina Roma che una conquista raggiunta recentemente. “Nella società etrusca il pater familias faceva legge, ma la mater familias aveva la sua parola dire, parola che, nella maggior parte dei casi era l’ultima”. In questa breve trattazione c’è stato l’inevitabile confronto con la civiltà romana e, in certi casi, con quella greca. La giustificazione di tale paragone va ricercata nell’importanza di una esatta comprensione e soprattutto di una accurata riflessione su ciò che la figura femminile ha rappresentato in un quadro sociale così remoto. Una considerazione che accompagnava la donna fino oltre la morte e che evidenzia i privilegi che ad essa si riservano nell’aldilà. E’ opportuno rilevare a questo proposito, come nell’antichissima Tomba dei Leoni dipinti (Cere - 650) un letto funebre era stato trasformato in un sarcofago. L’esistenza di un letto funebre solo, nudo, oppure di un letto in un sarcofago, cioè un letto ricoperto da un sarcofago mette in evidenza il fatto che lo scopo che si perseguiva al momento della sepoltura era quello di assicurare ad una determinata categoria di persone defunte, specialmente le donne, un carattere più sacro, di conservarne con più sicurezza le spoglie, aumentando la loro inviolabilità. Tale sarcofago funzionava in un certo senso come un’urna, allo scopo di conservare reliquie particolarmente preziose; come se in questo periodo gli Etruschi, o, almeno gli abitanti di Cere. avessero considerato le donne di una essenza superiore e quindi soggette in modo maggiore alla divinizzazione rispetto agli uomini. Nell’universo della religione etrusca, dominato dalla onnipotenza della divinità femminile, la Terra madre, che Veio e Cere adoravano sotto il nome di Mera o Giunone, di Mater Matuta o Leucothea, è probabile che una donna defunta ispirasse più facilmente a coloro che rimanevano in vita un culto religiose se appariva confondersi nell’aldilà con la grande Dea, e che una donna in generale fosse considerata partecipante per la sua stessa natura intrinseca a quella divinità che regnava nei templi e nei cimiteri. Nel 1836 il sacerdote Alessandro Rigolini e il generale Vincenzo Galassi decisero di scavare nella necropoli del Sorbo a sud-ovest di Cerveteri. Ciò che videro in una tomba li lasciò incantati: l’ipogeo comprendeva una camera funebre in fondo ad un lungo corridoio, nella parete della quale erano state scavate due nicchie: in quella di destra riposavano le ceneri di un guerriero con armi ed un carro da parata, in un’urna sormontata da un cavallo; davanti nell’anticamera, vi era un altro defunto, fra suppellettili già ricche, costituito prevalentemente da oggetti di bronzo e argento. Nella camera funebre propriamente detta, sul pavimento coperto d’oro, d’argento e d’avorio, a lato del trono, era steso lo scheletro di una donna coperto di gioielli. La tomba era destinata prima di ogni altro a lei, Larthia, come risulta dalle iscrizioni incise su tutte le coppe e tazze d’argento. La descrizione della defunta è stupenda: “....... Adorna come un’immagine divina, la nobile defunta portava una veste guarnita d’oro: Ornata di delicati motivi di piante e di animali, essa da l’impressione di un ricamo prezioso e impalpabile........ una fibula dorata allacciava il mantello della “principessa”. Cinque leoni campeggiano in una mezzaluna racchiusi da due corone di fiori di loto stilizzati e tra loro intrecciati. Assicurate da cerniere, due traverse semitubolari reggono una foglia d’oro....... La principessa portava pure due ampi bracciali, che richiamano i nostri polsini, ornati allo stesso modo. Vi spicca dinanzi a un gruppo di palme “la signora degli animali” fra due leoni rampanti. I suoi capelli sono acconciati in boccoli ricadenti sulle spalle, come la dea egizia Hathor. Tre figure femminili sono inoltre accanto alla divinità. L’incomparabile tesoro era inoltre costituito da preziose collane, orecchini, anelli ritorti a spirale, fibbie e spille ..................... principeschi erano anche gli altri oggetti della donna............ e v’era una quantità di smagliante vasellame nerissimo (i celebri buccheri)........... Nella camera tombale erano stati portati anche due veicoli: il carro funebre a quattro ruote servito forse per il trasporto della donna e una biga”. Si può dedurre il rapporto che legava i personaggi di questa tomba stupenda: senza dubbio il personaggio predominante è la donna, Larthia, forse regina e forse raggiunta da un principe e da un guerriero. Si sono avanzate alcune ipotesi tra cui quella che considera il guerriero un nemico vinto, o che la stessa Larthia, vedova del principe, sia stata costretta a seguire il marito nell’aldilà. Un’altra testimonianza eloquente è la tomba Bernardini di Preneste dove in molte coppe e tazze d’argento appariva sovente il nome di Vetusia. Si suppone inoltre che alle donne etrusche, in epoca di splendore, fosse stato attribuito il compito di curare le lettere e le arti quando gli incolti mariti erano impegnati in guerra. Nella tomba dei Vasi Greci, infatti vi sono due anfore firmate dal vasaio Nicostene. Ciascuna delle due anfore reca l’incisione “mi culnaial” e cioè “appartengo a Culni”; un’altra testimonianza è rappresentata da un grafito con l’incisione “appartengono ad Ati”. Si deduce quindi che Ati e Culni amassero l’arte. Culni in modo particolare, amante dei vasi attici, ricercava preferibilmente gli esemplari firmati (in questo caso di Nicostene). Un’altra testimonianza: nel 1895 fu aperta a Tarquinia una tomba in cui riposava una donna di rango principesco, adorna di un pettorale di oro. Della tomba suscitò particolare interesse ed ammirazione un pezzo importato, stupendo: un vaso unguentario. Nella parte superiore appare un re egizio, sotto di lui una serie di immagini raffiguranti, palme, negri in catene e scimmie. L’iscrizione recava il nome del faraone Bok En Rauf, fondatore della IV dinastia, caduto in battaglia nella guerra contro gli Etiopi. Il vaso fu posto nella tomba mentre il faraone era ancora vivo (e ciò testimonia la tesi). In altre tombe famose furono rinvenuti oggetti di vario genere alcuni molto preziosi, provenienti da molti paesi del Mediterraneo tra cui la Grecia, l’Egitto, Cipro, la Siria, l’isola di Rodi a conferma del gusto raffinato e della particolare dedizione all’arte da parte principalmente delle donne etrusche. E’dunque certo che queste necropoli ci offrono spunti tali da poter attribuire alla donna etrusca, in una società in cui la vediamo prendere parte così attivamente con tanto splendore agli avvenimenti e ai piaceri quotidiani, calunniata dalle civiltà invidiose confinanti e no, ma ricoperta in patria di una autorità che possiamo tranquillamente definire sovrana, ed infine venerata nella tomba quasi fosse una espressione della potenza divina, un posto privilegiato che, forse, ricordava quello di Fedra o di Arianna della Creta minoica, e che Cornelia, madre dei Gracchi, non avrebbe mai osato sperare o ambire nella sua Roma. Giulio Cesare Giannuzzi BIBLIOGRAFIA Mario Moretti - Pittura etrusca a Tarquinia G. Di Capua - Vita della donna etrusca Jacques Heurgon - Vita degli Etruschi Tito Livio - Ab urbe condita P. Francesco Pizzorno - Traduzione cap. XXXIX ad urbe condita I Guido Vitali - Traduzione cap. XXXIV ab urbe condita I Tacito - Annali Teopompo Johan J. Bachofen - Die Sage Von Tanaquil (la leggenda di Tanaquilla Heidelberg 1870) Johan J. Bachofen - Das Muttercht (Stoccarda 1861) LA CHIESA RISORTA Nell’autunno del 1977, Don LIBERIO ANDREATTA, un prete di Paderno del Grappa (TV) di 36 anni di età e di appena 8 di sacerdozio, raggiunse Tarquinia per sostituire il defunto Mons. Agostino Peracchi. Intelligente, dinamico, aperto, simpatico e anche piuttosto moderno, andò ad abitare nella casa di Mons. Luigi Di Lazzari morto poco prima all’età di 82 anni, uno dei prodotti più illustri della nostra città, latinista puro e perfetto, saldamente ancorato alla Chiesa tradizionalista e conservatrice, amato e stimato da tutti. Il nuovo arrivato si rese conto, in breve tempo, delle necessità della parrocchia affidata alle sue cure e del materiale umano su cui operare: del modo di pensare, di credere e di fare dei tarquiniesi; delle loro abitudini, usi, costumi; del loro attaccamento alla Chiesa; del loro modo di essere e di sentirsi cristiani e di tante altre caratteristiche tra le quali la profonda devozione per la Statua del Redentore che, nel giorno di Pasqua, viene portata in trionfo per le principali vie della città in solenne PROCESSIONE. C’era una leggenda attorno alla Statua: e la leggenda raccontava che fu ricavata da un tronco d’albero rinvenuto da un condannato sulla spiaggia di Tarquinia e che l’ignoto scultore traesse ispirazione da una opera simile custodita a Lucca. Si dice ancora che l’artista rimase poi accecato, addirittura per volere divino, acciocchè non potesse farne un’altra altrettanto bella. Una favola questa che, per ricalcarne altre dello stesso tenore che si tramandano in altri centri della nostra penisola, mostra evidenti i segni della fantasia popolare. Comunque una leggenda sempre bella e patetica che circondava la Statua in un’aureola di curiosità, di fascino e di mistero. Studi e ricerche recentissimi portati a buon fine con tenacia ed entusiasmo dal nostro concittadino Lorenzo Balduini smanioso di accertare l’identità del vero autore dell’opera, hanno inferto alla leggenda un colpo mortale. La Statua lignea del CRISTO RISORTO di Tarquinia altro non sarebbe che un’opera dello scultore Bartolomeo Canini (anni 1831) su modello in gesso di Pietro Tenerani, raffigurante il BUON PASTORE, custodito nel Museo di Palazzo Braschi in Roma. Fu opera meritoria quella scoperta? La risposta è difficile. Scavare, ricercare, trovare, per la soddisfazione di portare o riportare alla luce del sole verità nascoste o per dare la paternità a opere e cose che paternità non hanno, dovrebbe essere motivo di grande contentezza. Crediamo però che la ricerca e l’accertamento della radice e delle origini o della verità, non sempre raccoglie l’unanime consenso. Ci sono tante cose per le quali è bello e ci piace cullarci nel mistero. La novella del CRISTO RISORTO, anche se dolorosa nel finale, piaceva a tutti, uomini e donne, grandi e piccini così come era arrivata a noi attraverso lunghi decenni. L’averla portata sul tavolo operatorio per accertarne le origini, non so quanto abbia giovato e giovi alla gente comune, ai nostri figli, ai figli dei nostri figli e così via, nei secoli dei secoli. Assicurata la provenienza abbiamo saputo inoltre che la Statua fu acquistata dalla Confraternita di San Giuseppe con 122 scudi pari a £. 655,75 e che fu custodita nella Chiesa omonima, in quella Chiesa che il nostro grande concittadino poeta VINCENZO CARDARELLI ne “ IL SOLE A PICCO” definirà più tardi “GLORIOSA per possedere la macchina del Redentore, grande, roseo, bellissimo, con gli occhi celesti e un’incredibile ferita nel fianco”. Quando fu costruita la Chiesa? Sentiamo cosa dicono MARIO CORTESELLI e ANTONIO PARDI nel loro libro “CORNETO COM’ERA” pubblicato nel 1982. “La sua erezione ebbe inizio nel 1619, al tempo del Vescovo Ludovico Zacchia. La consacrazione avvenne nel 1635, al tempo del Vescovo Cecchinelli. La costruzione fu attuata utilizzando le elemosine dei fedeli e con il concorso degli artigiani locali: muratori, fabbri, falegnami di Corneto prestarono gratuitamente la loro opera. Le piccole dimensioni della Chiesa suggerirono negli anni successivi un ampliamento che però non venne mai portato a termine. La Chiesa è ad unica navata ed ha quattro finestre: una sopra l’altare maggiore, due laterali, una sulla facciata. Il tetto è per metà a tegole e per metà in muratura. Il pavimento è in laterizi. Il campanile è posto sulla facciata e reca una sola campana. La Chiesa inizialmente aveva due altari: il maggiore era dedicato alla Vergine. Un quadro ritraeva la Madonna tra San Giuseppe e San Gregorio Papa. L’altro altare era dedicato a San Giuseppe ed era posto in cornu Epistolae. Nel 1800 il visitatore Apostolico rilevò che nella Chiesa esistevano tre altari dedicati a San Giuseppe, S. Gregorio Magno e alla Natività. La Sacrestia si trovava all’esterno della Chiesa, alla quale però era unita una costruzione a volta, con due porte che immettevano nella Cappella del Coro - esistente nel retro dell’altare maggiore - e nella via pubblica. Il locale prendeva luce da una piccola finestra. In questa chiesa era solita riunirsi l’Arte dei Falegnami ed in una piccola cripta si conservavano i sacchi e quant’altro era necessario alla Confraternita. A questa chiesa venne assegnata nel 1788 la cura delle anime della vicina S. Leonardo, la quale era stata chiusa al culto su decreto del Vescovo Garampi. Il decreto fu reso esecutivo nel 1804, al tempo del Vescovo Maury. Aveva un’unica fossa cimiteriale, ma nel 1824 il Vescovo Gazola rilevò che i confrati dell’Arte de’ Falegnami dispongono di due fosse. Nella chiesa si custodiva la Statua del Cristo Risorto”. Mentre raccomandiamo il lettore a prestare la propria attenzione a quel “si custodiva” in quanto è chiara dimostrazione che già nel 1983 la Statua non si trovava più in San Giuseppe, torniamo a Don Liberio Andreatta momentaneamente messo in disparte proprio per approfondire i due temi - CHIESA e STATUA - che il nuovo venuto dal Nord recepì e fece propri con brillante intuizione. Assimilato il problema, lo fece proprio, si circondò di un gruppetto di uomini di buona volontà e nel 1979 diede vita al COMITATO CITTADINO del CRISTO RISORTO le cui finalità erano chiaramente enunciate nella definizione: “PER LA CONSERVAZIONE DELLA TRADIZIONE PASQUALE E PER IL RESTAURO DELLA CHIESA DI SAN GIUSEPPE”. Sotto la spinta frenetica del fondatore, il Comitato si mise al lavoro. Ma mentre i problemi riguardanti la celebrazione della “PASQUA a TARQUINIA” venivano risolti, non altrettanto poteva dirsi di quelli relativi al restauro della Chiesa. L’incuria degli uomini responsabili alla ordinaria manutenzione che non si faceva più, il tempo che tutto consuma, la perdita delle naturali funzioni cui un luogo siffatto è destinato, tutte queste lacune messe insieme avevano causato il pauroso degrado dell’intero edificio. L’acqua penetrata e penetrante a causa di un tetto praticamente inesistente, lo sterco prodotto e destinato dovunque dai piccioni divenuti ormai padroni del campo, il tarlo che continuava indisturbato la sua azione demolitrice sui banchi, sui confessionali e su quant’altro di sua competenza, avevano ridotto l’interno della Chiesa in condizioni tali da minacciare seriamente la Statua del Redentore. Constatata l’inagibilità ed al solo scopo di evitare guai irreparabili alle persone ed alle cose, si decise di traslocare la Statua in una cappellina della monumentale Chiesa di San Francesco per passare, l’anno dopo e per soli motivi di manovrabilità, in quella di San Leonardo. E mentre l’edificio veniva transennato per motivi di sicurezza, in Consiglio si discuteva la via da seguire per ottenere i fondi onde affrontare la ricostruzione della Chiesa ormai abbandonata. Tra le varie proposte prevalse quella di una sottoscrizione popolare, istituendo vari centri di raccolta nei locali pubblici oltre al solito versamento in conto corrente postale. Il risultato fu deludente e scoraggiante. Le solenni celebrazioni dell’Anno Giubilare della Redenzione (1983) ridussero sensibilmente l’attività del Comitato. Chiamato a prestare il proprio servizio nel Comitato Centrale quale segretario del Presidente S.E. Mons. Mario Schierano, Don Liberio Andreatta dovette abbandonare i suoi vari incarichi in Tarquinia dove tornava raramente e per visite brevissime. Terminato l’Anno Giubilare (1984), il Cardinale Vicario di Roma S.E. Mons. Ugo Poletti lo nominò Vice - Delegato della Opera Romana Pellegrinaggi a fianco di Mons. Davide Bianchi, costringendolo così a trasferirsi definitivamente nella capitale. La partenza di Mons. Liberio Andreatta, meritatamente promosso, segnò l’inizio della fine del Comitato Cittadino e con esso la fine del tentativo di restauro della Chiesa. Anche nella Diocesi di Tarquinia si verificavano mutamenti: al Vescovo Antonio Mazza passato alla Diocesi di Piacenza, succedeva il Vescovo Mons. Girolamo Grillo. Posto a conoscenza della pesante situazione determinatasi nella casa del Redentore, il nuovo Presule decise di procedere subito alla riparazione del tetto e del campanile mentre l’Associazione Falegnami di San Giuseppe nata nel 1983 con Cappelletta Fedele presidente, offriva la propria collaborazione fornendo alcune porte e finestre nuove, riparando quelle ancora in sufficiente stato di manutenzione. Nel contempo Mons. Carlo Pileri, ricordando il recente passato, riallacciò i contatti con l’ex segretario di quel Comitato Cittadino non più operante. Ne chiese la collaborazione, l’ottenne e fu così che il rag. Giuseppe Santiloni forte anche del mandato conferitogli dal Vescovo, dette inizio alla ricerca dei fondi per la ricostruzione della Chiesa. Sostenitore irriducibile della tesi della “raccolta casa per casa”, convinto che soltanto in quella maniera i tarquiniesi avrebbero risposto positivamente all’appello - e fu proprio così - l’incaricato si mise al lavoro e nello spazio di circa un anno, raccolse, da solo, la cifra sufficiente per la realizzazione della impresa. Le opere murarie furono eseguite dalla Ditta Medici Benedetto Maria mentre le tinteggiature dalla Co.Gi.Art. di Coscia Nazareno. Dalla viva voce di questi due ottimi collaboratori ecco, qui di seguito, le loro impressioni sullo stato di conservazione della Chiesa prima del loro intervento. MEDICI: “era la seconda volta che intervenivo in San Giuseppe. La prima si era verificata in occasione del rifacimento del tetto e di parte del campanile. L’interno della Chiesa offriva uno spettacolo pietosto sotto tutti gli aspetti: umidità, sudiciume e calcinacci erano dappertutto. L’intonaco perimetrale sia delle pareti sia delle colonne era fatiscente. Bastava un colpetto per farlo cadere in terra. Il pavimento era ridotto come quello di un terrazzo esterno tanto era umido e le mattonelle in graniglia 20 x 20, si erano completamente allentate a causa di un non perfetto sottofondo e tante erano a pezzi. L’impianto elettrico non esisteva se non posticciamente Le condizioni della sacrestia e del locale adiacente dopo la pulizia dallo sterco, erano quelle di una cantina malsana e decrepita. E’ stato rifatto tutto, dal soffitto alla base. Alcune cose addirittura nuove come: il pavimento in marmo di Carrara di colore bianco e bardilio, l’impianto elettrico completo anche di faretti illuminati dall’alto, un impianto di citofono interno per potere eseguire nel migliore dei modi le operazioni di discesa e di ascesa della STATUA custodita nel grande armadio di legno sopra l’altare maggiore. All’interno della sacrestia completamente rinnovata è stato ricavato un bagno decoroso, un altro localetto antibagno con piano di marmo e lavabo, la relativa fogna che non c’era e la conduttura dell’acqua potabile. In sostanza si è provveduto ad intonacare, pavimentare, maiolicare, coibentare e disumificare i vari locali. C’è ancora da fare ma la volontà per farlo non manca”. COSCIA: “le condizioni della Chiesa prima del nostro intervento erano veramente pietose. Sembrava uno scantinato: lo sterco sui cornicioni, gli intonaci sgretolati e impregnati di umidità, il soffitto tutto macchiato e punteggiato da grosse macchie ossidate per l’enorme quantità di acqua che ci si era raccolta. Siamo riusciti a portare il soffitto alla sua coloritura iniziale dopo un lungo e paziente lavoro di raschiatura e consolidamento dell’interno, usando materiali speciali. La presenza di tanta umidità di risalita proveniente anche dal fondo stradale non ci ha consentito di portare a buon fine, come avremmo voluto, il restauro delle pareti e delle colonne. Un lavoro questo recentemente ripreso con il risultato che volevamo. Con la costruzione, già preventivata, di una controfossa lungo il Vicolo Breve, l’umidità ancora esistente dovrebbe essere debellata del tutto. Ci vorrà ancora un po’ di tempo ma tra non molto la Chiesa di San Giuseppe dovrebbe tornare al suo antico splendore”. Ultimati i lavori, il Vescovo ne dette l’annuncio alla popolazione con il manifesto che integramente riportiamo. Tarquiniesi ! L’impresa che fino ad un anno fa sembrava irrealizzabile, sta divenendo la più grande realtà. I lavori di restauro della CHIESA DI SAN GIUSEPPE “gloriosa per possedere la macchina del Redentore” - dirà il vostro grande concittadino VINCENZO CARDARELLI - hanno avuto inizio. Pertanto la Statua del Cristo Risorto potrà ritornare , a PASQUA, nella sua casa, laddove per lunghi decenni l’avete custodita, venerata e pregata e dove volete che rimanga per sempre. Il merito di questo atteso ritorno oltre alla DIOCESI che ha provveduto alla ricostruzione del tetto e del campanile con una spesa che supera i 40 milioni, è tutto vostro, grazie al generoso contributo che ha dimostrato, non con le parole ma con i fatti, la FEDELTA’ alle più belle e nobili tradizioni cittadine e la DEVOZIONE per la STATUA della RESURREZIONE, meravigliosa protagonista della più affascinante e toccante manifestazione religiosa dell’anno. A Voi tutti grazie! Questo nostro ringraziamento è diretto anche al Rag. GIUSEPPE SANTILONI che, con volontà degna di considerazione e rispetto, ha svolto il compito affidatogli di ricercatore instancabile e fidato della raccolta dei fondi necessari al raggiungimento dello scopo ed ai soci della ASSOCIAZIONE FALEGNAMI DI S. GIUSEPPE che hanno donato alla Chiesa porte e finestre nuove. Che Dio benedica tutti Voi. GIROLAMO GRILLO - VESCOVO Nella notte del sabato santo del 29.03.1986, i portatori della Macchina, riportavano la Statua nella Chiesa anch’essa finalmente “RISORTA”, tra la commozione dei tantissimi che avevano voluto assistere all’atteso RITORNO. E nel pomeriggio della domenica di Pasqua, la PROCESSIONE del CRISTO RISORTO riprese il via dalla casa di sempre, la “sua” casa, al suono delle campane della Torre Civica e quelle di tutte le Chiese, tra gli spari festosi delle campane delle doppiette maremmane, in un tripudio di folla soddisfatta e, è ancora Cardarelli che parla: “piena di felicità e di benessere, già col sapore delle uova pasquali in bocca”. Un anno dopo, il 09.04.1987, un gruppo di volenterosi fondava l’ASSOCIAZIONE FRATELLI DEL CRISTO RISORTO con scopi e finalità ben definiti tra i quali fondamentali - quelli della cura assidua e costante della Chiesa e della Statua affinché quanto era accaduto non si dovesse ripetere mai piu. La Segreteria della Associazione Fratelli del Cristo Risorto