Senza titolo - Marco Ferrante

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Senza titolo - Marco Ferrante
Il Riformista, 15 dicembre 2008
Miami Art Basel è la filiazione oltreoceano della prima fiera
d’arte del mondo, quella di Basilea. Quest’anno si svolge
mentre è in corso la supercrisi finanziaria a cui si sovrappone
la recessione. L'anno dei fallimenti bancari, del piano
Paulson e sue revisioni, degli aiuti di stato all’auto, chiesti dai
produttori e negati – per ora – dal congresso in un duro ed
energico confronto politico. L’anno di Barack Obama
presidente eletto. La fiera si è tenuta nella stessa settimana in
cui sono arrivati i dati disastrosi sull’occupazione americana
(meno 533.000 posti di lavoro a novembre rispetto a
ottobre), la settimana in cui il Wall Street Journal ha scritto
che sì, è la Great depression, part two. La coincidenza ha una
sua intrinseca contraddizione, ovviamente. A Miami,
metropoli tropicale, la crisi ha un suo ritmo. La
disoccupazione qui, in questo momento, è al 6,1 per cento
(quasi un punto meno del dato della Florida, mezzo punto in
meno del dato generale degli Stati Uniti; l’anno scorso Miami
era al 4,1). Ma la vita va avanti. Un periodico free press
locale, dedica la sua prima pagina copertina all’affitto delle
auto di lusso: «L’economia è in caduta, ma tu devi avere
quella Lamborghini» (che in realtà nella foto è diventata una
Maserati). Segue un lungo racconto – vagamente à la James
Ellroy – in cui si narra di due ragazzi venezuelani, Raul
Regalado, venticinque anni, occhi grandi, figlio di un
industriale tessile, che arriva a Miami per il fine settimana,
prende la sua Lamborghini Gallardo colore arancio zucca
(prezzo di mercato 235.000 dollari, 1.250 al giorno + le
tasse), guarda il cugino, più piccolo di lui, seduto accanto a
sé, e gli dice: «Se rimorchio tu scendi». In nessuna città del
mondo c’è una simile concentrazione di Lamborghini per
chilometro quadrato. Su una superstrada c’è una grande
concessionaria, le Murciélago e le Gallardo sono schierate sul
piazzale come fossero utilitarie.
*
L'area della grande Miami ha 5,4 milioni di abitanti, la metà
dei quali ispanici. Ha raccolto l’eredità (morale?) de l’Havana,
ma i figli dei cubani che stavano dalla parte di Fulgencio
Batista ormai sono americani. C’è un piccolo quartiere deco
e sulla Collins gli alberghi. Il più bello è il Setai. Il più chic il
Raleigh. Il più celebre è ancora il Delano: disegnato da
Philippe Starck, al tempo in cui Starck impose il suo stile
provocatorio e un po’ loffio: l’oversize della spalliera di un
divano o di una lunga panca davanti a una boiserie lavorata
su cui punteggiano i paralumi delle lampade Romeo; il tavolo
e le sedie di ghisa in un angolo, su una piccola piattaforma a
pelo d’acqua, prospiciente la piscina. È una città letteraria
come, per esempio, scoprirete a cominciare da alcune delle
avventure di Kemper Boyd e soci in “American
Tabloid” (Ellroy), oppure - per chi si accinge a partire e ha
bisogno di saporite informazioni - in una piccola memoria di
viaggio di Carlo Rossella intitolata “Miami” (Mondadori).
*
Miami Art Basel è al Convention Center. L’ha inventata
Samuel Keller, ex direttore di Art Basel. Avendo deciso di
tentare da Basilea lo sbarco sul mercato degli Stati Uniti,
scelse Miami perché vicino al Sud America che considera
nuova terra di artisti e mercato potenziale. L’anno scorso ha
lasciato Art Basel per fare il direttore della Foundation
Beyeler di Basilea. I direttori adesso sono due, svizzeri
entrambi: Annette Schoenholzer, 44 anni, e Marc Spiegler,
40 anni. Ce n’era una terza, un’americana di 43 anni, Cay
Rabinowitz, ma se n’è andata. Miami, come l’evento madre
di Basilea, è una fiera a inviti. Un comitato sceglie le gallerie,
quest’anno erano oltre 200, dieci le italiane: Roero, De Carlo,
Fontana, Continua, Zero, Kauffmann, Marconi, Soffiantino,
Stein, T293. Accanto ad Art Basel sono cresciute le mostre
satelliti per i non ammessi alla fiera ufficiale. Sono una
decina, Art Miami, Scope, Miami Photo, Aqua, Art Asia,
Pulse, Design Miami – dove, detto per inciso a parte un Ross
Lovegrove parecchio appariscente, l’unica cosa evocativa era
uno stand misurato e altero, pieno zeppo di Jean Prouvé,
l’architetto più amato dai collezionisti di design. Chi viene
qui tutti gli anni vi dirà che in tempi di morigeratezza non c’è
stato lo spolvero mondano degli altri anni, il continuo
rincorrersi ininterrotto di breakfast party, di brunch, cocktail
e feste varie. Ma c’erano comunque abbastanza inviti per un
essere umano: il welcome party al Delano, il vernissage al
Convention Center, l’opening night a Collins Park, un lungo
aperitivo degli espositori asiatici al Mandarin da dove si vede
un piccolo golfo d’acqua tra i grattacieli, le visite alle
collezioni private, i party delle gallerie (notato dagli
appassionati un cocktail di Richard Gray e Paul Gray della
Richard Gray Gallery la notte dell'inaugurazione della fiera al
Raleigh Hotel), o il brunch alla fondazione di Ella FontanalsCisneros, proprietaria di una delle più importanti collezioni
d’arte sudamericane.
*
Accanto alla crisi, il protagonista della Fiera, quest’anno è
stato il quarantaquattresimo presidente eletto, Barack
Obama. In giro per gli stand delle fiere satelliti – tra i tanti
Obama che vedrete qui sopra - c’era un Barack di profilo
con un trattamento sbrillucicante, un Barack fotografato di
fronte con le orecchie un po’ a sventola (piccola
consolazione a causa dell’umanizzazione della sua bellezza),
un molto iconico Barack vestito da Superman (a Scope) e un
dittico che diceva da una parte «my president is black, your
president is white» e dall’altra viceversa. Il Barack più
costoso è stato venduto ad Art Basel, uno Yan Pei Ming,
300.000 dollari. E poi un Beatific Barack (del 2008) di Kurt
Kauper, venduto da Jeffrey Deitch per 65.000 dollari.
Obama è ritratto in un ovale, paternalistico, con vestito
grigio, e cravatta gialla – peraltro poco obamiana – sullo
sfondo un prato inglese, una strada sgombra e alcune case
tipicamente americane.
*
Le vendite ad Art Basel e satelliti sono andate meno bene
dell’anno scorso. Ma è andata meglio di come temessero i
venditori. Dopo il successo imprevisto di Damien Hirst che
a settembre aveva fatto un galattico colpo di mercato con
un’asta super, bandita senza la mediazione delle gallerie, che
aveva fruttato 111 milioni di sterline (127 milioni di euro
circa), le aste d’autunno avevano subito il contraccolpo della
crisi economica, con un 40 per cento di invenduto. Andrew
Fabricant, il direttore della galleria Richard Gray ha detto alla
newsletter di Flash Art che comunque, «nonostante tutti
abbiano detto che le aste di novembre sono andate
malissimo, il venduto è stato di 800 milioni di dollari, che,
considerato il clima finanziario, è un dato incredibile». Così
anche a Miami: si è venduto, anche se meno degli altri anni.
Alcune cose sono andate via subito come la campana di Kris
Martin (250.000 dollari), venduta dopo meno di due ore
dall’apertura. Rispetto al passato, la gente compra, ma c’è un
rapporto diverso con gli stand dei galleristi: i compratori
chiedono, ritornano, trattano. Nel complesso il mercato ha
rallentato, ma non ancora i prezzi, che cominceranno a
scendere più avanti, mano mano che la crisi economica si
farà più acuta e il mercato diventerà più debole. Dice
Giovanni Giuliani, assiduo frequentatore di Miami,
collezionista italiano, presidente dell’associazione degli amici
del Macro: «L’atteggiamento dei galleristi indica che presto si
rivedrà al ribasso il listino dei prezzi e che anche gli artisti
dovranno ridimensionare le loro aspettative». Ma non tutti
giudicano la cosa negativamente. A Flashart il collezionista
Marvin Ross ha detto che il calo nelle vendite potrebbe
essere utile: «La gente è più riflessiva. La frenesia che c'era
prima non era salutare», e anche l’ex direttore Keller si è
espresso più o meno nello stesso modo: «La crisi è arrivata
giusto in tempo, prima che l'arte diventasse solo
investimento e divertimento».
*
Fuori dalla fiera e dalle collaterali c’è la crisi dell’immobiliare
e i supermercati. Con l’eccezione di una cinquantina di isolati
a ridosso della South Miami Beach, il corso degli immobili si
è ridimensionato ovunque. Le banche chiamano i clienti
liquidi per proporre a prezzi di saldo immobili comprati negli
ultimi anni a tassi rasoterra con finanziamenti del cento per
cento da clienti ormai insolventi. Quello che un anno fa
valeva un milione di dollari, oggi è possibile portarlo a casa
per la metà, anche meno. Fuori dal centro città, sulle
direttrici del traffico, c’è una lunga teoria di for sale, for
lease, for rent. Si vende, si fitta con opzione d’acquisto, si
fitta e basta: Sono case basse residenziali per il ceto medio,
negozi, condomini – alcuni appena terminati. In un anno in
Florida si sono perduti 655.000 posti di lavoro, i consumi
diminuiscono, ma non ci sono sconti pazzeschi nei grandi
magazzini. In un momento di crisi si nota di più la
stralunatezza delle nostre abitudini di consumisti occidentali,
qui rese più acute dallo specifico americano: il
portafotografie con base in argentone, chiuso in una bolla di
vetro con la neve (autoironica, ovviamente, e al tempo stesso
piuttosto elegante nella sua assurdità) in vendita nella catena
Restoration; nel cui catalogo c’è anche un Monopoli e un
Cluedo incassati in una custodia di legno pregiato, o un golfset da ufficio con green d’erba sintetica, guanto, due mazze,
quattro palline, e buca rialzata da 349 dollari. Ogni negozio
per la casa abbonda – a prezzi non concorrenziali – di
decorazioni per la tavola. È il consumismo, certamente,
l’estasi consapevole del superfluo, ma accompagnato anche
da una specie di strisciante sospetto che purifica la nostra
ipocrita coscienza: una classe dirigente con il gusto della
decorazione per la tavola borghese ha sicuramente la forza
per reagire alla crisi del capitalismo. C’è sempre nell’energia
degli americani qualcosa di travolgente.
*
In realtà, c’è qui come in altre parti del mondo, l’odore di
Supercapitalismo, come lo definisce Robert Reich, in un
saggio sull’America e l’Occidente alla vigilia della crisi in cui,
questo professore di diritto amministrativo a Berkeley, già
segretario al lavoro con Bill Clinton, collaboratore di vari
giornali e riviste – dal Washington Post al Wall Street Journal
al New Yorker – racconta come, a suo giudizio, sono
cambiate le nostre democrazie: l’efficienza delle economie
capitaliste ha spostato i rapporti di forza e oggi abbiamo più
peso e ascolto come consumatori e investitori, mentre siamo
più deboli come cittadini. L’altra trasformazione del
supercapitalismo riguarda la composizione sociale per fasce
di reddito. La crescita mondiale ha portato benessere ai
consumatori di tutto il mondo. Negli Stati Uniti ha prodotto
un risultato curioso, negli ultimi trent’anni la crescita del
reddito medio famigliare è stata inferiore all’aumento della
produttività del paese. Dove sono finiti i soldi, si chiede
Reich? «Nel 2004 l’un per cento più ricco del paese ha
percepito il 16 per cento del reddito totale nazionale, il
doppio di quello che percepiva nel 1980. La percentuale
percepita dallo 0,1 per cento più ricco del paese è più che
triplicata dal 1980 raggiungendo il 7 per cento. Le
disuguaglianze sono aumentate anche in Europa e in
Giappone, ma in misura minore». Dunque la distribuzione
della ricchezza prodotta si concentra nelle fasce alte dei
redditi. Al netto di una modica quantità di moralismo, Reich
solleva un problema che riguarda la diminuzione
dell’efficienza capitalistica. Miami è simbolicamente un caso
interessante. Qui – a parte le macchine sportive – si vive tra
Suv, fuoristrada e monovolume sopra i cinque metri. Oggi
sono il simbolo del disastro industriale delle Big Three, il
prodotto culturale di un altro tempo. Mentre Toyota, in
competizione per il primo posto al mondo nella classifica dei
produttori d’auto, conquista il mercato con prodotti
rivoluzionari come l’ibrida Prius o si lancia in una quattro
posti sotto i tre metri, la IQ – nettare degli dei di un
ambientalismo praticabile – Gm (marchi Chevrolet, Pontiac,
Cadillac, Saab, Opel), suo principale concorrente in classifica,
rischia di soccombere travolta da una programmazione
industriale arretrata che appartiene al tempo in cui
l’approvigionamento energetico era solo un problema di
rapporti di forza tra Occidente e produttori, sottratto alla
competizione di mercato imposta dalla Cina e dagli altri
emergenti energivori. Toyota è IQ, Gm è Hummer, il
marchio delle straordinarie e bellissime Suv-fuoristrada di
derivazione militare, simbolo controverso della corsa molto
discutibile all’accrescimento delle dimensioni dei mezzi di
trasporto per uso privato. Anche qui non è in discussione –
moralmente - il tema della libertà individuale di scegliere, ma
il problema - collettivo - delle scelte razionali di un moderno
sistema industriale: negli ultimi trent’anni il progresso
tecnologico ha consentito all’industria occidentale la crescita
dell’efficienza energetica dei motori di quasi il 30 per cento.
Tra i paesi industrializzati, con la sola eccezione del
Giappone, questa efficienza non è stata utilizzata per
risparmiare energia o per razionalizzare il traffico, ma per
aumentare le dimensioni e il peso delle automobili e le
relative dotazioni. Naturalmente le case del ceto medio
americano sono belle e allegre anche a causa delle grandi
macchine parcheggiate davanti. E sono tanto più belle, ed
esotiche, perché sono forse uno dei pochi simboli
dell’identità statunitense a non aver partecipato attivamente
all’avanzata culturale, dell’impero americano in Europa
(descritta in modo organico da Victoria De Grazia in un
libro di due anni fa). Oggi, il loro esotismo ha anche
qualcosa di malinconico.
*
Ad Art Basel ci sono molte cose importanti. Dice Francesco
Bonami, critico e analista di fenomeni culturali, curatore della
prossima biennale del Witney Museum di New York: «È
stata un’edizione meno bombastica ma con molta qualità,
anche perché con quotazioni più ragionevoli, tornano i veri
collezionisti, non quelli da asta. C’era da Rudolf Stingel, che
non supera ancora le quotazioni oltre le quali il mercato in
questa fase si blocca, da Isa Genzken a Lari Pittman». Dice
Mirta D'Argenzio, curatrice e responsabile delle pubbliche
relazioni italiane di Art Basel: «Il progetto più interessante
dell’intera rassegna, intitolato Marco Cavallo, è stato
presentato come proposta dalla galleria italiana T293 di
Napoli, da un colletivo di artisti, Claire Fontaine, ed è stato
riconosciuto dal New York Times come la cosa più
significativa di Miami». Il lavoro più simbolico è quello su
Lehman Brothers. Tredici tavole di Zheng Guogu (che un
compratore domenicale ricordava per esservisi imbattuto a
San Gimignano alla Galleria Continua mentre era sulle tracce
di un più abbordabile Loris Cecchini). Il lavoro si intitola
“Commemorative Plaque 2008: Lehman Brothers Gate”. È
una installazione montata in due ambienti di circa sei metri
per tre. Alcune delle tavole sono mobili. Riproducono
immagini tratte dalla tv cinese, gli impiegati di Lehman che
escono dagli uffici con gli scatoloni, prima di essere riassunti
da Nomura, o i ritratti di Warren Buffett, Hank Paulson e
Alan Greenspan. È stato venduto a un prezzo che non è
stato reso noto (ma si dice essere stato uno dei più alti della
fiera) a un collezionista europeo. Siamo tutti nello stesso
grande flusso – e tutti in attesa, tutti a scrutare quello che
succede sul Lehman Gate. Tutti immalinconiti e insoddisfatti
come Raul Regalado, il quale non vuole lasciare la
Lamborghini, per tornare alla Volkswagen che lo aspetta a
Caracas.
Marco Ferrante