da dante a brUno da dante a brUno

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da dante a brUno da dante a brUno
Leonardo Sebastio
DA DANTE A BRUNO
Introduzioni e testi
NAScita della CULTURA LAICA
Tutte le opere di Dante, dalla Vita nuova alla Commedia, mettono a fuoco quella
che per i due secoli successivi sarà la problematica fonda­mentale della riflessione
teorica sulla poesia e sul poeta: la dignità e la legittimità dell’una e dell’altro
nel sistema delle scienze ed in quello più ampio della umana esistenza. Non
ostante l’Alighieri ponga in termini risolutivi il tema della giustificazione del
linguaggio poetico, del comunicare poeticamente, per la necessità di chiudere
medievalmente il sistema mondo, tuttavia esso resta a lungo irrisolto, sia perché
l’Alighieri basa la sua argomentazione su un versante di pensiero fortemente
impregnato di laicismo, sia perché laicamente opera con originalità e orgoglioso
coraggio, sia perché un’opera fondamentale come il De vulgari, meno esposto
della Commedia a contestazioni d’altra natura, resta ignoto sino al 1529. Così è
che a muovere contestazioni alla comunicazione poetica sono da un verso gli
aristotelici, che si fanno forti della natura fortemente logica della lingua della
conoscenza inevitabilmente avversa ad ogni possibilità d’equivoco insita nella
metafora e nella fabula (eccezion fatta per quella divina dove i quattro livelli
di comunicazione, letterale, allegorico, tropologico ed anago­gico, sono tutti
veridici). Dall’altro gli agostiniani nei quali agiva fortemente la preclusione
delle origini classiche della poesia, e quanto di terrestrità era commesso alle
finalità della scrittura letteraria e della sua lettura. Nient’affatto secondaria
nell’opposizione alla poesia fu la considerazione che la formazione d’uno statuto
per la comunicazione letteraria sanciva la nascita di una classe di intellettuali e di
una società di destinatari alternative a quelle, finora unica (almeno sostanzial­men­
te), della societas christianorum formata dal pastore e dal gregge dei credenti, nella
quale forme, contenuti e finalità erano ben fissate ed immediatamente reversibili
in una teocratica struttura politica.
I timori ecclesiastici erano pienamente giustificati dall’operazione laicizzante
di Federico ii, il quale per sottrarsi alla tutela papale era ricorso alla formazione
di una classe di esperti di diritto (con le Università di Bologna e di Napoli), con
il recupero della cultura filoso­fica greca, araba ed ebraica, con un largo impiego
del mecenatismo artistico e letterario. Di lì era derivata tanta parte dell’ideologia
letteraria e politica dell’Alighieri, di lì quella di Albertino Mussato: l’uno e l’altro
sostenitore dell’idea imperiale, della cultura letteraria, del primato del letterato
nella politica. E prima dell’Alighieri – in un contesto non ancora aristotelizzante,
ma significativo di una ideologia classica e laica – di Brunetto Latini che nel Trésor
e nel commento alla Rhetorica ad Herennium aveva sostenuto con stupefacente
candore (o coraggio ?) essere la retorica l’arte di governare. La comunicazione
retorica e letteraria è strumento (da Federico a Brunetto, da Dante a Mussato)
di conoscenza della storia ed insieme rivelazione della verità che nella storia,
secondo il libro di Dio, è scritta.
È chiaro che in un simile contesto non c’era possibilità alcuna di conciliazione
tra la cultura laica e quella clericale, benché la canonica classificazione delle
arti praticata nelle scuole prevedesse l’insegnamento della retorica: si trattava
tuttavia dell’insegnamento elementare, imme­diatamente successivo alla prima
alfabetizzazione della grammatica. D’altra parte cosa ci si aspettasse dalla
retorica anche in quella che era la centrale pressoché unica della scrittura, la Curia
pontificia, risulta chiaramente dalla quinta del xiii libro delle Familiari di Petrarca:
« hoc unum a me requiri ut humiliare ingenium – utor enim verbis illorum – et
inclinare stilum assuescerem ».
Una via di conciliazione era quella di sganciare la comunicazione letteraria dalla
prassi – e dunque dal potere politico –. È quello che fa Petrarca quando, nella
collatio laureationis o nell’Invectiva contra medicum, afferma che la poesia non ha affatto
uno scopo pratico, o meglio pragmatico. L’operazione di Francesco è di grande
rilievo teorico e storico. Semplificando: l’inutilità della comunicazione letteraria
– garanzia, si badi, della sua nobiltà – è fatto del tutto nuovo nella storia, non solo
in quella prossima della generazione di Dante ed Albertino, ma anche di quella
classica ciceroniana. Egli di fatto staccava il linguaggio artificiato tanto dall’azione,
quanto dalla conoscenza e ne faceva un sistema per sé dignitoso, autosufficiente
espressione diretta dell’umana spiritualità. La comunicazione letteraria è
comunicazione del sé senz’altra finalità se non quella di manifestarsi. Andrà
ribadito che quanto siamo venuti dicendo testé risponde ad una semplificazione
che volutamente non tiene conto dei precedenti che ci furono e non secondari,
a cominciare da Cicerone per finire alle teorie poetiche provenzali. Ma quella
semplificazione può rivelarsi utile per compren­dere come la letteratura – non solo
italiana – con Petrarca si avviasse a diventare, e a rimanere per secoli – soprattutto
in Italia –, un sistema pressoché esclusivamente formale. Tale sistema formale,
in quanto espressione del sé, allora doveva trovare una giustificazione che per
forza di cose era etica: « Nec enim parvus aut index animi sermo est aut sermonis
moderator est animus » [Fam. i, 9]: il Secretum dà la misura delle difficoltà che si
potevano incontrare su questo piano, sul quale vuoi la retorica assumeva il ruolo
di disciplina interiore, vuoi l’etica – cristiana, e non solo cristiana – subiva una
sorta di strumentaliz­zazione in vista della gloria, terrena, dello scrittore.
A ben vedere tuttavia le contraddizioni e le difficoltà si commi­suravano
alla sensibilità religiosa e alla cultura dello scrittore: ché l’aspi­razione alla
letteraria gloria terrena potrà apparire meno peccaminosa via via che terra e
cielo s’avvicineranno. Così come i contenuti di derivazione classica andranno
accostandosi sino ad una loro definitiva collimazione. Allora la comunicazione
letteraria potrà giustificarsi per la valenza etica supposta simile a quella cristiana.
Per il momento il docere ed il delectare venivano sottratti ad ogni utilizzazione
pratica ed erano perfettamente ed irrimediabilmente circoscritti agli ambiti eticoformali. Con un’ulteriore conseguenza che non è possibile tralasciare: staccati
dalla prassi e chiusi nella forma utilità e diletto, e a maggior ragione se la lingua
ufficiale della comunicazione culturale e letteraria era il latino, erano destinati a
quelli che dalla forma erano in grado di trarre giovamento e piacere. Insomma,
la nozione della comunicazione letteraria che nella forma esprime la spiritualità
dell’emittente comporta che il destinatario sappia decodificare un messaggio,
che non si esplicita in contenuti, sia pur parzialmente, comuni e quindi accessibili
attra­verso un processo di riflessione e di maturazione, ma che si distende nella
sola elaborazione del messaggio, nell’arte con cui è confezionato, che tutta deve
essere posseduta per poter essere valutata, compresa e tradotta in termini
d’eticità. Di qui le accuse di obscuritas che Petrarca, Boccaccio, Francesco da Fiano,
Coluccio Salutati, dovettero controbattere.
Di fatto si limitava il pubblico della comunicazione letteraria ai dotti: nasceva
insomma una classe di intellettuali, tutti contempora­neamente produttori e
fruitori delle humanae litterae; una classe estesa al di là dei confini nazionali, ma
staccata dal vulgus, dalla realtà e dalla storia. Tal che il pedagogismo politico e
civile di Dante si trasformava nell’insegnamento di una etica a priori rispetto alla
società, nell’in­citamento ad un’humanitas tutta interiore, forzata a prescindere
dalla storia (o incapace d’affrontarla ?). Neppure il tentativo di Giovanni Boccaccio
di riagganciare la realtà mantenendo ferma la tesi petrar­chesca, chiaramente
riconoscibile nell’exquisita locutio, varrà a ristabilire la dantesca dimensione politica
della comunicazione letteraria (si ricorderà come per Dante negli «scritti dei
filosofi» sta tutta la scienza che costituisce la beatitudo huius vite e lo scopo della
monarchia universale).
L’orizzonte politico è pressoché assente nelle Genealogie deorum gentilium: v’è
l’insistenza sul cicerioniano « fervor inveniendi » che è scintilla divina nei poeti.
Ed è acquisto rilevante e definitivo, benché non sempre compreso appieno, nella
storia della poesia: ché, a diffe­renza dell’imitazione così cara al Petrarca, riconosceva
al poeta la capacità di inventare cose non mai dette prima e d’esprimere una
sua personale verità; nello stesso tempo affidava alla comunicazione letteraria
la funzione d’esprimere l’innovazione ed accrescere il patrimonio d’humanitas.
Sempre la fabula del poeta è sostanziata di ve­rità, naturale o morale, filosofica
o teologica: perciò abbisogna d’un’ex­quisita locutio che sia all’altezza della verità
espressa e costituisca una barriera per gli indotti. Di qui una nozione dell’artificio
scrittorio che deve compaginare insieme l’invenzione del poeta, la verità espressa,
la dignità dell’una e dell’altra e l’elitarietà del prodotto letterario.
Dante ALIGHIERI
Dante ha nozione civile dell’impegno intellettuale, ancora non ben distinto tra
letteratura e scienza, tra letteratura e filosofia. La politicità della nozione implica il
privilegiamento della sua funzione comuni­cativa. Anzi, le fondamenta filosofiche
della sua visione della letteratura spingono a individuare nella comunicazione,
ben più che nel possesso o nella ricerca del sapere, lo specifico dell’attività
intellettuale: è dovere, scrive Dante nell’Epistola xiii, di chi possegga la scienza,
intervenire nella vita civile a correggere quegli errori che potrebbero ostacolare
la libera espressione dell’umana razionalità.
Benché mai il Poeta rivendichi all’intellettuale un ruolo nella gestione politica
simile a quello che Platone riservava ai filosofi nella Repubblica, con gli anni ne
amplierà le responsabilità sino a manifestare l’opportunità che al sapiente sia
affidata la formulazione delle leggi: « Non meraviglia che non legato dalle leggi »
l’uomo colto « sia chia­mato a fare le leggi ». Dove non si allude soltanto alla pura
e semplice funzione di legislatore, ma ad una vera e propria dimensione di maître
à penser, di comunicatore e, come tale, di realizzatore della scienza. A ciò era
indotto dalla matrice aristotelico-averroistica del suo pensiero, che identificava
nella scienza la felicità terrena dell’uomo: la scienza-felicità non era, però,
conseguibile dall’individuo – troppo limitato perché potesse mai dirsi soddisfatto
della quantità di sapere posseduta – nel privato; poteva attuarsi soltanto nella
universa collettività, nel concorso generale degli uomini: insomma, nell’insieme
dell’umanità unita nella monarchia universale nella quale ciascun individuo
avrebbe riversato la sua pur limitata porzione di scienza. Proprio per questo il
sapere doveva uscire dal privato per diventare sociale e politico; proprio per
questo la funzione comunicativa era eminente nell’attività intellettuale; proprio
per questo gli fu necessario rivendicare al volgare, parlato dalla maggioranza
dei cittadini, la capacità di farsi portatore di scienza come era per il latino. La
comunicazione e la comunicazione in volgare costituiscono, così, gli strumenti ed
insieme i luoghi concreti della possibile felicità terrena.
La posizione di Dante è quindi il risultato di un cammino intellet­tuale non facile e
non del tutto privo di compromessi, ma anche di rivoluzioni. Il cammino era iniziato
dalla Vita nuova, che rappresenta un vero e proprio strappo dalla tradizione lirica
trobadorica d’oltralpe che s’era prolungata poi nella Sicilia di Federico ii e nella
scuola toscana pre- e post-guittoniana. Il momento della frattura è in quel­l’« aprire
per prosa », cui vien sottoposto il canone letterario metaforico e personificatorio.
I rimatori in volgare (il gruppo d’amici che si riuniva attorno a Guido Cavalcanti
a formare la così detta scuola del Dolce Stil Nuovo) utilizzano il medesimo canone
linguistico dei poeti latini: Virgilio, Orazio, Ovidio; ma a differenza dei primi rozzi,
« grossi », poeti in volgare, il loro canone obbedisce ad una logica interna, che
trasforma la autocomunicazione letteraria (al più allargata alla corte edotta della
lingua e del jeu d’amour) in comunicazione, diretta ad un pubblico non noto, il
quale, non in base ad un preciso codice di simboli e di comportamenti, bensì
grazie ad un criterio di – dotta – razionalità può decodificare il messaggio del
poeta. Costui, se continua ad avere come destinataria privilegiata la donna amata,
esibisce e comunica la propria etica e la propria sapienza (o la propria qualità di
sapiente) al più vasto pubblico borghese: « grande vergogna sarebbe a colui che
rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non
sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace
intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così
rimano stoltamente ».
Il canone metaforico, ora pur coll’implicito « verace intendimento », adottato
dagli stilnovisti esige « soavità » di lingua, giacché, all’altezza della Vita nuova, per
un verso connota la produzione lirica; per altro verso impone un preciso limite
degli argomenti trattabili che devono attenere solo all’amore: « E questo è contra
coloro che rimano sopra altra matera che amorosa ». A questa determinazione
dantesca concor­rono la condanna aristotelica della metafora, alla quale veniva
opposto il sillogismo come unico strumento conoscitivo e comunicativo della
verità, e la coscienza della intrinseca debolezza della lingua a farsi efficace canale
di argomenti gravi e complessi.
Negli anni successivi alla Vita nuova Dante si concentra sulla sperimentazione
della lingua proprio nella direzione di quella poesia « sopra altra matera che
l’amorosa »: sono gli anni delle Rime allegoriche e dottrinali, che ebbero, tra gli
altri, alcuni non secondari esiti teorici in fatto di filosofia della lingua e della
lingua volgare in particolare. Di quest’ultima, infatti, egli poteva accertare ora
l’efficacia riconoscendone la capacità di « ben manifestare » il « concetto » e
quella strumentale, vuoi a livello di comunicazione della scienza (« questo mio
volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione »), vuoi
a livello di comunicazione per così dire politica e civile (« Questo mio volgare
fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è
disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello »). Conta in quest’ultimo caso la
natura di « cagione efficiente » della sua nascita e della sussistenza stessa della
vita civile e, dunque, non di mero passivo strumento che il retore gestisce in tutto
e per tutto allo scopo di persuadere: i genitori del poeta si sono incontrati per ed
in grazia al semplice fatto che essi utilizzavano la lingua volgare, fuori, cioè, da
ogni canone letterario o retorico.
Riconosciuta l’oggettiva efficacia comunicativa della lingua, la battaglia per
la sua adozione non poteva che combattere atteggiamenti di rifiuto privi di
giustificazione razionale o, ma è lo stesso, morale. Il primo degli atteggiamenti
di rifiuto del volgare è l’ignoranza (« cechi­tade di discrezione ») di coloro che
pur dovrebbero vedere e non vedono, e di coloro che, soprattutto appartenenti
alla classe più popo­lare, non possono vedere perché trascinati da interessi più
immediati. Il secondo atteggiamento è costituito dall’illusione di nascondere la
propria ignoranza sotto la scusa della inefficacia dello strumento. Il terzo attiene
alla vanagloria di coloro che, appresa una lingua straniera, la lodano oltre il giusto.
Il quarto deriva invece dall’invidia di chi, per sminuire l’opera altrui, spregia lo
strumento utilizzato. Come si vede, l’Alighieri elenca per condannarle forme di
disonestà intellettuale, che nel rifiuto del volgare italiano nascondono la reale
impossibilità, o non volontà, di comunicare il sapere di cui si è – o non si è – in
possesso.
Il quinto ed ultimo atteggiamento negativo è individuato nella pusillanimità
(« viltà d’animo »): contro i pusillanimi vengono utilizzate le parole più dure, e
significativamente: « questi cotali sono li abomi­nevoli cattivi d’Italia che hanno
a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in
quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri ». Sono quegli intellettuali
che, pur avendo la possibilità di correggere gli errori che impediscono alla società
di appropriarsi quel sapere che la renderebbe libera e felice, si sottraggono per
mancanza di coraggio al loro dovere.
Si chiude così la trilogia degli elementi costitutivi della comunica­zione: 1)
la nobiltà dell’intellettuale laico si manifesta 2) nella generosa e coraggiosa
professione della scienza 3) per mezzo di una lingua capace di esprimere con
esattezza i concetti della mente. Ebbene, i tre elementi di questa trilogia sono,
ciascuno per sé, di tale dirompente innovazione rispetto alla tradizione medievale,
che non si può non restare ammirati dalla modernità delle vedute di cui Dante si fa
il portavoce più coerente e determinato. Qui ci limiteremo ad annotare la nascita
insieme di un organico disegno e di un’etica della comuni­cazione, sui quali sarà
poi possibile innestare gli elementi che la connotano in chiave letteraria.
Tali elementi continueranno ad essere quelli allegorici e personi­ficatori della
tradizione classica, rivisitati da una imprescindibile ottica medievale e biblica:
risulteranno costretti, tuttavia, in spazi viepiù limitati, se non limitatissimi, nella
prassi dei commenti alle canzoni (e nelle canzoni stesse) del Convivio e in quella
compositiva della Comme­dia. Benché Dante, tanto nel De vulgari eloquentia quanto
nel contem­poraneo Convivio, insista sull’aspetto retorico e metrico in sede di
definizione (la poesia « nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita »;
« le scritture si possono intendere e deonsi esponere massima­mente per quattro
sensi »), di fatto le esigenze imposte dalla filosofia politica della comunicazione
spingeranno il poeta a utilizzare preferi­bilmente la forma della parabola e
dell’exemplum, in particolar modo nella Commedia, fatta salva la dimensione
metrica. Infatti, l’identi­ficazione dell’allegoria (« velame ») come elemento
discrimina­torio tra comunicazione funzionale e comunicazione letteraria (ma
per l’Ali­ghieri si intenda sempre funzionale-letteraria) non vale in Dante tanto
come discriminazione estetica: l’una e l’altra tipologia di comu­nicazione servono
alla trasmissione della sapienza, l’una in prosa l’altra in versi. Si tratta piuttosto
di differenze di ambito: l’una, la prosa, attraverso lo scarno, ma certissimo,
linguaggio del sillogismo, si muo­verà in un ambito filosofico; l’altra, la poesia, con
non minore certezza – e sotto « velame » talora, più spesso in forma d’esempio
– atterrà all’ambito dell’enunciazione di quelle parti del sapere (e, dunque,
ancora sostanzialmente filosofia) che non si possono esporre attraverso il ferreo
snocciolarsi del sillogismo, e che pure sono assiomaticamente evidenti: « E qui
si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le
quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni,
ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento:
e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è
massimo bene in Paradiso » [Conv., iii, xv, 2].
Il trittico che compagina rigidamente la comunicazione dantesca, se di
fatto relega in secondo piano la dimensione estetica « exornatio [est] alicuius
convenientis additio » [D. v. e., ii, i, 9], garantisce alla comu­nicazione letteraria un
campo d’azione esterno alla letteratura ed ai letterati; anzi, in modo assai nuovo,
il destinatario della Commedia è individuato anche nella fascia popolare, oltre
che borghese e nobiliare, della società verso cui ripropone la tipologia scrittoria
educativa del Medioevo, predicatoria ed agiografica: il pubblico dei dotti, degli
addottrinati, dei letterati infine, è, nell’orizzonte dantesco, ancora lontano o, come
le Eglogae a Giovanni del Virgilio lasciano chiara­mente intendere, ignorato.
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L’ornamento [è] aggiunta di qualcosa di conveniente.
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INFERNO
CANTO I
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’ era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’ io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’ or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
CANTO II
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’ andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell’ ombra,
«l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia’ io:
“O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.
“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’ i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: — Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando —.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: — Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? —.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’ io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’ io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
CANTO XIX
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
rupp’ io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».
E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr’ io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
PURGATORIO
CANTO VI
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv’ era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’ e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’ è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’ io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.
Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell’ anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’ esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’ è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
CANTO IX
La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’ eravamo,
e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;
quand’ io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ’ve già tutti e cinque sedavamo.
Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,
e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: ’Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede’.
Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
che convenne che ’l sonno si rompesse.
Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss’ io, sì come da la faccia
mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato m’era solo il mio conforto,
e ’l sole er’ alto già più che due ore,
e ’l viso m’era a la marina torto.
«Non aver tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu se’ omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;
vedi l’entrata là ’ve par digiunto.
Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’ è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro».
A guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
mi cambia’ io; e come sanza cura
vide me ’l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.
Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.
Noi ci appressammo, ed eravamo in parte
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch’ancor non facea motto.
E come l’occhio più e più v’apersi,
vidil seder sovra ’l grado sovrano,
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;
e una spada nuda avëa in mano,
che reflettëa i raggi sì ver’ noi,
ch’io dirizzava spesso il viso in vano.
«Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov’ è la scorta?
Guardate che ’l venir sù non vi nòi».
«Donna del ciel, di queste cose accorta»,
rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: “Andate là: quivi è la porta”».
«Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».
Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto più che perso,
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenëa ambo le piante
l’angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che ’l serrame scioglia».
Divoto mi gittai a’ santi piedi;
misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe» disse.
Cenere, o terra che secca si cavi,
d’un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.
«Quandunque l’una d’este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss’ elli a noi, «non s’apre questa calla.
Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
perch’ ella è quella che ’l nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».
Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ’n dietro si guata».
E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e ’Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì or no s’intendon le parole.
PARADISO
CANTO I
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’ io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ ella, che vedea me sì com’ io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi».
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: «Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’ io trascenda questi corpi levi».
Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’ arco saetta,
ma quelle c’hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’ a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’ a terra quïete in foco vivo».
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.
CANTO II
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.
La concreata e perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
veloci quasi come ’l ciel vedete.
Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver’ me, sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che n’ha congiunti con la prima stella».
Parev’ a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’ acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
S’io era corpo, e qui non si concepe
com’ una dimensione altra patio,
ch’esser convien se corpo in corpo repe,
accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unio.
Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
a guisa del ver primo che l’uom crede.
Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
com’ esser posso più, ringrazio lui
lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.
Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?».
Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali
dove chiave di senso non diserra,
certo non ti dovrien punger li strali
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragione ha corte l’ali.
Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi».
Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l’argomentar ch’io li farò avverso.
La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.
Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.
Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.
Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno
esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
Se ’l primo fosse, fora manifesto
ne l’eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto.
Questo non è: però è da vedere
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.
S’elli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;
e indi l’altrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde.
Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.
Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.
Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.
Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch’igualmente risplenda.
Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,
così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.
Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l’esser di tutto suo contento giace.
Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
quell’ esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.
Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.
Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.
Riguarda bene omai sì com’ io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.
Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;
e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.
E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,
così l’intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.
Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch’ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».
CANTO XVII
Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».
«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».
Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».
CANTO XXIX
Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l’orizzonte insieme zona,
quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
cambiando l’emisperio, si dilibra,
tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Bëatrice, riguardando
fiso nel punto che m’avëa vinto.
Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto
là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.
Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.
Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d’arco tricordo tre saette.
E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l’esser tutto non è intervallo,
così ’l triforme effetto del suo sire
ne l’esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.
Concreato fu ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto;
pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima.
Ieronimo vi scrisse lungo tratto
di secoli de li angeli creati
anzi che l’altro mondo fosse fatto;
ma questo vero è scritto in molti lati
da li scrittor de lo Spirito Santo,
e tu te n’avvedrai se bene agguati;
e anche la ragione il vede alquanto,
che non concederebbe che ’ motori
sanza sua perfezion fosser cotanto.
Or sai tu dove e quando questi amori
furon creati e come: sì che spenti
nel tuo disïo già son tre ardori.
Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto d’i vostri alimenti.
L’altra rimase, e cominciò quest’ arte
che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circüir non si diparte.
Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.
Quelli che vedi qui furon modesti
a riconoscer sé da la bontate
che li avea fatti a tanto intender presti:
per che le viste lor furo essaltate
con grazia illuminante e con lor merto,
sì c’hanno ferma e piena volontate;
e non voglio che dubbi, ma sia certo,
che ricever la grazia è meritorio
secondo che l’affetto l’è aperto.
Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.
Ma perché ’n terra per le vostre scole
si legge che l’angelica natura
è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,
ancor dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
equivocando in sì fatta lettura.
Queste sustanze, poi che fur gioconde
de la faccia di Dio, non volser viso
da essa, da cui nulla si nasconde:
però non hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
rememorar per concetto diviso;
sì che là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!
E ancor questo qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
la divina Scrittura o quando è torta.
Non vi si pensa quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace
chi umilmente con essa s’accosta.
Per apparer ciascun s’ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.
Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s’interpuose,
per che ’l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la luce si nascose
da sé: però a li Spani e a l’Indi
come a’ Giudei tale eclissi rispuose.
Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
quante sì fatte favole per anno
in pergamo si gridan quinci e quindi:
sì che le pecorelle, che non sanno,
tornan del pasco pasciute di vento,
e non le scusa non veder lo danno.
Non disse Cristo al suo primo convento:
’Andate, e predicate al mondo ciance’;
ma diede lor verace fondamento;
e quel tanto sonò ne le sue guance,
sì ch’a pugnar per accender la fede
de l’Evangelio fero scudo e lance.
Ora si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Ma tale uccel nel becchetto s’annida,
che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe
la perdonanza di ch’el si confida:
per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
che, sanza prova d’alcun testimonio,
ad ogne promession si correrebbe.
Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.
Ma perché siam digressi assai, ritorci
li occhi oramai verso la dritta strada,
sì che la via col tempo si raccorci.
Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
determinato numero si cela.
La prima luce, che tutta la raia,
per tanti modi in essa si recepe,
quanti son li splendori a chi s’appaia.
Onde, però che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza
diversamente in essa ferve e tepe.
Vedi l’eccelso omai e la larghezza
de l’etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s’ha in che si spezza,
uno manendo in sé come davanti».
Francesco PETRARCA
La lettera a Tommaso da Messina [Fam., i, 8] è certamente uno dei momenti
in cui più si condensa la meditazione petrarchesca sull’ufficio del letterato,
e dell’intellettuale in genere, nei confronti non – si badi – della società civile,
ma nei confronti di coloro che dovrebbero essere i destinatari delle sue opere.
Tommaso, infatti, oppone che gli uomini possono essere persuasi al bene assai
più ed assai meglio dall’imitazione delle buone azioni che dai discorsi, sia pure
eleganti e persuasivi: è tesi assai diffusa nella predicazione medievale [diceva s.
Bonaventura in un Sermone domenicale: « Quoniam efficacius persuadet vita quam
lingua et exemplum quam verbum hinc est quod dominus noster Iesus Christus
cuius quaelibet actio nostra est instructio ut exemplo vitae suae ad resistendum
diabolo ceteros efficaciter informaret voluit a spiritu dirigi deinde in deserto morari
et postea a diabolo tentari »], che traeva alimento dalla lettera di s. Giacomo. A
petto della comunicazione non verbale implicita in tanta parte della religiosità
medievale, Petrarca non sa opporre se non una funzione corollaria e di supporto
della comu­nicazione retorica (e letteraria). Accettata la veridicità, e non poteva non
esserlo, della posizione dell’interlocutore, Petrarca riservava alla comunicazione
verbale una zona d’efficenza tra i molti, egli scrive, cui ancora non è bastato
l’esempio. L’originalità della scelta del pubblico, quello dei peccanti, mentre
trova spiegazione nell’incertezza del poeta a liberarsi con coraggio dell’eredità
religiosa all’atto della fissazione dei princìpi così come aveva fatto Dante, rivela
la ricerca per la co­municazione letteraria di parallelismi e di complementarità
nell’uti­lizzazione e nei valori con la cultura cristiana.
Torna a questo fine utile a Francesco dimostrare che anche la comunicazione
verbale, quella resa più consistente dalla retorica e dalla poetica, può avere
un’efficacia paragonabile a quella delle buone azioni nell’opera di divulgazione
della morale evangelica. Cadono qui in proposito gli usurati esempi di Orfeo e
di Anfione che vengono suggeriti a paradigma del moderno oratore che si trova
a dover fron­teggiare uomini resi bestiali dalla cupidigia e dalla lussuria. Per
questa via la comunicazione letteraria, che pur sempre in Petrarca conserverà
nominalmente come oggetto la generale scienza e verità, di fatto per­derà i
contenuti del quadrivio (matematica, geometria, musica, astro­nomia) largamente
presenti nei versi della precedente generazione poetica.
Lo sforzo di Petrarca si concentra sul legame tra la retorica e la morale, per
giungere a proporre un varco che gli permetta di superare lo squilibrio tra opera
(eticamente meritevole) e parola (eticamente accettabile), che è quanto dire
appianare l’opposizione tra cultura cri­stiana e classica. Andrà avvertito sin d’ora
che l’operazione petrarchesca ha come campo privilegiato quello della morale
individuale, quello già canonizzato da Catone e Cicerone dell’« homo bonus
dicendi peri­tus ». Un campo, cioè, ben diverso da quello dantesco: ché in Dante
la comunicazione è atto etico in sé e realizzazione di uno dei fini assegnati da Dio
« Poiché la vita persuade più efficacemente della lingua e l’esempio più della parola, deriva che il nostro
signore Gesù Cristo, ogni azione del quale è un insegnamento per noi, per istruire gli altri a resistere al demonio, volle che lo Spirito dapprima lo spingesse e poi lo facesse dimorare nel deserto ed infine inducesse
il demonio a tentarlo ».
« Uomo onesto, esperto dell’arte di parlare ».
all’umanità che s’avvale d’uomini sapienti, non necessariamente esperti dell’arte
del dire; in Petrarca la comunicazione retorica è manifestazione artificiosamente
elaborata della moralità del parlante, la quale non si differenzia da quella nota
e diffusa. Vengono fuori due atteggiamenti contrapposti e contraddittori: giacché
se il contenuto del messaggio è quello noto, che prima di tutto deve espri­mersi
nelle buone azioni, e che è già stato tutto detto e per di più dalla parola divina,
allora la forma sarà in buona misura superflua e dovrà ben guardarsi dall’apportare
variazioni al contenuto: « l’animo ben disposto, come un immobile cielo sereno,
è sempre placido e tran­quillo: sa quel che vuole …; e anche se mancano gli
ornamenti dell’ar­te oratoria, trae da se stesso espressioni splendide e solenni e
certo conformi a se stesso ». Per converso, in opposizione e nello stesso tempo in
concomitanza, in quanto proiezione della moralità del comunicante, l’artificio sarà
segno della qualità etica della sua anima, e pertanto, quanto più l’elaborazione
stilistica sarà spinta, tanto più il livello qualitativo della moralità dell’artista sarà
alto: « Infatti, come il discorso è espressione dell’animo, cosí l’animo governa il
discorso. L’uno dipende dall’altro: quello rimane nascosto in di noi, questo va
fuori in pubblico; quello prepara questo ad uscire e lo forma quale vuole che sia;
questo uscendo manifesta quale sia quello; si obbedisce alla volontà del primo, si
crede alla testimonianza del secondo; bisogna dunque provvedere ad ambedue
così che quello sia sobriamente severo verso questo, e questo sappia essere
veracemente magnifico verso quello; anche se è vero che, una volta che si sia
provveduto all’animo, il discorso non può riuscire trascurato, cosí come per contro
il discorso non può risultare dignitoso, se manchi all’animo la sua maestà ».
Se si può ammettere che l’atto del parlare sia necessario innanzi tutto alla
mente che lo compie e che disponendo i propri pensieri in una forma elaborata
con arte in qualche misura si migliora, non è possibile non prendere atto che la
comunicazione, se acquista dal punto di vista letterario, perde in fatto di contenuti:
« Non so degli altri: ma per quanto mi riguarda, non potrei sufficientemente
spiegare quanto mi giovino nella mia solitudine alcune voci familiari e note –
non solo quando le penso nella mente, ma proprio quando le pronunzio con la
bocca –, con le quali sono solito svegliare l’animo addormentato; quanto diletto
inoltre io tragga dallo sfogliare di quando in quando gli scritti degli altri e miei, e
quanto da quella lettura mi senta liberare da gravissime ed amarissime pene ».
Benché nel polemico Contra medicum quemdam, ed altrove, Petrarca insista sul
fatto che la letteratura si faccia portatrice di qualsiasi contenuto, di fatto la forte
opzione formale condizionerà irrimediabilmente la scelta dei destinatari: « Non è
di tutti seguire questi studi: ma, solo quelli che hanno ingegno, natura e sostanze
necessarie a vivere: le abbiano avute dalla fortuna o possano disprezzarle perché
possiedono la virtù. Ed è così che taluni si dedicano all’agricoltura, altri alla
navigazione, altri alla medicina. […]Questa è la vera ragione della oscurità dei
poeti; non che sia conveniente nascondersi (come tu dici cercando di metter su
un sillogismo che pare ogni momento doverti cadere tra via), ma perché fine della
poesia è non ingannare nessuno e piacere a pochi. E i pochi sono i dotti ».
Il piano formale, area privilegiata di competenza del letterato, di fatto si
oppone alla comunicazione generalizzata, sostenuta dagli aristo­telici, la quale
avrebbe permesso una dialettica, sia pure pedagogica­mente unidirezionata, con
tutte le componenti della vita civile. S’è già alluso come in Petrarca la nozione di
scienza perda l’efficacia felicitante dell’intera società; s’aggiunga la coincidenza
del messaggio con l’etica evangelica: era conseguente che l’obscuritas tornasse ad
essere la più seria connotazione del poeta, fortemente discriminante rispetto
al « volgo di ingegno debole ». Non era esclusiva tuttavia: giacché era condivisa
con i filosofi e con gli scrittori sacri: da un lato i dotti, dall’altro i rozzi, della cui
ignoranza valeva interessarsi nella misura in cui essa diventava (ed era inevitabile
che diventasse) malvagità e vizio.
È interessante seguire l’argomentazione con la quale Petrarca difen­de la poesia
dall’accusa che l’oscurità, identificata con l’« allegoria », nasca dall’invidia. Opporrà
prima una personale dichiarazione d’inno­cenza: « io non invidio nessuno », che
naturalmente non attinge ad alcun valore dimostrativo; come nessun valore
dimostrativo ha l’ag­giunta che Virgilio era onesto, Stazio gentile, modesto Lucano.
Poi ricorrerà ad una assai trita nozione, che risaliva ai primordi dell’esegesi biblica
– e significativamente egli cita s. Agostino –, secondo la quale, intanto la colpa è
della rozzezza degli indotti, e quindi che l’obscuritas: « è il pungolo per richiamare
maggiormente l’attenzione, e l’occasione per un maggiore esercizio scrittorio ».
Le citazioni da s. Agostino giungono in un momento davvero illuminante del
discorso: giacché non sfugge al Petrarca che l’oscurità e la polisemia delle Sacre
Scritture erano annesse ad una comunicazione che per definizione era univer­
sale, sia diacronicamente sia sincronicamente; ora, aggiunge, se quel tipo di
scrittura comporta una non lieve difficoltà di comprensione, una scrittura che non
ha le stesse dimensioni universalistiche, sul piano sincronico, anzi vuol essere
riservata a pochi se non a pochissimi, a maggior ragione dovrà avvalersi della
oscurità dell’allegoria: « Se questo è stato detto giustamente per quelle scritture
che si dirigono ad un vasto pubblico, quanto più giustamente calzeranno alle
scritture che son riservate a pochissimi ? Dunque […] in poesia si mantiene una
certa maestosa dignità dello stile. E questo non per invidia verso chi può capire,
ma, proposta come una dolce fatica, si offre diletto e si sollecita la memoria. Ci
sono infatti più care le cose che abbiamo cercato tra difficoltà e con più cura le
conserviamo ».
L’allegoria diviene a questo punto capace di individuare uno strumento
comunicativo non solo ben definito, ma anche alternativo a quello quotidianamente
utilizzato dalla gente volgare. È operazione esattamente opposta a quella dantesca.
Il livello, lo stile serve anche ad allontanare gli indotti dalla comunicazione
letteraria (« E ci si cura anche dei non capaci, che spaventati si soffermino in
superficie e, se non sono del tutto sciocchi, s’allontanino dalla soglia. Onde avviene
che respinti di qui si diano a percorrere altre vie, soprattutto dopo che abbiano
cominciato a fare i conti e aver constatato che dalla poesia non si guadagna nulla,
se non il diletto dell’animo e la fama del nome ») e crea un canone linguistico
entro il quale i letterati soltanto si ricono­sceranno, e si riconosceranno non per la
dottrina espressa, ma per il livello di elaborazione. Tale livello sarà l’indice della
superiorità morale e sapienziale del letterato che non dovrà più confrontarsi col
reale – non a caso il medico contro cui si scaglierà aveva rilevato l’inutilità della
poesia, e Francesco aveva frainteso o voluto fraintendere denun­ziando che ogni
intenzione di quello mirava al vil denaro –. V’è di più: la lingua ed il livello della
comunicazione messi a contatto col vivere civile addirittura perdono la forma ed il
valore stesso di discorso umano. L’episodio, narrato nella lettera a Francesco dei
santi Apostoli, è significativo. Chiamato dalla Curia per assumere l’incarico di segre­
tario apostolico fu sottoposto ad una prova pratica: occorreva scrivere una lettera
in uno stile ed in una lingua facilmente compren­sibili. La richiesta era motivata:
benché nella lettera Petrarca non alluda minimamente, è pensabile si trattasse di
una scrittura funzionale alla prassi del governo della Chiesa. Il Poeta non supera
l’esame: se ne dice felice perché così ha potuto esimersi dal presentare un rifiuto
al Pontefice. Il suo stile è tanto elaborato che risulta incomprensibile per un
destinatario forse non preparato culturalmente, certo impreparato a ricevere una
comunicazione elegante ma ambigua se non equivoca.
Conta la teorizzazione che ne consegue: « Da Tullio sappiamo che tre sono
gli stili che egli chiama ’ figure ’: il ’ magniloquente ’, che egli chiama ’ grave ’;
il ’ moderato ’, che chiama ’ mediocre ’; l’’ umile ’ che egli chiama ’ dimesso ’. Il
primo di questi, oggi, non è coltivato da nessuno; il secondo lo è da pochi; il
terzo da molti. Tutto ciò che sta sotto, non occupa nessun posto nei valori del
discorso, ma è piuttosto uno sproloquio plebeo rozzo e da servi. Sebbene sia
adoperato continuamente da mille anni, tuttavia non può avere dal tempo quella
dignità che gli manca di natura ». La comunicazione scritta è possibile solo con
l’adozione di un codice ben stabilito e stabile. Fuori non esiste, non che lo stile,
neppure un linguaggio organizzato. Il codice risolve definitivamente la possibilità
stessa di un destinatario social­mente indifferenziato e generale: esiste un abisso
tra l’« effusio » plebea e lo stile, sia pure « dimesso », se non altro perché manca
il ricono­scimento, da parte del destinatario, del codice utilizzato dall’emittente.
Di qui lo straordinario rilievo che nel discorso petrarchesco assume l’imitazione;
rilievo in buona misura anche sorprendente dal punto di vista storico: dal
momento che, ad esempio, la Vita nuova xxv rivendicava parità di valori tra poeti
antichi e moderni, e il De vulgari proponeva modelli contemporanei, e la Commedia
prendeva le distanze dal maestro ed « auttore » proprio quando se ne dichiarava
dipendente. Più, se non del tutto, supina l’imitazione petrarchesca, sino alla copia­
tura: « Del qual consiglio Macrobio non la sostanza sola ma le precise parole inserí
ne’ Saturnali: per modo che a me pare ch’egli ad un tempo contravvenisse coi fatti
a quello che leggendo e scrivendo aveva appro­vato. Infatti non prese a convertire
in favi i fiori che da Seneca aveva raccolti, ma pari pari, quali sugli altrui rami li
trovò, intatti li ripro­dusse. Sebbene, come potrei dire che è d’altrui una cosa,
quan­tunque da un altro elaborata, mentre so, per testimonianza di Seneca stesso,
che Epicuro insegnava che le buone massime da chiunque dette non sono di chi
le disse, ma nostre ? Non è dunque da porsi a colpa di Macrobio, il fatto che gran
parte di una epistola non dirò traducesse ma copiasse nel proemio dell’opera
sua: che anch’io talvolta per caso, ed altri di me piú grandi facemmo lo stesso ».
Il passaggio dalle « api » ai « bachi » nell’argomentazione del Petrarca attenua
la sommissione ai classici solo sotto il profilo della persuasione, lasciando
impregiudicati sia i limiti sia i modi dell’imitazione: « Né sia lo stile di questo o
di quello: composto in uno da molti, questo pure sia nostro. Degni invero di lode
maggiore sono taluni che non a modo delle api qua e là raccogliendo, ma a guisa
di certi bachi un po’ piú grossi che dalle viscere cavan la seta, aman formarsi da se
stessi il concetto e lo stile, purché il pensiero sia giusto e grave, ornato l’eloquio
ed elegante ».
Tal che si può affermare che la vera e propria comunicazione petrar­chesca sia
prima di tutto nel rispetto del codice retorico. Il contenuto del comunicato è la sua
elaborazione formale: Petrarca lo manifesta chiaramente quando affida capacità
consolatorie all’aspetto formale del discorso, quando individua esclusivamente nei
dotti i desti­natari del messaggio, quando infine rifiuta ogni implicazione pragma­
tica alla scrittura. L’imitazione dei classici costituisce codice di autoriconoscimento
dell’emittente e di riconoscimento di lui da parte del destinatario dotto, l’unico
capace di decodificare il messaggio, capace altresì di autoriconoscersi in quel
metalinguaggio o lingua a-storica e a-pragmatica e, appunto per questo, eterna.
Non è un caso che Petrarca cerchi la gloria certamente con un’ansia e con
una perseveranza da costituire motivo di fondato timore per la salvezza della
sua anima. Addirittura Agostino, nel Secretum, arriverà ad ipotizzare che l’amore
stesso per Laura sia l’esito, il paravento dell’a­more della gloria. Tuttavia si veda
altresì come quella gloria sia perseguita sul piano della forma: « potrei facilmente
dimostrarvi che i poeti, sotto il velo dell’invenzione, trattarono questioni ora di
fisica, ora di morale, ora di storia, sicché è vero quello che spesso affermo: tra la
funzione del poeta e quella dello storico e del filosofo (morale o naturale) c’è la
stessa differenza che tra un cielo nuvoloso e uno sereno: la luce che si cela sotto
l’uno e sotto l’altro è la stessa, ma si differenzia secondo la capacità di percezione
di chi guarda. E tuttavia, tanto più dolce diventa la poesia, quanto più laboriosa
è la ricerca della verità, che rende più e più dolci i suoi frutti: basti aver detto
questo, non tanto di me stesso quanto del valore della professione poetica: e
infatti, per quanto mi piaccia scherzare a mo’ dei poeti, non vorrei apparire tanto
poeta, da non essere altro che poeta ».
Conta alla fin fine che in queste defunzionalizzazione e formaliz­zazione si ponga
il momento genetico della comunicazione letteraria: ora si fissano i parametri
certi del livello aulico; da ora in poi, per lo meno per due secoli, ogni deviazione
dalla norma sarà commisurata come deviazione dal canone fissato da Petrarca e
sarà deviazione non significativa d’originalità sebbene più spesso d’errore e di
antilettera­rietà.
Il Canzoniere
(Rerum Vulgarium Fragmenta)
1
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me mesdesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
2
Per fare una leggiadra sua vendetta
et punire in un dí ben mille offese,
celatamente Amor l’arco riprese,
come huom ch’a nocer luogo et tempo aspetta.
Era la mia virtute al cor ristretta
per far ivi et ne gli occhi sue difese,
quando ’l colpo mortal là giù discese
ove solea spuntarsi ogni saetta.
Però, turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio
che potesse al bisogno prender l’arme,
overo al poggio faticoso et alto
ritrarmi accortamente da lo strazio
del quale oggi vorrebbe, et non pò, aitarme.
3
Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d’Amor: però m’andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s’incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio et varco:
però al mio parer non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l’arco.
5
Quando io movo i sospiri a chiamar voi,
e ’l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s’incomincia udir di fore
il suon de’ primi dolci accenti suoi.
Vostro stato REal, che ’ncontro poi,
raddoppia a l’alta impresa il mio valore;
ma: TAci, grida il fin, ché farle honore
è d’altri homeri soma che da’ tuoi.
Cosí LAUdare et REverire insegna
la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,
o d’ogni reverenza et d’onor degna:
se non che forse Apollo si disdegna
ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami
lingua mortal presumpt¸osa vegna.
7
La gola e ’l sonno et l’otïose piume
ànno del mondo ogni vertù sbandita,
ond’è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;
et è sí spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s’informa humana vita,
che per cosa mirabile s’addita
chi vòl far d’Elicona nascer fiume.
Qual vaghezza di lauro, qual di mirto?
Povera et nuda vai philosophia,
dice la turba al vil guadagno intesa.
Pochi compagni avrai per l’altra via:
tanto ti prego più, gentile spirto,
non lassar la magnanima tua impresa.
11
Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid’io
poi che in me conosceste il gran desio
ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.
Mentr’io portava i be’ pensier’ celati,
ch’ànno la mente desïando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,
fuor i biondi capelli allor velati,
et l’amoroso sguardo in sé raccolto.
Quel ch’i’ più desiava in voi m’è tolto:
sí mi governa il velo
che per mia morte, et al caldo et al gielo,
de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.
12
Se la mia vita da l’aspro tormento
si può tanto schermire, et dagli affanni,
ch’i’ veggia per vertù de gli ultimi anni,
donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,
e i cape’ d’oro fin farsi d’argento,
et lassar le ghirlande e i verdi panni,
e ’l viso scolorir che ne’ miei danni
a llamentar mi fa pauroso et lento:
pur mi darà tanta baldanza Amore
ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri
qua’ sono stati gli anni, e i giorni et l’ore;
et se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,
non fia ch’almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.
16
Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;
indi trahendo poi l’antiquo fianco
per l’extreme giornate di sua vita,
quanto più pò, col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, et dal cammino stanco;
et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:
cosí, lasso, talor vo cerchand’io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.
32
Quanto più m’avicino al giorno extremo
che l’umana miseria suol far breve,
più veggio il tempo andar veloce et leve,
e ’l mio di lui sperar fallace et scemo.
I’ dico a’ miei pensier’: Non molto andremo
d’amor parlando omai, ché ’l duro et greve
terreno incarco come frescha neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:
perché co llui cadrà quella speranza
che ne fe’ vaneggiar sí lungamente,
e ’l riso e ’l pianto, et la paura et l’ira;
sí vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s’avanza,
et come spesso indarno si sospira.
35
Solo et pensoso i più d eserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sí ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.
36
S’io credesse per morte essere scarco
del pensiero amoroso che m’atterra,
colle mie mani avrei già posto in terra
queste mie membra noiose, et quello incarco;
ma perch’io temo che sarrebbe un varco
di pianto in pianto, et d’una in altra guerra,
di qua dal passo anchor che mi si serra
mezzo rimango, lasso, et mezzo il varco.
Tempo ben fûra omai d’avere spinto
l’ultimo stral la dispietata corda
ne l’altrui sangue già bagnato et tinto;
et io ne prego Amore, et quella sorda
che mi lassò de’ suoi color’ depinto,
et di chiamarmi a sé non le ricorda.
50
Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina
verso occidente, et che ’l dí nostro vola
a gente che di là forse l’aspetta,
veggendosi in lontan paese sola,
la stancha vecchiarella pellegrina
raddoppia i passi, et più et più s’affretta;
et poi cosí soletta
al fin di sua giornata
talora è consolata
d’alcun breve riposo, ov’ella oblia
la noia e ’l mal de la passata via.
Ma, lasso, ogni dolor che ’l dí m’adduce
cresce qualor s’invia
per partirsi da noi l’eterna luce.
Come ’l sol volge le ’nfiammate rote
per dar luogo a la notte, onde discende
dagli altissimi monti maggior l’ombra,
l’avaro zappador l’arme riprende,
et con parole et con alpestri note
ogni gravezza del suo petto sgombra;
et poi la mensa ingombra
di povere vivande,
simili a quelle ghiande,
le qua’ fuggendo tutto ’l mondo honora.
Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,
ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta,
ma riposata un’hora,
né per volger di ciel né di pianeta.
Quando vede ’l pastor calare i raggi
del gran pianeta al nido ov’egli alberga,
e ’nbrunir le contrade d’orïente,
drizzasi in piedi, et co l’usata verga,
lassando l’erba et le fontane e i faggi,
move la schiera sua soavemente;
poi lontan da la gente
o casetta o spelunca
di verdi frondi ingiuncha:
ivi senza pensier’ s’adagia et dorme.
Ahi crudo Amor, ma tu allor più mi ’nforme
a seguir d’una fera che mi strugge,
la voce e i passi et l’orme,
et lei non stringi che s’appiatta et fugge.
E i naviganti in qualche chiusa valle
gettan le menbra, poi che ’l sol s’asconde,
sul duro legno, et sotto a l’aspre gonne.
Ma io, perché s’attuffi in mezzo l’onde,
et lasci Hispagna dietro a le sue spalle,
et Granata et Marroccho et le Colonne,
et gli uomini et le donne
e ’l mondo et gli animali
aquetino i lor mali,
fine non pongo al mio obstinato affanno;
et duolmi ch’ogni giorno arroge al danno,
ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia
ben presso al decim’anno,
né poss’indovinar chi me ne scioglia.
Et perché un poco nel parlar mi sfogo,
veggio la sera i buoi tornare sciolti
da le campagne et da’ solcati colli:
i miei sospiri a me perché non tolti
quando che sia? perché no ’l grave giogo?
perché dí et notte gli occhi miei son molli?
Misero me, che volli
quando primier sí fiso
gli tenni nel bel viso
per iscolpirlo imaginando in parte
onde mai né per forza né per arte
mosso sarà, fin ch’i’ sia dato in preda
a chi tutto diparte!
Né so ben ancho che di lei mi creda.
Canzon, se l’esser meco
dal matino a la sera
t’à fatto di mia schiera,
tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;
et d’altrui loda curerai sí poco,
ch’assai ti fia pensar di poggio in poggio
come m’à concio ’l foco
di questa viva petra, ov’io m’appoggio.
53
Spirto gentil, che quelle membra reggi
dentro le qua’ peregrinando alberga
un signor valoroso, accorto et saggio,
poi che se’ giunto a l’onorata verga
colla qual Roma et i suoi erranti correggi,
et la richiami al suo antiquo vïaggio,
io parlo a te, però ch’altrove un raggio
non veggio di vertù, ch’al mondo è spenta,
né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s’aspetti non so, né che s’agogni,
Italia, che suoi guai non par che senta:
vecchia, otïosa et lenta,
dormirà sempre, et non fia chi la svegli?
Le man’ l’avess’io avolto entro’ capegli.
Non spero che già mai dal pigro sonno
mova la testa per chiamar ch’uom faccia,
sí gravemente è oppressa et di tal soma;
ma non senza destino a le tue braccia,
che scuoter forte et sollevarla ponno,
è or commesso il nostro capo Roma.
Pon’ man in quella venerabil chioma
securamente, et ne le treccie sparte,
sí che la neghittosa esca del fango.
I’ che dí et notte del suo strazio piango,
di mia speranza ò in te la maggior parte:
che se ’l popol di Marte
devesse al proprio honore alzar mai gli occhi,
parmi pur ch’a’ tuoi dí la gratia tocchi.
L’antiche mura ch’anchor teme et ama
et trema ’l mondo, quando si rimembra
del tempo andato e ’n dietro si rivolve,
e i sassi dove fur chiuse le membra
di ta’ che non saranno senza fama,
se l’universo pria non si dissolve,
et tutto quel ch’una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vitio.
O grandi Scipïoni, o fedel Bruto,
quanto v’aggrada, s’egli è anchor venuto
romor là giù del ben locato officio!
Come cre’ che Fabritio
si faccia lieto, udendo la novella!
Et dice: Roma mia sarà anchor bella.
Et se cosa di qua nel ciel si cura,
l’anime che lassù son citadine,
et ànno i corpi abandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine,
per cui la gente ben non s’assecura,
onde ’l camin a’ lor tecti si serra:
che fur già sí devoti, et ora in guerra
quasi spelunca di ladron’ son fatti,
tal ch’a’ buon’ solamente uscio si chiude,
et tra gli altari et tra le statue ignude
ogni impresa crudel par che se tratti.
Deh quanto diversi atti!
Né senza squille s’incommincia assalto,
che per Dio ringraciar fur poste in alto.
Le donne lagrimose, e ’l vulgo inerme
de la tenera etate, e i vecchi stanchi
ch’ànno sé in odio et la soverchia vita,
e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,
coll’altre schiere travagliate e ’nferme,
gridan: O signor nostro, aita, aita.
Et la povera gente sbigottita
ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
ch’Anibale, non ch’altri, farian pio.
Et se ben guardi a la magion di Dio
ch’arde oggi tutta, assai poche faville
spegnendo, fien tranquille
le voglie, che si mostran sí ’nfiammate,
onde fien l’opre tue nel ciel laudate.
Orsi, lupi, leoni, aquile et serpi
ad una gran marmorea colomna
fanno noia sovente, et a sé danno.
Di costor piange quella gentil donna
che t’à chiamato a ciò che di lei sterpi
le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già più che ’l millesimo anno
che ’n lei mancar quell’anime leggiadre
che locata l’avean là dov’ell’era.
Ahi nova gente oltra misura altera,
irreverente a tanta et a tal madre!
Tu marito, tu padre:
ogni soccorso di tua man s’attende,
ché ’l maggior padre ad altr’opera intende.
Rade volte adiven ch’a l’alte imprese
fortuna ingiurïosa non contrasti,
ch’agli animosi fatti mal s’accorda.
Ora sgombrando ’l passo onde tu intrasti,
famisi perdonar molt’altre offese,
ch’almen qui da se stessa si discorda:
però che, quanto ’l mondo si ricorda,
ad huom mortal non fu aperta la via
per farsi, come a te, di fama eterno,
che puoi drizzar, s’i’ non falso discerno,
in stato la più nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
dir: Gli altri l’ait‚r giovene et forte;
questi in vecchiezza la scampò da morte.
Sopra ’l monte Tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier, ch’Italia tutta honora,
pensoso più d’altrui che di se stesso.
Digli: Un che non ti vide anchor da presso,
se non come per fama huom s’innamora,
dice che Roma ognora
con gli occhi di dolor bagnati et molli
ti chier mercé da tutti sette i colli.
62
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch’al cor s’accese,
mirando gli atti per mio mal sí adorni,
piacciati omai col Tuo lume ch’io torni
ad altra vita et a più belle imprese,
sí ch’avendo le reti indarno tese,
il mio duro adversario se ne scorni.
Or volge, Signor mio, l’undecimo anno
ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i più soggetti è più feroce.
Miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.
81
Io son sí stanco sotto ’l fascio antico
de le mie colpe et de l’usanza ria
ch’i’ temo forte di mancar tra via,
et di cader in man del mio nemico.
Ben venne a dilivrarmi un grande amico
per somma et ineffabil cortesia;
poi volò fuor de la veduta mia,
sí ch’a mirarlo indarno m’affatico.
Ma la sua voce anchor qua giù rimbomba:
O voi che travagliate, ecco ’l camino;
venite a me, se ’l passo altri non serra.
Qual gratia, qual amore, o qual destino
mi darà penne in guisa di colomba,
ch’i’ mi riposi, et levimi da terra?
90
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e l’vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi;
e ’l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.
Uno spirito celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.
92
Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch’è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.
Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir’ tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.
Piangan le rime anchor, piangano i versi,
perché ’l nostro amoroso messer Cino
novellamente s’è da noi partito.
Pianga Pistoia, e i citadin perversi
che perduto ànno sí dolce vicino;
et rallegresi il cielo, ov’ello è gito.
106
Nova angeletta sovra l’ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva,
là ’nd’io passava sol per mio destino.
Poi che senza compagna et senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
tese fra l’erba, ond’è verde il camino.
Allor fui preso; et non mi spiacque poi,
sí dolce lume uscia degli occhi suoi.
126
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.
S’egli è pur mio destino
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.
Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mans¸eta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pietà!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: - Qui regna Amore. Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sí diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo d’esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch’altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.
128
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
colui è più da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?
Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mans¸ete gregge
s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per più dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non più bevve del fiume acqua che sangue.
Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ’n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.
Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove
più largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.
Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertù contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.
Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giù l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto più degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giù si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.
Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. 129
Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, o rivo, o fonte,
se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
et come Amor l’envita,
or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vita experto
diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.
Per alti monti et per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira ’l tormento ch’i’ porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch’i’ dico: Forse anchor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?
Ove porge ombra un pino alto od un colle
talor m’arresto, et pur nel primo sasso
disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch’a me torno, trovo il petto molle
de la pietate; et alor dico: Ahi, lasso,
dove se’ giunto! et onde se’ diviso!
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
et mirar lei, et oblïar me stesso,
sento Amor sí da presso,
che del suo proprio error l’alma s’appaga:
in tante parti et sí bella la veggio,
che se l’error durasse, altro non cheggio.
I’ l’ò più volte (or chi fia che mi ’l creda?)
ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde
veduto viva, et nel tronchon d’un faggio
e ’n bianca nube, sí fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che ’l sol copre col raggio;
et quanto in più selvaggio
loco mi trovo e ’n più deserto lido,
tanto più bella il mio pensier l’adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lí medesmo assido
me freddo, pietra morta in pietra viva,
in guisa d’uom che pensi et pianga et scriva.
Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
verso ’l maggiore e ’l più expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso;
indi i miei danni a misurar con gli occhi
comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
alor ch’i’ miro et penso,
quanta aria dal bel viso mi diparte
che sempre m’è sí presso et sí lontano.
Poscia fra me pian piano:
Che sai tu, lasso! forse in quella parte
or di tua lontananza si sospira.
Et in questo penser l’alma respira.
Fondata in casta et humil povertate,
contra’ tuoi fondatori alzi le corna,
putta sfacciata: et dove ài posto spene?
Canzone, oltra quell’alpe
là dove il ciel è più sereno et lieto
mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,
ove l’aura si sente
d’un fresco et odorifero laureto.
Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;
qui veder pûi l’imagine mia sola.
Ne gli adùlteri tuoi? ne le mal nate
richezze tante? Or Constantin non torna;
ma tolga il mondo tristo che ’l sostene.
134
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.
189
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.
A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze, et di desio.
Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.
Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna et rallenta le già stanche sarte,
che son d’error con ignorantia attorto.
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.
Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l’onde è la ragion et l’arte,
tal ch’incomincio a desperar del porto.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.
234
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie di¸rne,
fonte se’ or di lagrime nocturne,
che ’l dí celate per vergogna porto.
137
L’avara Babilonia à colmo il sacco
d’ira di Dio, e di vitii empii et rei,
tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi
non Giove et Palla, ma Venere et Bacco.
O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver ’me crudeli a sí gran torto!
Aspectando ragion mi struggo et fiacco;
ma pur novo soldan veggio per lei,
lo qual farà, non già quand’io vorrei,
sol una sede, et quella fia in Baldacco.
Né pur il mio secreto e ’l mio riposo
fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;
Gl’idoli suoi sarranno in terra sparsi,
et le torre superbe, al ciel nemiche,
e i suoi torrer’ di for come dentro arsi.
e ’l vulgo a me nemico et odïoso
(ch ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.
Anime belle et di virtute amiche
terranno il mondo; et poi vedrem lui farsi
aurÎo tutto, et pien de l’opre antiche.
268
Che debb’io far? che mi consigli, Amore?
Tempo è ben di morire,
et ò tardato più ch’i’ non vorrei.
Madonna è morta, et à seco il mio core;
et volendol seguire,
interromper conven quest’anni rei,
perché mai veder lei
di qua non spero, et l’aspettar m’è noia.
Poscia ch’ogni mia gioia
per lo suo dipartire in pianto è volta,
ogni dolcezza de mia vita è tolta.
138
Fontana di dolore, albergo d’ira,
scola d’errori, et templo d’eresia,
già Roma, or Babilonia falsa et ria,
per cui tanto si piange et si sospira;
o fucina d’inganni, o pregion dira,
ove ’l ben more, e ’l mal si nutre et cria,
di vivi inferno, un gran miracol fia
se Cristo teco alfine non s’adira.
Amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio,
quant’è il damno aspro et grave;
e so che del mio mal ti pesa et dole,
anzi del nostro, perch’ad uno scoglio
avem rotto la nave,
et in un punto n’è scurato il sole.
Qual ingegno a parole
poria aguagliare il mio doglioso stato?
Ahi orbo mondo, ingrato,
gran cagion ài di dever pianger meco,
ché quel bel ch’era in te, perduto ài seco.
Caduta è la tua gloria, et tu nol vedi,
né degno eri, mentr’ella
visse qua giù, d’aver sua conoscenza,
né d’esser tocco da’ suoi sancti piedi,
perché cosa sí bella
devea ’l ciel adornar di sua presenza.
Ma io, lasso, che senza
lei né vita mortal né me stesso amo,
piangendo la richiamo:
questo m’avanza di cotanta spene,
et questo solo anchor qui mi mantene.
Oïmè, terra è fatto il suo bel viso,
che solea far del cielo
et del ben di lassù fede fra noi;
l’invisibil sua forma è in paradiso,
disciolta di quel velo
che qui fece ombra al fior degli anni suoi,
per rivestirsen poi
un’altra volta, et mai più non spogliarsi,
quando alma et bella farsi
tanto più la vedrem, quanto più vale
sempiterna bellezza che mortale.
Più che mai bella et più leggiadra donna
tornami inanzi, come
là dove più gradir sua vista sente.
Questa è del viver mio l’una colomna,
l’altra è ’l suo chiaro nome,
che sona nel mio cor sí dolcemente.
Ma tornandomi a mente
che pur morta è la mia speranza, viva
allor ch’ella fioriva,
sa ben Amor qual io divento, et (spero)
vedel colei ch’è or sí presso al vero.
Donne, voi che miraste sua beltate
et l’angelica vita
con quel celeste portamento in terra,
di me vi doglia, et vincavi pietate,
non di lei ch’è salita
a tanta pace, et m’à lassato in guerra:
tal che s’altri mi serra
lungo tempo il camin da seguitarla,
quel ch’Amor meco parla,
sol mi ritien ch’io non recida il nodo.
Ma e’ ragiona dentro in cotal modo:
- Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta,
ché per soverchie voglie
si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira,
dove è viva colei ch’altrui par morta,
et di sue belle spoglie
seco sorride, et sol di te sospira;
et sua fama, che spira
in molte parti anchor per la tua lingua,
prega che non extingua,
anzi la voce al suo nome rischiari,
se gli occhi suoi ti fur dolci né cari. Fuggi ’l sereno e ’l verde,
non t’appressare ove sia riso o canto,
canzon mia no, ma pianto:
non fa per te di star fra gente allegra,
vedova, sconsolata, in vesta negra.
269
Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro
che facean ombra al mio stanco pensero;
perduto ò quel che ritrovar non spero
dal borrea a l’austro, o dal mar indo al mauro.
Tolto m’ài, Morte, il mio doppio thesauro,
che mi fea viver lieto et gire altero,
et ristorar nol pò terra né impero,
né gemma orïental, né forza d’auro.
Ma se consentimento è di destino,
che posso io più, se no aver l’alma trista,
humidi gli occhi sempre, e ’l viso chino?
O nostra vita ch’è sí bella in vista,
com perde agevolmente in un matino
quel che ’n molti anni a gran pena s’acquista!
272
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi penser’ fòra.
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
273
Che fai? Che pensi? che pur dietro guardi
nel tempo, che tornar non pote omai?
Anima sconsolata, che pur vai
giungnendo legne al foco ove tu ardi?
Le soavi parole e i dolci sguardi
ch’ad un ad un descritti et depinti ài,
son levati de terra; et è, ben sai,
qui ricercarli intempestivo et tardi.
Deh non rinovellar quel che n’ancide
non seguir più penser vago, fallace,
ma saldo et certo, ch’a buon fin ne guide.
Cerchiamo ’l ciel, se qui nulla ne piace:
ché mal per noi quella beltà si vide,
se viva et morta ne devea tûr pace.
302
Levommi il mio penser in parte ov’era
quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra:
ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra,
la rividi più bella et meno altera.
Per man mi prese, et disse: - In questa spera
sarai anchor meco, se ’l desir non erra:
i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,
et compie’ mia giornata inanzi sera.
Mio ben non cape in intelletto humano:
te solo aspetto, et quel che tanto amasti
e là giuso è rimaso, il mio bel velo. Deh perché tacque, et allargò la mano?
Ch’al suon de’ detti sí pietosi et casti
poco mancò ch’io non rimasi in cielo.
310
Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.
Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;
et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e ’n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.
320
Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli
veggio apparire, onde ’l bel lume nacque
che tenne gli occhi mei mentr’al ciel piacque
bramosi et lieti, or li tèn tristi et molli.
O caduche speranze, o penser’ folli!
Vedove l’erbe et torbide son l’acque,
et vòto et freddo ’l nido in ch’ella giacque,
nel qual io vivo, et morto giacer volli,
sperando alfin da le soavi piante
et da begli occhi suoi, che ’l cor m’ànn’arso,
riposo alcun de le fatiche tante.
O’ servito a signor crudele et scarso:
ch’arsi quanto ’l mio foco ebbi davante,
or vo piangendo il suo cenere sparso.
353
Vago augelletto che cantando vai,
over piangendo, il tuo tempo passato,
vedendoti la notte e ’l verno a lato
e ’l dí dopo le spalle e i mesi gai,
se, come i tuoi gravosi affanni sai,
cosí sapessi il mio simile stato,
verresti in grembo a questo sconsolato
a partir seco i dolorosi guai.
I’ non so se le parti sarian pari,
ché quella cui tu piangi è forse in vita,
di ch’a me Morte e ’l ciel son tanto avari;
ma la stagione et l’ora men gradita,
col membrar de’ dolci anni et de li amari,
a parlar teco con pietà m’invita.
366
Vergin bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede:
Vergine, s’a mercede
miseria extrema de l’humane cose
già mai ti volse, al mio prego t’inchina,
soccorri a la mia guerra,
bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.
Vergine saggia, et del bel numero una
de le beate vergini prudenti,
anzi la prima, et con più chiara lampa;
o saldo scudo de l’afflicte genti
contra colpi di Morte et di Fortuna,
sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa;
o refrigerio al cieco ardor ch’avampa
qui fra i mortali sciocchi:
Vergine, que’ belli occhi
che vider tristi la spietata stampa
ne’ dolci membri del tuo caro figlio,
volgi al mio dubbio stato,
che sconsigliato a te vèn per consiglio.
Vergine pura, d’ogni parte intera,
del tuo parto gentil figliola et madre,
ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,
per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,
o fenestra del ciel lucente altera,
venne a salvarne in su li extremi giorni;
et fra tutt’i terreni altri soggiorni
sola tu fosti electa,
Vergine benedetta,
che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni.
Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,
senza fine o beata,
già coronata nel superno regno.
Vergine santa d’ogni gratia piena,
che per vera et altissima humiltate
salisti al ciel onde miei preghi ascolti,
tu partoristi il fonte di pietate,
et di giustitia il sol, che rasserena
il secol pien d’errori oscuri et folti;
tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,
madre, figliuola et sposa:
Vergina glorïosa,
donna del Re che nostri lacci à sciolti
et fatto ’l mondo libero et felice,
ne le cui sante piaghe
prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.
Vergine sola al mondo senza exempio,
che ’l ciel di tue bellezze innamorasti,
cui né prima fu simil né seconda,
santi penseri, atti pietosi et casti
al vero Dio sacrato et vivo tempio
fecero in tua verginità feconda.
Per te pò la mia vita esser ioconda,
s’a’ tuoi preghi, o Maria,
Vergine dolce et pia,
ove ’l fallo abondò, la gratia abonda.
Con le ginocchia de la mente inchine,
prego che sia mia scorta,
et la mia torta via drizzi a buon fine.
Vergine chiara et stabile in eterno,
di questo tempestoso mare stella,
d’ogni fedel nocchier fidata guida,
pon’ mente in che terribile procella
i’ mi ritrovo sol, senza governo,
et ò già da vicin l’ultime strida.
Ma pur in te l’anima mia si fida,
peccatrice, i’ no ’l nego,
Vergine; ma ti prego
che ’l tuo nemico del mio mal non rida:
ricorditi che fece il peccar nostro,
prender Dio per scamparne,
humana carne al tuo virginal chiostro.
Vergine, quante lagrime ò già sparte,
quante lusinghe et quanti preghi indarno,
pur per mia pena et per mio grave danno!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa et or quel’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno
tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra et alma,
non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.
I dí miei più correnti che saetta
fra miserie et peccati
sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta.
Vergine, tale è terra, et posto à in doglia
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne
et de mille miei mali un non sapea:
et per saperlo, pur quel che n’avenne
fûra avenuto, ch’ogni altra sua voglia
era a me morte, et a lei fama rea.
Or tu donna del ciel, tu nostra dea
(se dir lice, e convensi),
Vergine d’alti sensi,
tu vedi il tutto; e quel che non potea
far altri, è nulla a la tua gran vertute,
por fine al mio dolore;
ch’a te honore, et a me fia salute.
Vergine, in cui ò tutta mia speranza
che possi et vogli al gran bisogno aitarme,
non mi lasciare in su l’extremo passo.
Non guardar me, ma Chi degnò crearme;
no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,
ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso.
Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso
d’umor vano stillante:
Vergine, tu di sante
lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso,
ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
senza terrestro limo,
come fu ’l primo non d’insania vòto.
Vergine humana, et nemica d’orgoglio,
del comune principio amor t’induca:
miserere d’un cor contrito humile.
Che se poca mortal terra caduca
amar con sí mirabil fede soglio,
che devrò far di te, cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero et vile
per le tue man’ resurgo,
Vergine, i’ sacro et purgo
al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile,
la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado,
et prendi in grado i cangiati desiri.
Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge,
sí corre il tempo et vola,
Vergine unica et sola,
e ’l cor or coscïentia or morte punge.
Raccomandami al tuo figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.
Giovanni BOCCACCIO
La riflessione sulla poesia torna di frequente nel più maturo periodo di
esercizio letterario: dal Decameron alle Genealogie, dal(i) Trattatello in Laude di Dante
alle Esposizioni sopra la «Comedia»; e torna sempre intrisa della polemica viva attorno
alla poesia suscitata dagli aristotelici, epperciò densa di umori e di passioni
indubbiamente, ma non certo per questo sminuita negli spessori teoretici: i
ritorni, infatti, si poggiano a punti fermi, variati di poco nel trentennio che va dalla
prima redazione del Trattatello (1350) alle Esposizioni (1375).
Uno dei punti fermi della meditazione boccacciana è l’exquisita locutio che
nelle Genealogie deriva direttamente dallo spirito infuso dal « seno di Dio »,
nelle Esposizioni è operazione umana diretta all’esalta­zione degli dèi. Nell’uno e
nell’altro caso la raffinatezza del linguaggio, cui, in maniera non scindibile, deve
aggiungersi il velo allegorico, è ciò che distingue la poesia dalla comunicazione
funzionale. Gli esseri umani vollero ben presto rivolgere alla divinità parole di
lode: dettero ai sacerdoti il compito di ricercare un linguaggio adatto alla divinità:
« conoscendo non essere degna cosa a tanta deità dir parole simili a quelle che
noi, l’uno amico con l’altro, familiarmente diciamo, o il signore al servo suo ».
La letteratura nasce, dunque, da una precisa volontà di allontanamento dal
quotidiano e da quel funzionale per il quale il linguaggio è stato dato agli uomini:
« il linguaggio ci è stato dato per comunicare il necessario non il superfluo ». Anzi,
la metrica è per prima cosa mezzo d’abbellimento musicale, o connotazione for­
male della comunicazione poetica, via di straniamento dalla lingua funzionale: i
sacerdoti, infatti, per differenziare le parole della preghiera « per farle ancora più
strane dall’usitato parlare degli uomini, artificio­samente le composero in versi »;
in seconda battuta è elemento connotativo della poesia.
La via di Boccaccio diverge profondamente da quella di Petrarca: quanto
questi, infatti, insiste sull’elaborazione tutta umana, dotta e ac­culturatissima,
ma sempre affidata allo studio perseverante di uomini eletti del canone poetico
classico, per appropriarsene grazie all’imi­tazione (come le api o i bachi); tanto
Boccaccio l’annoda al divino, ad una insondabilità miracolosa e insieme originaria.
È chiaro che il tempo impone forme e contenuti di pensiero: certo che le varianti,
con cui lo scrittore di Certaldo esprime la insondabilità della nascita nel poeta
dell’intuizione poetica e delle forme della sua comunicazione, espri­mono il
tentativo di sottrarre la poesia alla pura techné imitativa, cui l’aveva affidata – e
ridotta – l’amico e maestro Petrarca.
Così è che adesso nelle Esposizioni l’altro elemento essenziale alla comunicazione
poetica, il velo allegorico, nasce come mezzo esco­gitato dai sacerdoti per
impedire che la nobiltà dei concetti – divini – espressi potesse andar perduta
nella divulgazione popolare. Nelle Genealogie la favola è una delle forme della
comunicazione, dotata di una funzionalità razionale che, inglobando l’invenzione
fantastica, la rende alternativa alla lingua che dalla natura è stata data all’uomo. Il
termine fabula deriva dal latino for, faris, da cui confabulare, che è vocabolo utilizzato
e dunque autorizzato dall’Evangelista Luca, vuoi nella forma, vuoi nel contenuto.
Dunque: comporre favole non è peccato: « perché altro dalla natura è stato dato
solo all’uomo di parlare, se non perché colloquiamo tra noi ed attraverso le parole
comuni­chiamo i nostri concetti ? ». Per questa via Boccaccio giungeva a trasformare
la comunicazione letteraria in comunicazione funzionale senza abbassarne il livello
stilistico: « La favola è sotto la finzione un discorso esemplare o dimostrativo;
rimossa la corteccia si appalesa l’intenzione del favolista. E così è che se sotto il
velo favoloso si cela qualcosa di sapido: allora non sarà superfluo aver composto
favole ».
La comunicazione letteraria ha sue specifiche forme, e le vedremo, e sue
specifiche funzioni: l’esempio e la dimostrazione, e quest’ultima in comune con
la modalità linguistica del sillogismo. Veniva evitato il rischio d’una eccessiva
enfatizzazione del momento formale, in cui era incorso il Petrarca, e in virtù
della quale la comunicazione letteraria aveva finito (e finirà ancora per secoli)
per distinguere gli emittenti, per portarli, talora ghettizzarli, in una classe di
cultura superiore, separata dalla realtà politica e civile, sulla quale il letterato
può al più riflettere, ma che non può modificare, mancandogli l’intermediazione
politica, anche quando il politico di turno è un dotto se non il dotto che scrive. La
comunicazione letteraria di Boccaccio invece esemplifica e dimo­stra, è colloquio
ben innestato nel tronco della lingua con la quale « comunichiamo i nostri
concetti ». Semmai l’enfatizzazione boccac­ciana è in direzione opposta rispetto al
perseguimento petrarchesco di un linguaggio metastorico, verso la funzionalità:
è nella scia dantesca nella ricerca d’una lingua illustre dell’hinc et nunc con cui
rivolgersi ai contemporanei per i quali è scritta l’opera letteraria. Boccaccio accen­
tuerà la valenza funzionale, tanto da superare la differenza da Dante stabilita tra
poesia e prosa, alla quale il Poeta affidava le dimostrazioni certe della filosofia. Di
qui una forte caratterizzazione comunicativa, che trova espressione nella precisa
individuazione del destinatario dell’opera sua, ben collocato nella dimensione
storica.
Prima d’affrontare il ruolo del destinatario si badi: la comunicazione letteraria
così come è concepita da Boccaccio, non perde nulla della sua elaborazione formale
e non perde nulla del fantastico e dell’imma­gina­rio: giacché alla base sta un certo
fervore di scrivere elegantemente ciò che l’invenzione detta: è una frenesia, o
pazzia divina di esprimere e comunicare quello che la fantasia detta: « […] armare
re, condurli in guerra, spedire in mare flotte, descrivere il cielo, la terra e il mare,
ornare le fanciulle di ghirlande e fiori, designare gli atti degli uomini secondo
le qualità, tenere desti i sonnacchiosi, dare coraggio ai pusillanimi, raffrenare
i temerari, convincere i violenti, innalzare con meritate lodi gli illustri, e molte
altre cose simili ». Nel passo appena citato si veda come fantasia e funzionalità
s’intreccino senza soluzione di continuità argomentativa: « armare re … ornare
le fanciulle di ghirlande … dare coraggio … »: tutte le funzioni della poesia che
la tradizione medievale e classica aveva annoverato vengono fatte tutt’in­sieme
scaturire dal « seno di Dio », in un’unità appasionata sicuramente, e altrettanto
sicuramente non più ripetuta.
In quell’unità trova posto, non secondario, né però principale, la forma: « Questo
fervore produce effetti sublimi, come quello di spingere la mente al desiderio di
dire, immaginarsi rare e mai piú udite invenzioni; esporre le cose immaginate
con un ordine ben preciso; ornare con un’inusitata testura di parole e sentenze
la composizione; e nascondere la verità sotto un congruente velo di favole ».
Anzi, « perraro impulsus conmendabile perficit aliquid » quando gli strumenti
dell’espressione non siano adeguati a frenare e a perfezionare le inven­zioni. Certo,
tali strumenti della comunicazione letteraria si trovano canonizzati nella retorica
antica: tuttavia la presenza del canone classico non impone mai nello scrittore di
Certaldo l’imitazione. A volte pare che il possesso degli strumenti retorici derivi
insieme col fervor dal « seno di Dio ». Tant’è che molti poeti hanno dato prove
egregie di capacità poetica in volgare e, dunque, fuori dal canone classico, e non
solo per la lingua usata. S’aggiunga che la poesia è ben altro dalla retorica. La
retorica, infatti, quella classica, giuridica e politica proba­bilmente (Boccaccio
non precisa) ha una sua peculiare inventio: questa è, però, diversa da quella della
poesia: « sui velami delle finzioni non vi sono insegnamenti della retorica: poesia
è tutto quello che compo­niamo sotto velame e narriamo in maniera elegante ».
Pare, insomma che la poesia nasca nella mente dello scrittore tutt’una con la forma,
teorizzabile, più che teorizzata, nella precettistica retorica; o nasca in una mente
in cui esistano già una precettistica formale e una serie di contenuti ’scientifici’
dei quali la fabula si sostanzia: « È altresì neces­sario conoscere i principi delle arti
liberali, e delle scienze morali, e naturali; e ancora potersi avvalere di una grande
abbondanza di voca­boli; conoscere le storie degli antenati; ricordare le storie dei
popoli; sapere le regioni del mondo, e dove si trovano i mari, i fiumi, e i monti ».
Accanto al momento genetico della poesia si colloca nella defini­zione della
comunicazione letteraria, con molti spunti di modernità, il ruolo del destinatario.
Se il destinatario petrarchesco si proiettava sul piano metastorico della gloria,
quello boccacciano insiste su quello storico con tale perentorietà da interloquire
abbastanza concretamente con l’emittente. Abbiamo più su notato come la fabula
venisse fatta derivare da for, faris per cui condivideva con confabulare l’origine e il
valore di colloquio. Il Proemio al Decameron recupera la funzione consolatoria prima
della comunicazione in generale (ma i ragionamenti sono pure sempre « piacevoli »)
e poi della comunicazione letteraria (che in Petrarca era stata autoconsolatoria) in
particolare, e dispone questa sul piano della colloquialità e dunque del pubblico
reale al quale l’opera è destinata: « … mi fu egli di grandissima fatica a sofferire,
… per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale,
per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di
noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto
rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli
consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io
non sia morto ». Il paradigma è quello dantesco del Convivio: « E io adunque, che …
conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati… » [i, i, 10]: così Giovanni
sente il dovere di offrire a coloro che soffrono la consolazione che egli ha tratta
dalle parole degli amici: « Ma quan­tunque cessata sia la pena, non per ciò è la
memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro à quali per benivolenza
da loro a me portata erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo,
se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre
virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasi­mare, per non parere
ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in
cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che
me atarono alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura
non abbisogna, a quegli almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E
quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia
a bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove
il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi
fia caro avuto ». Conta, nella posizione boccacciana, la proposta di una letteratura
che assolva alle medesime funzioni che per lungo tempo erano state attribuite,
prima dell’aristote­lismo scolastico, alla filosofia sulla scorta del De consolatione
di Severino Boezio e che comunque avevano continuato ad esserlo se ancora
nel Convivio Dante confessa d’essersi risolto allo studio cercando l’argento della
consolazione per la morte di Beatrice, ed aveva trovato l’oro della sapienza [ii,
xii, 5]. Questa valenza consolatoria della letteratura non significa affatto che essa
si faccia portatrice di contenuti etici com’erano le consolationes classiche e cristiane,
o che nella sua eleganza si compon­gano e si rasserenino gli animi travagliati
dello scrittore o del lettore. Ché essa si fa carico di « piacevoli ragionamenti »,
sempre «esemplari e dimostrativi», confluendo nei quali, la partecipazione ed il
confronto dei casi personali del lettore possano fornire a questo il conforto della
consonanza sentimentale e la solidarietà dello scrittore. Insomma, la letteratura
propone un colloquio e trova convalida nella partecipazione del lettore ad esso.
In quanto colloquio, la comunicazione letteraria richiede un destinatario la cui
qualità maggiore sta tutta nella sua capacità e possibilità di rispondere, d’entrare
in sintonia sentimentale con l’emittente. La proiezione della letteratura verso la
gloria e l’eter­nità, quale Petrarca aveva postulato, è sostituita da una proiezione
tutta indirizzata all’hinc et nunc, epperciò in apparenza inferiore e più limitata,
come fu ritenuta a lungo la tipologia scrittoria della novella, ma viva e percorsa da
reciproci condizionamenti.
Così nella Conclusione del Decameron Boccaccio esprime la certezza che la
valutazione morale dell’opera è dipendente dall’etica personale del lettore. Non
esiste nulla, egli dice, che non possa essere valutato come sconveniente da una
mente corrotta, tuttavia ciò che è onesto non teme lo sguardo di chi non abbia
la mente ben disposta. Il registro linguistico utilizzato è la prima preoccupazione
del Certaldese: ebbene, non è possibile vietare allo scrittore il linguaggio che
tutto il giorno, ogni uomo ed ogni donna adopera. D’altra parte l’artista ha il diritto
di ritrarre il male, di ritrarre la realtà anche quando quella realtà può essere
sgradevole. Nessuno nega tale diritto ai pittori che raffigurano il demonio sotto
forma di serpente, o il drago in cui s’incarnò di volta in volta il demonio. Se lo
scrittore esprime (e ne ha il diritto) la realtà e adopera il linguaggio di questa, è
responsabilità del fruitore fare buon o cattivo uso dell’opera d’arte: « Ciascuna
cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva
di molte; e così dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o
mal­vagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e
torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno,
né sarà mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o a
quelle persone si leggeranno, per cui se pe’ quali state sono raccontate. Chi ha a
dir paternostri o a fare il mi­gliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare: elle non
correranno di dietro a niuna a farsi leggere ». Per questa via Boccaccio ribadisce
l’in­genuità dello scrittore che obbedisce alla sola sua, divina, voglia di dire.
Ribadisce altresì che non esiste un canone prefissato, valido sempre e
dappertutto, in base al quale leggere e giudicare l’opera: vuoi perché lo
scrittore, pur attento contadino, non potrà far sì che nel suo campo non nascano
assolutamente piante selvatiche o inutili; vuoi perché non è possibile che, in
una moltitudine di cose, tutte siano al medesimo livello qualitativo ed estetico;
vuoi, infine, perché l’opera prodotta è in qualche modo opera aperta, nella quale si
scontrano da parte del lettore accettazioni e ripudi dei messaggi dello scrittore
e del suo canone stilistico, linguistico e così via: « Saranno per avventura alcune
di voi che diranno che io abbia … Saranno similmente di quelle che diranno qui
esserne alcune … E ancora, credo, sarà tal che dirà che… ». Va da sé che Boccaccio
non giunge ad enunciare il concetto di un’opera codificabile e decodificabile
all’infinito dall’infinito numero dei poten­ziali destinatari. È però altrettanto vero
che rinunciando al codice classicistico unico di stampo petrarchesco, poneva
seriamente le basi per una più dialettica relazione tra destinatari e opera d’arte,
che comunque rimaneva saldamente ancorata ad una genesi misteriosa­mente
divina. L’opera d’arte veniva così garantita come espressione dell’inventio che
lo scrittore propone al lettore e che il lettore può accettare o rifiutare ma nella
consapevolezza della dimensione umana (e quindi limitata) in cui si muove.
Decameron
Giornata prima – Novella seconda
Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte
di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi
cristiano.
[…]
Mostrato n’ha Panfilo nel suo novellare la benignità
di Dio non guardare a’ nostri errori, quando da cosa
che per noi veder non si possa procedano; e io nel
mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesi­
ma benignità, sostenendo pazientemente i difetti di
coloro li quali d’essa ne deono dare e colle opere e
colle parole vera testimonianza, il contrario operan­
do, di se’ argomento d’infallibile verità ne dimostri,
acciò che quello che noi crediamo con più fermezza
d’animo seguitiamo.
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Pa­
rigi fu un gran mercatante e buono uomo, il quale fu
chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e
di gran traffico d’opera di drapperia; e avea singulare
amistà con uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato
Abraam, il qual similmente mercatante era e diritto
e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veg­
gendo Giannotto, gl’incominciò forte ad increscere
che l’anima d’un così valente e savio e buono uomo
per difetto di fede andasse a perdizione. E per ciò
amichevolmente lo cominciò a pregare che egli la­
sciasse gli errori della fede giudaica e ritornasse alla
verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come
santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi;
dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente
poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa
né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era
nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa
sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere. Gian­
notto non stette per questo che egli, passati alquanti
dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrando­
gli, così grossamente come il più i mercatanti sanno
fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la
giudaica. E come che il giudeo fosse nella giudaica
legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande
che con Giannotto avea che il movesse, o forse paro­
le le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell’uomo
idiota poneva che sel facessero, al giudeo comincia­
rono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto;
ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non
si lasciava.
Così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di
sollecitarlo non finava giammai, tanto che il giudeo,
da così continua instanzia vinto, disse:
– Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano,
e io sono disposto a farlo, sì veramente che io voglio
in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale
tu dì che è vicario di Dio in terra, e considerare i suoi
modi e i suoi costumi e similmente dei suoi fratelli
cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa tra
per le tue parole e per quelli comprendere che la
vostra fede sia migliore che la mia, come tu ti se’ in­
gegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho;
ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi
sono.
Quando Giannotto intese questo, fu in se’ stesso ol­
tremodo dolente, tacitamente dicendo:
–Perduta ho la fatica, la quale ottimamente mi parea
avere impiegata, credendomi costui aver convertito;
per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita
scelerata e lorda de’ cherici, non che egli di giudeo si
faccia cristiano, ma, se egli fosse cristiano fatto, senza
fallo giudeo si ritornerebbe – .
E ad Abraam rivolto disse:
– Deh, amico mio, perché vuoi tu entrare in questa
fatica e così grande spesa, come a te sarà d’andare
di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad
un ricco uomo come tu se’, ci è tutto pien di pericoli.
Non credi tu trovar qui chi i1 battesimo ti dea? E,
se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti
dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini
in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai
o domanderai dichiarire? Per le quali cose al mio pa­
rere questa tua andata è di soperchio. Pensa che tali
sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e
puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini
al pastor principale. E perciò questa fatica, per mio
consiglio, ti serberai in altra volta ad alcuno perdono,
al quale io per avventura ti farò compagnia.
A cui il giudeo rispose:
– Io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi fa­
velli, ma, recandoti le molte parole in una, io son del
tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m’hai
cotanto pregato) disposto ad andarvi, e altramenti
mai non ne farò nulla.
Giannotto, vedendo il voler suo, disse:
– E tu va con buona ventura– ; e seco avvisò lui mai
non doversi far cristiano, come la corte di Roma ve­
duta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.
Il giudeo montò a cavallo e, come più tosto potè, se
n’andò in corte di Roma, là dove pervenuto dà suoi
giudei fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimoran­
do, senza dire ad alcuno per che andato vi fosse,
cautamente cominciò a riguardare alle maniere del
papa e de’ cardinali e degli altri prelati e di tutti i
cortigiani; e tra che egli s’accorse, sì come uomo che
molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu
informato, egli trovò dal maggiore infino al minore
generalmente tutti disonestissimamente peccare in
lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora nella
soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o
di vergogna, in tanto che la potenzia delle meretrici
e de’ garzoni in impetrare qualunque gran cosa non
v’era di picciol potere. Oltre a questo, universalmen­
te gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a
guisa d’animali bruti, appresso alla lussuria, che ad
altro, gli conobbe apertamente.
E più avanti guardando, in tanto tutti avari e cupidi
di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi
il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fosse­
ro, o a’ sacrifici o a’ benefici appartenenti, a denari
e vendevano e comperavano, maggior mercatantia
faccendone e più sensali avendone che a Parigi di
drappi o di alcun’altra cosa non erano, avendo alla
manifesta simonia “ procureria “ posto nome, e alla
gulosità “sustentazioni “, quasi Iddio, lasciamo stare
il significato de’ vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pes­
simi animi non conoscesse, e a guisa degli uomini a’
nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali
cose, insieme con molte altre le quali da tacer sono,
sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui
che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai
aver veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece.
Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era,
niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano,
se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi
che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò
quello che del santo padre e de’ cardinali e degli al­
tri cortigiani gli parea.
Al quale il giudeo prestamente rispose:
– Parmene male, che Iddio dea a quanti sono; e di
coti così che, se io ben seppi considerare, quivi niu­
na santità, niuna divozione, niuna buona opera o es­
semplo di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse
veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità, frau­
de, invidia e superbia e simili cose e piggiori (se pig­
giori essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta
grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per
una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E
per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con
ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro
pastore, e per consequente tutti gli altri, si procacci­
no di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cri­
stiana religione, là dove essi fondamento e sostegno
esser dovrebber di quella.
E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi
procacciano, ma continuamente la vostra religione
aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, merita­
mente mi par di scerner io Spirito Santo esser d’essa,
sì come di vera e di santa più che alcun’altra, fonda­
mento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e
duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano,
ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lasce­
rei di cristian farmi. Andiamo adunque alla chiesa: e
quivi, secondo il debito costume della vostra santa
fede, mi fa battezzare.
Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria
conclusione a questa, come lui così udì dire fu il più
contento uomo che giammai fosse. E a Nostra Dama
di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i che­
rici di là entro che ad Abraam dovessero dare il bat­
tesimo.
Li quali, udendo che esso l’addomandava, presta­
mente il fecero: e Giannotto il levò del sacro fonte e
nominollo Giovanni; e appresso a gran valenti uomi­
ni il fece compiutamente ammaestrare nella nostra
fede la quale egli prestamente apprese, e fu, poi
buono e valente uomo e di santa vita.
Giornata prima – Novella terza
Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella, cessa un gran
pericolo dal Saladino apparecchiatogli.
Poiché, commendata da tutti la novella di Neifile,
ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena così
cominciò a parlare.
La novella da Neifile detta mi ritorna a memoria il
dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo. Per ciò
che già e di Dio e della verità della nostra fede è as­
sai bene stato detto, il discendere oggimai agli avve­
nimenti e agli atti degli uomini non si dovrà disdire; e
a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse più caute
diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fos­
sero. Voi dovete, amorose compagne, sapere che, sì
come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice
stato e mette in grandissima miseria, così il senno di
grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande
e in sicuro riposo. E che vero sia che la sciocchezza
di buono stato in miseria altrui conduca, per molti
essempli si vede, li quali non fia al presente nostra
cura di raccontare, avendo riguardo che tutto ’l dì
mille essempli n’appaiano manifesti. Ma che il senno
di consolazione sia cagione, come promisi, per una
novelletta mosterrò brievemente.
Il Saladino, il valore del qual fu tanto che non sola­
mente di piccolo uomo il fe’ di Babillonia soldano,
ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani
gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandis­
sime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e,
per alcuno accidente sopravvenutogli bisognando­
gli una buona quantità di danari, né veggendo don­
de così prestamente come gli bisognavano aver gli
potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui
nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura
in Alessandria, e pensossi costui avere da poterlo
servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua
volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli vo­
leva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi
tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse,
s’avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata.
E fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il
fece sedere e appresso gli disse:
– Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu
se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti;
e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre
leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o
la cristiana.
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvi­
sò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo
nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione,
e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una
che l’altra lodare, che il Saladino non avesse la sua
intenzione. Per che, come colui al qual pareva d’aver
bisogno di risposta per la quale preso non potesse
essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente
avanti quello che dir dovesse, e disse:
– Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella,
e a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien
dire una novelletta, qual voi udirete.
Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito
dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, in­
tra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse,
era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo
suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore
e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò
che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come la­
sciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui
s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti
gli altri essere come maggiore onorato e reverito.
E colui al quale da costui fu lasciato il simigliante or­
dinò né suoi discendenti e così fece come fatto avea
il suo predecessore; e in brieve andò questo anello
di mano in mano a molti successori; e ultimamente
pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli
belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per
la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. E i gio­
vani, li quali la consuetudine dello anello sapevano,
sì come vaghi d’essere ciascuno il più onorato tra’
suoi ciascuno per se’, come meglio sapeva, pregava
il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte
venisse, a lui quello anello lasciasse.
Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sa­
peva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar
lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di
volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno
buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furo­
no simiglianti al primiero, che esso medesimo che
fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il
vero. E venendo a morte, segretamente diede il suo
a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del pa­
dre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare,
e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover
ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il
suo anello. E trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro
che qual di costoro fosse il vero non si sapeva cono­
scere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede
del padre, in pendente, e ancor pende.
E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popo­
li date da Dio padre, delle quali la quistion propone­
ste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi
comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma
chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la
quistione.
Il Saladino conobbe costui ottimamente essere sa­
puto uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso
gli aveva; e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno
e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli
ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discre­
tamente, come fatto avea, non gli avesse risposto.
Il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladi­
no richiese il servì; e il Saladino poi interamente il
soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e
sempre per suo amico l’ebbe e in grande e onorevo­
le stato appresso di se’ il mantenne.
Giornata prima – Novella quarta
Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione,
onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa,
si libera dalla pena.
Già si tacea Filomena, dalla sua novella espedita,
quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza
aspettare dalla reina altro comandamento, cono­
scendo già, per l’ordine cominciato, che a lui toccava
il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.
Amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte
compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi
novellando piacere; e per ciò, solamente che contro
a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere es­
sere licito (e così ne disse la nostra reina, poco avan­
ti, che fosse) quella novella dire che più crede che
possa dilettare; per che, avendo udito per li buoni
consigli di Giannotto di Civignì Abraam aver l’anima
salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue
ricchezze dagli agguati del Saladino difese, senza ri­
prensione attender da voi, intendo di raccontar brie­
vemente con che cautela un monaco il suo corpo da
gravissima pena liberasse.
Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lonta­
no, uno monistero già di santità e di monaci più co­
pioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un
monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza
né i digiuni né le vigilie Potevano macerare. Il quale
per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri
monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo dattor­
no alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario
era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, for­
se figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada, la
quale andava per gli campi certe erbe cogliendo; né
prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu
dalla concupiscenza carnale.
Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in paro­
le e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accor­
dato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che
niuna persona se n’accorse. E mentre che egli, da
troppa volontà trasportato, men cautamente con lei
scherzava, avvenne che l’abate, da dormir levatosi
e pianamente passando davanti alla cella di costui,
sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e
per conoscere meglio le voci, chetamente s’accostò
all’uscio della cella ad ascoltare e manifestamente
conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu
tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in
ciò altra maniera e, tornatosi alla sua camera, aspettò
che il monaco fuori uscisse.
Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e
diletto fosse con questa giovane occupato, pur non­
dimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver senti­
to alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, ad
un piccolo pertugio pose l’occhio e vide apertissima­
mente l’abate stare ad ascoltarlo e molto bene com­
prese l’abate aver potuto conoscere quella giovane
essere nella sua cella. Di che egli, sappiendo che di
questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu
dolente; ma pur, senza del suo cruccio niente mo­
strare alla giovane, prestamente seco molte cose
rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne
potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al
fine imaginato da lui dirittamente pervenne. E fac­
cendo sembiante che esser gli paresse stato assai
con quella giovane, le disse:
– Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua
entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente
infino alla mia tornata.
E uscito fuori e serrata la cella colla chiave, diritta­
mente se n’andò alla camera dello abate, e presen­
tatagli quella, secondo che ciascuno monaco faceva
quando fuori andava, con un buon volto disse:
– Messere, io non potei stamane farne venire tutte le
legne le quali io avea fatte fare, e perciò con vostra
licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.
L’abate, per potersi più pienamente informare del
fallo commesso da costui, avvisando che questi ac­
corto non se ne fosse che egli fosse stato da lui ve­
duto, fu lieto di tale accidente, e volentier prese la
chiave e similmente li die’ licenzia. E, come il vide
andato via, cominciò a pensar qual far volesse più to­
sto, o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di co­
stui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non
avesser cagione di mormorare contra di lui quando il
monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come
andata fosse la bisogna. E, pensando seco stesso che
questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale
uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella ver­
gogna d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avvisò
di voler prima veder chi fosse e poi prender partito;
e chetamente andatosene alla cella, quel la aprì ed
entrò dentro e l’uscio richiuse.
La giovane, vedendo venire l’abate, tutta smarrì, e
temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer
l’abate, postole l’occhio addosso e veggendola bella
e fresca, ancora che vecchio fosse, sentì subitamente
non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti
avesse il suo giovane monaco, e fra se’ stesso comin­
ciò a dire: – Deh, perché non prendo io del piace­
re quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il
dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno
apparecchiati? Costei è una bella giovane, ed è qui
che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso
recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi
faccia. Chi saprà? ai più; io estimo che egli sia gran
senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio ne
man da altrui –. E così dicendo, e avendo del tutto
mutato proposito da quello per che andato v’era, fat­
tosi più presso alla giovane, pianamente la cominciò
a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d’una
parola in altra procedendo, ad aprirle il suo deside­
rio pervenne.
La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai
agevolmente si piegò a’ piaceri dello abate; il qua­
le, abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticel­
lo del monaco salitosene, avendo forse riguardo al
grave peso della sua dignità e alla tenera età della
giovane, temendo forse di non offenderla per troppa
gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra
il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si tra­
stullò.
Il monaco, che fatto avea sembiante d’andare al bo­
sco, essendo nel dormentorio occultato, come vide
l’abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicu­
rato, estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veg­
gendol serrar dentro, l’ebbe per certissimo. E, uscito
di là dov’era, chetamente n’andò ad un pertugio, per
lo quale ciò che l’abate fece o disse, e udì e vide. Pa­
rendo allo abate essere assai colla giovanetta dimo­
rato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò;
e dopo al quanto, sentendo il monaco e credendo lui
esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e
di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse
la guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissi­
mamente e con mal viso il riprese e comandò che
fosse in carcere messo.
Il monaco prontissimamente rispose:
– Messere, io non sono ancora tanto all’ordine di san
Benedetto stato, che io possa avere ogni particula­
rità di quello apparata; e voi ancora non m’avavate
mostrato che i monaci si debban far dalle femine
priemere, come da digiuni e dalle vigilie; ma ora che
mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi per­
donate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sem­
pre come io a voi ho veduto fare.
L’abate, che accorto uomo era, prestamente conob­
be costui non solamente aver più di lui saputo, ma
veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, dalla sua
colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco
quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E perdo­
natogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio,
onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più
volte si dee credere ve la facesser tornare.
Giornata terza – Novella quarta
Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in
questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
[…]
Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si
sforzano d’andarne in paradiso, senza avvedersene
vi mandano altrui; il che ad una nostra vicina, non ha
ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire, inter­
venne.
Secondo che io udii già dire, vicino di san Branca­
zio stette un buon uomo e ricco, il quale fu chiama­
to Puccio di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo
spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e
fu chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita
spirituale, per ciò che altra famiglia non avea che una
sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte
attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per
ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi
paternostri, andava alle prediche, stava alle messe,
né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari
esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e buci­
navasi che egli era degli scopatori.
La moglie, che monna Isabetta avea nome, giova­
ne ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella
e ritondetta che pareva una mela casolana, per la
santità del marito e forse per la vecchiezza, faceva
molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non
avrebbe; e, quand’ella si sarebbe voluta dormire o
forse scherzar con lui, ed egli le raccontava la vita
di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il lamento
della Maddalena o così fatte cose.
Tornò in questi tempi da Parigi un monaco chiama­
to don Felice, conventuale di san Brancazio, il qua­
le assai giovane e bello della persona era e d’aguto
ingegno e di profonda scienza, col qual frate Puccio
prese una stretta dimestichezza. E per ciò che costui
ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò,
avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava
santissimo, se lo incominciò frate Puccio a menare
talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo
che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di
fra Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli
faceva onore.
Continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio
e veggendo la moglie così fresca e ritondetta, s’av­
visò qual dovesse essere quella cosa della quale
ella patisse maggior difetto; e pensossi, se egli po­
tesse, per tor fatica a fra Puccio, di volerla supplire.
E, postole l’occhio addosso e una volta e altra bene
astutamente, tanto fece che egli l’accese nella mente
quello medesimo disidero che aveva egli; di che ac­
cortosi il monaco, come prima destro gli venne, con
lei ragionò il suo piacere. Ma, quantunque bene la
trovasse disposta a dover dare all’opera compimen­
to, non si poteva trovar modo, per ciò che costei in
niun luogo del mondo si voleva fidare ad esser col
monaco se non in casa sua; e in casa sua non si potea,
perché fra Puccio non andava mai fuor della terra; di
che il monaco avea gran malinconia.
E dopo molto gli venne pensato un modo da dover
potere essere colla donna in casa sua senza sospet­
to, non ostante che fra Puccio in casa fosse. Ed es­
sendosi un dì andato a star con lui frate Puccio, gli
disse così:
– Io ho già assai volte compreso, fra Puccio, che tut­
to il tuo disidero è di divenir santo, alla qual cosa
mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n’è
una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi
maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono
che ella si mostri; per ciò che l’ordine chericato, che il
più di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto,
sì come quello al quale più i secolari né con limosi­
ne né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu
se’mio amico e ha’ mi onorato molto, dove io credes­
si che tu a niuna persona del mondo l’appalesassi, e
volessila seguire, io la t’insegnerei.
Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa,
prima cominciò ’a pregare con grandissima instanzia
che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non
quanto gli piacesse, ad alcuno nol direbbe, affer­
mando che, se tal fosse che esso seguir la potesse,
di mettervisi.
– Poi che tu così mi prometti, – disse il monaco – e
io la ti mosterrò . Tu dei sapere che i santi dottori
tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare
la penitenzia che tu udirai; ma intendi sanamente: io
non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore
come tu ti se’; ma avverrà questo, che i peccati che
tu hai infino all’ora della penitenzia fatti, tutti si pur­
gheranno e sarannoti per quella perdonati; e quegli
che tu farai poi non saranno scritti a tua dannazione,
anzi se n’andranno con l’acqua benedetta, come ora
fanno i veniali.
Conviensi adunque l’uomo principalmente con gran
diligenzia confessare de’ suoi peccati quando viene
a cominciar la penitenzia; e appresso questo li con­
vien cominciare un digiuno e una astinenzia grandis­
sima, la qual convien che duri quaranta dì, ne’quali,
non che da altra femina, ma da toccare la propria tua
moglie ti conviene astenere. E oltre a questo si con­
viene avere nella tua propria casa alcun luogo donde
tu possi la notte vedere il cielo, e in su l’ora della
compieta andare in questo luogo, e quivi avere una
tavola molto larga ordinata in guisa che, stando tu in
pie’, vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi
in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e
se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo,
puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star
senza muoverti punto insino a matutino. E, se tu fossi
litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe
orazioni che io ti darei; ma, perché non se’, ti conver­
rà dire trecento paternostri con trecento avemarie a
reverenzia della Trinità, e riguardando il cielo, sem­
pre aver nella memoria Iddio essere stato creatore
del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando
in quella maniera che stette egli in su la croce.
Poi, come matutino suona, te ne puoi, se tu vuo­
gli, andare e così vestito gittarti sopra ’l letto tuo e
dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla
chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dir cinquan­
ta paternostri con altrettante avemarie; e appresso
questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far
n’hai alcuno, e poi desinare, ed essere appresso al
vespro nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io
ti darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi
in su la compieta ritornare al modo detto. E faccen­
do questo, sì come io feci già, spero che anzi che la
fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa
cosa della beatitudine etterna, se con divozione fatta
l’avrai.
Frate Puccio disse allora:
– Questa non è troppo grave cosa, né troppo lunga, e
deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio al nome
di Dio cominciar domenica.
E da lui partitosene e andatosene a casa, ordinata­
mente, con sua licenzia perciò, alla moglie disse ogni
cosa.
La donna intese troppo bene per lo star fermo infino
a matutino senza muoversi ciò che il monaco voleva
dire; per che, parendole assai buon modo, disse che
di questo e d’ogn’altro bene, che egli per l’anima sua
faceva, ella era contenta, e che, acciò che Iddio gli fa­
cesse la sua penitenzia profittevole, ella voleva con
esso lui digiunare, ma fare altro no.
Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica,
frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer
lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che ve­
duto non poteva essere, le più delle sere con lei se
ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da
mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino
all’ora del matutino, al quale levandosi se n’andava,
e frate Puccio tornava al letto.
Era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua peni­
tenzia eletto, allato alla camera nella quale giaceva
la donna, né da altro era da quella diviso che da un
sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo mo­
naco troppo colla donna alla scapestrata ed ella con
lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento
di palco della casa; di che, avendo già detti cento de’
suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna
senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.
La donna, che motteggevole era molto, forse caval­
cando allora senza sella la bestia di san Benedetto o
vero di san Giovanni Gualberto, rispose:
– Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso.
Disse allora frate Puccio:
– Come ti dimeni? Che vuol dir questo dimenare?
La donna ridendo, che e di buona aria e valente don­
na era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:
– Come non sapete voi quello che questo vuol dire?
Ora io ve l’ho udito dire mille volte: chi la sera non
cena, tutta notte si dimena.
Credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella
a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter
dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che
egli di buona fede disse
– Donna, io t’ho ben detto, non digiunare; ma, poiché
pur l’hai voluto fare, non pensare a ciò, pensa di ripo­
sarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar
ciò che ci e’.
Disse allora la donna:
– Non ve ne caglia no; io so ben ciò ch’i’mi fo; fate pur
ben voi, ché io farò bene io, se io potrò .
Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano à
suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da
questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa
ordinare un letto, in quello, quanto durava il tempo
della penitenzia di frate Puccio, con grandissima fe­
sta si stavano, e ad una ora il monaco se n’andava
e la donna al suo letto tornava, e poco stante dalla
penitenzia a quello se ne venia frate Puccio.
Continuando adunque in così fatta maniera il frate la
penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più
volte motteggiando disse con lui:
– Tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale
noi abbiam guadagnato il paradiso.
E parendo molto bene stare alla donna, sì s’avvezzò
à cibi del monaco che, essendo dal marito lungamen­
te stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di
frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in
altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne
prese il suo piacere.
Di che, acciò che l’ultime parole non sieno discor­
danti alle prime, avvenne che, dove frate Puccio,
faccendo penitenzia sé credette mettere in paradi­
so, egli vi mise il monaco, che da andarvi tosto gli
avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran
necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come
misericordioso, gran divizia le fece.
Giornata terza – Novella decima
Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il
diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
Dioneo, che diligentemente la novella della reina
ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui
solo restava il dire, senza comandamento aspettare,
sorridendo cominciò a dire.
Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il
diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza partirmi
guari dallo effetto che voi tutto questo dì ragionato
avete, io il vi vo’dire; forse ancora ne potrete gua­
dagnare l’anima avendolo apparato, e potrete anche
conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le
morbide camere più volentieri che le povere capanne
abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso fra’ folti
boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte spelunche
non faccia le sue forze sentire; il perché comprender
si può alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.
Adunque, venendo al fatto, dico che nella città di
Capsa in Barberia fu già un ricchissimo uomo, il quale
tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella
e gentilesca, il cui nome fu Alibech. La quale, non
essendo cristiana e udendo a molti cristiani che nella
città erano molto commendare la cristiana fede e il
servire a Dio, un dì ne domandò alcuno in che manie­
ra e con meno impedimento a Dio si potesse servire.
Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano
che più delle cose del mondo fuggivano, come coloro
facevano che nelle solitudini de’ diserti di Tebaida
andati se n’erano.
La giovane, che semplicissima era e d’età forse di
quattordici anni, non da ordinato disidero ma da un
cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne
ad alcuna persona sentire, la seguente mattina ad
andar verso il diserto di Tebaida nascosamente tutta
sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l’appeti­
to, dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e ve­
duta di lontano una casetta, a quella n’andò, dove un
santo uomo trovò sopra l’uscio, il quale, maraviglian­
dosi di quivi vederla, la domandò quello che ella an­
dasse cercando. La quale rispose, che, spirata da Dio
andava cercando d’essere al suo servigio, e ancora
chi le ’nsegnasse come servire gli si conveniva.
Il valente uomo, veggendola giovane e assai bel­
la, temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo
’ngannasse, le commendò la sua buona disposizio­
ne; e dandole alquanto da mangiare radici d’erbe e
pomi salvatichi e datteri e bere acqua, le disse:
– Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo
uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è molto mi­
gliore maestro che io non sono; a lui te n’andrai – ; e
misela nella via.
Ed ella, pervenuta a lui e avute da lui queste mede­
sime parole, andata più avanti, pervenne alla cella
d’uno romito giovane, assai divota persona e buona,
il cui nome era Rustico, e quella dimanda gli fece che
agli altri aveva fatta. Il quale, per volere fare della
sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la
mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua
cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di pal­
ma le fece da una parte e sopra quello le disse si
riposasse.
Questo fatto, non preser guari d’indugio le tentazioni
a dar battaglia alle forze di costui; il quale, trovan­
dosi di gran lunga ingannato da quelle, senza troppi
assalti voltò le spalle e rendessi per vinto; e lasciati
stare dall’una delle parti i pensier santi e l’orazioni e
le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza
e la bellezza di costei ’ncominciò, e oltre a questo a
pensar che via e che modo egli dovesse con lei te­
nere, acciò che essa non s’accorgesse lui come uomo
dissoluto pervenire a quello che egli di lei disidera­
va. E tentato primieramente con certe domande, lei
non aver mai uomo conosciuto conobbe e così esse­
re semplice come parea; per che s’avvisò come, sot­
to spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a’ suoi
piaceri. E primieramente con molte parole le mostrò
quanto il diavolo fosse nemico di Domeneddio; e ap­
presso le diede ad intendere che quello servigio che
più si poteva far grato a Dio si era rimettere il diavolo
in inferno, nel quale Domeneddio l’aveva dannato.
La giovinetta il domandò, come questo si facesse.
Alla quale Rustico disse:
– Tu il saprai tosto, e perciò farai quello che a me
far vedrai – ; e cominciossi a spogliare quegli pochi
vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così
ancora fece la fanciulla, e posesi ginocchione a guisa
che adorar volesse e dirimpetto a sé fece star lei.
E così stando, essendo Rustico più che mai nel suo
disidero acceso per lo vederla così bella, venne la
resurrezion della carne, la quale riguardando Alibech
e maravigliatasi, disse:
– Rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così
si pigne in fuori, e non l’ho io?
– O figliuola mia, – disse Rustico – questo è il dia­
volo di che io t’ho parlato. E vedi tu? ora egli mi dà
grandissima molestia, tanta che io appena la posso
sofferire.
Allora disse la giovane:
– Oh lodato sia Iddio, ché io veggio che io sto meglio
che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io.
Disse Rustico:
– Tu di’vero, ma tu hai un’altra cosa che non la ho io,
e haila in iscambio di questo.
Disse Alibech: – O che?
A cui Rustico disse:
– Hai il ninferno; e dicoti che io mi credo che Iddio
t’abbia qui mandata per la salute della anima mia,
per ciò che se questo diavolo pur mi darà questa
noia, ove tu vogli aver di me tanta pietà e sofferire
che io in inferno il rimetta, tu mi darai grandissima
consolazione e a Dio farai grandissimo piacere e ser­
vigio, se tu per quello fare in queste parti venuta se’,
che tu di’.
La giovane di buona fede rispose:
– O padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure
quando vi piacerà.
Disse allora Rustico:
– Figliuola mia, benedetta sia tu; andiamo dunque, e
rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci stare.
E così detto, menata la giovane sopra uno de’ loro
letticelli, le ’nsegnò come star si dovesse a dovere
incarcerare quel maladetto da Dio.
La giovane, che mai più non aveva in inferno messo
diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di
noia, per che ella disse a Rustico:
– Per certo, padre mio, mala cosa dee essere que­
sto diavolo, e veramente nimico di Dio, ché ancora al
ninferno, non che altrui, duole quando egli v’è den­
tro rimesso.
Disse Rustico:
– Figliuola, egli non avverrà sempre così.
E per fare che questo non avvenisse, da sei volte,
anzi che di su il letticel si movessero, ve ’l rimisero,
tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia
del capo, che egli si stette volentieri in pace.
Ma, ritornatagli poi nel seguente tempo più volte, e
la giovane ubbidiente sempre a trargliele si dispo­
nesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e
cominciò a dire a Rustico:
– Ben veggio che il ver dicevano que’valentuomini
in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa; e
per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne
facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto
è il rimetter il diavolo in inferno; e per ciò io giudico
ogn’altra persona, che ad altro che a servire a Dio at­
tende, essere una bestia.
Per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico,
e gli dicea:
– Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio e
non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo
in inferno.
La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta:
– Rustico, io non so perché il diavolo si fugga del nin­
ferno; ché, s’egli vi stesse così volentieri come il nin­
ferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.
Così adunque invitando spesso la giovane Rustico e
al servigio di Dio confortandolo, sì la bambagia del
farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva fred­
do che un altro sarebbe sudato; e per ciò egli inco­
minciò a dire alla giovane che il diavolo non era da
gastigare né da rimettere in inferno se non quando
egli per superbia levasse il capo: – E noi per la grazia
di Dio l’abbiamo sì sgannato, che egli priega Iddio di
starsi in pace – ; e così alquanto impose di silenzio
alla giovane.
La qual, poi che vide che Rustico più non la richiede­
va a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse
un giorno:
– Rustico, se il diavolo tuo è gastigato e più non ti
dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che
tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la
rabbia al mio ninferno, com’io col mio ninferno ho
aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo.
Rustico, che di radici d’erba e d’acqua vivea, poteva
male rispondere alle poste; e dissele che troppi dia­
voli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare,
ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse; e
così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di rado,
che altro non era che gittare una fava in bocca al leo­
ne; di che la giovane, non parendole tanto servire a
Dio quanto voleva, mormorava anzi che no.
Ma, mentre che tra il diavolo di Rustico e il ninferno
d’Alibech era, per troppo disiderio e per men pote­
re, questa quistione, avvenne che un fuoco s’appre­
se in Capsa, il quale nella propria casa arse il padre
d’Alibech con quanti figliuoli e altra famiglia avea;
per la qual cosa Alibech d’ogni suo bene rimase ere­
de. Laonde un giovane chiamato Neerbale, avendo
in cortesia tutte le sue facultà spese, sentendo costei
esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che
la corte i beni stati del padre, sì come d’uomo senza
erede morto, occupasse, con gran piacere di Rustico
e contra al volere di lei la rimenò in Capsa e per mo­
glie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio
divenne erede. Ma, essendo ella domandata dalle
donne di che nel diserto servisse a Dio, non essendo
ancor Neerbale giaciuto con lei, rispose che il servi­
va di rimettere il diavolo in inferno, e che Neerbale
aveva fatto gran peccato d’averla tolta da così fatto
servigio.
Le donne domandarono: – Come si rimette il diavolo
in inferno?
La giovane, tra con parole e con atti, il mostrò loro.
Di che esse fecero sì gran risa che ancor ridono, e
dissono:
– Non ti dar malinconia, figliuola, no, ché egli si fa
bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso
teco Domeneddio.
Poi l’una all’altra per la città ridicendolo, vi ridussono
in volgar motto che il più piacevol servigio che a Dio
si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual
motto passato di qua da mare ancora dura.
E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio
bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno,
per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacer delle
parti, e molto bene ne può nascere e seguire.
Giornata quarta – Novella seconda
Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello
è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei;
poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno
povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì
seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da’ suoi frati
preso e incarcerato.
[…]
Pampinea, a sé sentendo il comandamento venuto,
più per la sua affezione cognobbe l’animo delle com­
pagne che quello del re per le sue parole, e per ciò,
più disposta a dovere al quanto recrear loro che a
dovere, fuori che del comandamento solo, il re con­
tentare, a dire una novella, senza uscir del proposto,
da ridere si dispose, e cominciò.
Usano i volgari un così fatto proverbio: – Chi è reo e
buono è tenuto, può fare il male e non è creduto –.
Il quale ampia materia a ciò che m’è stato proposto
mi presta di favellare, e ancora a dimostrare quanta
e quale sia la ipocresia de’ religiosi, li quali, co’ panni
larghi e lunghi e co’ visi artificialmente pallidi e con le
voci umili e mansuete nel domandar l’altrui, e altissi­
me e rubeste in mordere negli altri li loro medesimi
vizi e nel mostrare sé per torre e altri per lor donare
venire a salvazione, e oltre a ciò, non come uomini
che il paradiso abbiano a procacciare come noi, ma
quasi come possessori e signori di quello, danti a cia­
schedun che muore, secondo la quantità de’ danari
loro lasciata da lui, più e meno eccellente luogo, con
questo prima sé medesimi, se così credono, e poscia
coloro che in ciò alle loro parole dan fede, sforzansi
d’ingannare. De’ quali, se quanto si convenisse fosse
licito a me di mostrare, tosto dichiarerei a molti sem­
plici quello che nelle lor cappe larghissime tengon
nascoso. Ma ora fosse piacer di Dio che così delle lor
bugie a tutti intervenisse, come ad un frate minore,
non miga giovane, ma di quelli che de’ maggior ch’ha
Ascesi era tenuto a Vinegia; del quale sommamente
mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri,
pieni di compassione per la morte di Ghismonda,
forse con risa e con piacere rilevare.
Fu adunque, valorose donne, in Imola uno uomo di
scelerata vita e di corrotta, il qual fu chiamato Ber­
to della Massa; le cui vituperose opere molto dagli
imolesi conosciute a tanto il recarono che, non che la
bugia, ma la verità non era in Imola chi gli credesse;
per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle
non aver luogo, come disperato, a Vinegia d’ogni
bruttura ricevitrice si trasmutò, e quivi pensò di tro­
vare altra maniera al suo malvagio adoperare che
fatto non avea in altra parte. E, quasi da conscienzia
rimorso delle malvagie opere nel preterito fatte da
lui, da somma umiltà soprapreso mostrando si, e ol­
tre ad ogni altro uomo divenuto catolico, andò e sì
si fece frate minore, e fecesi chiamare frate Alberto
da Imola; e in tale abito cominciò a far per sembianti
una aspra vita e a commendar molto la penitenzia e
l’astinenzia, né mai carne mangiava né bevea vino,
quando non n’avea che gli piacesse.
Né se ne fu appena avveduto alcuno, che di ladro­
ne, di ruffiano, di falsario, d’omicida, subitamente
fu un gran predicatore divenuto, senza aver per ciò i
predetti vizi abbandonati, quando nascosamente gli
avesse potuti mettere in opera. E oltre a ciò fatto­
si prete, sempre all’altare, quando celebrava, se da
molti veduto era, piagneva la passione del Salvato­
re, sì come colui al quale poco costavano le lagrime
quando le volea.
E in brieve, tra colle sue prediche e le sue lagrime,
egli seppe in sì fatta guisa li viniziani adescare, che
egli quasi d’ogni testamento che vi si faceva era fe­
decommessario e dipositario, e guardatore di denari
di molti, confessore e consigliatore quasi della mag­
gior parte degli uomini e delle donne; e così faccen­
do, di lupo era divenuto pastore, ed era la sua fama
di santità in quelle parti troppo maggior che mai non
fu di san Francesco ad Ascesi.
Ora avvenne che una giovane donna bamba e scioc­
ca, che chiamata fu madonna Lisetta da ca’ Quirino,
moglie d’un gran mercatante che era andato con le
galee in Fiandra, s’andò con altre donne a confessar
da questo santo frate. La quale essendogli a’ piedi, sì
come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli,
avendo parte detta de’ fatti suoi, fu da frate Alberto
addomandata se alcuno amadore avesse.
Al quale ella con un mal viso rispose:
– Deh, messere lo frate, non avete voi occhi in capo?
Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di queste
altre? Troppi n’avrei degli amadori, se io ne volessi;
ma non sono le mie bellezze da lasciare amare né
da tale né da quale. Quante ce ne vedete voi, le cui
bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel
paradiso?
E oltre a ciò, disse tante cose di questa sua bellezza,
che fu un fastidio ad udire.
Frate Alberto conobbe incontanente che costei sen­
tia dello scemo e, parendogli terreno da’ ferri suoi,
di lei subitamente e oltre modo s’innamorò; ma, ri­
serbandosi in più comodo tempo le lusinghe, pur,
per mostrarsi santo, quella volta cominciò a volerla
riprendere e a dirle che questa era vanagloria, e altre
sue novelle; per che la donna gli disse che egli era
una bestia e che egli non conosceva che si fosse più
una bellezza che un’altra. Per che frate Alberto, non
volendola troppo turbare, fattale la confessione, la
lasciò andar via con l’altre.
E stato alquanti dì, preso un suo fido compagno, n’an­
dò a casa madonna Lisetta, e trattosi da una parte in
una sala con lei e non potendo da altri esser veduto,
le si gittò davanti ginocchione e disse:
– Madonna, io vi priego per Dio che voi mi perdo­
niate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della
vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la
notte seguente gastigato ne fui, che mai poscia da
giacere non mi son potuto levar se non oggi.
Disse allora donna Mestola:
– E chi ve ne gastigò così?
Disse frate Alberto:
– Io il vi dirò. Standomi io la notte in orazione, sì
come io soglio star sempre, io vidi subitamente nella
mia cella un grande splendore, né prima mi pote’vol­
gere per veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un
giovane bellissimo con un grosso bastone in mano, il
quale, presomi per la cappa e tiratomisi a’ piè, tan­
te mi diè che tutto mi ruppe. Il quale io appresso
domandai perché ciò fatto avesse, ed egli rispose:
– Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le
celestiali bellezze di madonna Lisetta, la quale io
amo, da Dio in fuori, sopra ogni altra cosa –. E io allo­
ra domandai: – Chi siete voi? – A cui egli rispose che
era l’agnolo Gabriello. – O signor mio –, dissi io – io vi
priego che voi mi perdoniate –. E egli allora disse :– E
io ti perdono per tal convenente, che tu a lei vada
come tu prima potrai, e facciti perdonare; e dove ella
non ti perdoni, io ci tornerò e darottene tante che
io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai –.
Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l’oso dire,
se prima non mi perdonate.
Donna Zucca al vento, la quale era anzi che no un
poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste pa­
role e verissime tutte le credea, e dopo alquanto
disse:
– Io vi diceva bene, frate Alberto, che le mie bellezze
eran celestiali; ma, se Dio m’aiuti, di voi m’incresce,
e in fino ad ora, acciò che più non vi sia fatto male, io
vi perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che
l’agnolo poi vi disse.
Frate Alberto disse:
– Madonna, poi che perdonato m’avete, io il vi dirò
volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa che io vi
dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona
che sia nel mondo, se voi non volete guastare i fatti
vostri, che siete la più avventurata donna che oggi
sia al mondo.
Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi che
voi gli piacevate tanto, che più volte a starsi con voi
venuto la notte sarebbe, se non fosse per non spa­
ventarvi. Ora vi manda egli dicendo per me, che a
voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con
voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma
d’agnolo voi nol potreste toccare, dice che per dilet­
to di voi vuol venire in forma d’uomo, e per ciò dice
che voi gli mandiate a dire quando volete che egli
venga, e in forma di cui ed egli ci verrà; di che voi, più
che altra donna che viva, tener vi potete beata.
Madonna Baderla allora disse che molto le piaceva
se l’agnolo Gabriello l’amava; per ciò che ella amava
ben lui, né era mai che una candela d’un mattapan
non gli accendesse davanti dove dipinto il vedeva;
e che, quale ora egli volesse a lei venire, egli fosse
il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella
sua camera, ma con questo patto, che egli non do­
vesse lasciar lei per la Vergine Maria, che l’era detto
che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché
in ogni luogo che ella il vedeva, le stava ginocchione
innanzi; e oltre a questo, che a lui stesse di venire in
qual forma volesse, purché ella non avesse paura.
Allora disse frate Alberto:
– Madonna, voi parlate saviamente; e io ordinerò
ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete
fare una gran grazia, e a voi non costerà niente; e la
grazia è questa, che voi vogliate che egli venga con
questo mio corpo. E udite in che voi mi farete grazia:
che egli mi trarrà l’anima mia di corpo e metteralla in
paradiso, ed egli enterrà in me, e quanto egli starà
con voi, tanto si starà l’anima mia in paradiso.
Disse allora donna Pocofila:
– Ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse
le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate
questa consolazione.
Allora disse frate Alberto:
– Or farete che questa notte egli truovi la porta della
vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò
che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non
potrebbe entrare se non per l’uscio.
La donna rispose che fatto sarebbe. Frate Alberto si
partì, ed ella rimase faccendo sì gran galloria che non
le toccava il cul la camicia, mille anni parendole che
l’agnolo Gabriello a lei venisse.
Frate Alberto, pensando che cavaliere, non agnolo,
esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone
cose s’incominciò a confortare, acciò che di leggier
non fosse da caval gittato. E avuta la licenzia, con uno
compagno, come notte fu, se n’entrò in casa d’una
sua amica, dalla quale altra volta aveva prese le mos­
se quando andava a correr le giumente; e di quin­
di, quando tempo gli parve, trasformato se n’andò a
casa la donna, e in quella entrato, con sue frasche
che portate avea, in agnolo si trasfigurò, e salitosene
suso, se n’entrò nella camera della donna.
La quale, come questa cosa così bianca vide, gli s’in­
ginocchiò innanzi, e l’agnolo la benedisse e levolla in
piè e fecele segno che a letto s’andasse. Il che ella,
volenterosa d’ubbidire, fece prestamente, e l’agnolo
appresso colla sua divota si coricò.
Era frate Alberto bello uomo del corpo e robusto, e
stavangli troppo bene le gambe in su la persona; per
la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era
fresca e morbida, altra giacitura faccendole che il ma­
rito, molte volte la notte volò senza ali, di che ella
forte si chiamò per contenta; e oltre a ciò molte cose
le disse della gloria celestiale. Poi, appressandosi
il dì, dato ordine al ritornare, co’ suoi arnesi fuor se
n’uscì e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che
paura non avesse dormendo solo, aveva la buona fe­
mina della casa fatta amichevole compagnia.
La donna, come desinato ebbe, presa sua compa­
gnia, se n’andò a frate Alberto e novelle gli disse
dello agnolo Gabriello e ciò che da lui udito avea
della gloria di vita etterna, e come egli era fatto, ag­
giugnendo oltre a questo maravigliose favole.
A cui frate Alberto disse:
– Madonna, io non so come voi vi steste con lui; so
io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io aven­
dogli fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subi­
tamente l’anima mia tra tanti fiori e tra tante rose,
che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi in
uno de’ più dilettevoli luoghi che fosse mai infino a
stamane a matutino; quello che il mio corpo si dive­
nisse, io non so.
– Non ve ’l dich’io? – disse la donna – il vostro corpo
stette tutta notte in braccio mio con l’agnol Gabriello;
e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa
manca là dove io diedi un grandissimo bacio all’agno­
lo, tale che egli vi si parrà il segnale parecchi dì.
Disse allora frate Alberto:
– Ben farò oggi una cosa che io non feci già è gran
tempo più, che io mi spoglierò per vedere se. voi
dite il vero.
E dopo molto cianciare la donna se ne tornò a casa;
alla quale in forma d’agnolo frate Alberto andò poi
molte volte senza alcuno impedimento ricevere.
Pure avvenne un giorno che, essendo madonna Li­
setta con una sua comare e insieme di bellezze qui­
stionando, per porre la sua innanzi ad ogn’altra, sì
come colei che poco sale aveva in zucca, disse:
– Se voi sapeste a cui la mia bellezza piace, in verità
voi tacereste dell’altre.
La comare, vaga d’udire, sì come colei che ben la co­
noscea, disse:
– Madonna, voi potreste dir vero, ma tuttavia, non
sappiendo chi questi si sia, altri non si rivolgerebbe
così di leggiero.
Allora la donna, che piccola levatura avea, disse:
– Comare, egli non si vuol dire, ma lo ’ntendimento
mio è l’agnolo Gabriello, il quale più che sé m’ama, sì
come la più bella donna, per quello che egli mi dica,
che sia nel mondo o in maremma.
La comare ebbe allora voglia di ridere, ma pur si ten­
ne per farla più avanti parlare, e disse:
– In fè di Dio, madonna, se l’agnolo Gabriello è vo­
stro intendimento e dicevi questo, egli dee bene es­
ser così; ma io non credeva che gli agnoli facesson
queste cose.
Disse la donna:
– Comare, voi siete errata; per le plaghe di Dio, egli il
fa meglio che mio marido, e dicemi che egli si fa an­
che colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che
niuna che ne sia in cielo, s’è egli innamorato di me e
viensene a star meco bene spesso; mo vedì vu?
La comare, partita da madonna Lisetta, le parve
mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse
queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una
gran brigata di donne, loro ordinatamente raccontò la
novella. Queste donne il dissero a’ mariti e ad altre
donne, e quelle a quell’altre, e così in meno di due
dì ne fu tutta ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a’ quali
questa cosa venne agli orecchi furono i cognati di lei,
li quali, senza alcuna cosa dirle, si posero in cuore
di trovare questo agnolo e di sapere se egli sapesse
volare; e più notti stettero in posta.
Avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne
venne a frate Alberto agli orecchi; il quale, per ripren­
der la donna, una notte andatovi, appena spogliato
s’era, che i cognati di lei, che veduto l’avevan venire,
furono all’uscio della sua camera per aprirlo. Il che
frate Alberto sentendo, e avvisato ciò che era, leva­
tosi, non veggendo altro rifugio, aperse una finestra
la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si
gittò nell’acqua.
Il fondo v’era grande ed egli sapeva ben notare, sì
che male alcun non si fece; e, notato dall’altra parte
del canale, in una casa che aperta v’era prestamen­
te se n’entrò, pregando un buono uomo che dentro
v’era che per l’amor di Dio gli scampasse la vita, sue
favole dicendo perché quivi a quella ora e ignudo
fosse.
Il buono uomo, mosso a pietà, convenendogli andare
a far sue bisogne, nel suo letto il mise, e dissegli che
quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serra­
tolo, andò a fare i fatti suoi.
I cognati della donna entrati nella camera trovarono
che l’agnolo Gabriello, quivi avendo lasciate l’ali, se
n’era volato; di che quasi scornati grandissima villa­
nia dissero alla donna, e lei ultimamente sconsola­
ta lasciarono stare e a casa lor tornarsi con gli arnesi
dello agnolo.
In questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il buono
uomo in sul Rialto, udì dire come l’agnolo Gabriello
era la notte andato a giacere con madonna Lisetta
e da’ cognati trovatovi, s’era per paura gittato nel
canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse; per
che prestamente s’avvisò colui che in casa avea esser
desso. E là venutosene e riconosciutolo, dopo molte
novelle, con lui trovò modo che, s’egli non volesse
che a’ cognati di lei il desse, gli facesse venire cin­
quanta ducati; e così fu fatto.
E appresso questo, disiderando frate Alberto d’uscir
di quindi, gli disse il buono uomo:
– Qui non ha modo alcuno, se già in uno non vole­
ste. Noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena
uno uomo vestito a modo d’orso e chi a guisa d’uom
salvatico, e chi d’una cosa e chi d’un’altra, e in su la
piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è
finita la festa; e poi ciascun va, con quel che menato
ha, dove gli piace. Se voi volete, anzi che spiar si pos­
sa che voi siate qui, che io in alcun di questi modi vi
meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altramenti
non veggio come uscirci possiate che conosciuto non
siate; e i cognati della donna, avvisando che voi in
alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno messe
le guardie per avervi.
Come che duro paresse a frate Alberto l’andare in co­
tal guisa, pur per la paura che aveva de’ parenti della
donna vi si condusse, e disse a costui dove voleva
esser menato, e come il menasse era contento.
Costui, avendol già tutto unto di mele ed empiuto di
sopra di penna matta, e messagli una catena in gola
e una maschera in capo, e datogli dall’una mano un
gran bastone e dall’altra due gran cani, che dal ma­
cello avea menati, mandò uno al Rialto, che bandisse
che chi volesse veder l’agnolo Gabriello andasse in
su la piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana que­
sta.
E questo fatto, dopo alquanto il menò fuori e mise­
selo innanzi, e andandol tenendo per la catena di
dietro, non senza gran romore di molti, che tutti di­
ceano: – Che xè quel? che xè quel? – il condusse in
su la piazza, dove tra quegli che venuti gli eran dietro
e quegli ancora che, udito il bando, da Rialto venuti
v’erano, erano gente senza fine. Questi là pervenuto,
in luogo rilevato e alto legò il suo uomo salvatico ad
una colonna, sembianti faccendo d’attendere la cac­
cia; al quale le mosche e’tafani, per ciò che di mele
era unto, davan grandissima noia.
Ma poi che costui vide piazza ben piena, faccendo
sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico, a
frate Alberto trasse la maschera dicendo:
– Signori, poi che il porco non viene alla caccia, e non
si fa, acciò che voi non siate venuti in vano, io voglio
che voi veggiate l’agnolo Gabriello, il quale di cielo
in terra discende la notte a consolare le donne vini­
ziane.
Come la maschera fu fuori, così fu frate Alberto incon­
tanente da tutti conosciuto; contro al quale si levaron
le grida di tutti, dicendogli le più vituperose paro­
le e la maggior villania che mai ad alcun ghiotton si
dicesse, e oltre a questo per lo viso gettandogli chi
una lordura e chi un’altra; e così grandissimo spazio il
tennero, tanto che per ventura la novella a’ suoi frati
pervenuta, infino a sei di loro mossisi quivi venne­
ro, e gittatagli una cappa in dosso e scatenatolo, non
senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel
menarono, dove, incarceratolo, dopo misera vita si
crede che egli morisse.
Così costui, tenuto buono e male adoperando non
essendo creduto, ardì di farsi l’agnolo Gabriello, e di
questo in un uom salvatico convertito, a lungo anda­
re, come meritato avea, vituperato senza pro pianse
i peccati commessi. Così piaccia a Dio che a tutti gli
altri possa intervenire.
Giornata sesta – Novella decima
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna
dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
Essendo ciascuno della brigata della sua novella
riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover
dire; per la qual cosa, senza troppo solenne coman­
damento aspettare, imposto silenzio a quegli che il
sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio
di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non
intendo di volere da quella materia separarmi della
qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma,
seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi
quanto cautamente con subito riparo uno de’ frati di
santo Antonio fuggisse uno scorno che da due gio­
vani apparecchiato gli era. Né vi dovrà esser grave
perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto
in parlar mi distenda, se al sol guarderete il qual è
ancora a mezzo il cielo.
Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un ca­
stel di Val d’Elsa posto nel nostro contado, il quale,
quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati
fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi
trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una
volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi
un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Ci­
polla, forse non meno per lo nome che per altra di­
vozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel
terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.
Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo
rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mon­
do: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo
parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’aves­
se, non solamente un gran rettorico l’avrebbe stima­
to, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse
Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era
compare o amico o benivogliente.
Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto
tra l’altre v’andò una volta, e una domenica mattina,
essendo tutti i buoni uomini e le femine delle vil­
le da torno venuti alla messa nella calonica, quando
tempo gli parve, fattosi innanzi disse:
– Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è
di mandare ogni anno à poveri del baron messer san­
to Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi
poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua,
acciò ché il beato santo Antonio vi sia guardia de’
buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre; e
oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che
alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debi­
to che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose
ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer
l’abate, stato mandato, e per ciò, con la benedizion
di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le cam­
panelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io
al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la
croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi co­
nosco del barone messer santo Antonio, di spezial
grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la
quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltre­
mare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriel­
lo, la quale nella camera della Vergine Maria rimase
quando egli la venne ad annunziare in Nazaret.
E questo detto, si tacque e ritornossi alla messa.
Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra
gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto,
chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Bia­
gio Pizzini li quali, poi che alquanto tra sé ebbero
riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto
fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di
fargli di questa penna alcuna beffa. E avendo sapu­
to che frate Cipolla la mattina desinava nel castello
con un suo amico, come a tavola il sentirono così se
ne scesero alla strada e all’albergo dove il frate era
smontato se n’andarono con questo proponimento:
che Biagio dovesse tenere a parole il fante di fra­
te Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate
cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e
torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi
dovesse al popol dire.
Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chia­
mavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi
gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che
egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun
cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di
motteggiare con la sua brigata e di dire:
– Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualun­
que è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile
o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù,
ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che
uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né
santità alcuna è, avendone nove.
Ed, essendo alcuna volta domandato quali fossero
queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe,
rispondeva:
– Dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligen­
te, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato
e scostumato; senza che egli ha alcune altre tacche­
relle con queste, che si taccion per lo migliore. E quel
che sommamente è da rider de’ fatti suoi è che egli in
ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e
avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte
esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante
femine il veggano tutte di lui s’innamorino, ed essen­
do lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la co­
reggia. E’ il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per
ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che
egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che
io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che
io non sappia rispondere, che prestamente risponde
egli e sì e no, come giudica si convenga.
A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla
comandato che ben guardasse che alcuna persona
non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bi­
sacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in
cucina che sopra i verdi rami l’usignolo, e massima­
mente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella
dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal
fatta, con un paio di poppe che parean due ceston
da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta
sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti
l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Ci­
polla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si
calò. E ancora che d’agosto fosse, postosi presso al
fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva
nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile
uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini più
di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare
altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva
tante cose fare e dire, che domine pure unquanche.
E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale
era tanto untume, che avrebbe condito il calderon
d’Altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e
intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidu­
me, con più macchie e di più colori che mai drap­
pi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette
tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato
fosse il siri di Castiglione, che rivestir la voleva e ri­
metterla in arnese, e trarla di quella cattività di star
con altrui e senza gran possession d’avere ridurla in
isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le qua­
li quantunque molto affettuosamente le dicesse, tut­
te in vento convertite, come le più delle sue imprese
facevano, tornarono in niente.
Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intor­
no alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per
ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradi­
cendolo alcuno nella camera di frate Cipolla, la qua­
le aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne
lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la
penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo
di zendado fasciata una piccola cassettina; la quale
aperta, trovarono in essa una penna di quelle del­
la coda d’un pappagallo, la quale avvisarono dovere
esser quella che egli promessa avea di mostrare a’
certaldesi.
E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far
credere, per ciò che ancora non erano le morbidez­
ze d’Egitto, se non in piccola quantità, trapassate in
Toscana, come poi in grandissima copia con disfaci­
mento di tutta Italia son trapassate: e dove che elle
poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in
niente erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi
ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti
avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior par­
te mai uditi non gli avean ricordare.
Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata,
quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, ve­
dendo carboni in un canto della camera, di quegli la
cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa raccon­
cia come trovata avevano, senza essere stati vedu­
ti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono
a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della
penna trovando carboni, dovesse dire.
Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa era­
no, udendo che veder dovevano la penna dell’agnol
Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono
a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare
all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uo­
mini e tante femine concorsono nel castello, che ap­
pena vi capeano, con desiderio aspettando di veder
questa penna.
Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto
dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la
moltitudine grande esser venuta di contadini per do­
vere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che
lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bi­
sacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla
Nuta si fu divelto, con le cose addimandate con fati­
ca lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il
ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo,
per comandamento di frate Cipolla andatone in su la
porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a
sonare.
Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipol­
la, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse
stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio
de’ fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al
mostrar della penna dell’agnolo Gabriello, fatta prima
con grande solennità la confessione, fece accender
due torchi, e soavemente sviluppando il zendado,
avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta
ne trasse. E dette primieramente alcune parolette
a laude e a commendazione dell’agnolo Gabriello e
della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come
piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guc­
cio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva
da tanto, né il maladisse del male aver guardato che
altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé,
che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa,
conoscendol, come faceva, negligente, disubidente,
trascurato e smemorato. Ma non per tanto, senza mu­
tar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che
da tutti fu udito:
– O Iddio, lodata sia sempre la tua potenzia!
Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse:
– Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io
ancora molto giovane, io fui mandato dal mio supe­
riore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi
commesso con espresso comandamento che io cer­
cassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana,
li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto
più utili sono a altrui che a noi.
Per la qual cosa messom’io cammino, di Vinegia
partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Gre­
ci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e
per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza
sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma per­
ché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io
capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia
e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e
di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti
de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali
tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando,
poco dell’altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità
vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo
che senza conio per quei paesi: e quindi passai in
terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno
in zoccoli su pe’monti, rivestendo i porci delle lor
busecchie medesime; e poco più là trovai gente che
portano il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca: da’
quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte
le acque corrono alla ’ngiù.
E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei
infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro, per l’abi­
to che io porto addosso che io vidi volare i pennati,
cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò
non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran
mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva
gusci a ritaglio.
Ma non potendo quello che io andava cercando tro­
vare, perciò che da indi in là si va per acqua, indie­
tro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove
l’anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e
il caldo v’è per niente. E quivi trovai il venerabile pa­
dre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo
patriarca di Jerusalem. Il quale, per reverenzia del­
l’abito che io ho sempre portato del baron messer
santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reli­
quie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante
che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei
a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi
sconsolate, ve ne dirò alquante.
Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito
Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto
del serafino che apparve a san Francesco, e una del­
l’unghie de’ Gherubini, e una delle coste del Verbum
caro fatti alle finestre, e de’ vestimenti della Santa Fé
catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve
à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san
Michele quando combatté col diavole, e la mascella
della Morte di san Lazzaro e altre.
E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piag­
ge di Monte Morello in volgare e d’alquanti capitoli
del Caprezio, li quali egli lungamente era andati cer­
cando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie,
e donommi uno de’ denti della santa Croce, e in una
ampolletta alquanto del suono delle campane del
tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello,
della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san
Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto,
a Firenze donai a Gherardo di Bonsi, il quale in lui
ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni, co’
quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le
quali cose io tutte di qua con meco divotamente le
recai, e holle tutte.
E’ il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che
io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non
s’è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli
fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto
n’è certo m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma
io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco.
Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriel­
lo, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni
co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali
son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi
vien presa l’una per l’altra, e al presente m’è avve­
nuto; per ciò che, credendomi io qui avere arrecata
la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella
dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato
sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia
stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’ carboni
ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur testé
che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì. E per
ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co’
quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime
la divozione che in lui aver dovete, non la penna che
io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor
di quel santissimo corpo mi fe’pigliare. E per ciò, fi­
gliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divota­
mente v’appresserete a vedergli.
Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da
questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello
anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non
si senta.
E poi che così detto ebbe, cantando una laude di
san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni;
li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe
con ammirazione reverentemente guardati, con gran­
dissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e,
migliori offerte dando che usati non erano, che con
essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno.
Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carbo­
ni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra
i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare
le maggior croci che vi capevano, affermando che
tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi
ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte
aveva provato.
E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità
avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accor­
gimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, to­
gliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li
quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo
riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse
e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti
smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui an­
datisene, con la maggior festa del mondo ciò che fat­
to avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono
la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non
meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
Giornata nona – Novella decima
Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per
far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar
la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta
tutto lo ’ncantamento.
Questa novella dalla reina detta diede un poco da
mormorare alle donne e da ridere a’ giovani; ma poi
che ristate furono, Dioneo così cominciò a parlare.
Leggiadre donne, infra molte bianche colombe ag­
giugne più di bellezza uno nero corvo, che non fa­
rebbe un candido cigno; e così tra molti savi alcuna
volta un men savio è non solamente un accrescere
splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora di­
letto e sollazzo.
Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e
moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no,
faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto,
più vi debbo esser caro che se con più valore quel­
la facessi divenir più oscura; e per conseguente più
largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal qual io
sono, e più pazientemente dee da voi esser soste­
nuto che non dovrebbe se io più savio fossi, quel di­
cendo che io dirò. Dirovvi adunque una novella non
troppo lunga, nella quale comprenderete quanto di­
ligentemente si convengano osservare le cose impo­
ste da coloro che alcuna cosa per forza d’incantamen­
to fanno, e quanto piccol fallo in quelle commesso
ogni cosa guasti dallo incantator fatta.
L’altr’anno fu a Barletta un prete, chiamato donno
Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera chiesa
avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla co­
minciò a portar mercatantia in qua e in là per le fiere
di Puglia e a comperare e a vendere. E così andando,
prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava
Pietro da Tresanti, che quello medesimo mestiere
con uno suo asino faceva, e in segno d’amorevolezza
e d’amistà, alla guisa pugliese, nol chiamava se non
compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava,
sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva
seco ad albergo, e come poteva l’onorava.
Compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e
avendo una piccola casetta in Tresanti, appena ba­
stevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie e
all’asino suo, quante volte donno Gianni in Tresanti
capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in
riconoscimento dell’onor che da lui in Barletta rice­
veva, l’onorava. Ma pure, al fatto dello albergo, non
avendo compar Pietro se non un piccol letticello, nel
quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol po­
teva come voleva, ma conveniva che, essendo in una
sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di
donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di
paglia si giacesse.
La donna, sappiendo l’onor che il prete al marito fa­
ceva a Barletta, era più volte, quando il prete vi veni­
va, volutasene andare a dormire con una sua vicina,
che avea nome zita Carapresa di Giudice Leo, acciò
che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo
molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai vo­
luto; e tra l’altre volte, una le disse:
– Comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto,
bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia
cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa,
e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e perciò da
lei non mi partirei.
La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il
disse, aggiugnendo:
– Se egli è così tuo come tu di’, ché non ti fai tu in­
segnare quello incantesimo, ché tu possa far cavalla
di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e
guadagneremo due cotanti, e quando a casa fossimo
tornati, mi potresti rifar femina come io sono.
Compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no,
credette questo fatto e accordossi al consiglio, e
come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno
Gianni, che questa cosa gli dovesse insegnare. Don­
no Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa
sciocchezza, ma pur non potendo, disse:
– Ecco, poi che voi pur volete, domattina ci levere­
mo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò come
si fa. E’ il vero che quello che più è malagevole in
questa cosa si è l’appiccar la coda, come tu vedrai.
Compar Pietro e comar Gemmata, appena avendo
la notte dormito (con tanto desidero questo fatto
aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chia­
marono donno Gianni, il quale, in camicia levatosi,
venne nella cameretta di compar Pietro e disse:
– Io non so al mondo persona a cui io questo facessi,
se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò;
vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi
volete che venga fatto.
Costoro dissero di far ciò che egli dicesse. Per che
donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a com­
par Pietro e dissegli:
– Guata ben come io farò, e che tu tenghi bene a men
te come io dirò, e guardati, quanto tu hai caro di non
guastare ogni cosa, che per cosa che tu oda o veg­
gia, tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la
coda s’appicchi bene.
Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo fareb­
be.
Appresso donno Gianni fece spogliare ignuda nata
comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co’ pie­
di in terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestran­
dola similmente che di cosa che avvenisse motto non
facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso
e la testa, cominciò a dire: – Questa sia bella testa di
cavalla –; e toccandole i capelli, disse: – Questi sieno
belli crini di cavalla –; e poi toccandole le braccia,
disse: – E queste sieno belle gambe e belli piedi di
cavalla –; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e
tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su
levandosi, disse: – E questo sia bel petto di cavalla
–; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e
alle coscie e alle gambe. E ultimamente, niuna cosa
restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e
preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e
prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse:
– E questa sia bella coda di cavalla.
Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva
ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non
parendonegli bene, disse:
– O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi
voglio coda.
Era già l’umido radicale, per lo quale tutte le piante
s’appiccano, venuto, quando donno Gianni tiratolo
indietro, disse:
– Ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto? Non ti
diss’io, che tu non facessi motto di cosa che tu ve­
dessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando
hai guasto ogni cosa, né più ci ha modo di poterla
rifare oggimai.
Compar Pietro disse:
– Bene sta, io non vi voleva quella coda io. Perché
non diciavate voi a me –
Falla tu –? E anche l’appiccavate troppo bassa.
Disse donno Gianni:
– Perché tu non l’avresti per la prima volta saputa
appiccar sì com’io.
La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di
buona fè disse al marito:
– Deh, bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi
fatti e’miei? Qual cavalla vedestu mai senza coda? Se
m’aiuti Iddio, tu se’povero, ma egli sarebbe ragione
che tu fossi molto più.
Non avendo adunque più modo a dover fare della
giovane cavalla, per le parole che dette avea compar
Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e com­
par Pietro con uno asino, come usato era, attese a
fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni in­
sieme n’andò alla fiera di Bitonto, né mai più di tal
servigio il richiese.
l’umanesimo
L’Umanesimo – manterremo il termine per quel movimento d’idee che nato nel
xiv giunge sino alla fine del xv secolo – nelle sue due componenti, l’Umanesimo
latino e quello volgare, approfondì i due momenti che abbiamo visto caratterizzare
la teoria della comunicazione precedente. L’imitazione dei classici, su cui aveva
insistito Petrarca, con quel che comportava in fatto di pubblico, venne ripresa ed
appro­fondita, sia nei termini contenutistici sia in quelli formali e produsse nuove
vie di sintesi che giungono all’affermazione di Giorgio da Trebisonda secondo
la quale l’uomo non sarebbe in grado di produrre il bene senza la mediazione
della parola: « La ragione non produce alcun bene se non s’incarna nel discorso »
(Rhetoricorum libri duo). La comunicazione letteraria non solo è manifestazione della
virtù interiore dello scrivente, il secondo dei punti di riferimento dell’epoca prece­
dente, ma diviene garante dell’onestà dei contenuti. La coraggiosa presa di distanze
da Cicerone di Coluccio Salutati che diffida di una tecnica di persuasione che
finisca con l’identificarsi con la commozione della passioni e, conseguentemente,
con l’oscuramento del retto giudizio, valeva non solo ad allontanare dalla poesia
l’accusa di falsità ed dai poeti quella di disonesti (« poeta virum optimum esse
debere », De laboribus Herculis); valeva a riaffermare l’identità di ragione e discorso,
di con­tenuti filosofici scientifici etici e comunicazione letteraria in fun­zione della
creazione di una società basata essa sulla virtù. Naturalmente, commozione e
persuasione restano nel discorso salutatiano: esse costituiscono il feed-back che
l’opera letteraria deve avere, ma sono commozione e persuasione della fantasia
che è l’anticamera della conoscenza razionale.
Per questa via si giungeva alla dimensione civile dell’Umanesimo. Infatti in
quella sintesi di ratio (si legga anche phantasia) ed oratio si perdevano, valori e funzioni
d’autoreferenzialità largamente presenti, ad esempio in Francesco Petrarca.
La fabula non è più, com’era in Boc­caccio, gioiosa invenzione, ma strumento,
anche privilegiato della comunicazione letteraria. Fabula che dev’essere il più
trasparente possibile per essere civilmente efficace. Talora non lo è (o non lo
stata) ed allora occorre uno sforzo ermeneutico del lettore che con la sua risposta
dà la misura dell’efficacia della comunicazione. Non è un caso che un Giovanni
Dominici, nella Lucula noctis, torni, contro il Salutati, alle accuse di oscurità della
letteratura e di falsità della favole a petto della semplicità e verità evangelica.
Significava riaffermare la superiorità della comunicazione evangelica e della
cultura ecclesiastica e l’ineffi­cacia di quell’« harmonia metrica » che proponeva
insieme un modello culturale e intellettuali laici.
Tanto più che la direzione civile dell’intero movimento sembrava aprire le
porte ad un pubblico più vasto. La fabula, poiché nasce dalla ed è destinata alla
fantasia, infatti è capace di suscitare anche il consenso più immediato dilettevole,
diremmo, ma non limitato al solo diletto, di un pubblico meno colto. Oltre,
naturalmente, a quello del pubblico dotto che nella favola coglierà anche i valori
filosofici, scientifici, etici che vi sono contenuti. È chiaro che tale apertura, per
così dire, democratica, risponde alla situazione sociale degli stati italiani ed in
particolare della Repubblica prima e poi della Signoria fiorentina: qui il potere
era nelle mani dei banchieri e degli imprenditori e commer­cianti tessili che aveva
espresso chiaramente le proprie scelte culturali con il successo straordinario
decretato al Decameron e che si allargherà sempre più nel secolo successivo
quando il successo dei poemi caval­lereschi genererà una vasta produzione di
letteratura popolare. Per il momento conta l’apertura, forse per la prima volta così
decisa e così disponibile, di Leonardo Bruni ad un pubblico capace di fruire solo
in parte della comunicazione letteraria: le « belle cose, con gentilezza di rima
esplicate, prendono la mente di ciascuno che legge, e molto più di quelli che più
intendono » (Vita di Dante). La scrittura letteraria si disponeva così a una duplicità
di livelli di lettura senza che questo costituisca un limite per l’autore che parla
così a quel volgo per il quale Petrarca aveva nutrito diffidenza, se non l’odio di
oraziana memoria.
Il progetto bruniano che comprende la possibilità che la naturale propensione
alla bellezza si affinasse attraverso le letture e, per conver­so, che il progressivo
affinamento culturale portasse ad una maggiore comprensione delle letture
implicava il superamento definitivo dell’i­mitazione petrarchesca il nome di una
comunicazione letteraria personale e personalizzata, che si modulava secondo
le esigenze e la sensibilità dell’autore e non da un insieme di regole fissate una
volta per sempre. Come avverrà con Pietro Bembo, che sembrerà voler ristabilire
il primato dell’accademia e di una élite culturale contro le forze centrifughe
popolari o popolareggianti. Nella prima parte del xv secolo il liberismo letterario
di Bruni trova conferma in Lorenzo Valla il quale accentua il valore civile della
comunicazione letteraria sì da farne il luogo in cui si concretizza l’humanitas.
L’humanitas di Valla è nozione politica: la lingua degli scrittori pone in atto,
realizza, il bisogno dell’uomo e la tensione al bello: come per l’Alighieri la lingua
era il luogo in cui s’era depositato tutto il sapere dell’uomo, in cui cioè l’intelletto
possibile era divenuto in atto epperciò costituiva l’essenza stessa della monarchia
universale, così nella comunicazione letteraria si realizzava e diventava in qualche
modo tangibile l’armonia del vivere sociale che è osmosi di etica e di estetica.
In fondo le tesi di Valla sono la traduzione in prosa del mito di Orfeo che, in e
sotto la tutela politico-culturale di Lorenzo il Magni­fico, trova larghe attestazioni
in Coluccio Salutati, in Leonardo Bruni, in Cristoforo Landino, in Marsilio Ficino,
fondatore del platonismo fiorentino, in Agnolo Poliziano e, naturalmente, in
Lorenzo. Il mito si compaginava con la teoria del Fedro platonico secondo la quale
il poeta scrive invasato da un furor, grazie al quale egli contempla e dice l’ideale.
La più famosa delle attestazioni del mito è quella della polizianesca Favola d’Orfeo
che si fa carico del tema della capacità persuasoria della poesia, se il canto di Orfeo
piega le leggi dell’inferno e desta la commozione della stessa Morte: Proserpina
a Plutone:
I’ non credetti, o dolce mie consorte,
che Pietà mai veisse in questo regno:
hor la veggio regnare in nostra corte
et io sento di lei tutto ’l cor pregno;
né solo i tormentati, ma la Morte
veggio che piange del suo caso indegno:
dunque tua dura legge a lui pieghi,
pel canto, pell’amor, pe’ giusti prieghi. [vv. 289-296]
Ma il platonismo fiorentino ebbe più complessi ed organici atteggia­menti che
coniugavano amore per il bello, sapere filosofico, funzione civile e civilizzatrice.
Punto di riferimento potrebbe essere il Comento de’ miei sonetti di Lorenzo nel quale
il modello formale di Petrarca si trova integrato con la « grave sostanza » di Dante:
« Quella che è vera laude della lingua è l’essere copiosa e abondante ed atta ad
esprimere bene il senso e il concetto della mente. E però si giudica la lingua greca
più perfetta che la latina e la latina più che l’ebrea, perché l’una più che l’altra
meglio esprime la mente di chi ha o detto o scritto alcuna cosa. L’altra condizione
che più degnifica la lingua è la dolcezza ed armonia che risulta più d’una che
di un’altra; e, benché l’armonia sia cosa naturale e proporzionata con l’armonia
dell’anima e del corpo nostro » (Comento de’ miei sonetti).
Naturalmente non è possibile tracciare neppure un quadro di quello
straodinariamente articolato movimento che fu l’Umanesimo, all’inter­no del quale
va annotata la proliferazione di manuali di grammatica e retorica che sollecitò lo
stabilizzarsi di una modalità aulica della comunicazione letteraria, divenuta sempre
più fine a se stessa e vuota. Pico della Mirandola denunciava lo scollamento tra
forme e contenuti e rimproverava ad Ermolao Barbaro la traduzione d’Aristotele in
latino ciceroniano. A livello europeo, di lì a qualche tempo, Erasmo da Rot­terdam
poneva il medesimo problema nel De ratione studii: la vera eloquenza era quella che
compaginava la bella forma e la saggezza. Lo sviluppo della retorica riguardava in
modo particolare il latino: la sua progressiva sterilizzazione si affiancava al bisogno
di allargamento del pubblico della cultura. Era evidente che allo scopo era di gran
lunga più efficace il volgare le cui possibilità comunicative non necessitavano di
prove: il problema era, e lo era sin dai tempi del De vulgari eloquentia, quello della
capacità del volgare di diventare strumento della cultura e dell’arte. Su questo
piano un posto di grande rilevanza è occupato da Leon Battista Alberti che fu
quello che con più fortemente insisté sulla natura comunicativa del linguaggio da
cui conseguiva, se non il pri­mato, l’efficacia del volgare:
… e prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’in­ten­da, prima cerco giovare
a molti che piacere a pochi: ché sai quanto siano pochissimi a questi dì e letterati; […] E se io non
fuggo essere come inteso cosí giudicato da tutti e’ nostri cittadini, piaccia quando che sia a chi mi
biasima o deponer l’invidia o pigliar più utile materia in qual sé demonstri­no eloquenti. Usino
quando che sia la perizia sua in altro che in vituperare chi non marcisce in ozio. Io non aspetto
d’essere commendato se non della volontà qual me muove a quanto in me sia ingegno, opera e
industria por­germi utile a’ nostri Alberti; e parmi più utile cosí scrivendo essercitarmi, che tacendo
fuggire el giudicio de’ detrattori » (I libri della famiglia).
Abbiamo largheggiato nella citazione perché Alberti fa confluire nella
comunicazione letteraria, volgare, anche una sorta di imperativo inte­riore a
rendersi utile agli altri, e agli Alberti in specie, scrive: sì che la tensione civile
dell’Umanesimo fiorentino si poneva come premessa della scelta dello strumento
della comunicazione, oltre che come fine di un esercizio letterario che non riusciva
a superare i limiti dell’élite. Basti solo un cenno ad Agnolo Poliziano e a Lorenzo
il Magnifico che affermano la letterarietà del volgare in termini che risalgono al
Convivio dantesco, ripetuto tanto pedissequamente quanto orgogliosamente nel
citato Comento da Lorenzo.
LUIGI PULCI
Il culto del latino nell’umanesimo mirò alla restaurazione della latinità,
ed il ciceronianesimo fu il segno della lotta contro l’età barbara che operò
profondamente nella creazione del nuovo gusto. La cultura umanistica si propose
di superare la rozzezza linguistica del medioevo volgare. Il Petrarca venne
considerato il restauratore della eloquenza. Tale restaurazione della sensibilità
classica è l’aspetto più evidente del distacco dal Medioevo. Infatti dal punto
di vista dei contenuti e dell’ideologia tra il Medioevo e il Rinascimento non si
avverte alcuna frattura fra rinascita sviluppatasi dopo il Mille e ciò che continua
nei secoli XV e XVI. La differenza sta tutta fra gusto gotico e gusto classico, che il
Petrarca e certo Boccaccio instaurano.
La lingua mostra lo stesso distacco fra il latino scolastico, gotico e il latino
umanistico. Quando, alla fine del Quattrocento la letteratura in volgare rifiorisce, gli
è perché in questo sono trasferite le caratteristiche morfo-sintattiche e stilistiche
del latino: attraverso il latino si forma la nuova lingua italiana unitaria. L’italiano
deve farsi in certo qual modo latino per acquistare la sua vera natura di lingua
razionale, totalmente definita nella sua morfologia e nei suoi suoni.
Per tutto il Quattrocento, tuttavia, l’uso del latino segnò una grave crisi del
volgare e della letteratura in generale. Gli umanisti non fecero o non seppero
incidere nella coscienza coscienza popolare, anzi approfondirono il distacco
tra cultura e nazione, tra cultura e realtà storica. Divenne, se non naturale,
connaturato alla cultura della penisola la nozione che la letteratura la filosofia
l’arte fossero al di sopra degli eventi storici e della fatica del vivere. E, salvo
rari casi, che l’intellettuale dipendesse dai gruppi egemoni quali che fossero.
Dante aveva scritto per tutti gli uomini in volgare, mantenendosi indipendente
dal potere politico vuoi papale vuoi imperiale, scrivendo contro l’uno e l’altro
potere, a vantaggio dell’umanità. Con Petrarca si istaura il distacco dalla politica
(né bastano le pochissime rime dedicate all’argomento per attestare il contrario);
con l’umanesimo gruppo (e classe) egemone e gruppo colto coincidono quando
non si identificano e la cultura diviene strumento di pompa, ornamento della
politica, al servizio della politica.
La letteratura volgare che si fermò alla ripetizione dei temi, dei generi
tradizionali le laudi, le ballate, gli strambotti. La lingua volgare, priva del continuo
sforzo di affinamento, di regolarizzazione da parte degli elementi più dotati di
cultura e di esperienza letteraria, restò affidata alla improvvisazione popolare,
alla corruzione quotidiana.
Con il certame coronano e con la propria opera personale L. B. Alberti cercò di
riabilitare il volgare e di portarlo a nuova norma. Ma il tentativo fallì: mancò una
una vera sintesi dei due usi linguistici.
Il Pulci ebbe mentalità avversa all’ideologia umanistica, nella sua opera letteraria
si rifece alla materia popolare e al volgare. Il Morgante pur con le sproporzioni
derivanti da un disegno che si allargò molto al di là del piano iniziale, si giovò
di un’assai vivace forza di comicità e di una notevole bravura psicologica. La
presentazione della ribalderia di Margutte, l’irrisione popolare della religione
erano fatte con notevole efficacia. La scrittura fu sciolta, non priva di esperienza
letteraria, di reminiscenze dantesche, di scaltrite movenze. Ma mancarono, in
genere, all’autore l’ambizione e il senso dell’arte, la profondità dell’intuizione,
il vigore della costruzione. Quella del Pulci fu come una ripresa del dialetto
in opposizione al latino. Non poté bastare a vincere la battaglia per il volgare.
Mancò, nel Quattrocento, uno sforzo di innalzamento della letteratura volgare.
Belcari restò allo stesso livello.
MORGANTE
CANTARE DECIMOTTAVO
110.Carlo in Parigi nella sua tornata
Meredïana volse rimandare
a Carador, che l’ha tanto aspettata;
e lei più in Francia non volea già stare,
da poi ch’Ulivier suo l’avea lasciata.
Morgante volle questa accompagnare,
e finalmente, dopo alcun dimoro,
rappresentolla al gran re Caradoro.
111.E pochi giorni con lei dimoròe,
perché e’ voleva andar verso Soria,
dove era Orlando, e licenzia pigliòe
e sol soletto si misse per via;
Meredïana al partir lo pregòe
che l’avvisassi d’Ulivier che sia,
e ritornassi qualche volta a quella,
che rimanea scontenta e meschinella.
112. Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio,
uscito d’una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Dètte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: “Costui non conosco”;
e posesi a sedere in su ’n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.
113. Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
- Dimmi il tuo nome, - dicea - vïandante. Colui rispose: - Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. 114.Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino. 115.Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
116. e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;
117. ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch’io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch’io non son terren da porvi vigna.
118. Questa fede è come l’uom se l’arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d’una monaca greca
e d’un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch’avea fantasia
cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille,
non una volta già, ma mille e mille.
119. Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso.
Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,
e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;
120. anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n’ho settanta e sette de’ mortali,
che non mi lascian mai lo state o ’l verno;
pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.
121.Non ti rincresca l’ascoltarmi un poco:
tu udirai per ordine la trama.
Mentre ch’io ho danar, s’io sono a giuoco,
rispondo come amico a chiunque chiama;
e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco,
tanto che al tutto e la roba e la fama
io m’ho giucato, e’ pel già della barba:
guarda se questo pel primo ti garba.
122.Non domandar quel ch’io so far d’un dado,
o fiamma o traversin, testa o gattuccia,
e lo spuntone, e va’ per parentado,
ché tutti siàn d’un pelo e d’una buccia.
E forse al camuffar ne incaco o bado
o non so far la berta o la bertuccia,
o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?
Io so di questo ogni malizia e frodo.
123. La gola ne vien poi drieto a questa arte.
Qui si conviene aver gran discrezione,
saper tutti i segreti, a quante carte,
del fagian, della stama e del cappone,
di tutte le vivande a parte a parte
dove si truovi morvido il boccone;
e non ti fallirei di ciò parola,
come tener si debba unta la gola.
124. S’io ti dicessi in che modo io pillotto,
o tu vedessi com’io fo col braccio,
tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto;
o quante parte aver vuole un migliaccio,
che non vuole essere arso, ma ben cotto,
non molto caldo e non anco di ghiaccio,
anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso
(pàrti ch’i’ ’l sappi?), e non troppo alto o basso.
125.Del fegatello non ti dico niente:
vuol cinque parte, fa’ ch’a la man tenga:
vuole esser tondo, nota sanamente,
acciò che ’l fuoco equal per tutto venga,
e perché non ne caggia, tieni a mente,
la gocciola che morvido il mantenga:
dunque in due parte dividiàn la prima,
ché l’una e l’altra si vuol farne stima.
126. Piccolo sia, questo è proverbio antico,
e fa’ che non sia povero di panni,
però che questo importa ch’io ti dico;
non molto cotto, guarda non t’inganni!
ché così verdemezzo, come un fico
par che si strugga quando tu l’assanni;
fa’ che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,
poi spezie e melarance e l’altre zacchere.
127.Io ti darei qui cento colpi netti;
ma le cose sottil, vo’ che tu creda,
consiston nelle torte e ne’ tocchetti:
e’ ti fare’ paura una lampreda,
in quanti modi si fanno i guazzetti;
e pur chi l’ode poi convien che ceda:
perché la gola ha settantadue punti,
sanza molti altri poi ch’io ve n’ho aggiunti.
128. Un che ne manchi, è guasta la cucina:
non vi potrebbe il Ciel poi rimediare.
Quanti segreti insino a domattina
ti potrei di questa arte rivelare!
Io fui ostiere alcun tempo in Egina,
e volli queste cose disputare.
Or lasciàn questo, e d’udir non t’incresca
un’altra mia virtù cardinalesca.
129.Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe:
pensa quand’io sarò condotto al rue!
Sappi ch’io aro, e non dico da beffe,
col cammello e coll’asino e col bue;
e mille capannucci e mille gueffe
ho meritato già per questo o piùe;
dove il capo non va, metto la coda,
e quel che più mi piace è ch’ognun l’oda.
130. Mettimi in ballo, mettimi in convito,
ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani;
io son prosuntüoso, impronto, ardito,
non guardo più i parenti che gli strani:
della vergogna, io n’ho preso partito,
e torno, chi mi caccia, come i cani;
e dico ciò ch’io fo per ognun sette,
e poi v’aggiungo mille novellette.
131. S’io ho tenute dell’oche in pastura
non domandar, ch’io non te lo direi:
s’io ti dicessi mille alla ventura,
di poche credo ch’io ti fallirei;
s’io uso a munister per isciagura,
s’elle son cinque, io ne traggo fuor sei:
ch’io le fo in modo diventar galante
che non vi campa servigial né fante.
132.Or queste son tre virtù cardinale,
la gola e ’l culo e ’l dado, ch’io t’ho detto;
odi la quarta, ch’è la principale,
acciò che ben si sgoccioli il barletto:
non vi bisogna uncin né porre scale
dove con mano aggiungo, ti prometto;
e mitere da papi ho già portate,
col segno in testa, e drieto le granate.
133.E trapani e paletti e lime sorde
e succhi d’ogni fatta e grimaldelli
e scale o vuoi di legno o vuoi di corde,
e levane e calcetti di feltrelli
che fanno, quand’io vo, ch’ognuno assorde,
lavoro di mia man puliti e belli;
e fuoco che per sé lume non rende,
ma con lo sputo a mia posta s’accende.
134. S’ tu mi vedessi in una chiesa solo,
io son più vago di spogliar gli altari
che ’l messo di contado del paiuolo;
poi corro alla cassetta de’ danari;
ma sempre in sagrestia fo il primo volo,
e se v’è croce o calici, io gli ho cari,
e’ crucifissi scuopro tutti quanti,
poi vo spogliando le Nunziate e’ santi.
135.Io ho scopato già forse un pollaio;
s’ tu mi vedessi stendere un bucato,
diresti che non è donna o massaio
che l’abbi così presto rassettato:
s’io dovessi spiccar, Morgante, il maio,
io rubo sempre dove io sono usato;
ch’io non istò a guardar più tuo che mio,
perch’ogni cosa al principio è di Dio.
136. Ma innanzi ch’io rubassi di nascoso,
io fui prima alle strade malandrino:
arei spogliato un santo il più famoso,
se santi son nel Ciel, per un quattrino;
ma per istarmi in pace e in più riposo,
non volli poi più essere assassino;
non che la voglia non vi fussi pronta,
ma perché il furto spesso vi si sconta.
137. Le virtù teologiche ci resta.
S’io so falsare un libro, Iddio tel dica:
d’uno iccase farotti un fio, ch’a sesta
non si farebbe più bello a fatica;
e traggone ogni carta, e poi con questa
raccordo l’alfabeto e la rubrica,
e scambiere’ti, e non vedresti come,
il titol, la coverta e ’l segno e ’l nome.
138.I sacramenti falsi e gli spergiuri
mi sdrucciolan giù proprio per la bocca
come i fichi sampier, que’ ben maturi,
o le lasagne, o qualche cosa sciocca;
né vo’ che tu credessi ch’io mi curi
contro a questo o colui: zara a chi tocca!
ed ho commesso già scompiglio e scandolo,
che mai non s’è poi ravvïato il bandolo.
139. Sempre le brighe compero a contanti.
Bestemmiator, non vi fo ignun divario
di bestemmiar più uomini che santi,
e tutti appunto gli ho in sul calendario.
Delle bugie nessun non se ne vanti,
ché ciò ch’io dico fia sempre il contrario.
Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra,
e ’l mondo e ’l cielo in peste e ’n fame e ’n guerra.
140.E carità, limosina o digiuno,
orazïon non creder ch’io ne faccia.
Per non parer provàno, chieggo a ognuno,
e sempre dico cosa che dispiaccia;
superbo, invidïoso ed importuno:
questo si scrisse nella prima faccia;
ché i peccati mortal meco eran tutti
e gli altri vizi scelerati e brutti.
141.Tanto è ch’io posso andar per tutto ’l mondo
col cappello in su gli occhi, com’io voglio;
com’una schianceria son netto e mondo;
dovunque i’ vo, lasciarvi il segno soglio
come fa la lumaca, e nol nascondo;
e muto fede e legge, amici e scoglio
di terra in terra, com’io veggo o truovo,
però ch’io fu’ cattivo insin nell’uovo.
142.Io t’ho lasciato indrieto un gran capitolo
di mille altri peccati in guazzabuglio;
ché s’i’ volessi leggerti ogni titolo,
e’ ti parrebbe troppo gran mescuglio;
e cominciando a sciòrre ora il gomitolo,
ci sarebbe faccenda insino a luglio;
salvo che questo alla fine udirai:
che tradimento ignun non feci mai. 143. Morgante alle parole è stato attento
un’ora o più, che mai non mosse il volto;
rispose e disse: - In fuor che tradimento,
per quel ch’io ho, Margutte mio, raccolto,
non vidi uom mai più tristo a compimento;
e di’ che ’l sacco non hai tutto sciolto:
non crederrei con ogni sua misura
ti rifacessi a punto più Natura,
144. né tanto accomodato al voler mio:
noi staren bene insieme in un guinzaglio.
Di tradimento guàrdati, perch’io
vo’ che tu creda in questo mio battaglio,
da poi che tu non credi in Cielo a Dio;
ch’io so domar le bestie nel travaglio.
Del resto, come vuoi te ne governa:
co’ santi in chiesa e co’ ghiotti in taverna.
145.Io vo’ con meco ne venga, Margutte,
e che di compagnia sempre viviamo.
Io so per ogni parte le vie tutte.
Vero che pochi danar ne portiamo;
ma mio costume all’oste è dar le frutte
sempre al partir, quando il conto facciamo;
e ’nsino a qui sempre all’oste, ov’io fusse,
io gli ho pagato lo scotto di busse. 146.Disse Margutte: - Tu mi piaci troppo;
ma resti tu contento a questo solo?
Io rubo sempre ciò ch’io do d’intoppo,
s’io ne dovessi portare un orciuolo;
poi al partir son mutol, ma non zoppo.
Se tu dovessi tòrre un fusaiuolo,
dove tu vai, to’ sempre qualche cosa;
ch’io tirerei l’aiuolo a una chiosa.
147.Io ho cercato diversi paesi,
io ho solcata tutta la marina,
ed ho sempre rubato ciò ch’io spesi.
Dunque, Morgante, a tua posta camina. Così dètton di piglio a’ loro arnesi;
Morgante pel battaglio suo si china
e col compagno suo lieto ne gìa,
e dirizzossi andar verso Soria.
148. Margutte aveva una schiavina indosso
ed un cappello a spicchi alla turchesca,
salvo ch’egli era fatto d’un certo osso
che gli spicchi eran d’altro che di pèsca,
ed era molto grave e molto grosso,
tanto che par che spesso gli rincresca;
un paio di stivaletti avea in piè gialli,
ferrato e con gli spron come hanno i galli.
149.Dicea Morgante quando gli vedea:
- Saresti tu di schiatta di galletto?
Tu hai gli spron di drieto! - e sorridea.
Disse Margutte: - Questo è per rispetto,
ché spesso alcun, che non se n’accorgea,
se ne trovò ingannato, ti prometto:
campati ho già con questi molti casi,
e molti a questa pania son rimasi. 150. Vannosi insieme ragionando il giorno;
la sera capitorno a un ostiere,
e come e’ giunson, costui domandorno:
- Aresti tu da mangiare e da bere?
E pàgati in su l’asse o vuoi nel forno. L’oste rispose: - E’ ci fia da godere:
e’ ci è avanzato un grosso e bel cappone. Disse Margutte: - E’ non fia un boccone.
151. Qui si conviene avere altre vivande:
noi siamo usati di far buona cera.
Non vedi tu costui com’egli è grande?
Cotesta è una pillola di gera. Rispose l’oste: - Mangi delle ghiande.
Che vuoi tu ch’io provvegga, or ch’egli è sera? e cominciò a parlar superbamente,
tal che Morgante non fu pazïente:
152. comincial col battaglio a bastonare;
l’oste gridava e non gli parea giuoco.
Disse Margutte: - Lascia un poco stare.
Io vo’ per casa cercare ogni loco.
Io vidi dianzi un bufol drento entrare:
e’ ti bisogna fare, oste, un gran fuoco,
e che tu intenda a un fischiar di zufolo;
poi in qualche modo arrostiren quel bufolo. 153.Il fuoco per paura si fe’ tosto;
Margutte spicca di sala una stanga;
l’oste borbotta, e Margutte ha risposto:
- Tu vai cercando il battaglio t’infranga:
a voler far quello animale arrosto,
che vuoi tu tòrre, un manico di vanga?
Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito. E finalmente il bufol fu arrostito;
154. non creder colla pelle scorticata:
e’ lo sparò nel corpo solamente.
Parea di casa più che la granata:
comanda e grida, e per tutto si sente.
Un’asse molto lunga ha ritrovata;
apparecchiolla fuor subitamente,
e vino e carne e del pan vi ponea,
perché Morgante in casa non capea.
155. Quivi mangioron le reliquie tutte
del bufolo, e tre staia di pane o piùe,
e bevvono a bigonce; e poi Margutte
disse a quell’oste: - Dimmi, aresti tue
da darci del formaggio o delle frutte,
ché questa è stata poca roba a due,
o s’altra cosa tu ci hai di vantaggio? Or udirete come andò il formaggio.
156. L’oste una forma di cacio trovòe
ch’era sei libbre, o poco più o meno;
un canestretto di mele arrecòe
d’un quarto o manco, e non era anche pieno.
Quando Margutte ogni cosa guardòe,
disse a quell’oste: - Bestia sanza freno,
ancor s’arà il battaglio adoperare,
s’altro non credi trovar da mangiare.
157. È questo compagnon da fare a once?
Aspetta tanto ch’io torni un miccino,
e servi intanto qui colle bigonce:
fa’ che non manchi al gigante del vino,
che non ti racconciassi l’ossa sconce.
Io fo per casa come il topolino:
vedrai s’io so ritrovare ogni cosa,
e s’io farò venir giù roba a iosa! 158. Fece la cerca per tutta la casa
Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,
e rompe e guasta masserizie e vasa:
ciò che trovava, ogni cosa fracassa,
ch’una pentola sol non v’è rimasa;
di cacio e frutte raguna una massa,
e portale a Morgante in un gran sacco,
e cominciorno a rimangiare a macco.
159. L’oste co’ servi impaüriti sono
ed a servire attendon tutti quanti;
e dice fra se stesso: “E’ sarà buono
non ricettar mai più simil briganti:
e’ pagheranno domattina al suono
di quel battaglio, e saranno contanti.
Hanno mangiato tanto, che in un mese
non mangerà tutto questo paese”.
160. Morgante, poi che molto ebbe mangiato,
disse a quell’oste: - A dormir ce n’andremo;
e domattina, com’io sono usato
sempre a camino, insieme conteremo,
e d’ogni cosa sarai ben pagato,
per modo che d’accordo resteremo. E l’oste disse a suo modo pagassi;
ché gli parea mill’anni e’ se n’andassi.
161. Morgante andò a trovare un pagliaio
ed appoggiossi come il lïofante.
Margutte disse: - Io spendo il mio danaio:
io non voglio, oste mio, come il gigante,
far degli orecchi zufoli a rovaio;
non so s’io son più pratico o ignorante,
ma ch’io non sono astrolago so certo:
io vo’ con teco posarmi al coperto.
162. Vorrei, prima che’ lumi sieno spenti,
che tu traessi ancora un po’ di vino,
ché non par mai la sera io m’addormenti
s’io non becco in sul legno un ciantellino,
così per risciacquare un poco i denti;
e goderenci in pace un canzoncino:
e’ basta un bigonciuol così tra noi,
or che non ci è il gigante che c’ingoi.
163. Vedes’ tu mai - Margutte soggiugnea
- un uom più bello e di tale statura,
e che tanto diluvi e tanto bea?
Non credo e’ ne facessi un più Natura.
E’ vuol, quando egli è all’oste, - gli dicea
- che l’oste gli trabocchi la misura;
ma al pagar poi, mai il più largo uom vedesti:
se tu nol provi, tu nol crederresti. 164. Venne del mosto, e stanno a ragionare,
e l’oste un poco si rassicurava;
Margutte un canzoncin netto spiccare
comincia, e poi del camin domandava,
dicendo a Bambillona volea andare.
L’oste rispose che non si trovava
da trenta miglia in là casa né tetto
per più giornate, e vassi con sospetto.
165.E disselo a Margutte, e non a sordo,
che vi pensò di sùbito malizia,
e disse all’oste: - Questo è buon ricordo,
poi che tu di’ che vi si fa tristizia.
Or oltre, a letto; e saren ben d’accordo,
ch’io non istò a pagar con masserizia:
io son lo spenditore, e degli scotti,
come tu stesso vorrai, pagherotti:
166. io ho sempre calcata la scarsella.
Deh, dimmi, tu non debbi aver domata,
per quel ch’io ne comprenda, una cammella
ch’io vidi nella stalla tua legata;
ch’io non vi veggo né basto né sella.
Rispose l’oste: - Io la tengo appiattata,
una sua bardelletta ch’io gli caccio,
nella camera mia sotto il primaccio.
167. Per quel ch’io il faccia, credo che tu intenda:
sai che qui arriva più d’un forestiere
a cena, a desinare ed a merenda. Disse Margutte: - Lasciami vedere
un poco come sta questa faccenda,
poi che noi siam per ragionare e bere,
e son le notte un gran cantar di cieco. E l’oste gli rispose: - Io te l’arreco. 168.Recò quella bardella il sempliciotto:
Margutte vi fe’ sù tosto disegno
che questa accorderà tutto lo scotto;
e disse all’oste: - E’ mi piace il tuo ingegno.
Questo sarà il guancial ch’io terrò sotto;
e dormirommi qui in su questo legno:
so che letto non hai dov’io capessi,
tanto che tutto mi vi distendessi.
169.Or vo’ saper come tu se’ chiamato. Disse l’ostier: - Tu saprai tosto come:
io son il Dormi per tutto appellato. Disse Margutte: “Fa’ come tu hai nome;”
così fra sé “tu sarai ben destato,
quando fia tempo e innanzi fien le some”.
- Come hai tu brigatella o vuoi figliuoli? Disse l’ostier: - La donna ed io siàn soli. 170.Disse Margutte: - Che puoi tu pigliarci
la settimana in questa tua osteria?
Come arai tu moneta da cambiarci
qualche dobbra da spender per la via? Rispose l’oste: - Io non vo’ molto starci,
ch’io non ci ho preso, per la fede mia,
da quattro mesi in qua venti ducati,
che sono in quella cassetta serrati. 171.Disse Margutte: - Oh, solo in una volta
con esso noi più danar piglierai!
Tu la tien’ quivi: s’ella fusse tolta? Disse l’ostier: - Non mi fu tocca mai. Margutte un occhiolin chiuse ed ascolta,
e disse: “A questa volta lo vedrai!”.
E per fornire in tutto la campana,
un’altra malizietta trovò strana.
172. Perché persona discreta e benigna dicea coll’oste - troppo a questo tratto
mi se’ paruto, io mi chiamo il Graffigna;
e ’l profferer tra noi per sempre è fatto.
Io sento un poco difetto di tigna,
ma sotto questo cappel pur l’appiatto:
io vo’ che tu mi doni un po’ di burro,
ed io ti donerò qualche mangurro. 173. L’oste rispose: - Nïente non voglio:
domanda arditamente il tuo bisogno,
ché di tal cose cortese esser soglio. Disse Margutte allora: - Io mi vergogno:
sappi che mai la notte non mi spoglio
per certo vizio ch’io mi lievo in sogno;
vorrei ch’un paio di fune m’arrecasse,
e legherommi io stesso in su questa asse.
174. Ma serra l’uscio ben dove tu dormi
ch’io non ti dessi qualche sergozzone;
se tu sentissi per disgrazia sciòrmi
e che per casa andassi a processione,
non uscir fuor. - Rispose presto il Dormi,
e disse: - Io mi starò sodo al macchione.
Così voglio avvisar la mia brigata,
che non toccassin qualche tentennata. 175. Le fune e ’l burro a Margutte giù reca,
e disse a’ servi di questo costume:
ch’ognun si guardi dalla fossa cieca
e non isbuchi ignun fuor delle piume.
Odi ribaldo! Odi malizia greca!
Così soletto si restò col lume,
e fece vista di legarsi stretto,
tanto che ’l Dormi se n’andò a letto.
176.Come e’ sentì russar, ch’ognun dormiva,
e’ cominciò per casa a far fardello:
alla cassetta de’ danar ne giva,
ed ogni cosa pose in sul cammello;
e come un uscio o qualche cosa apriva,
ugneva con quel burro il chiavistello;
e come egli ebbe fuor la vettovaglia,
appiccò il fuoco in un monte di paglia.
177.E poi n’andava al pagliaio a Morgante:
- Non dormir più, - dicea - dormito hai assai.
Non di’ tu che volevi ire in Levante?
Io sono ito e tornato, e tu il vedrai.
Non istiàn qui, dà in terra delle piante,
se non che presto il fummo sentirai. Disse Morgante: - Che diavolo è questo?
Tu hai pur fatto, per Dio, netto e presto. 178. Poi s’avvïava, ch’aveva timore,
perché quivi era un gran borgo di case,
che non si lievi la gente a romore.
Dicea Margutte: - Di ciò che rimase
all’oste, un birro non are’ rossore:
ch’io non istò a far mai le staia rase,
ma sempre in ogni parte dov’io fui
sono stato cortese dell’altrui. 179. Mentre che questi così se ne vanno,
la casa ardeva tutta a poco a poco:
prima che ’l Dormi s’avvegga del danno,
era per tutto appiccato già il foco;
e non credea che fussi stato inganno.
Quivi la gente correa d’ogni loco;
ma con fatica scampò lui e la moglie:
e così spesso de’ matti si coglie.
180. Quando fu giorno che l’albe apparìe,
Morgante vede insino alla grattugia,
e fra se stesso dicea: “Tutto die
de’ miglior certo s’impicca ed abbrugia:
guarda costui quante ciabatte ha quie!
Per Dio, che troppo il capresto s’indugia!”.
Disse Margutte: - E’ ci è insino alla secchia:
non dubitar, questa è l’arte mia vecchia.
181.Noi abbiamo andar per un certo paese
dove da sé non ha chi non vi porta;
e pure aren danar da far le spese. E tutta la novella dice scorta
della cassetta, e come il fuoco accese,
come egli ebbe il cammel fuor della porta,
e come il Dormi se n’andò a dormire,
ma il fuoco l’arà fatto risentire.
182. Morgante le mascella ha sgangherate
per le risa talvolta che gli abbonda,
e dicea pure: “O forche sventurate,
ecco che boccon ghiotto o pèsca monda!
Non vi rincresca s’un poco aspettate.
Costui pur mena almen la mazza tonda.
Quanto piacer n’arà di questo Orlando,
s’io lo vedrò mai più, che non so quando!”
183.Dicea Margutte: - In questo sta il guadagno:
quanto tu lasci più il brigante scusso.
Tu puoi cercar per tutto d’un compagno
che d’ogni cosa sia, come io, malfusso;
né, per ghermire, altro sparvier grifagno
non ti bisogna, o zingherlo, arbo o usso;
quel che si ruba, non s’ha a saper grado;
e sai ch’io comincio ora a trar pel dado.
184.Io chiesi insino al burro, e dissi a quello
oste ch’un poco di tigna sentivo,
per ugner poi gli arpioni e ’l chiavistello,
che non sentissi quando un uscio aprivo,
tanto ch’io avessi assettato il cammello:
a ogni malizietta io son cattivo;
del livido mi guardo quant’io posso,
poi non mi curo più giallo che rosso.
185.Or mi piacesti tu, Margutte mio! dicea Morgante. E ’ntanto un, c’ha veduta
quella cammella, diceva: - Per Dio!
ch’ella è del Dormi ostier quella scrignuta. Disse Margutte: - Il Dormi sarò io.
Non vedi tu, babbion, che si tramuta
e sgombera qua presso a un castello?
E maggior bestia se’ tu che ’l cammello. 186.Tutto quel giorno e l’altro sono andati
per paesi dimestichi costoro;
e ’l terzo dì in un bosco sono entrati
dove aspre fere facevon dimoro;
ed eron pel cammin tutti affannati,
né vin, né pan non avean più con loro.
Dicea Morgante: - Che farem, Margutte?
Vedi che mancan qui le cose tutte.
187.Cerchiamo almeno appiè qua di quel monte,
se vi surgessi d’acqua alcun rampollo;
ché pur, se noi trovassin qualche fonte,
la sete se n’andrebbe al primo crollo;
ché le parole più spedite o pronte
non sento, se la bocca non immollo:
quel mi par luogo d’esservi dell’acque. Onde a Margutte il suo consiglio piacque.
188. Vanno cercando tanto, che trovorno
una fontana assai nitida e fresca:
quivi a sedere un poco si posorno,
perché e’ convien che ’l caminar rincresca.
Ecco apparir di lungi un lïocorno
che va cercando ove la sete gli esca.
Disse Margutte: - Se tu guardi bene,
quel lïocorno in qua per ber ne viene.
189. Questa sarà la nostra cena appunto:
e’ si consuma di dar nella rete;
però t’appiatta tanto che sia giunto,
che tragga a noi la fame e a sé la sete. Il lïocorno dalla voglia è punto,
e non sapea le trappole segrete:
venne alla fonte e ’l corno vi metteva,
e stato un poco, a suo modo beeva.
190. Morgante, che dallato era nascoso,
arrandellò il battaglio ch’egli ha in mano:
dèttegli un colpo tanto grazïoso
che cadde stramazzato a mano a mano,
e non batté poi più senso né poso;
e fu quel colpo sì feroce e strano
che di rimbalzo in un masso percosse,
e sfavillò come di fuoco fosse.
191. Quando Margutte il vide sfavillare,
disse: - Morgante, la cosa va gaia:
forse che cotto lo potren mangiare.
Per quel che di quel sasso là mi paia,
noi gli faren del fuoco fuor gittare. Disse Morgante: - Ogni prieta è focaia
dove Morgante e ’l battaglio s’accosta:
sempre con esso ne fo a mia posta.
192. Ma tu che se’, Margutte, sì sottile,
ed hai condotte tante masserizie,
come non hai tu l’esca col fucile? Disse Margutte: - Tra le mie malizie
né cosa virtüosa né gentile
non troverrai, ma fraude con tristizie. Disse Morgante: - Piglia del fien secco;
vienne qua meco. - E Margutte disse: - Ecco. 193. Vanno a quel masso, e Morgante martella,
ch’arebbe fatto riscaldare il ghiaccio,
tal ch’a Margutte intruona le cervella,
sì che quel fien gli cadeva di braccio.
Allor Morgante ridendo favella:
- Guarda se fuor le faville ti caccio. Margutte il fien per vergogna riprese
e tennel tanto che ’l fuoco s’accese.
194. Poi si cavò di dosso la schiavina,
e scaricò la cammella a giacere
e trasse quivi fuori una cucina:
apparecchiò alle spese dell’ostiere,
ch’avea recato insino alla salina,
e tazze ed altre vasella da bere;
al lïocorno abbruciò le caluggine,
e fece uno schidon d’un gran peruggine.
195.Cosse la bestia, e pongonsi poi a cena:
Morgante quasi intera la pilucca,
sì che Margutte n’assaggiava appena;
e disse: - Il sal ci avanza nella zucca!
Per Dio, tu mangeresti una balena!
Non è cotesta gola mai ristucca:
io ti vorrei per mio compagno avere
a ogni cosa, eccetto ch’al tagliere. 196.Disse Morgante: - Io vedevo la fame
in aria come un nugol d’acqua pregno;
e certo una balena con le squame
arei mangiato sanz’alcun ritegno,
ovvero un lïofante con lo stame.
Io rido che tu vai leccando il legno. Disse Margutte: - S’ tu ridi, ed io piango,
ché con la fame in corpo mi rimango.
197. Quest’altra volta io ti ristorerò, dicea Morgante - per la fede mia! Dicea Margutte: - Anzi ne spiccherò
la parte ch’io vedrò che giusta sia,
e poi l’avanzo innanzi ti porrò,
sì che e’ possi durar la compagnia.
Nell’altre cose io t’arò riverenza,
ma della gola io non v’ho pazïenza:
198. chi mi toglie il boccon non è mio amico,
ma ogni volta par mi cavi un occhio.
Per tutte l’altre volte te lo dico:
ch’io vo’ la parte mia insino al finocchio,
se s’avessi a divider solo un fico,
una castagna, un topo o un ranocchio. Morgante rispondea: - Tu mi chiarisci
di bene in meglio, e come oro affinisci.
199.Racconcia un poco il fuoco, ch’egli è spento. Margutte ritagliò di molte legne,
fece del fuoco ed un alloggiamento.
Disse Morgante: - Se quel non si spegne
per istanotte, io mi chiamo contento.
Tu hai qui acconcio mille cose degne,
tu se’ il maestro di color che sanno. Così la notte a dormir quivi stanno.
200.E la cammella si pasceva intorno.
Ma poi che l’aürora si dimostra,
disse Margutte a Morgante: - Egli è giorno:
leviacci e seguitian l’andata nostra. Così tutte lor cose rassettorno.
Or, perché l’un cantar con l’altro giostra,
quel che seguì sarà nell’altro canto;
e lauderemo il Padre nostro intanto.
CANTARE VENTESIMOTTAVO
1. L’ultima grazia, o mio Signor benigno,
perché il fin mostra d’ogni cosa il tutto,
non mi negar, ché ancor si mostra arcigno
innanzi al tempo non maturo il frutto:
fa’ ch’io paia alla morte un bianco cigno
che dolce canta in su l’estremo lutto,
tanto ch’io ponga in terra il mortal velo
di Carlo in pace, e l’anima a te in Cielo:
2. perché donna è costì, che forse ascolta,
che mi commise questa istoria prima,
e se per grazia è or dal mondo sciolta,
so che tanto nel Ciel n’è fatto stima,
ch’io me n’andrò con l’una e l’altra volta
con la barchetta mia, cantando in rima,
in porto, come io promissi già a quella
che sarà ancor del nostro mare stella.
3.Infino a qui l’aiuto di Parnaso
non ho chiesto né chieggo, Signor mio,
o le Muse o le suore di Pegàso,
come alcun dice, o Caliopè o Clio:
questo ultimo cantar drieto rimaso
tanto mi sprona e la voglia e ’l desio
che, mentre io batto i marinai e sferzo,
alla mia vela aggiugnerò alcun ferzo.
4.Da Siragozza s’è Carlo partito,
arso la terra e vendicate l’onte;
e il traditor di Marsilio è punito
dove e’ fece il peccato a quella fonte;
e cavalcando d’uno in altro lito,
in molti luoghi fe’ rifare il ponte
ch’egli avea prima pel cammin tagliato
acciò che indrieto nessun sia tornato.
5.E ritornossi a San Gianni di Porto,
e non sofferse a gnun modo passare
di Runcisvalle, ove il nipote è morto;
e dicea sempre nel suo sospirare:
- Chi sarà quel che mi dia più conforto? tanto ch’ognun faceva lacrimare.
- Che farà più questa anima nel petto?
La vita mia omai fia sol despetto. 6.Or perché alcun qui dice, Ganellone
sendo con certa astuzia scarcerato,
che gli apparì sì gran confusïone
di nebbia che l’avea tutto obumbrato,
e ritornossi smarrito in prigione,
ché così lo guidava il suo peccato;
dico io: non so se confirmar mi debbia,
per non parere un aüttor da nebbia.
7.Rinaldo intanto ha confortato Carlo,
e tutta insieme a un grido la corte,
che il traditor si dovessi straziarlo,
e pensa ognun della più crudel morte:
a molti par che si debba squartarlo;
altri dicea di tormento più forte
e ruote e croce e con ogni vergogna
e mitera e berlina e scopa e gogna.
8.E dopo molto disputar, fu Gano
menato in sala con gran grido e tuono,
incatenato come un cane alano,
e tanti farisei dintorno sono
che pensan solo ognun d’averne un brano;
e mentre e’ volea pur chieder perdono
e crede ancor forse Carlo gli creda,
Rinaldo il dètte a quella turba in preda.
9.Carlo si stette a veder questa caccia:
e come in mezzo la volpe è de’ cani,
ognun fa la sua presa, ognuno straccia:
chi lo mordea, chi gli storce le mani,
e chi per dilegion gli sputa in faccia,
chi gli dà certi sergozzoni strani,
chi per la gola alle volte lo ciuffa,
tanto che il cacio gli saprà di muffa;
10.chi con la man, chi col piè lo percuote,
chi fruga e chi sospigne e chi punzecchia,
chi gli ha con l’unghie scarnate le gote,
chi gli avea tutte mangiate l’orecchia,
chi lo ’ntronava e grida quanto e’ puote,
chi il carro intanto col fuoco apparecchia,
chi gli avea tratto con le dita gli occhi,
chi il volea scorticar come i ranocchi.
11.E come e’ fu sopra il carro il ribaldo,
il popol grida intorno: - Muoia, muoia! Intanto il ferro apparecchiato è caldo:
non domandar come e’ lo concia il boia,
che non resta di carne un dito saldo,
ché tutte son ricamate le cuoia:
sì ch’egli era alle man di buon maestro,
perché e’ facea molto l’uficio destro.
12.Egli aveva il capresto d’oro al collo
e la corona de’ ribaldi in testa.
Rinaldo ancor non si chiama satollo,
e ’l popol rugghia con molta tempesta,
e chi gittava la gatta e chi il pollo,
ed ogni volta lo imberciava a sesta:
non si dipigne Lucifer più brutto
dal capo a’ pie’, come e’ pareva tutto.
13.Fece quel carro la cerca maggiore;
e chi si cava pattìn, chi pianelle,
per vedere straziare il traditore
sì che di can non si strazia più pelle:
tanto tumulto, strepito e romore
che rimbombava insin sopra le stelle,
- Crucifigge! - gridando - crucifigge! E ’l manigoldo tuttavia trafigge.
14.E poi che il carro al palazzo è tornato,
Carlo ordinato avea quattro cavagli;
e come a questi il ribaldo è legato,
cominciano i fanciugli a scudisciàgli,
tanto che l’hanno alla fine squartato.
Poi fe’ Rinaldo que’ quarti gittàgli
per boschi e bricche e per balze e per macchie
a’ lupi, a’ cani, a’ corvi, alle cornacchie.
15.Cotal fine ebbe il maladetto Gano,
ché lo etterno giudicio è sempre appresso
quando tu credi che sia ben lontano.
Or forse tu, lettor, dirai adesso
come e’ gli abbi creduto Carlo Mano.
Io ti rispondo: era così permesso;
era nato costui per ingannarlo
e convenia che gli credessi Carlo.
16.Nota che Carlo Magno era uom divino,
e lungo tempo avea tenuto seco
un dotto antico, chiamato Alcuïno,
ed apparò da lui latino e greco,
ed ordinò lo Studio parigino;
or par che sia dello intelletto cieco;
onde alcun aüttor come prudente
di Ganellon non iscrive nïente.
17.Ed io meco medesimo disputo,
quand’io ho ben raccolta la sua vita,
come egli abbi un error tanto tenuto.
Ma la natura divina è tradita,
e non ha sanza misterio voluto,
ché la sua sapïenzia è infinita:
credo che Iddio a buon fine permette
l’opere sante, e così maladette:
18.però che Carlo per esperïenzia
dovea molto saper, perché ne’ vecchi
accade, e non in giovane, prudenzia,
poi ch’ella è figurata con tre specchi;
avea buon natural, buona scïenzia;
e come il traditor gli era agli orecchi,
e’ gli credeva ogni cosa a sua posta:
sì ch’io non fermo ancor la mia risposta.
19.Molte volte, anzi spesso, c’interviene
che tu t’arrechi un amico a fratello,
e ciò che fa ti par ch’e’ facci bene,
dipinto e colorito col pennello:
questo primo legame tanto tiene
che, s’altra volta ti dispiace quello
e qualche cosa ti farà molesta,
sempre la prima impressïon pur resta.
20.Avea già lungo tempo Carlo Magno
tenuto in corte sua Gan di Maganza;
ed oltre a questo vi vedea guadagno,
però che Gano avea molta possanza
e qualche volta gli fu buon compagno;
e perché molto può l’antica usanza,
l’abito fatto d’uno in altro errore
facea che Carlo gli portava amore.
21.Altri direbbe: “Dimmi ancora un poco:
Gan sapea pur ch’egli aveva tradito,
e che e’ doveva alfine ardere il foco:
come e’ non s’era di corte partito
acciò che rïuscissi netto il giuoco,
sendo tanto mascagno e scalterito?”.
Credo ch’io l’abbi in altro cantar detto
ch’ogni cosa si fa per un despetto.
22.Quando Ulivier percosse il viso a Gano,
io dissi allor come e’ si pose in core
di vendicarsi, ché gli parve strano,
sendo pur per natura traditore.
Ricòrdati, lettor, del Lampognano,
e non cercar d’altro antico aüttore,
e sempre tien’ la paura in corazza,
ché il disperato alfin mena la mazza.
23.Forse che Gano ancora avea speranza
di ricoprir con Carlo il tradimento;
ed avea tanta gente di Maganza
che, come il conte Orlando fussi spento,
si confidava nella sua possanza
di poter le bandiere alzare al vento
col favor di Marsilio e con la lancia,
e coronarsi del regno di Francia.
24.Or lasciàn questo traditor pe’ boschi,
com’io dissi, pe’ balzi e per le fosse,
perch’io son pien di molti pensier foschi:
non c’è il nocchier che la mia barca mosse,
e bisogna che terra io ricognoschi
come se quella in alto mare or fosse,
e rilevare il porto per aguglia,
perché la sonda alle volte ingarbuglia.
25.Morto è Turpino e seppellito e pianto,
tanto ch’io temo nella prima vista
di non uscir fuor del cammino alquanto,
ché mi bisogna scambiar timonista,
e nuova cetra s’apparecchia e canto;
ma perché volteggiando pur s’acquista,
forse che in porto condurrem la nave
di ricche merce ponderosa e grave:
26.sì ch’io ricorro al mio famoso Arnaldo,
che m’accompagni insino al fine e scorga
tanto ch’io ponga in quïete Rinaldo,
e la sua destra mano al timon porga:
che, poi che Gano ha squartato il ribaldo,
d’un zucchero candito è pieno in gorga,
e riforbito s’ha gli artigli e ’l becco
e tratto fuor della mente lo stecco.
27.E perché egli ama ancor pur Lucïana,
con molta gente la mandò a Parigi,
perch’ella era nipote a Gallerana;
e battezzossi drento a San Dionigi
ed accordossi alla fede cristiana;
e tanto piacque al gentile Ansuïgi,
perché pure era ancor giovane e bella,
che finalmente disponsata ha quella.
28.E Ricciardetto con lei fu mandato,
per piacere a Rinaldo, in compagnia;
e ’l padiglion ch’ella aveva donato
Rinaldo volle renduto gli sia
per ristorarla del tempo passato,
e rendé cortesia per cortesia;
e sempre il tenne poi sopra il suo letto;
e basti questo a lei e Ricciardetto.
29.Rinaldo a Carlo Magno un giorno disse
come e’ voleva di corte partire
e cercar tutto il mondo come Ulisse.
Carlo di duol si credette morire;
ma finalmente poi lo benedisse,
e non poteron nessun contraddire
che, poi che vendicato aveva Orlando,
volea pel mondo andar peregrinando.
30.Gran pianto fece la corte di Carlo;
Carlo gli parve rimaner sì solo
che non poté mai più dimenticarlo:
credo che questo fu l’ultimo duolo;
e non voleva sentir ricordarlo,
come fa il padre che perde il figliuolo;
e tutta Francia ne fe’ gran lamento,
poi ch’un tanto campion nel mondo è spento.
31.E credo in verità che così sia:
perché pur molte cose ho di lui scritto,
e per virtù della sua gagliardia
e’ par ch’io sia come costor già afflitto;
e come peregrin rimaso in via,
che va pur sempre al suo cammin diritto
col pensier, con la mente e col cervello,
così vo io pur seguitando quello.
32.E s’io credessi di piacere ancora
alla patria, a color che leggeranno,
come avvien chi per fama s’innamora,
io piglierei di questa istoria affanno,
però che al tutto chi ne scrive ignora;
ma se mie rime facultate aranno,
forse che il mondo ancor leggerà questo
fin che l’ultimo dì fia manifesto.
33.Ma l’aüttor disopra ov’io mi specchio
parmi che creda, e forse crede il vero,
che, benché e’ fusse Rinaldo già vecchio,
avea l’animo ancor robusto e fero
e quel suon d’Astarotte nello orecchio
come disotto in quell’altro emispero
erano e guerre e monarchie e regni,
e che e’ passassi alfin d’Ercule i segni.
34.E perché ancor di lui quell’angel disse:
- Ogni cosa esser può, quando Iddio vuole -,
acciò che quelle gente convertisse
ch’adoravan pianeti e vane fole,
e se ancor vivo un giorno e’ rïuscisse
dall’altra parte ove si lieva il sole,
come molti miracoli si vede,
qual maraviglia? Chi più sa, men crede.
35.Non si dice egli ancor del Vangelista?
benché ciò comparar par forse scelo.
Ma dove il punto o il misterio consista,
sallo Colui che fece il mondo e ’l cielo:
questa nostra mortal caduca vista
fasciata è sempre d’un oscuro velo,
e spesso il vero scambia alla menzogna;
poi si risveglia come fa chi sogna.
36.E del Danese, che ancor vivo sia,
perché tutto può far Chi fe’ natura,
dicono alcun, ma non la istoria mia,
e che si truova in certa grotta oscura,
e spesso armato a caval par che stia,
sì che, chi il vede, gli mette paura:
non so s’è vera oppinïone o vana;
e così della spada Durlindana,
37.e come Carlo la gittò nel mare,
e il dì della battaglia dolorosa
si vede sopra l’acqua galleggiare
e mostrasi ancor tutta sanguinosa,
e s’alcun va per volerla pigliare,
sùbito sotto si torna nascosa:
tutto esser può, ma come caso nuovo
con la mia penna non l’affermo o pruovo.
38.Credo che al tempo di que’ paladini,
perché la fede amplïasse di Cristo,
sendo molto potenti i saracini,
molte cose a buon fin permisse Cristo;
ché se non fussi stato a’ lor confini
Carlo a pugnar per la fede di Cristo,
forse saremo ognun maümettisti:
ergo, Carole, in tempore venisti.
39.Parmi Carlo e Domenico e Francesco
abbin tanto operato per la fede,
con le dottrine e col valor francesco,
ch’io dirò forse che per lor si crede:
ché il popol de’ cristiani stava fresco;
se non che Iddio a’ buon servi concede,
perché ogni cosa è da lui preveduto,
sempre al tempo opportun debito aiuto.
40.Io mi confido ancor molto qui a Dante,
che non sanza cagion nel Ciel sù misse
Carlo ed Orlando in quelle croce sante,
ché come diligente intese e scrisse;
e così incolpo il secolo ignorante
che mentre il nostro Carlo al mondo visse,
non ebbe un Livio, un Crispo, un Iustin seco
o famoso scrittor latino o greco.
41.Ma perch’io dissi altra volta di questo,
quando al principio cominciai la istoria,
forse tacere, uditor, fia onesto:
poi ch’io ho collocato in tanta gloria
Carlo ed Orlando, or basti, sia per resto,
perché e’ non paia vanitate o boria
a giudicar de’ segreti di sopra
quel che meriti ognun secondo l’opra.
42.Sempre i giusti son primi i lacerati:
io non vo’ ragionar più della fede,
ch’io me ne vo poi in bocca a questi frati
dove vanno anche spesso le lamprede,
e certi scioperon pinzocorati
rapportano: - Il tal disse, il tal non crede -,
donde tanto romor par che ci sia
se “in principio era buio e buio fia”.
43.In principio creò la terra e il cielo
Colui che tutto fe’ qual sapïente,
e le tenebre al sol facevon velo;
non so quel ch’e’ si fia poi finalmente
nella revoluzion del grande stelo:
basta che tutto giudica la Mente;
e se pur vane cose un tempo scrissi,
contra hypocritas tantum, pater, dissi.
44.Non in pergamo adunque, non in panca
reprendi il peccator, ma quando siedi
nella tua cameretta, se e’ pur manca;
salite colassù col piombo a’ piedi:
la fede mia come la tua è bianca,
e farotti vantaggio anche due Credi;
predicate e spianate lo Evangelio
con la dottrina del vostro Aürelio;
45.e s’alcun susurrone è che v’imbocchi,
palpate come Tomma, vi ricordo,
e giudicate alle man, non agli occhi,
come dice la favola del tordo.
E non sia ignun più ardito che mi tocchi,
ch’io toccherò poi forse un monacordo,
ch’io troverrò la solfa e’ suoi vestigi:
io dico tanto a’ neri quanto a’ bigi.
46.Vostri argumenti e vostri sillogismi,
tanti maestri, tanti bacalari,
non faranno con loïca o soffismi
ch’alfin sien dolci i miei lupini amari;
e non si cercherà de’ barbarismi,
ch’io troverrò ben testi che fien chiari:
per carità per sempre vi sia detto;
e non si dirà poi più del sonetto.
47.Io mi parti’ da San Gianni di Porto
dov’io lasciai il mio Carlo mal contento;
or, perché il fine è di venire a porto
sempre d’ognun che si commette al vento,
noi penserem qualche tragetto corto,
però che un’ora omai parrebbe cento:
tanto la voglia è in sé più desïosa,
quanto più presso al fine è ogni cosa.
48.Carlo, poi ch’ebbe Ganellon punito
e rimesso un dïavolo in inferno
che l’ha più tempo tentato e tradito,
fe’ come sempre i sapïenti ferno,
che d’ogni cosa pigliar san partito;
e redusse la corte e ’l suo governo
in Aquisgrana, ove alcun tempo visse,
e molte guerre fe’ pria che morisse.
49.Ma perché morte a nessun mai perdona,
non riguardando a tanto imperatore,
poi ch’egli ebbe tenuta la corona
quaranzette anni con supremo onore,
l’anima sua il secolo abbandona,
e ritornossi a quel lieto Fattore
che si ricorda ristorare in Cielo
i giusti e’ buon, come dice il Vangelo.
50.E benché tante cose ha fatte prima,
che non iscrisse Ormanno né Turpino,
riserberem con altra cetra e rima
a cantar le sue laude ad Alcuïno,
che canterà le cose di più stima,
dell’infanzia tacendo e di Pipino,
come solevan ne’ tempi discreti
cantar le laude de’ morti i poeti.
51.Furon molto le essequie celebrate,
e tutto il mondo quasi in veste negra,
massime tutta la Cristianitate,
e Francia poi non si vide più allegra.
Or, perché molte cose ho pur lasciate,
acciò che io dica la sua istoria integra
tanto che e’ sia anche il dotto satollo,
convien ch’io invochi a questa volta Apollo.
52.E per Delo e per Delfo e pel tuo Cinto
ti priego che tu temperi la lira,
per la tua bella Danne e per Iacinto;
e quel furor che sentì già respira
Ismaro e Cirra, Pindo ed Arachinto:
tanto che quel temerario Tamira
e Marsia invidia abbia alla cetra nostra,
mentre che Carlo ancor vivo si mostra.
53.In Aquisgrana un certo citarista
era in quel tempo, Lattanzio appellato,
molto gentil, molto famoso artista:
per la qual cosa in alto fu montato,
raccolto molte cose a una lista,
della vita di Carlo ammaestrato;
e innanzi ad Alcuïn cantando disse
ciò che Turpino ed Ormanno già scrisse.
54.E cominciossi a Carlo giovinetto:
come già, sendo del regno cacciato,
morto Pipino il padre, poveretto,
con un pastore ha l’abito scambiato;
e come e’ fu chiamato il Maïnetto
in corte ove Galafro l’ha accettato;
e come e’ fussi a lui menato e quando
da un suo balio chiamato Morando;
55.e come Gallerana, innamorata,
dopo alcun tempo a lui si fece sposa,
e come in Francia l’aveva menata;
poi dimostrò la sua virtù nascosa
quando egli ebbe la patria racquistata
e la corona in testa glorïosa:
perché Pipino, il suo padre, fu morto
da Oldorigi a tradimento, a torto;
56.e come, essendo in Italia venuto,
con molta gente il mar passò Agolante,
per un buffone al quale ebbe creduto;
e disse le battaglie tutte quante,
e come, Carlo d’Almonte abbattuto,
Orlando, che ancora era un picciol fante,
uccise finalmente questo Almonte
con un troncon di lancia a una fonte.
57.E di Gerardo e Don Buoso e Don Chiaro,
di Risa e di Riccier tutto cantossi;
e come, poi che in Francia ritornaro,
perché più volte Spagna ribellossi,
l’ultima volta gli costò amaro;
e come quella guerra cominciossi,
e Ferraù come morì in sul ponte,
e Lazzera fu presa sopra il monte;
58.e come poi alla Stella Serpentino
venne fuori a combatter con Orlando,
e come morto rimase, meschino;
sì che Carlo, la impresa seguitando,
riprese verso Navarra il cammino,
a Pampalona alla fine arrivando;
e della lunga e dispietata guerra
mentre che tenne assediata la terra;
59.e come Orlando sdegnato è partito
e capitò nella Mec al Soldano,
e come Machidante è alfin fuggito,
e Sansonetto si fe’ poi cristiano;
e inverso Gerosolima fu ito
e racquistò il Sepulcro con sua mano,
e ricognobbe Ugon german fratello,
e Sansonetto ne menòe e quello;
60.e ritornato a Carlo a Pampalona,
dove a campo era stato già molti anni,
intese che Maccario la corona
e la sua sposa togliea con inganni
e bisognava Carlo ire in persona
a racquistare i suoi reali scanni;
e Malachel lo portò finalmente
dove Maccario poi restò dolente.
61.Così, ripresa la sua signoria,
a Pampalona tornò come un vento;
e come Desiderio di Pavia
prese la terra con iscaltrimento,
e poi mandò a Marsilio imbasceria,
ove Chiron fu morto a tradimento;
e come Carlo con tutta sua setta
contra Marsilio giurò far vendetta;
62.e finalmente si trattòe la pace;
e come Ganellon fu poi mandato
a Siragozza, il traditor fallace,
e come il tradimento ha ordinato,
e come Iddio mostrò che gli dispiace;
e intanto Carlo a San Gianni è arrivato;
e come in Runcisvalle Orlando è giunto,
e la battaglia, com’io dissi appunto.
63.E ciò che addrieto nel Morgante è scritto,
ogni cosa Lattanzio in alto disse;
e come tutta la Persia e lo Egitto
alla fede di Cristo pervenisse:
e bisognòe qui andar pel segno ritto
(non so se troppa mazza altrove misse),
ché l’aüttor che Morgante compose
non direbbe bugie tra queste cose.
64.E del Danese, e come e’ fu cristiano,
e del caval chiamato Duraforte;
e che in prigione il tenne Carlo Mano
quando quel dètte a Carlotto la morte,
insin che venne quel Bravieri strano
che abbatté tutti i paladin di corte;
e come e’ fu della Marca signore,
ogni cosa dicea quel cantatore;
65.e come poi Rinaldo giovinetto
con tre frategli a Carlo fu mandato,
che fu Guicciardo, Alardo e Ricciardetto,
e come Carlo l’aveva accettato;
e perché spesso gli facea despetto,
più volte l’ebbe di corte scacciato;
e come e’ fe’ per arte Malagigi
Montalban fare a quegli angeli bigi.
66.E disse finalmente tante cose
che fece tutto il popolo stupire,
insin che pur la cetera giù pose
e non poté di Carlo tanto dire
quanto l’opere sue son più famose.
Or pur la istoria ci convien finire,
ché Alcuïn, poi che Lattanzio ha detto,
la cetra ha in punto, e ’l piè già in sul palchetto.
67.Era il popol di lacrime confuso,
tanto a ciascun del suo signore increbbe,
e veramente a questa volta io scuso
ognun che piange quel che pianger debbe;
quando Alcuïn, secondo l’antico uso
salito in alto, poi che guardato ebbe
la gente afflitta e lamentabil tanto,
la cetra accommodò col flebil canto;
68.e molto commendò colui che ha detto,
Lattanzio, e disse nello essordio prima:
- Io son fra molti dicitore eletto,
e me’ di me ognun sa dire in rima:
però, s’io commettessi alcun defetto,
populo mio, per discrezion istima
che come Filomena a cantar vegno
materia ove e’ non basta uman ingegno.
69.Io canterò del magno imperatore
la vita, e piangerò con voi la morte:
perché pure era mio padre e signore
e tanto tempo m’ha nutrito in Corte,
dove il pan de’ sospiri e del dolore
convien ch’io mangi or, tanto duro e forte;
ma perch’io sono alla vita obligato,
non voglio anche alla morte esser ingrato.
70.Pipino, il padre suo famoso e degno,
tenne prima lo scettro e il nome regio,
e governò per quindici anni il regno:
però che al gran prefetto del collegio
dinanzi a lui bastava il nome e ’l segno;
ma la corona e ’l real seggio e ’l fregio
tenne Pipin, come di sopra è detto,
che per successïone era prefetto.
71.Morto Pipin, dopo il quindecimo anno
dalla sua promozion, rimase Carlo,
Carlo Magno appellato, e Carlomanno,
un suo fratel; ma del signor mio parlo,
ché come il regno insieme partito hanno
opera mia non è di raccontarlo:
io dirò tanto della sua eccellenzia
quant’io ebbi oculata esperïenzia.
72.La prima guerra fu con gli Aquitani. -
Nota, lettor, che l’Aquitania è Ghienna,
acciò che i versi alcuna volta io spiani
dov’io vedrò la discrezione accenna.
- Pipin v’avea prima messo le mani,
come scritto fu già con altra penna;
Carlo v’andò fino a guerra finita,
e riportonne la palma fiorita.
73.E so che replicar non mi bisogna
cose tanto propinque alla memoria,
e come Unuldo si fuggì in Guascogna,
e come doppia fu questa vittoria,
da poi ch’egli ebbe il suo nimico in gogna:
però che Lupo, per maggior sua gloria,
il duca di Guascogna, fu prudente
e dètte Unuldo e sé liberamente.
74.E perché intanto il bel paese Esperio
occupava il furor de’ Longobardi
sotto l’insegne del re Desiderio,
uomini inculti, feroci e gagliardi,
sì che quel tenne di Italia lo imperio
ventiquattro anni sotto i suoi stendardi,
non si poteva alla fine cacciarlo,
se non giugneva il soccorso di Carlo.
75.Era venuto di verso Occeàno
questo popolo indomito, chiamato
da Narsete eünuco capitano:
onde il sommo pontefice oppressato,
ch’era in quel tempo il famoso Adrïano,
a Carlo imbasciatore ebbe mandato
che dovessi in Italia venir quello
come Pipin già fece e ’l suo Martello.
76.Carlo, mosso da’ prieghi santi e giusti,
partì di Francia co’ suoi paladini,
e bisognòe passar per luoghi angusti
onde Anibal passò co’ suoi Barchini,
perché e’ tenean que’ populi robusti
i passi e’ gioghi degli alti Apennini;
ma passi o sbarre non valsono o ponti,
ché finalmente e’ trapassò que’ monti.
77.E mandò prima imbasciadori a quelli
là dove Desiderio era attendato:
che dovessin partir co’ lor drappelli,
e come egli era in Italia chiamato
per discacciar della Chiesa i rebelli;
che si ricordin pel tempo passato
come altra volta con ispada e lancia
provato avevan le forze di Francia.
78.E finalmente alla battaglia venne
dove il pian vercellese par che sia:
il perché Desiderio non sostenne
e fu constretto fuggirsi in Pavia,
dove Carlo assediato un tempo il tenne;
e intanto andò con la sua compagnia,
poi ch’egli avea la sua superbia doma,
a vicitare il pontefice a Roma.
79.Grande onor fece il sommo padre santo
a Carlo, lieto del suo avvenimento;
restituïte le sue terre intanto,
ed aggiunto Spoleti e Benevento,
e così in Roma dimorato alquanto,
per che molto Adrïan ne fu contento,
e satisfatto alla sua devozione,
si dipartì con gran benedizione.
80.E perché Desiderio avea lasciato,
com’io dissi, assediato in la sua terra,
come fùlgore indrieto ritornato,
tanto lo strinse finalmente e serra
che bisognò che si fussi accordato:
e così fu terminata la guerra,
e riportonne il trïunfo e le spoglie
e in Francia lui co’ figliuoli e la moglie.
81.Così la bella Italia liberata,
che da’ Goti e da’ Vandali prima era
e dagli Unni e dagli Eruli occupata,
gente bestial, molto crudele e fera,
e la Chiesa di Dio restaürata,
si ritornò con la santa bandiera;
e per più gloria de’ famosi gigli
seco menò di Carlomanno i figli.
82.Io lascio molte cose egregie e degne,
ch’io non posso seguir con la memoria
e, in ogni parte ove fur, le sue insegne
accompagnar d’una in altra vittoria;
ma se morte anzi tempo non ispegne
il vero lume a mostrar questa istoria,
con altro stil, con altra cetra e verso
sarà ancor chiara a tutto l’universo.
83.Or, come avvien che il generoso core
cose magne ricerca insin se sogna,
così intervien che il nostro imperatore,
poi ch’egli ebbe Aquitania e la Guascogna,
e liberata la Chiesa e ’l Pastore,
percosse nella eretica Sansogna,
ch’era più ch’altra regïone allotta
dal culto falso de’ demòn corrotta.
84.Questa guerra fu più laborïosa
che alcuna altra, per gli uomini strani
a cui molto la nostra fede esosa
era, ingannati dagli idoli vani,
gente crudele e molto bellicosa
che dannava ogni legge de’ cristiani:
Carlo n’andò collo essercito a furia,
per vendicar del suo Cristo la ingiuria;
85.sì che più volte, alla fede redutti,
si ritornoron nello antico errore,
poi che gl’idoli van furon distrutti
per la virtù del nostro imperatore;
pure alla fine, battezzati tutti,
ricognobbono il vero Redentore,
e l’idolatria loro essere inganni:
e così combattêr trentatré anni.
86.Carlo poi per istatici domanda
diecimila di lor, come prudente,
ed ordinò che per tutto si spanda
pe’ paesi di Francia quella gente
e pe’ liti di Ilanda e di Silanda:
così la lor perfidia finalmente,
diradicata come falsa legge,
aggiunse nuova torma alla sua gregge.
87.protettor del buon Cefas in terra,
o defensor delle cristiane squadre,
o santa spada a gastigar chi erra,
o Moïsè del popol di Dio padre,
o Papirio Cursor famoso in guerra,
o Scipio amico all’opere leggiadre,
o fido specchio ove ogni ben s’è mostro,
o fama, o pregio, o gloria al secol nostro!
88.Era in quel tempo medesimo Spagna
d’altra prava eresia più maculata,
quando l’alta Corona tanto magna
apparecchiò lo essercito e l’armata,
e passa i fiumi e’ colli e la montagna
con la santa bandiera dal Ciel data,
e fa tremare ogni lito, ogni terra,
come in Ispagna è vulgata la guerra.
89.Furono adunque in su’ campi alle mani
Carlo e sua gente, onde la fama suona;
ma non resson le forze degli Ispani.
Restava Augusta solo e Pampalona
a redurre alla fede de’ cristiani:
il perché il magno re v’andò in persona,
e finalmente, dopo lungo tedio,
le conquistò con forza e con assedio.
90.E poi che Pampalona fu acquistata
dopo molte battaglie e molti omèi,
e che tutta la Spagna è battezzata
e Macon rinnegato e i falsi iddei,
Carlo, tornando con la sua brigata,
poi che i salti rivide Pirenei,
non sanza danno dell’altrui vergogna
nelle insidie percosse di Guascogna.
91.Quivi fu la battaglia sanguinosa
dove Anselmo morì col suo nipote
in Runcisvalle ancor tanto famosa;
ma tutte queste cose vi son note,
che non fu la vittoria glorïosa,
però che il tradimento tutto puote;
e perché Carlo il tempo e ’l modo aspetta,
come sapete, fe’ crudel vendetta.
92.Così furon l’inganni de’ Guasconi
puniti, e prima battezzata Spagna.
E seguitò la guerra de’ Brettóni;
e poi che fu ancor doma la Brettagna,
rivolse verso Italia i gonfaloni,
perché Roma d’Araïso si lagna,
il qual di Benevento era signore
e minacciava la Chiesa e ’l Pastore.
93.Carlo, giunto in Italia, come io dico,
redusse alle sue voglie il folle duce
sì che quel fece al pontefice amico,
e molti in Francia statici conduce.
O quante cose magne io non replìco!
ché, come il sole in ogni parte luce,
a conseguir famose opere e degne
in ogni luogo apparîr le sue insegne;
94.sì che, più volte di Roma lo imperio
restaürato come il buon Camillo,
tornato in Francia, il gran duca baverio,
apparecchiato sua gente, Tassillo,
recordato del suocer Desiderio,
congiurato con gli Unni a un vessillo,
come mal consigliato dalla moglie
cercando andò le sue future doglie.
95.Lo imperator, che apparato già era,
non aspettò del nimico la insegna,
ma féssi incontra a lui con sua bandiera
insino al fiume che divide e segna
la Magna e le provincie di Baviera;
e bisognòe che alfin Tassillo vegna
a consentir ciò che Carlo gli chiede
e giurar servitù, tributo e fede.
96.I Velatabi intanto gli Abroditi
molestavan, qual suoi confederati;
ma poi che il nostro re gli ebbe puniti,
in questo tempo gli Ungher congregati,
populi detti per l’addrieto Sciti,
gente dapprima in Pannonia arrivati
dalle estreme provincie della terra,
apparecchiavan contra Carlo guerra.
97.Questa guerra durò circa otto anni;
ma Carlo alfin, superati costoro
non sanza grande occisïone e danni,
ne riportò le ricchezze e ’l tesoro,
ch’egli avevon con forza e con inganni
in molte parte predato già loro,
in Francia bella con vittoria e fama:
sì che la gloria fiorì in ogni rama.
98.E poi che la gran guerra d’Ungheria
sedata fu, ridotta sotto il giglio
di Francia e la Boemia e Normandia,
abbattuta da Carlo primo figlio,
mandò papa Leone imbasceria,
perch’egli era constretto e in gran periglio,
cacciato di sua sede, in Francia a Carlo,
che dovessi tornare a liberarlo.
99.Così la terza volta ritornato
Carlo in Italia, il pontefice santo
restituì dond’egli era cacciato
nella sua sede, col papale ammanto.
Per che il sommo Pastor, non sendo ingrato,
recordato del suo precessor tanto
quanto di sé, benemerito e giusto,
gli aggiunse al titol regio il nome agusto.
100.Dunque Carlo fu Magno e imperatore
di tutto l’universo e re di Roma,
ed aggiunse al suo segno, per più onore,
il grande uccel che di Giove si noma.
E licenziato dal santo Pastore,
poi ch’egli aveva ogni arroganza doma,
nel suo tornar, per più magnificenzia,
rifece e rinnovòe l’alma Florenzia,
101. e templi edificò per sua memoria,
e dètte a quella doni e privilegi;
e ritornò con gran trïunfo e gloria
in Francia, il nostro re degli altri regi.
E non è questa l’ultima vittoria
onde più splenda la corona e’ fregi:
tante altre cose ha fatto il signor nostro
che manca il suon, la voce e carta e inchiostro.
102.Io non posso piangendo cantar versi,
tanto contrario è l’uno all’altro effetto;
e pur convien che il cor lacrime versi,
quando quell’è da giusto duol constretto.
Per tanti tempi e paesi diversi
ha fatto Carlo più che io non ho detto
per la fede di Cristo e pel Vangelo:
ma tutto è scritto e rigistrato in Cielo.
103. Quivi i meriti suoi saranno tutti;
quivi tutto vedrà nel santo volto;
quivi corrà del suo ben fare i frutti;
quivi sarà dal buon Gesù suo accolto;
quivi in canti fia sempre sanza lutti;
quivi il seggio regal mai sarà tolto;
quivi il pan gusterà che sempre piace;
quivi impetri per noi della sua pace. 104. Volea più oltre dir certo Alcuïno,
e dello acquisto del Sepulcro santo,
e come egli andò in Grecia a Gostantino;
ma non poté, ché le lacrime e ’l pianto
del popol, che piangea così meschino,
occupavan la cetera col canto;
e forse il braccio stanco era e l’archetto:
per la qual cosa sceso è del palchetto.
105.E come e’ fu quel sapïente sceso,
il popol ch’era prima stato attento
un pianto seguitòe molto disteso,
come foco talvolta pare spento
e sanza fiamma si conserva acceso,
poi si dimostra o per esca o per vento:
così intervenne dopo il dolce canto
che tutto il popol rinnovòe il pianto.
106. Quivi eran le pulzelle scapigliate;
quivi avean le matrone il peplo in testa;
quivi piangeva tutta la cittate;
quivi si straccia ognun l’oscura vesta;
quivi son l’alte cose replicate;
quivi si loda la sua vita onesta;
quivi si batte alcun le palme intanto;
quivi si grida: - Santo, santo, santo! 107. fortunato, o ben vissuto vecchio!
O felice quel giusto ch’ognuno ama!
O chiaro essemplo di ben fare e specchio!
O sanza invidia glorïosa fama!
O Ciel, tu porgi a’ suoi merti l’orecchio!
O popol che il signor suo morto chiama!
O buon pastor chi ben guarda sua gregge!
O tanto re, quanto ei ben guida e regge!
108.In Aquisgrana la chiesa maggiore,
nella Virgine santa titolata,
dallo eccelso e felice imperatore
era suta già prima edificata:
quivi meritamente a grande onore
fu la sua sepultura collocata,
e sopra a questa aggiunto un arco d’oro
nella santa basilica del coro.
109.E perché il mondo ancor possi ritrarlo,
il popol verso lui fu clementissimo
e nel sepulcro suo fece scultarlo;
e lo epitafio diceva brevissimo:
“Il corpo iace qui del magno Carlo
imperator de’ Roman cristianissimo”:
ma molto importa, in sì breve idïoma,
“cristianissimo” e “Carlo” e “re di Roma”.
110. L’anno ottocentoquindici correa
dalla salute della Incarnazione;
Carlo settantadue finiti avea
e quaranzette dalla promozione,
de’ quali ultimi quindici tenea
con la corona da papa Leone,
nel vigesimoquarto dì spirato
del mese il quale a Gian fu consecrato.
111.E innanzi alla sua morte segni apparse:
ché, dove il bel pinnaculo si bilica,
fùlgore questo rovinòe e sparse,
un portico cascò della basilica,
e ’l ponte ch’era appresso a Magonzia arse:
però, chi queste cose ben rivilica,
come a Cesare il Ciel fece qui segno
d’altro cesare in terra assai più degno.
112. Fe’ come savio prima testamento:
divise in molte terre il suo tesoro;
lasciò tutti i suoi servi ognun contento,
che molte cose partiron fra loro;
e tre tavole ricche d’arïento,
tutte intagliate, ed una di puro oro,
condotte e fatte con mirabile arte,
distribuì, com’io truovo, in tre parte:
113. la prima, ove era tutta disegnata
la gran città che Bisanzio si noma,
al santo altar di Pietro ha diputata;
e l’altra, ove era sculta l’alma Roma,
volle che fussi a Ravenna mandata.
O gran presente, o ricca, o degna soma!
O magnanimi don, memoria e segno,
che minor non conviensi a tanto uom degno!
114. La terza, fatta con maggior lavoro,
dove tutto descritto appare il mondo,
e quell’altra ch’io dissi, tutta d’oro,
a Lodovico suo figliuol giocondo
rimase, ultimo erede fra costoro,
morti Carlo e Pipin primo e secondo:
sì che Luigi era il terzo figliuolo,
che succedette alla corona solo.
115.Or, poi che Carlo è seppellito e morto
e fruisce quel gaudio e quel giubillo
che s’aspetta a ognun che giugne al porto
di sua salute e suo stato tranquillo,
a me parrebbe alla istoria far torto
s’io non aggiungo qualche codicillo,
acciò ch’ognun che legge benedica
l’ultimo effetto della mia fatica.
116.Noi possiam per la istoria intender quasi
come all’unico figlio Lodovico
molti regni e paesi son rimasi
per virtù del suo padre, come io dico,
per molti tempi, effetti e vari casi:
insino al re di Persia è fatto amico,
tanto a sé il trasse come calamita
l’opere degne del suo padre in vita;
117. e la Francia e la Ghienna e la Borgogna
e Navarra, Araona con la Spagna,
la Fiandra e l’Inghilterra e la Guascogna,
la Dazia e la Germania e la Brettagna
e Pannonia e Boemia e la Sansogna
e tante gran provincie della Magna
e l’Istria e la Dalmazia e Lombardia
rimason sotto la sua monarchia.
118.E veramente dal suo genitore
non è questo figliuol degenerato;
ma, perch’io serbo altrove a fargli onore
in altro libro o libel cominciato,
ritorno al nostro primo imperatore
in alcun luogo che indrieto ho lasciato
de’ costumi e de’ modi di sua vita,
sì che la istoria dir possian finita.
119.Dicon molti aüttor di sua natura,
della sua qualità, s’io ho ben raccolto,
ch’egli aveva formosa la statura,
largo nel petto e nelle spalle molto,
ne’ passi grave e nella guardatura,
nel parlar grazia, e maiestà nel volto,
la barba lunga e il naso alquanto giusto,
l’aspetto degno e tutto in sé venusto;
120. molto affabil, placabil, tutto magno,
molto savio, veril, molto discreto;
amico o servo o parente o compagno
partia sempre da lui contento e lieto:
non si sentia: “Del mio signor mi lagno”;
molto giusto in sua legge e suo decreto;
e perché gli uomin gli piacean modesti,
essemplo dava di costumi onesti.
121.Era al culto divin ceremonioso;
edificava per ogni paese
qualche magno palazzo glorïoso;
fece tanti spedal, badie e chiese
ch’io credo il ver di molte sia nascoso;
come cor generoso all’alte imprese,
restaürava e città e castella,
come e’ fece ancor già Fiorenza bella;
122. fece in sul Reno il ponte, com’io dissi,
di cinquecento passi per lunghezza,
che mostrò segno, innanzi ch’e’ morissi,
come e’ cadeva anche ogni gentilezza.
Mostrava, in ogni caso che avvenissi,
prudenzia e temperanza con fortezza:
grazie che Iddio rade volte concede
o per nostra salute o per la fede.
123.Dilettavasi a caccia andare spesso,
sempre l’ozio dannando, come i saggi,
sanza temer, dagli anni pur defesso,
di freddo o luoghi difficil, selvaggi;
tanto che, essendo a quel termine presso
dove più oltre ognun convien che caggi
perché non è più la natura forte,
sollicitòe per tal cagion la morte.
124. Pigliava spesso de’ bagni diletto:
quivi soleva congregar gli amici,
come forse dal luogo era constretto
dove i monti son freddi e le pendici.
O signor giusto, o signor benedetto,
o quanto furon que’ tempi felici!
Non sarà Francia mai sì bella o lieta
o per corso di stelle o di pianeta.
125.Reputavano i popoli dal Cielo
mandato fussi in terra un tal signore
per carità, per giustizia e per zelo;
e se non fussi spento il vecchio errore,
adorato l’arebbon come Belo
per reverenzia e per antico amore:
tanto che alcuno, forse, auttor non falla
della croce incarnata in su la spalla.
126.Ammaestrò i figliuoli e le figliuole
d’ogni arte liberal, d’ogni dottrina;
né bisognava cercare altre scuole,
allor, che l’accademia parigina.
Voleva appresso tutta la sua prole
se e’ cavalcava da sera o mattina.
Talvolta, per fuggir le sue donne ozio,
ministravan lanifero negozio.
127. La madre sua, ch’era Berta chiamata,
sempre la tenne con debito onore,
acciò che fussi la legge osservata
di Moïsè da quel primo dottore:
era di Grecia di gran sangue nata,
figlia di Eraclio degno imperatore.
Or basti una parola, uditor mio,
ch’ogni cosa ben fa chi teme Iddio.
128.Dunque giusta la vita, retta e buona
è stata del mio Carlo veramente,
e tenuto lo imperio e la corona
come magno signor felicemente.
Ma perché intanto una tuba risuona
in altra parte, e per tutto si sente,
benché la istoria sia degna e famosa,
convien che fine pure abbi ogni cosa.
129.E s’io non ho quanto conviensi a Carlo
satisfatto co’ versi e col mio ingegno,
io non posso il mio arco più sbarrarlo
tanto ch’io passi il consüeto segno;
e dicone mia colpa, e ristorarlo
aspetto al tempo del figliuol suo degno,
ch’io farò in terra più che semideo,
dove sarà Ciriffo Calvaneo.
130.Io ho condotto in porto la mia barca:
non vo’ più tentare ora Abila e Calpe,
per che più oltre il mio nocchier non varca
per non trovarsi come spesso talpe,
o come quel che entrò nella santa arca
tanto che’ monti si scuoprino o l’alpe
pel tempo ancor pur nebuloso e torbo,
ed aspettar che ritorni a me il corbo.
131.Non ch’io pensi star surto sempre fermo,
ché, s’io vorrò passar più là che Ulisse,
donna è nel Ciel che mi fia sempre schermo;
ma non pensai che innanzi al fin morisse!
Questa fia la mia stella e ’l mio santo Ermo,
e perché prima in alto mar mi misse,
come spirto beato tutto vede,
ricorderassi ancor della mia fede.
132. Sare’ forse materia accomodata,
con la vita di Carlo tanto eletta
la vita di tal donna comparata,
Lucrezia Torna-buona, anzi perfetta,
nella sedia sua antica rivocata
dalla Virgine etterna benedetta
che riveder la sua devota applaude;
e canta or forse le sue sante laude.
133. Quivi si legge or della sua Maria
la vita, ove il suo libro è sempre aperto,
e di Esdram, di Iudit e di Tobia;
quivi si rende giusto premio e merto;
quivi s’intende or l’alta fantasia
a descriver Giovanni nel deserto;
quivi cantano or gli angeli i suoi versi,
dove il ver d’ogni cosa può vedersi.
134.Natura intese far quel ch’ella volle:
una donna famosa al secol nostro,
che per se stessa sé dall’altre estolle
tanto che manca ogni penna, ogni inchiostro.
Non la cognobbe il mondo cieco e folle,
benché il vero valor chiaro fu mostro,
come il Signor che colassù la serra:
ché adorata l’arebbe in Cielo e in terra.
135. Quanti beni ha commessi! A quanto male
ovvïato costei mentre era in vita!
Però con la sua veste nuzïale
l’anima in Cielo a Dio si rimarita
quel dì che il santo messo aperse l’ale
per la sua carità tanto infinita:
sì che ancor prego che lassù m’accetti
tra’ servi suoi nel numer degli eletti.
136.E s’io ho satisfatto al suo desio,
basta a me tanto e son di ciò contento:
altro premio, altro onor non domando io,
altro piacer che di godermi drento.
E so ch’egli è lassù Morgante mio:
però, s’alcun malivolo qui sento,
adatterà il battaglio ancor dal Cielo
in qualche modo, a scardassargli il pelo.
137. Portin certi uccellacci un sasso in bocca
come quelle oche al monte Taüreo
per non gracchiar, che poi il falcon le tocca;
ch’io gli farò girar come paleo,
ed ho sempre la sferza in su la scocca,
perch’io fu’, prima ch’e’ gigante, reo;
non morda ignun chi ha zanne non che denti,
dice il proverbio: io non dico altrimenti.
138.Io non domando grillande d’alloro
di che i Greci e’ Latin chieggon corona;
io non chieggo altra penna, altro stil d’oro
a cantar d’Aganippe e d’Elicona:
io me ne vo pe’ boschi puro e soro
con la mia zampognetta che pur suona,
e basta a me trovar Tirsi e Dameta;
ch’io non son buon pastor, non che poeta;
139. anzi non son prosuntüoso tanto
quanto quel folle antico citarista
a cui tolse già Apollo il vivo ammanto,
né tanto satir quant’io paio in vista.
Altri verrà con altro stile e canto,
con miglior cetra, e più sovrano artista;
io mi starò tra faggi e tra bifulci
che non disprezzin le muse de’ Pulci.
140.Io me n’andrò con la barchetta mia
quanto l’acqua comporta un piccol legno,
e ciò ch’io penso con la fantasia,
di piacere a ognuno è il mio disegno:
convien che varie cose al mondo sia
come son varii volti e vario ingegno,
e piace all’uno il bianco, all’altro il perso,
o diverse materie in prosa o in verso.
141. Forse coloro ancor che leggeranno,
di questa tanto piccola favilla
la mente con poca esca accenderanno
de’ monti o di Parnaso o di Sibilla;
e de’ miei fior come ape piglieranno
i dotti, s’alcun dolce ne distilla;
il resto a molti pur darà diletto,
e l’aüttore ancor fia benedetto.
142.Ben so che spesso, come già Morgante,
lasciato ho forse troppo andar la mazza;
ma dove sia poi giudice bastante,
materia c’è da camera e da piazza;
ed avvien che chi usa con gigante
convien che se n’appicchi qualche sprazza,
sì ch’io ho fatto con altro battaglio
a mosca cieca o talvolta a sonaglio.
143.Non sien dati miei versi a Varo o Tucca:
e’ basta il Bellincion che affermi e lodi,
che porge come amico e non pilucca.
I’ guarderò in sul ghiaccio ir con buon chiodi;
io porterò in su gli omeri la zucca
nell’acqua, cinta con sicuri nodi;
e farò tanto quanto i savi fanno,
di perdonare a color che non sanno.
144.Ed oltre a questo, e’ ne verrà il mio Antonio,
per cui la nostra cetra è glorïosa
del dolce verso materno aüsonio;
bench’e’ si stia là in quella valle ombrosa,
che fia del vero lume testimonio.
Ognun so che riprende qualche cosa;
ma io non so s’e’ si son corvi o cigni
i detrattori, o spiriti maligni.
145. Pertanto, io non aspetto il baldacchino,
non aspetto co’ pifferi l’ombrello,
non traggo fuori i nomi col verzino
com’io veggo talvolta ogni libello:
quand’io sarò con quel mio serafino,
io gli trarrò fuor forse col cervello,
perché questo Agnol vi porrà la mano,
nato per gloria di Montepulciano.
146. Questo è quel divo e quel famoso Alceo
a cui sol si consente il plettro d’oro,
che non invidia Anfïone o Museo,
ma stassi all’ombra d’un famoso alloro,
e i monti sforza come il tracio Orfeo,
e sempre intorno ha di Parnaso il coro,
e l’acque ferma e i sassi muove e glebe,
ed a sua posta può richiuder Tebe.
147.Io seguirò la sua famosa lira,
tanto dolce, soave, armonizzante
che come calamita a sé mi tira,
tanto che insieme troverren Pallante;
per che, sendo ambo messi in una pira,
segni farà del nostro amor constante,
d’una morte, un sepulcro, un epigramma,
per qualche effetto, l’una e l’altra fiamma.
148.Noi ce n’andrem per le famose rive
d’Eürote e pe’ gioghi là di Cinto,
dove le muse aüsonie ed argive
gli portan chi narciso e chi iacinto:
io sentirò cose alte e magne e dive
che non sentì mai Pindo o Arachinto;
io condurrò Pallante a Delfi e Delo,
poi se n’andrà come Quirino in cielo.
149. Questo sarà quel Pollïone in Roma,
questo sarà quel magno Mecenate
a cui sempre ogni musa è perizoma.
Pertanto, spirti degni, or vi svegliate,
perché fiorir farà nostro idïoma,
tanto fien le sue opre celebrate:
materia avete innanzi agli occhi degna,
che per se stessa sé laudare insegna.
150. Veggo tutte le Grazie a una a una,
veggo tutte le ninfe le più belle,
veggo che Palla con lor si rauna
a cantar le sue laude insieme quelle;
e non può contra opporsi la Fortuna,
ché il sapïente supera le stelle;
e la grazia del Ciel gran segni mostra
che questo è il vero onor della età nostra.
151. Surge d’un fresco e prezïoso lauro
certe piante gentil, certi rampolli,
che mi par già sentir dall’Indo al Mauro
tante cetre, Mercurii e tanti Apolli
che certo e’ sarà presto il mondo d’auro,
ch’era già presso agli ultimi suoi crolli:
tornano i tempi felici che furno
quando e’ regnòe quel buon signor Saturno.
152.Benigni secul, che già lieti fêrsi,
tornate a modular le nostre lire,
ché la mia fantasia non può tenersi
come ruota che mossa ancor vuol ire.
Chi negherebbe a Gallo già mai versi?
Pro re, paüca dixi al mio desire.
Or sia qui fine al nostro ultimo canto
con pace e gaudio e col saluto santo.
153. Salve Regina, madre glorïosa,
vita e speranza sì dolce e soave;
a te per colpa della antica sposa
piangendo e sospirando gridiamo “Ave”
in questa valle tanto lacrimosa:
però tu che per noi volgi la chiave,
deh, volgi i pietosi occhi al nostro essilio,
mostrandoci, Maria dolce, il tuo Filio.
154.Degnami, se ’l mio priego è giusto e degno,
ch’io possi te laudar, Virgo sacrata;
donami grazia e virtù pronta e ingegno
contra a’ nimici tuoi, nostra avvocata;
e perché in porto hai condotto mio legno,
io ti ringrazio, Virgine beata:
con la tua grazia cominciai la istoria;
con la tua grazia alfin mi darai gloria.
155.Con la tua grazia, Virgine Maria,
conserva la devota alma e verace
mona Lucrezia tua, benigna e pia,
con carità perfetta e vera pace;
anzi essaudir puoi ciò che lei desia,
ché sempre chiederà quel che a te piace.
sì che lei prego per le sue virtute
che per me impetri grazia di salute.
AGNOLO POLIZIANO
Angelo Poliziano fu il maggiore poeta del secolo e il più grande umanista
legato a un puro lavoro di forma. Amò poi sempre lo stile composito, l’armonia
difficile, la parola rara. Da questo punto di vista egli rappresenta una eccezione
nella generale tendenza del Rinascimento che va verso la regolarità, la imitazione
di un unico modello, il ciceronianesimo. Egli fu in polemica con il Cortese che
difendeva il canone umanistico dell’unico modello. Per il Poliziano era invece
proprio la contarninatio di più modelli che dava valore allo stile. Ma la poesia
restava anche per lui un’opera di imitazione, un esercizio di stile. A poco più
di 20 anni in occasione di una giostra fiorentina vinta da Giuliano, il fratello di
Lorenzo, nel 1474, egli decise di comporre un poema mitologico‑encomiastico
con la descrizione di un torneo. Il protagonista ha nella storia il nome di Julio; è
un giovane che rifugge dall’amore, va a caccia di cerve. Una cerva, un giorno, per
opera di Cupido, che vuole vendicarsi del giovane scontroso, si trasforma in una
bellissima ninfa. Nasce l’amore. Cupido va ad annunziare alla madre la vittoria.
Abbiamo la descrizione del giardino di Venere; il giovane in sogno riceve l’avviso
di prepararsi per il torneo.
Qui il poema si interrompe probabilmente perché l’autore ha detto tutto. Si
tratta di un mondo totalmente fittizio, lontano dalla dura realtà di Firenze, dalle
lotte, interessi politici, religiosi, economici in cui i Medici erano fortemente
coinvolti. Cupido che è irritato dalla scontrosità di Julio, che lancia l’arco, che va
ad annunziare a Venere la propria vittoria, il giardino di Venere, tutto ci riporta a
un mondo convenzionale, astratto, vuoto.
In verità l’interesse vero del poeta nell’opera è un interesse di stile, di difficile
composizione, di raffinatissimo gioco di rime, di intarsi verbali e forme tratte
da varie fonti, classiche, popolari, dantesche, latine della decadenza. Questo
impegno stilistico vale, in verità, assai più del resto, del tenue contenuto idillico
mitologico, della storia da raccontare.
L’italiano fu di un tratto riportato a nuove altezze: era di nuovo una lingua d’arte,
non più, come nello Stil Novo, limitato a un ambito particolare, non più legato a
un certo livello di eloquenza come nel Petrarca. Nelle Stanze era un linguaggio
vario, popolare e squisito a un tempo, realistico e idillico, vago e acuto. Il giovane
Poliziano aveva compiuto da solo l’impresa di riportare il volgare alle altezze
del latino, di fondere il popolaresco col classico, di fare un tutto raffinato, degno
della più squisita coscienza umanistica. L’ottava, che nel Boccaccio era rimasta
uniforme, monotona, popolaresca, si snodava ora in nuovi accordi, diventava
varia, compatta. È da questi grandi risultati che muoverà la grande, matura arte
dell’Ariosto.
STANZE PER LA GIOSTRA DI GIULIANO DE’ MEDICI
LIBRO PRIMO
50
Volta la ninfa al suon delle parole,
lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,
che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:
ché ben parve s’aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;
soave, saggia e di dolceza piena,
da innamorar non ch’altri una Sirena:
51
“Io non son qual tua mente invano auguria,
non d’altar degna, non di pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto soggiogata alla teda legittima;
mia natal patria è nella aspra Liguria,
sovra una costa alla riva marittima,
ove fuor de’ gran massi indarno gemere
si sente il fer Nettunno e irato fremere.
52
Sovente in questo loco mi diporto,
qui vegno a soggiornar tutta soletta;
questo è de’ mia pensieri un dolce porto,
qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier m’alletta;
quinci il tornare a mia magione è accorto,
qui lieta mi dimoro Simonetta,
all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
e spesso in compagnia d’alcuna ninfa.
53
Io soglio pur nelli ociosi tempi,
quando nostra fatica s’interrompe,
venire a’ sacri altar ne’ vostri tempî
fra l’altre donne con l’usate pompe;
ma perch’io in tutto el gran desir t’adempi
e ’l dubio tolga che tuo mente rompe,
meraviglia di mie bellezze tenere
non prender già, ch’io nacqui in grembo a Venere.
54
Or poi che ’l sol sue rote in basso cala,
e da questi arbor cade maggior l’ombra,
già cede al grillo la stanca cicala,
già ’l rozo zappator del campo sgombra,
e già dell’alte ville il fumo essala,
la villanella all’uom suo el desco ingombra;
omai riprenderò mia via più accorta,
e tu lieto ritorna alla tua scorta”.
55
Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,
mosse sovra l’erbetta e passi lenti
con atto d’amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l’erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.
56
Che de’ far Iulio? Ahimè, ch’e’ pur desidera
seguir sua stella e pur temenza il tiene:
sta come un forsennato, e ’l cor gli assidera,
e gli s’aghiaccia el sangue entro le vene;
sta come un marmo fisso, e pur considera
lei che sen va né pensa di sue pene,
fra sé lodando il dolce andar celeste
e ’l ventilar dell’angelica veste.
57
E’ par che ’l cor del petto se li schianti,
e che del corpo l’alma via si fugga,
e ch’a guisa di brina, al sol davanti,
in pianto tutto si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri amanti,
e pargli ch’ogni vena Amor li sugga;
or teme di seguirla, or pure agogna,
qui ’l tira Amor, quinci il ritrae vergogna.
58
“U’ sono or, Iulio, le sentenzie gravi,
le parole magnifiche e’ precetti
con che i miseri amanti molestavi?
Perché pur di cacciar non ti diletti?
Or ecco ch’una donna ha in man le chiavi
d’ogni tua voglia, e tutti in sé ristretti
tien, miserello, i tuoi dolci pensieri;
vedi chi tu se’ or, chi pur dianzi eri.
59
Dianzi eri d’una fera cacciatore,
più bella fera or t’ha ne’ lacci involto;
dianzi eri tuo, or se’ fatto d’Amore,
sei or legato, e dianzi eri disciolto.
Dov’è tuo libertà, dov’è ’l tuo core?
Amore e una donna te l’ha tolto.
Ahi, come poco a sé creder uom degge!
ch’a virtute e fortuna Amor pon legge”.
60
La notte che le cose ci nasconde
tornava ombrata di stellato ammanto,
e l’usignuol sotto l’amate fronde
cantando ripetea l’antico pianto,
ma sola a’ sua lamenti Ecco risponde,
ch’ogni altro augel quetato avea già ’l canto;
dalla chimmeria valle uscian le torme
de’ Sogni negri con diverse forme.
61
E gioven che restati nel bosco erono,
vedendo il cel già le sue stelle accendere,
sentito il segno, al cacciar posa ferono;
ciascun s’affretta a lacci e reti stendere,
poi colla preda in un sentier si schierono:
ivi s’attende sol parole a vendere,
ivi menzogne a vil pregio si mercono;
poi tutti del bel Iulio fra sé cercono.
62
Ma non veggendo il car compagno intorno,
ghiacciossi ognun di subita paura
che qualche cruda fera il suo ritorno
non li ’mpedisca o altra ria sciagura.
Chi mostra fuochi, chi squilla el suo corno,
chi forte il chiama per la selva oscura,
le lunghe voci ripercosse abondono,
e “Iulio Iulio” le valli rispondono.
63
Ciascun si sta per la paura incerto,
gelato tutto, se non ch’ei pur chiama;
veggiono il cel di tenebre coperto,
né san dove cercar, bench’ognun brama.
Pur “Iulio Iulio” suona il gran diserto;
non sa che farsi omai la gente grama.
Ma poi che molta notte indarno spesono,
dolenti per tornarsi il cammin presono.
64
Cheti sen vanno e pure alcun col vero
la dubia speme alquanto riconforta,
ch’el sia rèdito per altro sentiero
al loco ove s’invia la loro scorta.
Ne’ petti ondeggia or questo or quel pensiero,
che fra paura e speme il cor traporta:
così raggio, che specchio mobil ferza,
per la gran sala or qua or là si scherza.
65
Ma ’l gioven, che provato avea già l’arco
ch’ogni altra cura sgombra fuor del petto,
d’altre speme e paure e pensier carco,
era arrivato alla magion soletto.
Ivi pensando al suo novello incarco
stava in forti pensier tutto ristretto,
quando la compagnia piena di doglia
tutta pensosa entrò dentro alla soglia.
66
Ivi ciascun più da vergogna involto
per li alti gradi sen va lento lento:
quali i pastori a cui il fer lupo ha tolto
il più bel toro del cornuto armento,
tornonsi a lor signor con basso volto,
né s’ardiscon d’entrar all’uscio drento;
stan sospirosi e di dolor confusi,
e ciascun pensa pur come sé scusi.
67
Ma tosto ognuno allegro alzò le ciglia,
veggendo salvo lì sì caro pegno:
tal si fe’, poi che la sua dolce figlia
ritrovò, Ceres giù nel morto regno.
Tutta festeggia la lieta famiglia
con essi, e Iulio di gioir fa segno,
e quanto el può nel cor preme sua pena
e il volto di letizia rasserena.
68
Ma fatta Amor la sua bella vendetta,
mossesi lieto pel negro aere a volo,
e ginne al regno di sua madre in fretta,
ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo:
al regno ov’ogni Grazia si diletta,
ove Biltà di fiori al crin fa brolo,
ove tutto lascivo, drieto a Flora,
Zefiro vola e la verde erba infiora.
69
Or canta meco un po’ del dolce regno,
Erato bella, che ’l nome hai d’amore;
tu sola, benché casta, puoi nel regno
secura entrar di Venere e d’Amore;
tu de’ versi amorosi hai sola il regno,
teco sovente a cantar viensi Amore;
e, posta giù dagli omer la faretra,
tenta le corde di tua bella cetra.
70
Vagheggia Cipri un dilettoso monte,
che del gran Nilo e sette corni vede
e ’l primo rosseggiar dell’orizonte,
ove poggiar non lice al mortal piede.
Nel giogo un verde colle alza la fronte,
sotto esso aprico un lieto pratel siede,
u’ scherzando tra’ fior lascive aurette
fan dolcemente tremolar l’erbette.
71
Corona un muro d’or l’estreme sponde
con valle ombrosa di schietti arbuscelli,
ove in su’ rami fra novelle fronde
cantano i loro amor soavi augelli.
Sentesi un grato mormorio dell’onde,
che fan duo freschi e lucidi ruscelli,
versando dolce con amar liquore,
ove arma l’oro de’ suoi strali Amore.
72
Né mai le chiome del giardino eterno
tenera brina o fresca neve imbianca;
ivi non osa entrar ghiacciato verno,
non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca;
ivi non volgon gli anni il lor quaderno,
ma lieta Primavera mai non manca,
ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega,
e mille fiori in ghirlandetta lega.
73
Lungo le rive e frati di Cupido,
che solo uson ferir la plebe ignota,
con alte voci e fanciullesco grido
aguzzon lor saette ad una cota.
Piacere e Insidia, posati in sul lido,
volgono il perno alla sanguigna rota,
e ’l fallace Sperar col van Disio
spargon nel sasso l’acqua del bel rio.
74
Dolce Paura e timido Diletto,
dolce Ire e dolce Pace insieme vanno;
le Lacrime si lavon tutto il petto
e ’l fiumicello amaro crescer fanno;
Pallore smorto e paventoso Affetto
con Magreza si duole e con Affanno;
vigil Sospetto ogni sentiero spia,
Letizia balla in mezo della via.
75
Voluttà con Belleza si gavazza,
va fuggendo il Contento e siede Angoscia,
el ceco Errore or qua or là svolazza,
percuotesi il Furor con man la coscia;
la Penitenzia misera stramazza,
che del passato error s’è accorta poscia,
nel sangue Crudeltà lieta si ficca,
e la Desperazion se stessa impicca.
76
Tacito Inganno e simulato Riso
con Cenni astuti messaggier de’ cori,
e fissi Sguardi, con pietoso viso,
tendon lacciuoli a Gioventù tra’ fiori.
Stassi, col volto in sulla palma assiso,
el Pianto in compagnia de’ suo’ Dolori;
e quinci e quindi vola sanza modo
Licenzia non ristretta in alcun nodo.
77
Con tal milizia e tuoi figli accompagna
Venere bella, madre delli Amori.
Zefiro il prato di rugiada bagna,
spargendolo di mille vaghi odori:
ovunque vola, veste la campagna
di rose, gigli, violette e fiori;
l’erba di sue belleze ha maraviglia:
bianca, cilestra, pallida e vermiglia.
78
Trema la mammoletta verginella
con occhi bassi, onesta e vergognosa;
ma vie più lieta, più ridente e bella,
ardisce aprire il seno al sol la rosa:
questa di verde gemma s’incappella,
quella si mostra allo sportel vezosa,
l’altra, che ’n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e ’l bel pratello infiora.
79
L’alba nutrica d’amoroso nembo
gialle, sanguigne e candide viole;
descritto ha ’l suo dolor Iacinto in grembo,
Narcisso al rio si specchia come suole;
in bianca vesta con purpureo lembo
si gira Clizia palidetta al sole;
Adon rinfresca a Venere il suo pianto,
tre lingue mostra Croco, e ride Acanto.
80
Mai rivestì di tante gemme l’erba
la novella stagion che ’l mondo aviva.
Sovresso il verde colle alza superba
l’ombrosa chioma u’ el sol mai non arriva;
e sotto vel di spessi rami serba
fresca e gelata una fontana viva,
con sì pura, tranquilla e chiara vena,
che gli occhi non offesi al fondo mena.
81
L’acqua da viva pomice zampilla,
che con suo arco il bel monte sospende;
e, per fiorito solco indi tranquilla
pingendo ogni sua orma, al fonte scende:
dalle cui labra un grato umor distilla,
che ’l premio di lor ombre alli arbor rende;
ciascun si pasce a mensa non avara,
e par che l’un dell’altro cresca a gara.
82
Cresce l’abeto schietto e sanza nocchi
da spander l’ale a Borea in mezo l’onde;
l’elce che par di mèl tutta trabocchi,
e ’l laur che tanto fa bramar suo fronde;
bagna Cipresso ancor pel cervio gli occhi
con chiome or aspre, e già distese e bionde;
ma l’alber, che già tanto ad Ercol piacque,
col platan si trastulla intorno all’acque.
83
Surge robusto el cerro, et alto el faggio,
nodoso el cornio, e ’l salcio umido e lento;
l’olmo fronzuto, e ’l frassin pur selvaggio;
el pino alletta con suoi fischi il vento.
L’avorniol tesse ghirlandette al maggio,
ma l’acer d’un color non è contento;
la lenta palma serba pregio a’ forti,
l’ellera va carpon co’ piè distorti.
84
Mostronsi adorne le vite novelle
d’abiti varie e con diversa faccia:
questa gonfiando fa crepar la pelle,
questa racquista le già perse braccia;
quella tessendo vaghe e liete ombrelle,
pur con pampinee fronde Apollo scaccia;
quella ancor monca piange a capo chino,
spargendo or acqua per versar poi vino.
85
El chiuso e crespo bosso al vento ondeggia,
e fa la piaggia di verdura adorna;
el mirto, che sua dea sempre vagheggia,
di bianchi fiori e verdi capelli orna.
Ivi ogni fera per amor vaneggia,
l’un ver l’altro i montoni armon le corna,
l’un l’altro cozza, l’un l’altro martella,
davanti all’amorosa pecorella.
86
E mughianti giovenchi a piè del colle
fan vie più cruda e dispietata guerra,
col collo e il petto insanguinato e molle,
spargendo al ciel co’ piè l’erbosa terra.
Pien di sanguigna schiuma el cinghial bolle,
le larghe zanne arruota e il grifo serra,
e rugghia e raspa e, per più armar sue forze,
frega il calloso cuoio a dure scorze.
87
Pruovon lor punga e daini paurosi,
e per l’amata druda arditi fansi;
ma con pelle vergata, aspri e rabbiosi,
e tigri infuriati a ferir vansi;
sbatton le code e con occhi focosi
ruggendo i fier leon di petto dansi;
zufola e soffia il serpe per la biscia,
mentre ella con tre lingue al sol si liscia.
88
El cervio appresso alla Massilia fera
co’ piè levati la sua sposa abbraccia;
fra l’erbe ove più ride primavera,
l’un coniglio coll’altro s’accovaccia;
le semplicette lepri vanno a schiera,
de’ can secure, ad amorosa traccia:
sì l’odio antico e ’l natural timore
ne’ petti ammorza, quando vuole, Amore.
89
E muti pesci in frotta van notando
dentro al vivente e tenero cristallo,
e spesso intorno al fonte roteando
guidon felice e dilettoso ballo;
tal volta sovra l’acqua, un po’ guizzando,
mentre l’un l’altro segue, escono a gallo:
ogni loro atto sembra festa e gioco,
né spengon le fredde acque il dolce foco.
90
Li augelletti dipinti intra le foglie
fanno l’aere addolcir con nuove rime,
e fra più voci un’armonia s’accoglie
di sì beate note e sì sublime,
che mente involta in queste umane spoglie
non potria sormontare alle sue cime;
e dove Amor gli scorge pel boschetto,
salton di ramo in ramo a lor diletto.
91
Al canto della selva Ecco rimbomba,
ma sotto l’ombra che ogni ramo annoda,
la passeretta gracchia e a torno romba;
spiega il pavon la sua gemmata coda,
bacia el suo dolce sposo la colomba,
e bianchi cigni fan sonar la proda;
e presso alla sua vaga tortorella
il pappagallo squittisce e favella.
92
Quivi Cupido e’ suoi pennuti frati,
lassi già di ferir uomini e dei,
prendon diporto, e colli strali aurati
fan sentire alle fere i crudi omei;
la dea Ciprigna fra’ suoi dolci nati
spesso sen viene, e Pasitea con lei,
quetando in lieve sonno gli occhi belli
fra l’erbe e’ fiori e’ gioveni arbuscelli.
93
Muove dal colle, mansueta e dolce,
la schiena del bel monte, e sovra i crini
d’oro e di gemme un gran palazo folce,
sudato già nei cicilian camini.
Le tre Ore, che ’n cima son bobolce,
pascon d’ambrosia i fior sacri e divini:
né prima dal suo gambo un se ne coglie,
ch’un altro al ciel più lieto apre le foglie.
94
Raggia davanti all’uscio una gran pianta,
che fronde ha di smeraldo e pomi d’oro:
e pomi ch’arrestar fenno Atalanta,
ch’ad Ippomene dienno il verde alloro.
Sempre sovresso Filomela canta,
sempre sottesso è delle Ninfe un coro;
spesso Imeneo col suon di sua zampogna
tempra lor danze, e pur le noze agogna.
95
La regia casa il sereno aier fende,
fiammeggiante di gemme e di fino oro,
che chiaro giorno a meza notte accende;
ma vinta è la materia dal lavoro.
Sovra a colonne adamantine pende
un palco di smeraldo, in cui già fuoro
aneli e stanchi, drento a Mongibello,
Sterope e Bronte et ogni lor martello.
96
Le mura a torno d’artificio miro
forma un soave e lucido berillo;
passa pel dolce oriental zaffiro
nell’ampio albergo el dì puro e tranquillo;
ma il tetto d’oro, in cui l’estremo giro
si chiude, contro a Febo apre il vessillo;
per varie pietre il pavimento ameno
di mirabil pittura adorna il seno.
97
Mille e mille color formon le porte,
di gemme e di sì vivi intagli chiare,
che tutte altre opre sarian roze e morte
da far di sé natura vergognare:
nell’una è insculta la ’nfelice sorte
del vecchio Celio, e in vista irato pare
suo figlio, e colla falce adunca sembra
tagliar del padre le feconde membra.
98
Ivi la Terra con distesi ammanti
par ch’ogni goccia di quel sangue accoglia,
onde nate le Furie e’ fier Giganti
di sparger sangue in vista mostron voglia;
d’un seme stesso in diversi sembianti
paion le Ninfe uscite sanza spoglia,
pur come snelle cacciatrice in selva,
gir saettando or una or altra belva.
99
Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti
si vede il frusto genitale accolto,
sotto diverso volger di pianeti
errar per l’onde in bianca schiuma avolto;
e drento nata in atti vaghi e lieti
una donzella non con uman volto,
da zefiri lascivi spinta a proda,
gir sovra un nicchio, e par che ’l cel ne goda.
100
Vera la schiuma e vero il mar diresti,
e vero il nicchio e ver soffiar di venti;
la dea negli occhi folgorar vedresti,
e ’l cel riderli a torno e gli elementi;
l’Ore premer l’arena in bianche vesti,
l’aura incresparle e crin distesi e lenti;
non una, non diversa esser lor faccia,
come par ch’a sorelle ben confaccia.
101
Giurar potresti che dell’onde uscissi
la dea premendo colla destra il crino,
coll’altra il dolce pome ricoprissi;
e, stampata dal piè sacro e divino,
d’erbe e di fior l’arena si vestissi;
poi, con sembiante lieto e peregrino,
dalle tre ninfe in grembo fussi accolta,
e di stellato vestimento involta.
102
Questa con ambe man le tien sospesa
sopra l’umide trezze una ghirlanda
d’oro e di gemme orientali accesa,
questa una perla alli orecchi accomanda;
l’altra al bel petto e’ bianchi omeri intesa,
par che ricchi monili intorno spanda,
de’ quai solien cerchiar lor proprie gole,
quando nel ciel guidavon le carole.
103
Indi paion levate inver le spere
seder sovra una nuvola d’argento:
l’aier tremante ti parria vedere
nel duro sasso, e tutto il cel contento;
tutti li dei di sua biltà godere,
e del felice letto aver talento:
ciascun sembrar nel volto meraviglia,
con fronte crespa e rilevate ciglia.
104
Nello estremo, se stesso el divin fabro
formò felice di sì dolce palma,
ancor dalla fucina irsuto e scabro,
quasi obliando per lei ogni salma,
con desire aggiugnendo labro a labro
come tutta d’amor gli ardessi l’alma:
e par vie maggior fuoco acceso in ello,
che quel ch’avea lasciato in Mongibello.
105
Nell’altra in un formoso e bianco tauro
si vede Giove per amor converso
portarne il dolce suo ricco tesauro,
e lei volgere il viso al lito perso
in atto paventosa; e i bei crin d’auro
scherzon nel petto per lo vento avverso;
la vesta ondeggia, e indrieto fa ritorno,
l’una man tiene al dorso, e l’altra al corno.
106
Le ’gnude piante a sé ristrette accoglie
quasi temendo il mar che lei non bagne:
tale atteggiata di paura e doglie
par chiami invan le dolci sue compagne;
le qual rimase tra fioretti e foglie
dolenti Europa ciascheduna piagne.
“Europa”, suona il lito, “Europa, riedi”,
e ’l tor nuota e talor li bacia e piedi.
107
Or si fa Giove un cigno or pioggia d’oro,
or di serpente or d’un pastor fa fede,
per fornir l’amoroso suo lavoro;
or transformarsi in aquila si vede,
come Amor vuole, e nel celeste coro
portar sospeso il suo bel Ganimede,
qual di cipresso ha il biondo capo avinto,
ignudo tutto e sol d’ellera cinto.
108
Fassi Nettunno un lanoso montone,
fassi un torvo giovenco per amore;
fassi un cavallo il padre di Chirone,
diventa Febo in Tessaglia un pastore:
e ’n picciola capanna si ripone
colui ch’a tutto il mondo dà splendore,
né li giova a sanar sue piaghe acerbe
perch’e’ conosca la virtù dell’erbe.
109
Poi segue Dafne, e ’n sembianza si lagna
come dicessi: “O ninfa, non ten gire,
ferma il piè, ninfa, sovra la campagna,
ch’io non ti seguo per farti morire;
così cerva lion, così lupo agna,
ciascuna il suo nemico suol fuggire:
me perché fuggi, o donna del mio core,
cui di seguirti è sol cagione amore?”
110
Dall’altra parte la bella Arianna
colle sorde acque di Teseo si duole,
e dell’aura e del sonno che la ’nganna;
di paura tremando, come suole
per picciol ventolin palustre canna,
pare in atto aver prese tai parole:
“Ogni fera di te meno è crudele,
ognun di te più mi saria fedele”.
111
Vien sovra un carro, d’ellera e di pampino
coverto Bacco, il qual duo tigri guidono,
e con lui par che l’alta arena stampino
Satiri e Bacche, e con voci alte gridono:
quel si vede ondeggiar, quei par che ’nciampino,
quel con un cembol bee, quelli altri ridono;
qual fa d’un corno e qual delle man ciotola,
quale ha preso una ninfa e qual si ruotola.
112
Sovra l’asin Silen, di ber sempre avido,
con vene grosse nere e di mosto umide,
marcido sembra sonnacchioso e gravido,
le luci ha di vin rosse infiate e fumide;
l’ardite ninfe l’asinel suo pavido
pungon col tirso, e lui con le man tumide
a’ crin s’appiglia; e mentre sì l’aizono,
casca nel collo, e’ satiri lo rizono.
113
Quasi in un tratto vista amata e tolta
dal fero Pluto, Proserpina pare
sovra un gran carro, e la sua chioma sciolta
a’ zefiri amorosi ventilare;
la bianca vesta in un bel grembo accolta
sembra i colti fioretti giù versare:
lei si percuote il petto, e ’n vista piagne,
or la madre chiamando or le compagne.
114
Posa giù del leone il fero spoglio
Ercole, e veste di femminea gonna
colui che ’l mondo da greve cordoglio
avea scampato, et or serve una donna;
e può soffrir d’Amor l’indegno orgoglio
chi colli omer già fece al ciel colonna;
e quella man con che era a tenere uso
la clava ponderosa, or torce un fuso.
115
Gli omer setosi a Polifemo ingombrano
l’orribil chiome e nel gran petto cascono,
e fresche ghiande l’aspre tempie adombrano:
d’intorno a lui le sue pecore pascono,
né a costui dal cor già mai disgombrano
le dolce acerbe cur che d’amor nascono,
anzi, tutto di pianto e dolor macero,
siede in un freddo sasso a piè d’un acero.
116
Dall’uno all’altro orecchio un arco face
il ciglio irsuto lungo ben sei spanne;
largo sotto la fronte il naso giace,
paion di schiuma biancheggiar le zanne;
tra’ piedi ha ’l cane, e sotto il braccio tace
una zampogna ben di cento canne:
lui guata il mar che ondeggia, e alpestre note
par canti, e muova le lanose gote,
117
e dica ch’ella è bianca più che il latte,
ma più superba assai ch’una vitella,
e che molte ghirlande gli ha già fatte,
e serbali una cervia molto bella,
un orsacchin che già col can combatte;
e che per lei si macera e sfragella,
e che ha gran voglia di saper notare
per andare a trovarla insin nel mare.
118
Duo formosi delfini un carro tirono:
sovresso è Galatea che ’l fren corregge,
e quei notando parimente spirono;
ruotasi attorno più lasciva gregge:
qual le salse onde sputa, e quai s’aggirono,
qual par che per amor giuochi e vanegge;
la bella ninfa colle suore fide
di sì rozo cantor vezzosa ride.
119
Intorno al bel lavor serpeggia acanto,
di rose e mirti e lieti fior contesto;
con varii augei sì fatti, che il lor canto
pare udir nelli orecchi manifesto:
né d’altro si pregiò Vulcan mai tanto,
né ’l vero stesso ha più del ver che questo;
e quanto l’arte intra sé non comprende,
la mente imaginando chiaro intende.
120
Questo è ’l loco che tanto a Vener piacque,
a Vener bella, alla madre d’Amore;
qui l’arcier frodolente prima nacque,
che spesso fa cangiar voglia e colore,
quel che soggioga il cel, la terra e l’acque,
che tende alli occhi reti, e prende il core,
dolce in sembianti, in atti acerbo e fello,
giovene nudo, faretrato augello.
121
Or poi che ad ale tese ivi pervenne,
forte le scosse, e giù calassi a piombo,
tutto serrato nelle sacre penne,
come a suo nido fa lieto colombo:
l’aier ferzato assai stagion ritenne
della pennuta striscia il forte rombo:
ivi racquete le triunfante ale,
superbamente inver la madre sale.
122
Trovolla assisa in letto fuor del lembo,
pur mo’ di Marte sciolta dalle braccia,
il qual roverso li giacea nel grembo,
pascendo gli occhi pur della sua faccia:
di rose sovra a lor pioveva un nembo
per rinnovarli all’amorosa traccia;
ma Vener dava a lui con voglie pronte
mille baci negli occhi e nella fronte.
123
Sovra e d’intorno i piccioletti Amori
scherzavon nudi or qua or là volando:
e qual con ali di mille colori
giva le sparte rose ventilando,
qual la faretra empiea de’ freschi fiori,
poi sovra il letto la venia versando,
qual la cadente nuvola rompea
fermo in su l’ale, e poi giù la scotea.
124
Come avea delle penne dato un crollo,
così l’erranti rose eron riprese:
nessun del vaneggiar era satollo;
quando apparve Cupido ad ale tese,
ansando tutto, e di sua madre al collo
gittossi, e pur co’ vanni el cor li accese,
allegro in vista, e sì lasso ch’a pena
potea ben, per parlar, riprender lena.
125
“Onde vien, figlio, o qual n’apporti nuove?”,
Vener li disse, e lo baciò nel volto:
“Onde esto tuo sudor? qual fatte hai pruove?
qual dio, qual uomo hai ne’ tuo’ lacci involto?
Fai tu di nuovo in Tiro mughiar Giove?
o Saturno ringhiar per Pelio folto?
Che che ciò sia, non umil cosa parmi,
o figlio, o sola mia potenzia et armi”.
MATTEO MARIA BOIARDO
L’Orlando innamorato è, diciamo subito, nel suo insieme il ritratto allegorico della
corte ferrarese e della corte italiana dell’ultimo trenten­nio del secolo. L’intreccio
si basa sulla storia di Orlando, paladino di Francia, innamorato di Angelica, bella
principessa saracena. Ma Angelica nella foresta dell’Ardenna ha bevuto alle
fontane di Merlino che ha due getti, uno che fa innamorare, l’altro odiare: Angelica
ha bevuto a quello dell’amore e s’è innamorata di Rinaldo, altro paladino di Carlo
Magno e cugino di Orlando. Rinaldo, a sua volta, ha bevuto al getto dell’odio ed
aveva preso ad odiare Angelica. Costei grazie alle arti magiche di Malagise aveva
sottratto a Carlo Magno il meglio dei suoi paladini e li aveva condotti nella sua
città, Albraccà nel Catai. Lo aveva fatto perché Albraccà è assediata dai Tartari (cui
s’è unito Rinaldo) di Agricane. Orlando, naturalmente, allettato ingannevol­mente
da Angelica è al fianco di costei. E sarà proprio Orlando ad uccidere Agricane in un
duello straordinario e per il valore guerriero dei cavalieri, e ancor più per i modi
con cui si attua. Infatti lo scontro tra i due è ancora in atto quando sopraggiunge
la notte; decidono di smettere e dormire. In assoluta lealtà i due si apprestano
a trascorrere nel riposo la notte, quando alla vista del cielo stellato Orlando si
abbandona allo sgomento per l’infinità e bellezza del creato. Agricane interviene
ad interromperlo:
Disse Agricane: - Io comprendo per certo
Che tu vûi de la fede ragionare;
Io de nulla scïenzia sono esperto,
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
E roppi il capo al mastro mio per merto;
Poi non si puotè un altro ritrovare
Che mi mostrasse libro né scrittura,
Tanto ciascun avea di me paura.
E così spesi la mia fanciulezza
In caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
Né mi par che convenga a gentilezza
Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
Ma la forza del corpo e la destrezza
Conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete ed al dottore sta bene:
Io tanto saccio quanto mi conviene. - (i, xviii, 42-43)
Sono i due opposti ideali della corte: da un lato la cultura raffinata, dall’altro
quello guerriero ed eroico, che non si incontrano però né, soprattutto, giungono
a quale che sia conclusione perché su un punto Orlando ed Agricane sono
d’accordo: che non si può vivere senza amore e che, ahimé, la donna che essi
amano è Angelica. Alla reciproca confessione riprendono le armi e il duello si
conclude con la morte d’Agricane: duello e morte non ideologici, ma provocati
dall’istinto e dalla casualità.
Boiardo intrecciava la vicenda di Orlando Rinaldo e Angelica con altre storie
secondarie, quella di Gradasso che invade la Francia per impadronirsi della
spada di Rinaldo e del cavallo di Orlando. Gradasso giunge a fare prigioniero
Carlo Magno che promette di esaudire le sue richieste. Ma Astolfo lo sfida a
singolar tenzone abbattendolo. Le storie si accavallano alle storie, tenute insieme
da tutto l’apparato di sfide, duelli, appelli al pubblico. E poi ancora una volta
Rinaldo ed Angelica si ritrovano alle fonti di Merlino, ma adesso la donna berrà
alla fonte dell’odio e il cavaliere a quella dell’amore. Ancora una volta la casualità
provoca il capovolgimento dei fronti, le storie si ripresentano capo­volte: immutate
l’ansia, l’amore, gli affanni, i tormenti e infine impos­sibilità di giungere ad una
conclusione, a portare a termine veramente un’impresa, a riposare l’animo in un
dato acquisito. Il poema fluisce in un ripetersi contraddittorio e confusionario di
eventi determinati dal caso e dalle passioni.
Di tal genere è la vicenda di Fiordespina e di Bradamante. Fiorde­spina si
è innamorata del valore e della forza del cavaliere che ella crede maschio: la
passione, neppure tanto spirituale (come lascia intendere l’allusione: « Quel che
li manca ben sapre’ dir io »), celebra il culmine dell’irrazionale nell’equivoco di un
amore creduto nascere dalla bellez­za e dal valore virile, che cerca immediatamente
i modi per cogliere i frutti della passione, e che invece non può essere esaudito:
« Ché gratugia a gratugia poco acquista ». Intanto la realtà storica celebrava altra
e più radicale contraddizione, quella di una letteratura che cantava i furori della
passione e del caso per il diletto degli ascoltatori proprio quando un esercito,
valoroso ma straniero, eroico ma crudele, metteva a ferro e a fuoco un intero
paese, questa volta però non immaginario, bensì reale, non lontano, ma vicino
e alle porte di quella corte dove ambizioni e passioni personali si intrecciavano
e cercavano un’impos­sibile soddisfazione nel mutevole favore accordato dal
principe, dai personaggi più influenti, dalle dame.
Il canone cavalleresco, dall’ottava all’eroismo cavalleresco, dai duelli di
religione alla bellezza delle dame, dal moltiplicarsi ed intrecciarsi delle trame
alla disperazione d’amore, era lo strumento più efficace per rappresentare la vita
della corte italiana e la contraddizione che in essa si manifestava tra la ricerca di
una grandezza culturale e, o di quella politica e militare. E nello stesso tempo quel
canone era lo strumento per la traduzione, epperciò risoluzione, dell’equivoco
cultura/politica sul piano estetico: si nascondeva così l’effettiva incapacità, vuoi
del principe vuoi dello scrittore, d’avvicinarsi alla vita reale con un progetto
veramente politico. Il poema cavalleresco, e quello di Boiardo in particolare,
proprio nel momento in cui traduceva la corte in letteratura, la deformava con ed
in una dimensione estetica, che se soddisfaceva ai bisogni di egemonia culturale,
di fatto negava la realtà politica ed economica entro la quale la corte si sarebbe
dovuta muovere.
La comunicazione letteraria, insomma, avendo rivendicato l’autono­mia del
letterario, dell’invenzione fantastica, o, che è lo stesso, della fabula, del ritmo e
dell’armonia del verso, aveva scelto di staccarsi dal reale politico e civile, da quello
che un Giovanni Dominici, un Giovanni Pico della Mirandola e gli altri avversari
della letteratura avevano fatto dipendere ora dalla verità etica della Sacra Scrittura,
ora dalla verità filosofica di un discorso rude e lontano dai lenocini della retorica.
Nel corso del dibattito i difensori della poesia mai avevano sostenuto l’esigenza
di una sintesi tra letteratura e scienza, di letteratura ed etica: proprio nell’esordio
dell’Umanesimo un Coluccio Salutati e un Leonardo Bruni avevano proposto a
modello di scrittore quello di Cicerone accanto al quale non a caso era stato posto
Dante e tuttavia la dimensione civile, e pragmatica, della comunicazione letteraria
s’era sempre portata dietro l’elemento contraddittorio costituito da Petrarca che
invece la spingeva sul piano più strettamente formale, ponendo come orizzonte
la gloria e l’autoeducazione. La comunicazione letteraria così non rimaneva priva
del tutto di funzionalità, rimaneva semmai priva di traduzione nella prassi della
vita politica: il destinatario era l’altro o gli altri intellettuali ai quali l’emittente si
univa in nome della superiorità e della universalità dell’arte e del sapere: Lorenzo
Valla rappresenta uno dei momenti più significativi. La separazione dalla prassi
politica non è ancora sociale, è semmai ideale.
Con la civiltà della corte i parametri universalistici tendono a scom­parire:
l’orizzonte è, appunto, la corte che impone il suo linguaggio e i suoi, contraddittori,
modelli culturali. Il destinatario accentua l’aspetto formale ed edonistico
della comunicazione letteraria, protesa alla gloria non solo dell’autore, ma del
committente, che coincide pressoché esclusivamente con il destinatario e che
richiede di divertirsi:
Dirovi tutta quanta poi la cosa,
Qual gli incontrò, quando fu gionto al gioco,
E serà di piacere e dilettosa;
Ma poi la contaremo in altro loco,
Perché il cantar della storia amorosa
È necessario abandonare un poco,
Per ritornare a Carlo imperatore,
E ricontarvi cosa assai maggiore.
Cosa maggior, né di gloria cotanta
Fu giamai scritta, né di più diletto,
Ché del novo Rugier quivi si canta,
Qual fu d’ogni virtute il più perfetto
Di qualunche altro che al mondo si vanta.
Sì che, segnori, ad ascoltar vi aspetto,
Per farvi di piacer la mente sazia,
Se Dio mi serva al fin la usata grazia. (i, xxix, 55-56)
A voi, legiadri amanti e damigelle,
Che dentro ai cor gentili aveti amore,
Son scritte queste istorie tanto belle
Di cortesia fiorite e di valore;
Ciò non ascoltan queste anime felle,
Che fan guerra per sdegno e per furore.
Adio, amanti e dame pellegrine:
A vostro onor di questo libro è il fine. (II, xxxi, 50)
In questo circolo emittente-destinatario non solo il canone è obbli­gato, ma
anche lo scopo ed il messaggio. Boiardo si sorprende a scrivere il gioco degli
impossibili amori di Fiordespina e di Brada­mante, mentre fuori la realtà è di
guerra e di morte. La contraddizione tra letteratura e storia gli pare irresolubile:
sceglierà di tacere. Ma ormai alla comunicazione letteraria è acquisito un canone
così rigido che non sarà possibile altro che il gioco della scomposizione e della
ricompo­sizione di unità più semplici in un gioco degli incastri che non potrà non
avere come risultato un prodotto riconoscibile come letterario, ma ripetitivo e per
così dire standardizzato.
CANTO PRIMO
Duo mercadanti erano coloro
Che vendean le sue merce troppo care:
Però destina di passare in Franza
Ed acquistarle con sua gran possanza.
1. Signori e cavallier che ve adunati
Per odir cose dilettose e nove,
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
La bella istoria che ’l mio canto muove;
E vedereti i gesti smisurati,
L’alta fatica e le mirabil prove
Che fece il franco Orlando per amore
Nel tempo del re Carlo imperatore.
7.Cento cinquanta millia cavallieri
Elesse di sua gente tutta quanta;
Né questi adoperar facea pensieri,
Perché lui solo a combatter se avanta
Contra al re Carlo ed a tutti guerreri
Che son credenti in nostra fede santa;
E lui soletto vincere e disfare
Quanto il sol vede e quanto cinge il mare.
2.Non vi par già, signor, meraviglioso
Odir cantar de Orlando inamorato,
Ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
È da Amor vinto, al tutto subiugato;
Né forte braccio, né ardire animoso,
Né scudo o maglia, né brando affilato,
Né altra possanza può mai far diffesa,
Che al fin non sia da Amor battuta e presa.
8. Lassiam costor che a vella se ne vano,
Che sentirete poi ben la sua gionta;
E ritornamo in Francia a Carlo Mano,
Che e soi magni baron provede e conta;
Imperò che ogni principe cristiano,
Ogni duca e signore a lui se afronta
Per una giostra che aveva ordinata
Allor di maggio, alla pasqua rosata.
3. Questa novella è nota a poca gente,
Perché Turpino istesso la nascose,
Credendo forse a quel conte valente
Esser le sue scritture dispettose,
Poi che contra ad Amor pur fu perdente
Colui che vinse tutte l’altre cose:
Dico di Orlando, il cavalliero adatto.
Non più parole ormai, veniamo al fatto.
9.Erano in corte tutti i paladini
Per onorar quella festa gradita,
E da ogni parte, da tutti i confini
Era in Parigi una gente infinita.
Eranvi ancora molti Saracini,
Perché corte reale era bandita,
Ed era ciascaduno assigurato,
Che non sia traditore o rinegato.
4. La vera istoria di Turpin ragiona
Che regnava in la terra de orïente,
Di là da l’India, un gran re di corona,
Di stato e de ricchezze sì potente
E sì gagliardo de la sua persona,
Che tutto il mondo stimava nïente:
Gradasso nome avea quello amirante,
Che ha cor di drago e membra di gigante.
10.Per questo era di Spagna molta gente
Venuta quivi con soi baron magni:
Il re Grandonio, faccia di serpente,
E Feraguto da gli occhi griffagni;
Re Balugante, di Carlo parente,
Isolier, Serpentin, che fûr compagni.
Altri vi fûrno assai di grande afare,
Come alla giostra poi ve avrò a contare.
5.E sì come egli avviene a’ gran signori,
Che pur quel voglion che non ponno avere,
E quanto son difficultà maggiori
La desïata cosa ad ottenere,
Pongono il regno spesso in grandi errori,
Né posson quel che voglion possedere;
Così bramava quel pagan gagliardo
Sol Durindana e ’l bon destrier Baiardo.
11.Parigi risuonava de instromenti,
Di trombe, di tamburi e di campane;
Vedeansi i gran destrier con paramenti,
Con foggie disusate, altiere e strane;
E d’oro e zoie tanti adornamenti
Che nol potrian contar le voci umane;
Però che per gradir lo imperatore
Ciascuno oltra al poter si fece onore.
6. Unde per tutto il suo gran tenitoro
Fece la gente ne l’arme asembrare,
Ché ben sapeva lui che per tesoro
Né il brando, né il corsier puote acquistare;
12.Già se apressava quel giorno nel quale
Si dovea la gran giostra incominciare,
Quando il re Carlo in abito reale
Alla sua mensa fece convitare
ORLANDO INNAMORATO
LIBRO I CANTO PRIMO
Ciascun signore e baron naturale,
Che venner la sua festa ad onorare;
E fûrno in quel convito li assettati
Vintiduo millia e trenta annumerati.
13.Re Carlo Magno con faccia ioconda
Sopra una sedia d’ûr tra’ paladini
Se fu posato alla mensa ritonda:
Alla sua fronte fûrno e Saracini,
Che non volsero usar banco né sponda,
Anzi sterno a giacer come mastini
Sopra a tapeti, come è lor usanza,
Sprezando seco il costume di Franza.
14.A destra ed a sinistra poi ordinate
Fûrno le mense, come il libro pone:
Alla prima le teste coronate,
Uno Anglese, un Lombardo ed un Bertone,
Molto nomati in la Cristianitate,
Otone e Desiderio e Salamone;
E li altri presso a lor di mano in mano,
Secondo il pregio d’ogni re cristiano.
15.Alla seconda fûr duci e marchesi,
E ne la terza conti e cavallieri.
Molto fûrno onorati e Magancesi,
E sopra a tutti Gaino di Pontieri.
Rainaldo avea di foco gli occhi accesi,
Perché quei traditori, in atto altieri,
L’avean tra lor ridendo assai beffato,
Perché non era come essi adobato.
16.Pur nascose nel petto i pensier caldi,
Mostrando nella vista allegra fazza;
Ma fra se stesso diceva: “Ribaldi,
S’io vi ritrovo doman su la piazza,
Vedrò come stareti in sella saldi,
Gente asinina, maledetta razza,
Che tutti quanti, se ’l mio cor non erra,
Spero gettarvi alla giostra per terra.”
17.Re Balugante, che in viso il guardava,
E divinava quasi il suo pensieri,
Per un suo trucimano il domandava,
Se nella corte di questo imperieri
Per robba, o per virtute se onorava:
Acciò che lui, che quivi è forestieri,
E de’ costumi de’ Cristian digiuno,
Sapia l’onor suo render a ciascuno.
18.Rise Rainaldo, e con benigno aspetto
Al messagier diceva: - Raportate
A Balugante, poi che egli ha diletto
De aver le gente cristiane onorate,
Ch’e giotti a mensa e le puttane in letto
Sono tra noi più volte acarezate;
Ma dove poi conviene usar valore,
Dasse a ciascun il suo debito onore. 19.Mentre che stanno in tal parlar costoro,
Sonarno li instrumenti da ogni banda;
Ed ecco piatti grandissimi d’oro,
Coperti de finissima vivanda;
Coppe di smalto, con sotil lavoro,
Lo imperatore a ciascun baron manda.
Chi de una cosa e chi d’altra onorava,
Mostrando che di lor si racordava.
20.Quivi si stava con molta allegrezza,
Con parlar basso e bei ragionamenti:
Re Carlo, che si vidde in tanta altezza,
Tanti re, duci e cavallier valenti,
Tutta la gente pagana disprezza,
Come arena del mar denanti a i venti;
Ma nova cosa che ebbe ad apparire,
Fe’ lui con gli altri insieme sbigotire.
21.Però che in capo della sala bella
Quattro giganti grandissimi e fieri
Intrarno, e lor nel mezo una donzella,
Che era seguìta da un sol cavallieri.
Essa sembrava matutina stella
E giglio d’orto e rosa de verzieri:
In somma, a dir di lei la veritate,
Non fu veduta mai tanta beltate.
22.Era qui nella sala Galerana,
Ed eravi Alda, la moglie de Orlando,
Clarice ed Ermelina tanto umana,
Ed altre assai, che nel mio dir non spando,
Bella ciascuna e di virtù fontana.
Dico, bella parea ciascuna, quando
Non era giunto in sala ancor quel fiore,
Che a l’altre di beltà tolse l’onore.
23.Ogni barone e principe cristiano
In quella parte ha rivoltato il viso,
Né rimase a giacere alcun pagano;
Ma ciascun d’essi, de stupor conquiso,
Si fece a la donzella prossimano;
La qual, con vista allegra e con un riso
Da far inamorare un cor di sasso,
Incominciò così, parlando basso:
24.- Magnanimo segnor, le tue virtute
E le prodezze de’ toi paladini,
Che sono in terra tanto cognosciute,
Quanto distende il mare e soi confini,
Mi dan speranza che non sian perdute
Le gran fatiche de duo peregrini,
Che son venuti dalla fin del mondo
Per onorare il tuo stato giocondo.
25.Ed acciò ch’io ti faccia manifesta,
Con breve ragionar, quella cagione
Che ce ha condotti alla tua real festa,
Dico che questo è Uberto dal Leone,
Di gentil stirpe nato e d’alta gesta,
Cacciato del suo regno oltra ragione:
Io, che con lui insieme fui cacciata,
Son sua sorella, Angelica nomata.
26.Sopra alla Tana ducento giornate,
Dove reggemo il nostro tenitoro,
Ce fûr di te le novelle aportate,
E della giostra e del gran concistoro
Di queste nobil gente qui adunate;
E come né città, gemme o tesoro
Son premio de virtute, ma si dona
Al vincitor di rose una corona.
27.Per tanto ha il mio fratel deliberato,
Per sua virtute quivi dimostrare,
Dove il fior de’ baroni è radunato,
Ad uno ad un per giostra contrastare:
O voglia esser pagano o battizato,
Fuor de la terra lo venga a trovare,
Nel verde prato alla Fonte del Pino,
Dove se dice al Petron di Merlino.
28.Ma fia questo con tal condizïone
(Colui l’ascolti che si vûl provare):
Ciascun che sia abattuto de lo arcione,
Non possa in altra forma repugnare,
E senza più contesa sia pregione;
Ma chi potesse Uberto scavalcare,
Colui guadagni la persona mia:
Esso andarà con suoi giganti via. 29.Al fin delle parole ingenocchiata
Davanti a Carlo attendia risposta.
Ogni om per meraviglia l’ha mirata,
Ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta
Col cor tremante e con vista cangiata,
Benché la voluntà tenìa nascosta;
E talor gli occhi alla terra bassava,
Ché di se stesso assai si vergognava.
30.“Ahi paccio Orlando!” nel suo cor dicia
“Come te lasci a voglia trasportare!
Non vedi tu lo error che te desvia,
E tanto contra a Dio te fa fallare?
Dove mi mena la fortuna mia?
Vedome preso e non mi posso aitare;
Io, che stimavo tutto il mondo nulla,
Senza arme vinto son da una fanciulla.
31.Io non mi posso dal cor dipartire
La dolce vista del viso sereno,
Perch’io mi sento senza lei morire,
E il spirto a poco a poco venir meno.
Or non mi val la forza, né lo ardire
Contra d’Amor, che m’ha già posto il freno;
Né mi giova saper, né altrui consiglio,
Ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio.”
32.Così tacitamente il baron franco
Si lamentava del novello amore.
Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco,
Non avea già de lui men pena al core,
Anci tremava sbigotito e stanco,
Avendo perso in volto ogni colore.
Ma a che dir più parole? Ogni barone
Di lei si accese, ed anco il re Carlone.
33.Stava ciascuno immoto e sbigottito,
Mirando quella con sommo diletto;
Ma Feraguto, il giovenetto ardito,
Sembrava vampa viva nello aspetto,
E ben tre volte prese per partito
Di torla a quei giganti al suo dispetto,
E tre volte afrenò quel mal pensieri
Per non far tal vergogna allo imperieri.
34.Or su l’un piede, or su l’altro se muta,
Grattasi ’l capo e non ritrova loco;
Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta,
Divenne in faccia rosso come un foco;
E Malagise, che l’ha cognosciuta,
Dicea pian piano: “Io ti farò tal gioco,
Ribalda incantatrice, che giamai
De esser qui stata non te vantarai.”
35.Re Carlo Magno con lungo parlare
Fe’ la risposta a quella damigella,
Per poter seco molto dimorare.
Mira parlando e mirando favella,
Né cosa alcuna le puote negare,
Ma ciascuna domanda li suggella
Giurando de servarle in su le carte:
Lei coi giganti e col fratel si parte.
36.Non era ancor della citade uscita,
Che Malagise prese il suo quaderno:
Per saper questa cosa ben compita
Quattro demonii trasse dello inferno.
Oh quanto fu sua mente sbigotita!
Quanto turbosse, Iddio del celo eterno!
Poi che cognobbe quasi alla scoperta
Re Carlo morto e sua corte deserta.
37.Però che quella che ha tanta beltade,
Era figliola del re Galifrone,
Piena de inganni e de ogni falsitade,
E sapea tutte le incantazïone.
Era venuta alle nostre contrade,
Ché mandata l’avea quel mal vecchione
Col figliol suo, ch’avea nome Argalia,
E non Uberto, come ella dicia.
38.Al giovenetto avea dato un destrieri
Negro quanto un carbon quando egli è spento,
Tanto nel corso veloce e leggieri,
Che già più volte avea passato il vento;
Scudo, corazza ed elmo col cimieri,
E spada fatta per incantamento;
Ma sopra a tutto una lancia dorata,
D’alta ricchezza e pregio fabricata.
39.Or con queste arme il suo patre il mandò,
Stimando che per quelle il sia invincibile,
Ed oltra a questo uno anel li donò
Di una virtù grandissima, incredibile,
Avengaché costui non lo adoprò;
Ma sua virtù facea l’omo invisibile,
Se al manco lato in bocca se portava:
Portato in dito, ogni incanto guastava.
40.Ma sopra a tutto Angelica polita
Volse che seco in compagnia ne andasse,
Perché quel viso, che ad amare invita,
Tutti i baroni alla giostra tirasse,
E poi che per incanto alla finita
Ogni preso barone a lui portasse:
Tutti legati li vûl nelle mane
Re Galifrone, il maledetto cane.
41.Così a Malagise il dimon dicia,
E tutto il fatto gli avea rivelato.
Lasciamo lui: torniamo a l’Argalia,
Che al Petron di Merlino era arivato.
Un pavaglion sul prato distendia,
Troppo mirabilmente lavorato;
E sotto a quello se pose a dormire,
Ché di posarse avea molto desire.
42.Angelica, non troppo a lui lontana,
La bionda testa in su l’erba posava,
Sotto il gran pino, a lato alla fontana:
Quattro giganti sempre la guardava.
Dormendo, non parea già cosa umana,
Ma ad angelo del cel rasomigliava.
Lo annel del suo germano aveva in dito,
Della virtù che sopra aveti odito.
43.Or Malagise, dal demon portato,
Tacitamente per l’aria veniva;
Ed ecco la fanciulla ebbe mirato
Giacer distesa alla fiorita riva;
E quei quattro giganti, ogniuno armato,
Guardano intorno e già nïun dormiva.
Malagise dicea: “Brutta canaglia,
Tutti vi pigliarò senza battaglia.
44.Non vi valeran mazze, né catene,
Né vostri dardi, né le spade torte;
Tutti dormendo sentirete pene,
Come castron balordi avreti morte.”
Così dicendo, più non si ritiene:
Piglia il libretto e getta le sue sorte,
Né ancor aveva il primo foglio vòlto,
Che già ciascun nel sonno era sepolto.
45.Esso dapoi se accosta alla donzella
E pianamente tira for la spada,
E veggendola in viso tanto bella
Di ferirla nel collo indugia e bada.
L’animo volta in questa parte e in quella,
E poi disse: “Così convien che vada:
Io la farò per incanto dormire,
E pigliarò con seco il mio desire.”
46.Pose tra l’erba giù la spada nuda,
Ed ha pigliato il suo libretto in mano;
Tutto lo legge, prima che lo chiuda.
Ma che li vale? Ogni suo incanto è vano,
Per la potenzia dello annel sì cruda.
Malagise ben crede per certano
Che non si possa senza lui svegliare,
E cominciolla stretta ad abbracciare.
47.La damisella un gran crido mettia:
- Tapina me, ch’io sono abandonata! Ben Malagise alquanto sbigotia,
Veggendo che non era adormentata.
Essa, chiamando il fratello Argalia,
Lo tenìa stretto in braccio tutta fiata;
Argalia sonacchioso se sveglione,
E disarmato uscì del pavaglione.
48.Subitamente che egli ebbe veduto
Con la sorella quel cristian gradito,
Per novità gli fu il cor sì caduto,
Che non fu de appressarse a loro ardito.
Ma poi che alquanto in sé fu rivenuto,
Con un troncon di pin l’ebbe assalito,
Gridando: - Tu sei morto, traditore,
Che a mia sorella fai tal disonore. 49.Essa gridava: - Legalo, germano,
Prima ch’io il lasci, che egli è nigromante;
Ché, se non fosse l’annel che aggio in mano,
Non son tue forze a pigliarlo bastante. Per questo il giovenetto a mano a mano
Corse dove dormiva un gran gigante,
Per volerlo svegliar; ma non potea,
Tanto lo incanto sconfitto il tenea.
50.Di qua, di là, quanto più può il dimena;
Ma poi che vede che indarno procaccia,
Dal suo bastone ispicca una catena,
E de tornare indrieto presto spaccia;
E con molta fatica e con gran pena
A Malagise lega ambe le braccia,
E poi le gambe e poi le spalle e il collo:
Da capo a piede tutto incatenollo.
51.Come lo vide ben esser legato,
Quella fanciulla li cercava in seno;
Presto ritrova il libro consecrato,
Di cerchi e de demonii tutto pieno.
Incontinenti l’ebbe diserrato;
E nello aprir, né in più tempo, né in meno,
Fu pien de spirti e celo e terra e mare,
Tutti gridando: - Che vûi comandare? 52.Ella rispose: - Io voglio che portate
Tra l’India e Tartaria questo prigione,
Dentro al Cataio, in quella gran citate,
Ove regna il mio padre Galafrone;
Dalla mia parte ce lo presentate,
Ché di sua presa io son stata cagione,
Dicendo a lui che, poi che questo è preso,
Tutti gli altri baron non curo un ceso. 53.Al fin delle parole, o in quello instante,
Fu Malagise per l’aere portato,
E, presentato a Galafrone avante,
Sotto il mar dentro a un scoglio impregionato.
Angelica col libro a ogni gigante
Discaccia il sonno ed ha ciascun svegliato.
Ogn’om strenge la bocca ed alcia il ciglio,
Forte ammirando il passato periglio.
LIBRO PRIMO
CANTO DICIOTTESIMO
29.Orlando ed Agricane un’altra fiata
Ripreso insiem avean crudel battaglia;
La più terribil mai non fo mirata:
L’arme l’un l’altro a pezo a pezo taglia.
Vede Agrican sua gente sbaratata,
Né li pû dare aiuto che li vaglia,
Però che Orlando tanto stretto il tene,
Che star con seco a fronte li conviene.
30.Nel suo secreto fie’ questo pensiero:
Trar fuor di schiera quel conte gagliardo,
E poi che occiso l’abbia in su il sentiero
Tornar alla battaglia senza tardo;
Però che a lui par facile e legiero
Cacciar soletto quel popol codardo;
Ché tutti insieme, e il suo re Galafrone,
Non li stimava quanto un vil bottone.
31.Con tal proposto se pone a fuggire,
Forte correndo sopra alla pianura;
Il conte nulla pensa a quel fallire,
Anci crede che il faccia per paura;
Senza altro dubbio se il pone a seguire.
E già son gionti ad una selva oscura;
Aponto in mezo a quella selva piana
Era un bel prato intorno a una fontana.
32.Fermosse ivi Agricane a quella fonte,
E smontò dello arcion per riposare,
Ma non se tolse l’elmo della fronte,
Né piastra o scudo se volse levare;
E poco dimorò che gionse il conte,
E come il vide alla fonte aspettare,
Dissegli: - Cavallier, tu sei fuggito,
E sì forte mostravi e tanto ardito!
33.Come tanta vergogna pûi soffrire
A dar le spalle ad un sol cavalliero?
Forse credesti la morte fuggire:
Or vedi che fallito hai il pensiero.
Chi morir può onorato, die’ morire;
Ché spesse volte aviene e de legiero
Che, per durare in questa vita trista,
Morte e vergogna ad un tratto s’acquista. 34.Agrican prima rimontò in arcione,
Poi con voce suave rispondia:
- Tu sei per certo il più franco barone
Ch’io mai trovassi nella vita mia;
E però del tuo scampo fia cagione
La tua prodezza e quella cortesia
Che oggi sì grande al campo usato m’hai,
Quando soccorso a mia gente donai.
35.Però te voglio la vita lasciare,
Ma non tornasti più per darmi inciampo!
Questo la fuga mi fe’ simulare,
Né vi ebbi altro partito a darti scampo.
Se pur te piace meco battagliare,
Morto ne rimarrai su questo campo;
Ma siami testimonio il celo e il sole
Che darti morte me dispiace e duole. 36.Il conte li rispose molto umano,
Perché avea preso già de lui pietate:
- Quanto sei - disse - più franco e soprano,
Più di te me rincresce in veritate,
Che serai morto, e non sei cristïano,
Ed andarai tra l’anime dannate;
Ma se vûi il corpo e l’anima salvare,
Piglia battesmo, e lasciarotte andare. 37.Disse Agricane, e riguardollo in viso:
- Se tu sei cristïano, Orlando sei.
Chi me facesse re del paradiso,
Con tal ventura non lo cangiarei;
Ma sino or te ricordo e dòtti aviso
Che non me parli de’ fatti de’ Dei,
Perché potresti predicare in vano:
Diffenda il suo ciascun col brando in mano. 38.Né più parole: ma trasse Tranchera,
E verso Orlando con ardir se affronta.
Or se comincia la battaglia fiera,
Con aspri colpi di taglio e di ponta;
Ciascuno è di prodezza una lumera,
E sterno insieme, come il libro conta,
Da mezo giorno insino a notte scura,
Sempre più franchi alla battaglia dura.
39.Ma poi che il sole avea passato il monte,
E cominciosse a fare il cel stellato,
Prima verso il re parlava il conte:
- Che farem, - disse - che il giorno ne è andato? Disse Agricane con parole pronte:
- Ambo se poseremo in questo prato;
E domatina, come il giorno pare,
Ritornaremo insieme a battagliare. 40.Così de acordo il partito se prese.
Lega il destrier ciascun come li piace,
Poi sopra a l’erba verde se distese;
Come fosse tra loro antica pace,
L’uno a l’altro vicino era e palese.
Orlando presso al fonte isteso giace,
Ed Agricane al bosco più vicino
Stassi colcato, a l’ombra de un gran pino.
41.E ragionando insieme tuttavia
Di cose degne e condecente a loro,
Guardava il conte il celo e poi dicia:
- Questo che or vediamo, è un bel lavoro,
Che fece la divina monarchia;
E la luna de argento, e stelle d’oro,
E la luce del giorno, e il sol lucente,
Dio tutto ha fatto per la umana gente. 42.Disse Agricane: - Io comprendo per certo
Che tu vûi de la fede ragionare;
Io de nulla scïenzia sono esperto,
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
E roppi il capo al mastro mio per merto;
Poi non si puotè un altro ritrovare
Che mi mostrasse libro né scrittura,
Tanto ciascun avea di me paura.
43.E così spesi la mia fanciulezza
In caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
Né mi par che convenga a gentilezza
Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
Ma la forza del corpo e la destrezza
Conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete ed al dottore sta bene:
Io tanto saccio quanto mi conviene. 44.Rispose Orlando: - Io tiro teco a un segno,
Che l’arme son de l’omo il primo onore;
Ma non già che il saper faccia men degno,
Anci lo adorna come un prato il fiore;
Ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
Chi non pensa allo eterno Creatore;
Né ben se può pensar senza dottrina
La summa maiestate alta e divina. 45.Disse Agricane: - Egli è gran scortesia
A voler contrastar con avantaggio.
Io te ho scoperto la natura mia,
E te cognosco che sei dotto e saggio.
Se più parlassi, io non risponderia;
Piacendoti dormir, dòrmite ad aggio,
E se meco parlare hai pur diletto,
De arme, o de amore a ragionar t’aspetto.
46.Ora te prego che a quel ch’io dimando
Rispondi il vero, a fè de omo pregiato:
Se tu sei veramente quello Orlando
Che vien tanto nel mondo nominato;
E perché qua sei gionto, e come, e quando,
E se mai fosti ancora inamorato;
Perché ogni cavallier che è senza amore,
Se in vista è vivo, vivo è senza core. 47.Rispose il conte: - Quello Orlando sono
Che occise Almonte e il suo fratel Troiano;
Amor m’ha posto tutto in abandono,
E venir fammi in questo loco strano.
E perché teco più largo ragiono,
Voglio che sappi che ’l mio core è in mano
De la figliola del re Galafrone
Che ad Albraca dimora nel girone.
48.Tu fai col patre guerra a gran furore
Per prender suo paese e sua castella,
Ed io qua son condotto per amore
E per piacere a quella damisella.
Molte fiate son stato per onore
E per la fede mia sopra alla sella;
Or sol per acquistar la bella dama
Faccio battaglia, ed altro non ho brama. 49.Quando Agricane ha nel parlare accolto
Che questo è Orlando, ed Angelica amava,
Fuor di misura se turbò nel volto,
Ma per la notte non lo dimostrava;
Piangeva sospirando come un stolto,
L’anima, il petto e il spirto li avampava;
E tanta zelosia gli batte il core,
Che non è vivo, e di doglia non muore.
50.Poi disse a Orlando: - Tu debbi pensare
Che, come il giorno serà dimostrato,
Debbiamo insieme la battaglia fare,
E l’uno o l’altro rimarrà sul prato.
Or de una cosa te voglio pregare,
Che, prima che veniamo a cotal piato,
Quella donzella che il tuo cor disia,
Tu la abandoni, e lascila per mia.
51.Io non puotria patire, essendo vivo,
Che altri con meco amasse il viso adorno;
O l’uno o l’altro al tutto serà privo
Del spirto e della dama al novo giorno.
Altri mai non saprà, che questo rivo
E questo bosco che è quivi d’intorno,
Che l’abbi riffiutata in cotal loco
E in cotal tempo, che serà sì poco. 52.Diceva Orlando al re: - Le mie promesse
Tutte ho servate, quante mai ne fei;
Ma se quel che or me chiedi io promettesse,
E se io il giurassi, io non lo attenderei;
Così potria spiccar mie membra istesse,
E levarmi di fronte gli occhi miei,
E viver senza spirto e senza core,
Come lasciar de Angelica lo amore. 53.Il re Agrican, che ardea oltra misura,
Non puote tal risposta comportare;
Benché sia al mezo della notte scura,
Prese Baiardo, e su vi ebbe a montare;
Ed orgoglioso, con vista sicura,
Iscrida al conte ed ebbelo a sfidare,
Dicendo: - Cavallier, la dama gaglia
Lasciar convienti, o far meco battaglia. 54.Era già il conte in su l’arcion salito,
Perché, come se mosse il re possente,
Temendo dal pagano esser tradito,
Saltò sopra al destrier subitamente;
Unde rispose con l’animo ardito:
- Lasciar colei non posso per nïente,
E, se io potessi ancora, io non vorria;
Avertila convien per altra via. 55.Sì come il mar tempesta a gran fortuna,
Cominciarno lo assalto i cavallieri;
Nel verde prato, per la notte bruna,
Con sproni urtarno adosso e buon destrieri;
E se scorgiano a lume della luna
Dandosi colpi dispietati e fieri,
Ch’era ciascun di lor forte ed ardito.
Ma più non dico: il canto è qui finito.
CANTO DECIMONONO
1. Segnori e cavallieri inamorati,
Cortese damiselle e grazïose,
Venitene davanti ed ascoltati
L’alte venture e le guerre amorose
Che fer’ li antiqui cavallier pregiati,
E fûrno al mondo degne e glorïose;
Ma sopra tutti Orlando ed Agricane
Fier’ opre, per amore, alte e soprane.
2. Sì come io dissi nel canto di sopra,
Con fiero assalto dispietato e duro
Per una dama ciascadun se adopra;
E benché sia la notte e il celo oscuro,
Già non vi fa mestier che alcun si scopra,
Ma conviensi guardare e star sicuro,
E ben diffeso di sopra e de intorno,
Come il sol fosse in celo al mezo giorno.
3.Agrican combattea con più furore,
Il conte con più senno si servava;
Già contrastato avean più de cinque ore,
E l’alba in orïente se schiarava:
Or se incomincia la zuffa maggiore.
Il superbo Agrican se disperava
Che tanto contra esso Orlando dura,
E mena un colpo fiero oltra a misura.
4. Giunse a traverso il colpo disperato,
E il scudo come un latte al mezzo taglia;
Piagar non puote Orlando, che è affatato,
Ma fraccassa ad un ponto e piastre e maglia.
Non puotea il franco conte avere il fiato,
Benché Tranchera sua carne non taglia;
Fu con tanta ruina la percossa,
Che avea fiaccati i nervi e peste l’ossa.
5. Ma non fo già per questo sbigotito,
Anci colpisce con maggior fierezza.
Gionse nel scudo, e tutto l’ha partito,
Ogni piastra del sbergo e maglia spezza,
E nel sinistro fianco l’ha ferito;
E fo quel colpo di cotanta asprezza,
Che il scudo mezo al prato andò di netto,
E ben tre coste li tagliò nel petto.
6.Come rugge il leon per la foresta,
Allor che l’ha ferito il cacciatore,
Così il fiero Agrican con più tempesta
Rimena un colpo di troppo furore.
Gionse ne l’elmo, al mezo della testa;
Non ebbe il conte mai botta maggiore,
E tanto uscito è fuor di cognoscenza
Che non sa se egli ha il capo, o se egli è senza.
7.Non vedea lume per gli occhi nïente,
E l’una e l’altra orecchia tintinava;
Sì spaventato è il suo destrier corrente,
Che intorno al prato fuggendo il portava;
E serebbe caduto veramente,
Se in quella stordigion ponto durava;
Ma, sendo nel cader, per tal cagione
Tornolli il spirto, e tennese allo arcione.
8.E venne di se stesso vergognoso,
Poi che cotanto se vede avanzato.
“Come andarai - diceva doloroso
- Ad Angelica mai vituperato?
Non te ricordi quel viso amoroso,
Che a far questa battaglia t’ha mandato?
Ma chi è richiesto, e indugia il suo servire,
Servendo poi, fa il guidardon perire.
9. Presso a duo giorni ho già fatto dimora
Per il conquisto de un sol cavalliero,
E seco a fronte me ritrovo ancora,
Né gli ho vantaggio più che il dì primiero.
Ma se più indugio la battaglia un’ora,
L’arme abandono ed entro al monastero:
Frate mi faccio, e chiamomi dannato,
Se mai più brando mi fia visto al lato.”
10.Il fin del suo parlar già non è inteso,
Ché batte e denti e le parole incocca;
Foco rasembra di furore acceso
Il fiato che esce fuor di naso e bocca.
Verso Agricane se ne va disteso,
Con Durindana ad ambe mano il tocca
Sopra alla spalla destra de riverso;
Tutto la taglia quel colpo diverso.
11.Il crudel brando nel petto dichina,
E rompe il sbergo e taglia il pancirone;
Benché sia grosso e de una maglia fina,
Tutto lo fende in fin sotto il gallone:
Non fo veduta mai tanta roina.
Scende la spada e gionse nello arcione:
De osso era questo ed intorno ferrato,
Ma Durindana lo mandò su il prato.
12.Da il destro lato a l’anguinaglia stanca
Era tagliato il re cotanto forte;
Perse la vista ed ha la faccia bianca,
Come colui ch’è già gionto alla morte;
E benché il spirto e l’anima li manca,
Chiamava Orlando, e con parole scorte
Sospirando diceva in bassa voce:
- Io credo nel tuo Dio, che morì in croce.
13.Batteggiame, barone, alla fontana
Prima ch’io perda in tutto la favella;
E se mia vita è stata iniqua e strana,
Non sia la morte almen de Dio ribella.
Lui, che venne a salvar la gente umana,
L’anima mia ricoglia tapinella!
Ben me confesso che molto peccai,
Ma sua misericordia è grande assai. 14.Piangea quel re, che fo cotanto fiero,
E tenìa il viso al cel sempre voltato;
Poi ad Orlando disse: - Cavalliero,
In questo giorno de oggi hai guadagnato,
Al mio parere, il più franco destriero
Che mai fosse nel mondo cavalcato;
Questo fo tolto ad un forte barone,
Che del mio campo dimora pregione.
15.Io non me posso ormai più sostenire:
Levame tu de arcion, baron accorto.
Deh non lasciar questa anima perire!
Batteggiami oramai, ché già son morto.
Se tu me lasci a tal guisa morire,
Ancor n’avrai gran pena e disconforto. Questo diceva e molte altre parole:
Oh quanto al conte ne rincresce e dole!
16.Egli avea pien de lacrime la faccia,
E fo smontato in su la terra piana;
Ricolse il re ferito nelle braccia,
E sopra al marmo il pose alla fontana;
E de pianger con seco non si saccia,
Chiedendoli perdon con voce umana.
Poi battizollo a l’acqua della fonte,
Pregando Dio per lui con le man gionte.
17.Poco poi stette che l’ebbe trovato
Freddo nel viso e tutta la persona,
Onde se avide che egli era passato.
Sopra al marmo alla fonte lo abandona,
Così come era tutto quanto armato,
Col brando in mano e con la sua corona;
E poi verso il destrier fece riguardo,
E pargli di veder che sia Baiardo.
18.Ma creder non può mai per cosa certa
Che qua sia capitato quel ronzone;
Ed anco nascondeva la coperta,
Che tutto lo guarnia sino al talone.
“Io vo’ saper la cosa in tutto aperta, Disse a se stesso il figliol di Milone
- Se questo è pur Baiardo, o se il somiglia;
Ma se egli è desso, io n’ho gran meraviglia.”
19.Per saper tutto il fatto il conte è caldo,
E verso del caval se pone a gire;
Ma lui, che Orlando cognobbe di saldo,
Gli viene incontra e comincia a nitrire.
- Deh dimme, bon destriero, ove è Ranaldo?
Ove ene il tuo signor? Non mi mentire! Così diceva Orlando, ma il ronzone
Non puotea dar risposta al suo sermone.
20.Non avea quel destrier parlare umano,
Benché fosse per arte fabricato.
Sopra vi monta il senator romano,
Che già l’avea più fiate cavalcato.
Poi che ebbe preso Brigliadoro a mano,
Subitamente uscì fuora del prato,
Ed entrò dentro de la selva folta;
Ma così andando un gran romore ascolta.
21.Senza dimora atacca Brigliadoro
A un tronco de una quercia ivi vicina.
Ma voglio che sappiate che coloro
Che entro a quel bosco fan tanta roina,
Son tre giganti; ed han molto tesoro,
E sopra de un gambelo una fantina
Tolta per forza a l’Isole Lontane:
Un cavallier con loro era alle mane.
22.Quel cavalliero è di soperchia lena,
E per scoder la dama se travaglia.
Un de’ giganti la donzella mena,
E li altri duo con esso fan battaglia.
Poi vi dirò la cosa integra e piena,
Ma di saperla adesso non ve incaglia;
Presto ritornarò dove io ve lasso:
Or vo’ contar del campo il gran fraccasso.
23.Del campo, dico, che, come io contai,
Andava a schiere in mille pezzi sparte;
Più scura cosa non se vidde mai:
Occisa è la gran gente in ogni parte,
Con più roina ch’io non conto assai.
Il re Adrïan li segue e Brandimarte;
Risuona il celo e del fiume la foce
Di cridi, de lamenti e de alte voce.
24.La gente de Agrican, senza governo,
Poi che perduto è il suo forte segnore,
Che mai nol vederanno in sempiterno,
Fugge dal campo rotta con romore.
Tutti son morti e callano allo inferno;
Il vecchio Galafron, pien de furore,
Di quella gente già non ha pietade,
Anci li pone al taglio delle spade.
25.Non vûl che campi alcun di quella gente;
Tutti li occide il superbo vecchione.
E già son gionti ove primeramente
Stava il re Agricane; il paviglione
Gettato fo per terra incontinente,
Dove trovarno Astolfo, che è prigione,
E il re Ballano, pien de vigoria;
Con seco è Antifor de Albarossia.
26.Tutti tre insieme, come eran legati,
Fûrno condutti ad Angelica avanti;
Ma la donzella li ha molto onorati,
Ché ben li cognosceva tutti quanti.
E poi che fûr disciolti e scatenati,
Con bel parlare e con dolci sembianti,
Mostrandoli carezze e bella faccia,
Di ciò che han per lei fatto li ringraccia.
27.Diceva Astolfo: - Star quivi non posso,
Ch’io me vo’ vendicar con ardimento
De quella gente, che mi venne addosso
E mi gettarno in terra a tradimento.
Io non serìa per tutto il mondo mosso,
E più de un millïon n’avrebbi spento,
Ma fui tradito da il falso Agricane:
Oggi l’occiderò con le mie mane.
28.Fa che aggia l’arme e prestami un destriero,
Ché incontinente giù voglio callare;
E ben ti giuro che al colpo primiero
Quindeci pezzi de uno uomo vo’ fare.
Prenderò vivo l’altro cavalliero,
Intorno al capo me il voglio aggirare,
Poi verso il cel tanto alto il lascio gire,
Che penarà tre giorni a giù venire. 29.Ballano ed Antifor, che eran presenti
Quando in tal modo Astolfo braveggiava,
Nol cognoscendo per fama altrimenti
Ciascun fuor de intelletto il iudicava.
Ambi eran poderosi, ambi valenti,
E perciò ciascun l’arme adimandava.
Nel castello era molta guarnigione;
Presto se armorno e montarno in arcione.
30.Astolfo prima gionse alla pianura,
Sempre suonando con tempesta il corno;
Ben mostra cavallier senza paura,
Sì zoioso veniva e tanto adorno.
Ora ascoltati che bella ventura
Li mandò avanti Dio del cel quel giorno,
Ché proprio nella strata se incontrava
In un che l’arme e sua lancia portava.
31.Quelle arme che valeano un gran tesoro
Un Tartaro le tiene in sua balìa,
E il suo bel scudo, e quella lancia d’oro
Che primamente fu dello Argalia.
Il duca Astolfo, senza altro dimoro,
Per terra a gran furor quello abattia,
Fuor delle spalle sei palmi passato;
Smontò alla terra ed ebbel disarmato.
32.Esso fu armato ed ha sua lancia presa,
E fatta prova grande oltra misura,
Benché e nemici non faccian diffesa,
Ché de aspettarlo alcun non se assicura.
Tutti ne vanno in rotta alla distesa
Quella gente del campo con paura;
Ma presso al fiume è guerra de altra guisa
Tra il pro’ Ranaldo e la forte Marfisa.
IACOPO SANNAZARO
Il Sannazaro, scrittore e poeta in latino e in volgare, fu con G. Pontano il
rappresentante più alto della cultura napoletana nella seconda metà del
Quattrocento. In latino compose, oltre al De partu Virginis un poema di stampo
virgiliano, terminato nel 1513, rielaborato fino al ’26, pubblicato con dedica a
Clemente VII ‑ delle elegie (Elegiarum libri tres); degli epigrammi (Epigrammaton
libri tres); cinque Eclogae piscatoriae, cioè delle egloghe nelle quali i consueti modi
pastorali venivano applicati al mondo dei pescatori napoletani, sullo sfondo delle
bellezze del Golfo, caldamente dipinte. In volgare scrisse, oltre ai Gliommeri già
citati, delle farse, composizioni teatrali di non grande rilievo, a celebrazione di
avvenimenti gloriosi o fausti, per esempio la vittoria di Granata; delle Rime, nelle
quali i moduli petrarcheschi si inteneriscono spesso di motivi idilliaci. Capolavoro
del Sannazaro, e opera fondamentale nella storia della cultura europea per alcuni
secoli, è l’Arcadia, un romanzo pastorale misto di prose e di versi, sul modello
quindi del Ninfale d’Ameto di G. Boccaccio, composto in più riprese e pubblicato
una prima volta intorno al 1485, una seconda, profondamente riveduto, nel
1504. L’opera si apre con la descrizione del monte Partenio in Arcadia, regione
selvaggia della Grecia, addolcita dai costumi gentili degli abitanti, che alle fatiche
dei campi alternano il canto, la danza e la poesia. Il Sannazaro, sotto il nome
di Sincero, per alleviare la pena di un amore infelice, si rifugia in questo luogo
pastorale, dopo aver abbandonato Napoli e la casa paterna, e lì assiste alle feste
e ai canti dei pastori, dei quali vive la vita serena, partecipando ai loro riti e alle
loro sfide poetiche. Anche Sincero, a un certo momento, svela ai pastori la sua
storia, narrando come, pur lontano dalla donna, sia perseguitato dall’amore e dal
ricordo di lei. Il pastore Carino per confortarlo gli racconta i suoi amori innocenti
con una pastorella. Infine Sincero, turbato da un sogno che gli ispira presentimenti
di morte, si aggira desolato vicino a un fiume; una ninfa lo fa entrare sotto le
acque e per vie sotterranee, attraverso grotte mirabili, lo conduce, seguendo il
Sebeto, presso Napoli. Qui la ninfa lo abbandona e scompare, e il poeta, rimasto
solo, chiede al suo fiume notizie della donna amata, apprendendo che questa
è morta. Chiudono l’opera un canto elegiaco del pastore Meliseo e una prosa
del Sannazaro, con cui egli si congeda dalla sua opera. Questa è caratterizzata
in primo luogo dal tema pastorale, con il quale il Sannazaro dava un suggello di
perfezione formale a un tema che si veniva sempre più diffondendo in questo
secondo umanesimo, quando il venir meno degli spiriti civili che avevano animato
il primo rinascimento italiano, il delinearsi della crisi politica nazionale, l’influsso
della cultura neoplatonica spingevano ad aspirazioni evasive e inducevano a
vagheggiare la vita dei campi e il mondo dei pastori come il rifugio sognato da una
vita di preoccupazioni e di fasto. Perciò il tema pastorale venne acquisendo nella
seconda metà del Quattrocento un carattere idilliaco ed evasivo, costituendo
un filone che dalle Stanze di A. Poliziano condusse all’Aminta di T. Tasso e a
tanta letteratura europea fino almeno all’Arcadia. In secondo luogo, caratterizzava
l’opera del Sannazaro la finezza con la quale lo scrittore filtrò i suoi motivi e le
sue fonti classiche attraverso una tecnica di estrema consapevolezza e sapienza,
rispondente in pieno al gusto aristocratico per la bella forma, proprio del nostro
rinascimento. Contribuì inoltre al successo immediato dell’opera la lingua, infarcita
di napoletanismi nella sua prima stesura e poi adattata alla lingua e allo stile del
Boccaccio, sicché essa parve esemplare a quanti, nel secolo seguente, sostennero
la tesi di una lingua nazionale illustre modellata su F. Petrarca e G. Boccaccio.
Prologo
Sogliono il più de le volte gli alti e spaziosi alberi ne­
gli orridi monti da la natura produtti, più che le col­
tivate piante, da dotte mani espurgate, negli adorni
giardini a’ riguardanti aggradare; e molto più per i soli
boschi i selvatichi ucelli sovra i verdi rami cantando,
a chi gli ascolta piacere, che per le piene cittadi, den­
tro le vezzose et ornate gabbie non piacciono gli am­
maestrati. Per la qual cosa ancora, sì come io stimo,
addiviene, che le silvestre canzoni vergate ne li ruvi­
di cortecci de’ faggi dilettino non meno a chi le legge,
che li colti versi scritti ne le rase carte degli indorati
libri; e le incerate canne de’ pastori porgano per le
fiorite valli forse più piacevole suono, che li tersi e
pregiati bossi de’ musici per le pompose camere non
fanno. E chi dubita che più non sia a le umane menti
aggradevole una fontana che naturalmente esca da
le vive pietre, attorniata di verdi erbette, che tutte le
altre ad arte fatte di bianchissimi marmi, risplendenti
per molto oro? Certo che io creda niuno. Dunque in
ciò fidandomi, potrò ben io fra queste deserte piag­
ge, agli ascoltanti alberi, et a quei pochi pastori che
vi saranno, racontare le rozze ecloghe, da naturale
vena uscite; così di ornamento ignude esprimendo­
le, come sotto le dilettevoli ombre, al mormorio de’
liquidissimi fonti, da’ pastori di Arcadia le udii can­
tare; a le quali non una volta ma mille i montani Idii
da dolcezza vinti prestarono intente orecchie, e le
tenere Ninfe, dimenticate di perseguire i vaghi ani­
mali, lasciarono le faretre e gli archi appiè degli alti
pini di Menalo e di Liceo. Onde io, se licito mi fusse,
più mi terrei a gloria di porre la mia bocca a la umile
fistula di Coridone, datagli per adietro da Dameta in
caro duono, che a la sonora tibia di Pallade, per la
quale il male insuperbito Satiro provocò Apollo a li
suoi danni. Che certo egli è migliore il poco terreno
ben coltivare, che ’l molto lasciare per mal governo
miseramente imboschire.
Prosa 1
Giace nella sommità di Partenio, non umile monte de
la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiez­
za non molto spazioso però che il sito del luogo nol
consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripie­
no, che se le lascive pecorelle con gli avidi morsi non
vi pascesseno, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare
verdura. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o
quindici alberi, di tanto strana et eccessiva bellezza,
che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la mae­
stra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in
formarli. Li quali alquanto distanti, et in ordine non
artificioso disposti, con la loro rarità la naturale bel­
lezza del luogo oltra misura annobiliscono. 2 Quivi
senza nodo veruno si vede il drittissimo abete, nato
a sustinere i pericoli del mare; e con più aperti rami
la robusta quercia e l’alto frassino e lo amenissimo
platano vi si distendono, con le loro ombre non pic­
ciola parte del bello e copioso prato occupando. Et
èvi con più breve fronda l’albero, di che Ercule coro­
nar si solea, nel cui pedale le misere figliuole di Cli­
mene furono transformate. Et in un de’ lati si scerne
il noderoso castagno, il fronzuto bosso e con puntate
foglie lo eccelso pino carico di durissimi frutti; ne l’al­
tro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia e ’l fragi­
le tamarisco, insieme con la orientale palma, dolce
et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo
presso un chiaro fonte sorge verso il cielo un dritto
cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete, nel
quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso
Apollo non si sdegnarebbe essere transfigurato. Né
sono le dette piante sì discortesi, che del tutto con le
lor ombre vieteno i raggi del sole entrare nel diletto­
so boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente
gli riceveno, che rara è quella erbetta che da quelli
non prenda grandissima recreazione. E come che di
ogni tempo piacevole stanza vi sia, ne la fiorita pri­
mavera più che in tutto il restante anno piacevolissi­
ma vi si ritruova. 3 In questo così fatto luogo sogliono
sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti
convenire, e quivi in diverse e non leggiere pruove
esercitarse; sì come in lanciare il grave palo, in trare
con gli archi al versaglio, et in addestrarse nei lievi
salti e ne le forti lotte, piene di rusticane insidie; e ’l
più de le volte in cantare et in sonare le sampogne
a pruova l’un de l’altro, non senza pregio e lode del
vincitore. Ma essendo una fiata tra l’altre quasi tutti
i convicini pastori con le loro mandre quivi ragunati,
e ciascuno, varie maniere cercando di sollacciare, si
dava maravigliosa festa, Ergasto solo, senza alcuna
cosa dire o fare, appiè di un albero, dimenticato di
sé e de’ suoi greggi giaceva, non altrimente che se
una pietra o un tronco stato fusse, quantunque per
adietro solesse oltra gli altri pastori essere dilettevo­
le e grazioso. Del cui misero stato Selvaggio mosso
a compassione, per dargli alcun conforto, così ami­
chevolmente ad alta voce cantando gli incominciò a
parlare:
Ecloga 1
SELVAGGIO, ERGASTO
SELVAGGIO
Ergasto mio, perché solingo e tacito
pensar ti veggio? Oimè, che mal si lassano
le pecorelle andare a lor ben placito!
Vedi quelle che ’l rio varcando passano;
vedi quei duo monton che ’nsieme correno
come in un tempo per urtar s’abassano.
Vedi c’al vincitor tutte soccorreno
e vannogli da tergo, e ’l vitto scacciano
e con sembianti schivi ognor l’aborreno.
E sai ben tu che i lupi, ancor che tacciano,
fan le gran prede; e i can dormendo stannosi,
però che i lor pastor non vi s’impacciano.
Già per li boschi i vaghi ucelli fannosi
i dolci nidi, e d’alti monti cascano
le nevi, che pel sol tutte disfannosi.
E par che i fiori per le valli nascano,
et ogni ramo abbia le foglia tenere,
e i puri agnelli per l’erbette pascano.
L’arco ripiglia il fanciullin di Venere,
che di ferir non è mai stanco, o sazio
di far de le medolle arida cenere.
Progne ritorna a noi per tanto spazio
con la sorella sua dolce cecropia
a lamentarsi de l’antico strazio.
A dire il vero, oggi è tanta l’inopia
di pastor che cantando all’ombra seggiano,
che par che stiamo in Scitia o in Etiopia.
Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano
a cantar versi sì leggiadri e frottole,
deh canta omai, che par che i tempi il cheggiano.
ERGASTO
Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena né Progne vi si vedono,
ma meste strigi et importune nottole.
Primavera e suoi dì per me non riedono,
né truovo erbe o fioretti che mi gioveno,
ma solo pruni e stecchi che ’l cor ledono.
Nubbi mai da quest’aria non si moveno,
e veggio, quando i dì son chiari e tepidi,
notti di verno, che tonando pioveno.
Perisca il mondo, e non pensar ch’io trepidi;
ma attendo sua ruina, e già considero
che ’l cor s’adempia di pensier più lepidi.
Caggian baleni e tuon quanti ne videro
i fier giganti in Flegra, e poi sommergasi
la terra e ’l ciel, ch’io già per me il desidero.
Come vuoi che ’l prostrato mio cor ergasi
a poner cura in gregge umile e povero,
ch’io spero che fra’ lupi anzi dispergasi?
Non truovo tra gli affanni altro ricovero
che di sedermi solo appiè d’un acero,
d’un faggio, d’un abete o ver d’un sovero;
ché pensando a colei che ’l cor m’ha lacero
divento un ghiaccio, e di null’altra curomi,
né sento il duol ond’io mi struggo e macero.
SELVAGGIO
Per maraviglia più che un sasso induromi,
udendoti parlar sì malinconico,
e ’n dimandarti alquanto rassicuromi.
Qual è colei c’ha ’l petto tanto erronico,
che t’ha fatto cangiar volto e costume?
Dimel, che con altrui mai nol commonico.
ERGASTO
Menando un giorno gli agni presso un fiume,
vidi un bel lume in mezzo di quell’onde,
che con due bionde trecce allor mi strinse,
e mi dipinse un volto in mezzo al core
che di colore avanza latte e rose;
poi si nascose in modo dentro all’alma,
che d’altra salma non mi aggrava il peso.
Così fui preso; onde ho tal giogo al collo,
ch’il pruovo e sollo più c’uom mai di carne,
tal che a pensarne è vinta ogni alta stima.
Io vidi prima l’uno e poi l’altro occhio;
fin al ginocchio alzata al parer mio
in mezzo al rio si stava al caldo cielo;
lavava un velo, in voce alta cantando.
Oimè, che quando ella mi vide, in fretta
la canzonetta sua spezzando tacque,
e mi dispiacque che per più mie’ affanni
si scinse i panni e tutta si coverse;
poi si sommerse ivi entro insino al cinto,
tal che per vinto io caddi in terra smorto.
E per conforto darmi, ella già corse,
e mi soccorse, sì piangendo a gridi,
c’a li suo’ stridi corsero i pastori
che eran di fuori intorno a le contrade,
e per pietade ritentàr mill’arti.
Ma i spirti sparti al fin mi ritornaro
e fen riparo a la dubbiosa vita.
Ella pentita, poi ch’io mi riscossi,
allor tornossi indietro, e ’l cor più m’arse,
sol per mostrarse in un pietosa e fella.
La pastorella mia spietata e rigida,
che notte e giorno al mio soccorso chiamola,
e sta soperba e più che ghiaccio frigida,
ben sanno questi boschi quanto io amola;
sannolo fiumi, monti, fiere et omini,
c’ognor piangendo e sospirando bramola.
Sallo, quante fiate il dì la nomini,
il gregge mio, che già a tutt’ore ascoltami,
o ch’egli in selva pasca o in mandra romini.
Eco rimbomba, e spesso indietro voltami
le voci che sì dolci in aria sonano,
e nell’orecchie il bel nome risoltami.
Quest’alberi di lei sempre ragionano
e ne le scorze scritta la dimostrano,
c’a pianger spesso et a cantar mi spronano.
Per lei li tori e gli arieti giostrano.
Ecloga 5
ERGASTO
Alma beata e bella,
che da’ legami sciolta
nuda salisti nei superni chiostri,
ove con la tua stella
ti godi inseme accolta,
e lieta ivi, schernendo i pensier nostri,
quasi un bel sol ti mostri
tra li più chiari spirti,
e coi vestigii santi
calchi le stelle erranti;
e tra pure fontane e sacri mirti
pasci celesti greggi,
e i tuoi cari pastori indi correggi;
altri monti, altri piani,
altri boschetti e rivi
vedi nel cielo, e più novelli fiori;
altri Fauni e Silvani
per luoghi dolci estivi
seguir le Ninfe in più felici amori.
Tal fra soavi odori
dolce cantando all’ombra
tra Dafni e Melibeo
siede il nostro Androgeo,
e di rara dolcezza il cielo ingombra,
temprando gli elementi
col suon de novi inusitati accenti.
Quale la vite a l’olmo,
et agli armenti il toro,
e l’ondeggianti biade ai lieti campi,
tale la gloria e ’l colmo
fostù del nostro coro.
Ahi cruda morte, e chi fia che ne scampi,
se con tue fiamme avampi
le più elevate cime?
Chi vedrà mai nel mondo
pastor tanto giocondo,
che cantando fra noi sì dolci rime
sparga il bosco di fronde
e di bei rami induca ombra su l’onde?
Pianser le sante Dive
la tua spietata morte;
i fiumi il sanno e le spelunche e i faggi;
pianser le verdi rive,
l’erbe pallide e smorte,
e ’l sol più giorni non mostrò suoi raggi;
né gli animai selvaggi
usciro in alcun prato,
né greggi andàr per monti
né gustaro erbe o fonti,
tanto dolse a ciascun l’acerbo fato;
tal che al chiaro et al fosco
“Androgeo Androgeo” sonava il bosco.
Dunque fresche corone
a la tua sacra tomba
e voti di bifolci ognor vedrai;
tal che in ogni stagione,
quasi nova colomba,
per bocche de’ pastor volando andrai;
né verrà tempo mai
che ’l tuo bel nome estingua,
61 mentre serpenti in dumi
saranno, e pesci in fiumi.
Né sol vivrai ne la mia stanca lingua,
ma per pastor diversi
in mille altre sampogne e mille versi.
Se spirto alcun d’amor vive fra voi,
querce frondose e folte,
fate ombra a le quiete ossa sepolte.
Prosa 7
Venuto Opico a la fine del suo cantare, non senza
gran diletto da tutta la brigata ascoltato, Carino pia­
cevolmente a me voltatosi, mi domandò chi e donde
io era, e per qual cagione in Arcadia dimorava. Al
quale io, dopo un gran sospiro, quasi da necessità
constretto, così rispusi: 2 - Non posso, grazioso pa­
store, senza noia grandissima ricordarmi de’ passati
tempi; li quali avegna che per me poco lieti dir si
possano, niente di meno avendoli a racontare ora
che in maggiore molestia mi trovo, mi saranno accre­
scimento di pena e quasi uno inacerbire di dolore a
la mal saldata piaga, che naturalmente rifugge di farsi
spesso toccare; ma perché lo sfogare con parole ai
miseri suole a le volte essere alleviamento di peso, il
dirò pure. 3 Napoli, sì come ciascuno di voi molte
volte può avere udito, è ne la più fruttifera e dilette­
vole parte di Italia, al lito del mare posta, famosa e
nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse
quanto alcuna altra che al mondo ne sia. La quale da
popoli di Calcidia venuti sovra le vetuste ceneri de la
Sirena Partenope edificata, prese et ancora ritiene il
venerando nome de la sepolta giovene. 4 In quella
dunque nacqui io, ove non da oscuro sangue, ma, se
dirlo non mi si disconviene, secondo che per le più
celebri parti di essa città le insegne de’ miei prede­
cessori chiaramente dimostrano, da antichissima e
generosa prosapia disceso, era tra gli altri miei coeta­
nei gioveni forse non il minimo riputato. E lo avolo
del mio padre, da la cisalpina Gallia, benché, se a’
principii si riguarda, da la estrema Ispagna prenden­
do origine, nei quali duo luoghi ancor oggi le reliquie
de la mia famiglia fioriscono, fu oltra a la nobilità de’
maggiori per suoi proprii gesti notabilissimo. Il qua­
le, capo di molta gente con la laudevole impresa del
terzo Carlo ne l’ausonico regno venendo, meritò per
sua virtù di possedere la antica Sinuessa, con gran
parte de’ campi Falerni, e i monti Massici, inseme
con la picciola terra sovraposta al lito ove il turbulen­
to Volturno prorumpe nel mare, e Linterno, benché
solitario, niente di meno famoso per la memoria de
le sacrate ceneri del divino Africano; senza che ne la
fertile Lucania avea sotto onorato titulo molte terre e
castella, de le quali solo avrebbe potuto, secondo
che a la sua condizione si richiedeva, vivere abon­
dantissimamente. Ma la Fortuna, via più liberale in
donare che sollicita in conservare le mondane pro­
sperità, volse che in discorso di tempo, morto il Re
Carlo e ’l suo legittimo successore Lanzilao, rimanes­
se il vedovo regno in man di femina. La quale da la
naturale inconstanzia e mobilità di animo incitata,
agli altri suoi pessimi fatti questo aggiunse, che colo­
ro i quali erano stati e dal padre e dal fratello con
sommo onore magnificati, lei esterminando et umi­
liando annullò, e quasi ad estrema perdizione ricon­
dusse. Oltra di ciò quante e quali fussen le necessita­
di e gli infortunii che lo avolo e ’l padre mio sofferso­
no, lungo sarebbe a racontare, 5 Vegno a me adun­
que, il quale in quegli estremi anni che la recolenda
memoria del vittorioso Re Alfonso di Aragona passò
da le cose mortali a più tranquilli secoli, sotto infeli­
ce prodigio di comete, di terremoto, di pestilenzia,
di sanguinose battaglie nato et in povertà, o vero, se­
condo i savii, in modesta fortuna nudrito; sì come la
mia stella e i fati volsono, appena avea otto anni for­
niti, che le forze di Amore a sentire incominciai; e de
la vaghezza di una picciola fanciulla, ma bella e leg­
giadra più che altra che vedere mi paresse giamai, e
da alto sangue discesa, inamorato, con più diligenzia
che ai puerili anni non si conviene, questo mio desi­
derio teneva occolto. Per la qual cosa colei, senza
punto di ciò avvedersi, fanciullescamente meco gio­
cando, di giorno in giorno, di ora in ora più con le sue
eccessive bellezze le mie tenere medolle accende­
va; intanto che con gli anni crescendo lo amore, in
più adulta età et a li caldi desii più inclinata perve­
nimmo. Né per tutto ciò la solita conversazione ces­
sando, anzi quella ognor più domesticamente ristrin­
gendosi, mi era di maggiore noia cagione. Perché
parendomi lo amore, la benivolenzia e la affezzione
grandissima da lei portatami, non essere a quel fine
che io avrei desiderato, e conoscendo me avere altro
nel petto, che di fuori mostrare non mi bisognava; né
avendo ancora ardire di discoprirmegli in cosa alcu­
na, per non perdere in un punto quel che in molti
anni mi parea avere con industriosa fatica racquista­
to; in sì fiera malinconia e dolore intrai, che ’l consue­
to cibo e ’l sonno perdendone, più ad ombra di mor­
te che ad uom vivo assomigliava. De la qual cosa
molte volte da lei domandato qual fusse la cagione,
altro che un sospiro ardentissimo in risposta non gli
rendea. E quantunque nel letticciuolo de la mia ca­
meretta molte cose ne la memoria mi proponesse di
dirli, niente di meno quando in sua presenza era, im­
pallidiva, tremava e diveniva mutolo; in maniera che
a molti forse, che ciò vedeano, diedi cagione di so­
spettare. Ma lei, o che per innata bontà non se ne
avvedesse giamai, o che fusse di sì freddo petto che
amore non potesse ricevere, o forse, quel che più
credibile è, che fusse sì savia che migliore di me sel
sapesse nascondere, in atti et in parole sovra di ciò
semplicissima mi si mostrava. Per la qual cosa io né
di amarla mi sapea distraere, né dimorare in sì mise­
ra vita mi giovava. Dunque per ultimo rimedio di più
non stare in vita deliberai; e pensando meco del
modo, varie e strane condizioni di morte andai esa­
minando; e veramente o con laccio, o con veleno, o
vero con la tagliente spada avrei finiti li miei tristi
giorni, se la dolente anima da non so che viltà sovra­
presa, non fusse divenuta timida di quel che più de­
siderava. Dal che rivolto il fiero proponimento in più
regulato consiglio, presi per partito di abandonare
Napoli e le paterne case, credendo forse di lasciare
amore e i pensieri inseme con quelle. 6 Ma, lasso,
che molto altrimente ch’io non avvisava mi avvenne;
però che se allora, veggendo e parlando sovente a
colei che io tanto amo, mi riputava infelice, sol pen­
sando che la cagione del mio penare a lei non era
nota; ora mi posso giustamente sovra ogni altro chia­
mare infelicissimo, trovandomi per tanta distanza di
paese assente da lei, e forse senza speranza di rive­
derla giamai, né di udirne novella che per me saluti­
fera sia. Massimamente ricordandomi in questa fervi­
da adolescenzia de’ piaceri de la deliciosa patria tra
queste solitudini di Arcadia, ove, con vostra pace il
dirò, non che i gioveni ne le nobili città nudriti, ma
appena mi si lascia credere che le selvatiche bestie
vi possano con diletto dimorare. E se a me non fusse
altra tribulazione che la ansietà de la mente, la quale
me continuamente tene suspeso a diverse cose, per
lo fervente desio ch’io ho di rivederla, non potendo­
lami né notte né giorno quale stia fatta riformare ne
la memoria, si sarebbe ella grandissima. 7 Io non
veggio né monte né selva alcuna, che tuttavia non mi
persuada di doverlavi ritrovare, quantunque a pen­
sarlo mi paia impossibile. Niuna fiera né ucello né
ramo vi sento movere, ch’io non mi gire paventoso
per mirare se fusse dessa in queste parti venuta ad
intendere la misera vita ch’io sostegno per lei. Simil­
mente niuna altra cosa vedere vi posso, che prima
non mi sia cagione di rimembrarmi con più fervore e
sollicitudine di lei. E mi pare che le concave grotte, i
fonti, le valli, i monti, con tutte le selve la chiamino, e
gli alti arbusti risoneno sempre il nome di lei. Tra i
quali alcuna volta trovandomi io, e mirando i fronzuti
olmi circondati da le pampinose viti, mi corre amara­
mente ne l’animo con angoscia incomportabile,
quanto sia lo stato mio difforme da quello degli in­
sensati alberi, i quali, da le care viti amati, dimorano
continuamente con quelle in graziosi abracciari; et io
per tanto spazio di cielo, per tanta longinquità di ter­
ra, per tanti seni di mare dal mio desio dilungato, in
continuo dolore e lacrime mi consumo. 8 Oh quante
volte e’ mi ricorda che vedendo per li soli boschi gli
affettuosi colombi con suave mormorio basciarsi, e
poi andare desiderosi cercando lo amato nido, quasi
da invidia vinto ne piansi, cotali parole dicendo: “Oh
felici voi, ai quali senza suspetto alcuno di gelosia è
concesso dormire e veghiare con secura pace! Lungo
sia il vostro diletto, lunghi siano i vostri amori; acciò
che io solo di dolore spettaculo possa a’ viventi rima­
nere!”. 9 Elli interviene ancora spesse fiate che guar­
dando io, sì come per usanza ho preso in queste vo­
stre selve, i vagabundi armenti, veggio tra i fertili
campi alcun toro magrissimo appena con le deboli
ossa sostinere la secca pelle, il quale veramente sen­
za fatica e dolore inestimabile non posso mirare,
pensando un medesmo amore essere a me et a lui
cagione di penosa vita. Oltra a queste cose mi sovie­
ne che fuggendo tal ora io dal consorzio de’ pastori,
per poter meglio ne le solitudini pensare a’ miei
mali, ho veduto la inamorata vaccarella andare sola
per le alte selve muggendo e cercando il giovene
giovenco, e poi stanca gittarsi a la riva di alcun fiume,
dimenticata di pascere e di dar luogo a le tenebre de
la oscura notte; la qual cosa quanto sia a me che simi­
le vita sostegno noiosa a riguardare, colui solamente
sel può pensare, che lo ha pruovato o pruova. Elli mi
viene una tristezza di mente incurabile, con una com­
passione grandissima di me stesso, mossa da le inti­
me medolle, la quale non mi lascia pelo veruno ne la
persona, che non mi si arricci; e per le raffreddate
estremità mi si move un sudore angoscioso, con un
palpitare di core sì forte, che veramente s’io nol de­
siderasse, temerei che la dolente anima se ne voles­
se di fuori uscire. 10 Ma che più mi prolungo io in ra­
contar quello che a ciascuno può essere manifesto?
Io non mi sento giamai da alcun di voi nominare
“Sannazaro”, quantunque cognome a’ miei predeces­
sori onorevole stato sia, che, ricordandomi da lei es­
sere stato per adietro chiamato “Sincero”, non mi sia
cagione di sospirare. Né odo mai suono di sampogna
alcuna, né voce di qualunque pastore, che gli occhi
miei non versino amare lacrime; tornandomi a la me­
moria i lieti tempi, nei quali io le mie rime e i versi
allora fatti cantando, mi udia da lei sommamente co­
mendare. E per non andare ogni mia pena puntal­
mente racontando, niuna cosa m’aggrada, nulla festa
né gioco mi può non dico accrescere di letizia, ma
scemare de le miserie; a le quali io prego qualunque
Idio esaudisce le voci de’ dolorosi, che o con presta
morte, o con prospero succedimento ponga fine. - 11
Rispose allora Carino al mio lungo parlare: 12 - Gravi
sono i tuoi dolori, Sincero mio, e veramente da non
senza compassione grandissima ascoltarsi; ma dim­
mi, se gli Dii ne le braccia ti rechino de la desiata
donna, quali furon quelle rime, che non molto tem­
po è ti udii cantare ne la pura notte? de le quali se le
parole non mi fusseno uscite di mente, del modo mi
ricorderei. Et io in guidardone ti donerò questa sam­
pogna di sambuco, la quale io con le mie mani colsi
tra monti asprissimi e da le nostre ville lontani, ove
non credo che voce giamai pervenisse di matutino
gallo, che di suono privata l’avesse; con la quale spe­
ro che, se da li fati non ti è tolto, con più alto stile
canterai gli amori di Fauni e di Ninfe nel futuro. E sì
come insino qui i principii de la tua adolescenzia hai
tra semplici e boscarecci canti di pastori infruttuosa­
mente dispesi, così per lo inanzi la felice giovenezza
tra sonore trombe di poeti chiarissimi del tuo secolo,
non senza speranza di eterna fama trapasserai. - 13 E
questo detto, si tacque; et io l’usata lira sonando così
cominciai:
Ecloga 7
SINCERO
Come notturno ucel nemico al sole,
lasso, vo io per luoghi oscuri e foschi,
mentre scorgo il dì chiaro in su la terra;
poi quando al mondo sopravien la sera,
non com’altri animai m’acqueta il sonno,
ma allor mi desto a pianger per le piagge.
Se mai quest’occhi tra boschetti o piagge,
ove no splenda con suoi raggi il sole,
stanchi di lacrimar mi chiude il sonno,
vision crude et error vani e foschi
m’attristan sì, ch’io già pavento a sera,
per tema di dormir, gittarmi in terra.
O madre universal, benigna terra,
fia mai ch’io pòsi in qua’ che verdi piagge,
tal che m’addorma in quella ultima sera,
e non mi desti mai, per fin che ’l sole
vegna a mostrar sua luce agli occhi foschi
e mi risvegii da sì lungo sonno?
Dal dì che gli occhi miei sbandiro il sonno
e ’l letticciuol lasciai, per starmi in terra,
i dì seren mi fur turbidi e foschi,
campi di stecchi le fiorite piagge;
tal che quando a’ mortali aggiorna il sole,
a me sì oscura in tenebrosa sera.
Madonna, sua mercé, pur una sera
gioiosa e bella assai m’apparve in sonno
e rallegrò il mio cor, sì come il sole
suol dopo pioggia disgombrar la terra,
dicendo a me: - Vien, cogli a le mie piagge
qualche fioretto, e lascia gli antri foschi. Fuggite omai, pensier noiosi e foschi,
che fatto avete a me sì lunga sera;
ch’io vo’ cercar le apriche e liete piagge,
prendendo in su l’erbetta un dolce sonno;
perché so ben c’uom mai fatto di terra
più felice di me non vide il sole.
Canzon, di sera in oriente il sole
vedrai, e me sotterra ai regni foschi,
prima che ’n queste piagge io prenda sonno.
IL RINASCIMENTO
L’ingresso della Poetica di Aristotele nella discussione sulla poesia potrebbe
costituire il discrimine storico tra Umanesimo e Rinasci­mento se la sua ricezione
non fosse stata condizionata così fortemente dal platonismo e dal ciceronianesimo
precedenti. Cicerone rimase il nume tutelare della comunicazione letteraria; la
retorica continuò ad essere il punto di riferimento d’ogni scrittura, lirica compresa,
con tutta la funzione di persuasione che le era congenito, e su cui si innestava
l’Arte poetica di Orazio che fu l’altro strumento d’interpretazione dell’operetta
aristotelica. Giulio Cesare Scaligero, cui si dovette la maggiore delle opere
d’interpretazione della Poetica, sostenne, contro il filosofo greco, che lo scopo
della letteratura è il docere e che è questo che dà il diletto, non l’imitazione, la
mimesis, che il filosofo greco intendeva come il modo con cui gli elementi dell’opera
letteraria di organizzavano (non realismo, dunque, ma somiglianza con la realtà, o
semplicemente “verosimiglianza”).
Tra le conseguenze più rilevanti di una tale permanenza va rilevata la
persistenza di una modalità pedagogica di intendere l’esercizio let­terario: ché
la persuasione era, ovviamente, diretta alla virtù, che difficile, o amara, da far
comprendere ed amare, abbisognava della dolcezza della scrittura perché fosse
resa accetta. Ne conseguiva una letteratura precettistica, di cui andava colto il
nòcciolo educativo sotto il velo, strumentale, della forma: sì che la comunicazione
letteraria finì per essere solo uno dei modi della comunicazione etico-filosofica
e, dunque, destinata a diventare altro da sé. In questa dimensione lo scrittore è
persuasore, il destinatario è il persuadendo che occupa una posizione d’inferiorità.
Una strategia per aggirare il disagio che una, sempre strisciante e sotterranea,
concezione come quella che vede contrapposti il magister ed il discipulus nel dialogo
medievale, era quella di adottare il dialogo platonico in cui i protagonisti sono
filosofi: anche in questo caso però il lettore resta passivo spettatore della disputa,
perché la dialettica tra i protagonisti tende a sostituirsi a quella che avrebbe
potuto stabilirsi tra lettore e scrittore. Insomma, il lettore viene privato non solo
del piacere estetico della comunicazione letteraria, ma in non poca misura anche
di quello epistemico.
Due opere sono indicative della complessità del rapporto scrittore-pubblico:
si tratta di opere che, nate da un cosciente furor, epperciò direzionate verso usi
fruizioni e valutazioni del tutto individuali, met­tono in crisi il rapporto produzionericezione sotteso nel ciceroniane­simo umanistico e rinascimentale: si tratta de Il
libro del cortegiano di Baldesar Castiglione e dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.
Il primo, infatti, tracciando il quadro del perfetto cavaliere di corte, ne fa sì un
elemento estetico che adorna la corte, che ha natura politica e militare, ma anche
una figura staccata del tutto da ogni efficienza pratica. Baldesar potrà anche insistere
sulla necessità che il cortegiano sia consigliere del signore, ma di fatto egli non
avrà né una bagaglio culturale politico, filosofico o storico, né retorico, persuasivo
del signore o dei sudditi. La sua funzione è tutta in una comunicazione ’graziosa’,
eminentemente verbale, della propria grazia. Il comunica­tore, tautologicamente,
si esaurisce nella comunicazione: l’emittente si identifica nel suo prodotto. La
comunicazione artistica e letteraria, teorizzata dal Castiglione, è totalità di vita: si
tratta di una delle prime chiare ed esplicite enunciazioni di una funzione sempre
presente nella storia culturale italiana, ma non sempre con tanta chiarezza. A ciò
s’aggiunga l’affermazione che « grazia » del cortegiano non è trasmissibile perché
è un dono innato che viene recepito misteriosa­mente, non certo comunicato.
E s’aggiunga che la dinamica appena tratteggiato si manifesta esclusivamente
all’interno della corte: l’esterno non è corte e i suoi protagonisti non hanno ragion
d’essere; e tanto meno di comunicare.
La sfiducia che Ludovico Ariosto nutre nei confronti della lettera­tura corrisponde
alla più generale disistima della cultura rinascimentale; per altro verso tale
disistima andrebbe coordinata con il piacere dell’invenzione ed il pubblico di
intellettuali che pure egli ha ben presente nella composizione del Furioso. Certo,
tuttavia, il discorso di Giovanni Evangelista ad Astolfo sulla Luna, come d’altra
parte tutto l’episodio dell’impazzimento d’Orlando sembrano suggerire un atteg­
giamento più critico, meno fiducioso nei confronti della letteratura e dei letterati.
La ormai secolare riflessione sulla natura della poesia aveva, a partire da Petrarca
e da Boccaccio, cercato di sottrarre la poesia all’accusa di falsità e di inganno;
il ciceronianesimo umanistico aveva calcato sul vir bonus, dicendi peritus e su tutte
le varianti che potevano rendere attuale la figura degli scrittori e soprattutto
sulla convenienza del rapporto di fiducia tra emittente che comunica la virtù e
il destinatario che quella virtù deve imparare e mettere in atto. Ariosto mette in
crisi prima di tutto (ma sono operazioni sincrone) la fiducia del lettore in ciò che
sta scritto: Orlando non vuol credere non solo ai nomi che, intrecciati, legge sulle
scorze degli alberi, ma neppure alla poesia che fa il nome dell’amata. Spera, vuol
credere, che l’intenzione di chi scrive sia di fargli credere una cosa non vera, o di
ottenere che egli si disamori della bella Angelica. Chi scrive, insomma, non può
essere certo che il lettore intenda, o voglia intendere il messaggio: la passione
d’amore, dunque un fattore non razionale, impedisce che sia interpretato
correttamente ciò che è scritto.
Il discorso può anche essere capovolto: non solo la perizia della scrittura non
garantisce più, come Petrarca aveva sostenuto, dell’onestà di chi scrive, ma è,
anche nei grandi come Omero e Virgilio, fortemente condizionata dagli interessi
economici. Lo stesso Giovanni, il santo che accompagna Astolfo nel percorso
lunare, gode di una posizione privilegiato in Paradiso, in virtù di quanto ha
scritto sul Cristo. Ariosto denuncia, così, in modi paradossali, la minaccia insita
nel mecenatismo rinascimentale alla libertà dell’ispirazione e alla veridicità della
comunicazione letteraria. L’esito è una concezione della letteratura decisamente
direzionata al diletto estetico dell’opera, visto che questa non può contare – in
tutto o in parte – più sull’apporto dell’utile che le veniva da contenuti veridici.
Ludovico è assai più vicino ad Aristotele di quanto egli stesso non sospetti: ché
il diletto deriva dall’organizzazione degli elementi narrativi e formali che strut­
turano l’opera, e si limita alla sua fruizione in sé, senza la necessità che venga
trasportata fuori del letterario per trasformarsi in comportamenti o nozioni
filosofico-scientifiche.
Notoriamente i punti di riferimento dell’Ariosto sono umanisti come Jacopo
Sadoleto, Tito Vespasiano ed Ercole Strozzi e soprattutto Pietro Bembo il quale
aveva con maggior determinazione reciso il legame che collegava la letteratura alla
realtà. Benché l’operazione di Bembo porti di fatto all’esclusione della produzione
di origine popolare (alla quale tendeva N. Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno
alla nostra lingua), con sì destinazione diversa da quella nata all’ombra delle corti,
ma anche con diversi ispirazioni ed usi, occorrerà riconoscere all’autore delle
Prose della volgar lingua l’impostazione dell’auto­sufficienza della comunicazione
letteraria. La sua teoria linguistica si basa su una sostan­ziale tautologia: la
lingua migliore è quella utilizzata nelle opere migliori (il Canzoniere di Petrarca
ed il Decameron di Boccaccio), le opere migliori producono la lingua migliore. In
questo modo Bembo metteva in atto un procedimento di comunicazione che non
faceva più riferimento al fruitore, bensì al modello: il lettore insomma non era
più il destinatario dell’insegnamento di qualcosa, ma era chiamato per un verso a
valutare l’aderenza dell’opera al modello, e per altro ad apprendere e a ripetere
il modello linguistico e formale proposto. Alla fin dei conti si trattava di ipotizzare
una comunicazione letteraria nella quale i ruoli di emittente e destinatario
fossero in ogni momento interscambiabili: il che equivaleva a mettere le basi
dell’accademia, costituita da lettori scrittori e da scrittori lettori, ossia di scrittori
che erano i soli destinatari delle opere di altri scrittori. Che è poi quello che si
può intravedere nella conclusione dell’Orlando furioso, nell’arrivo al porto della
nave del poema.
La medesima tensione estetizzante e fortemente diretta al diletto for­male
si rinviene anche negli aristotelici di più stretta osservanza come Gian Giorgio
Trissino e Lodovico Castelvetro. Il Trissino nella monu­mentale Poetica affermò
che senza il piacere non è possibile giustificare il docere: così i 27 libri dell’Italia
liberata dai Goti sono un grande esperimento metrico, come lo sono I simillimi (che
traducevano la varietà metrica dei Menaechmi di Plauto) e la Sofonisba, che fu la prima
tragedia costruita secondo le regole della Poetica aristotelica. S’è già accennato
al fraintendimento, comune ai commentatori rinascimentali, della imitazione:
in Trissino è esplicitata quando afferma che lo strumento primo del piacere
generato dall’imitazione è costituito dalle parole, dalla rima e dall’armonia;
tuttavia a differenza del Bembo e del Castiglione la comunicazione letteraria
non è indirizzata ad una élite culturale: di Aristotele trapassa la destinazione, per
dir così, allargata della comunicazione letteraria, che oltre ad essere « soave » e
« vaga » dev’essere « chiara » affinché possa essere fruita da un pubblico vasto.
La moltitudine « rozza », addirittura, è in Castelvetro il destinatario della
letteratura: il popolo semplice che non è in grado di comprendere i temi complessi
e sottili degli uomini colti. In Lodovico Castelvetro agisce la lezione ’democratica’
d’Aristotele il quale fissava le tre famose unità, d’azione di tempo e di luogo, in
funzione della capacità ricettiva del pubblico, che grazie ad esse veniva portato in
medias res e non era costretto ad integrare e legare le parti mancanti della narrazione
con quelle effettivamente narrate o recitate. Sarebbe tuttavia parziale limi­tare a
questo l’aristotelismo del Castelvetro, che invece seppe impron­tare a modernità
alcuni aspetti della Poetica. In particolare seppe cogliere con buona approssimazione
il concetto di verosimiglianza che riaffermò l’autosufficienza della creazione
letteraria. Se, infatti, la storia riproduce ciò che è realmente accaduto, la poesia
ritrae l’« universale »: questo non solo è, a differenza della nozione platonica, ciò
che poteva avvenire e non è mai avvenuto, ma è anche ciò che non è mai stato
narrato da alcuno scrittore. Sì che una delle prime caratteristiche della scrittura
letteraria è la sua originalità contenutistica. S’aggiunga che il soggetto dev’essere
costruito secondo le regole della verosimiglianza. E di ciò s’è già detto: quello
che è rimarchevole è che metro e misura della verosimiglianza è la convenientia
oraziana, in nome della quale Castelvetro corregge il filosofo greco che aveva
indicato l’opportunità che lo scrittore rappresentasse le passioni che egli stesso
provava. La convenientia esigeva una misura una ragionevolezza largamente condi­
visibile, che l’appassionato non era in grado d’assicurare. Per questa via l’opera
della fantasia in grazia dell’universale diventava altro dalla verità storica ed in
grazia della convenientia rivendicava una sua propria autonomia rispetto all’autore
suo stesso, ed evitava il rischio di diventare confessione personale dello scrittore,
alla maniera di Dante e di Petrarca, citati dal Castelvetro, e contestati.
Solo questioni di spazio e di funzionalità didattica hanno consigliato di
omettere gli interventi di Francesco Robortello (primo commen­tatore della
Poetica), di Cristoforo Landino (commentatore dell’Arte poetica di Orazio), di G. M.
Vida, di L. Salviati, del Giraldi Cinzio e di quei tanti di cui si può trovare larga ed
esaustiva trattazione in B. Weinberg. In tutti è possibile trovare una impostazione
personale del problema letteratura e della comunicazione letteraria. In questa
sede siamo costretti a fermarci solo su pochi e quindi sugli autori che evi­denziano
con maggiore icasticità il tema della comunicazione letteraria. Tra i quali un posto
peculiare ci sembra occupare Sperone Speroni, con i suoi Dialogo della lingua e
Dialogo della retorica. Di lui vale sottolineare la riserva, in vero presente anche in altri,
ma qui non solo espressa con grande convinzione, ma anche capace di tradursi in
risultati di buon rilievo; dicevamo la riserva nei confronti della tradizione letteraria
italiana imbrigliata in maniera pressoché esclusiva nella tematica d’amore. Questo
avrebbe escluso dalla letteratura la possibilità vera di giovare e di affidare ad una
comunicazione letteraria, formalmente piacevole, il compito di informare sulle
verità della filosofia della politica e della scienza. È possibile una comunicazione
esteticamente accettabile anche di contenuti utili alla convivenza civile: ché, alla
fin fine, la lingua è il collante della vita civile. Lo Speroni non intende sovvertire
la visione dilettevole della comunicazione letteraria: egli intende premettere
agli esiti irrazionali, alla commozione degli affetti, una matrice conoscitiva e
politica allo stesso tempo che fun­zionalizzi la persuasione alla accettazione delle
dinamiche della storia e della realtà: dinamiche che sono sempre in movimento e
non sempre sono facilmente accessibili a tutti. Insomma egli cercava di riportare
la comunicazione letteraria, che resta caratterizzata dalla ciceroniana suavitas,
nell’ambito della dimensione dell’utile civile: la stessa poesia, pur quella della
tradizione petrarchesca, diviene strumento d’educa­zione e d’affinamento: « Al
vulgo, poiché non sa nulla né fa pensier di sapere, e pur è parte della repubblica,
l’orazioni e le rime son tutto ’l cibo e tutto ’l frutto della sua vita » (Dialogo della
retorica).
Erede della tradizione platonica umanistica di Gioviano Pontano e di Jacopo
Sannazaro, Girolamo Fracastoro occupa nel Cinquecento un posto di grande
rilievo per originalità e chiarezza di pensiero: il Nau­gerius resta una delle opere più
interessanti di quel periodo storico. Lo Ione di Platone ne è il riferimento principale
insieme con la Poetica di Aristotele: da entrambe le opere greche Fracastoro
deriva l’idea che oggetto della poesia è l’universale assoluto: il poeta non vuole
rappresentare questa o quella parte, ma mira a esprimere l’universale, bellissima
idea del Creatore. Sacerdote di una religione laica, il poeta soddisfa al bisogno di
bellezza ed armonia insito nell’uomo: così è che la comunicazione letteraria, che
nel suo aspetto formale rispecchia l’idea, è rivelazione, epperciò insegnamento e
civilizzazione. Tra i più fervidi sostenitori di tale funzionalità religiosa della poesia
Francesco Patrizi sostenne che « il poeta non può non essere maravigliosissimo
facitore, poscia che nel far suo si fece emolo quasi a Dio, ed emolo alla natura, ed
emolo a tutti tre li generi degli artisti e superiore ad essi ».
Se si fa eccezione dello Speroni, tanto la corrente più strettamente aristotelica
quanto quella più marcatamente platonica – entrambe poi convergenti nel
ciceronianesimo –, vuoi sostenendo la necessità dell’i­mitazione degli antichi, vuoi
garantendo l’autonomia del furor, di fatto staccavano la letteratura dalla fruizione
del pubblico inteso come gruppo più o meno vasto collocato in un contesto
storico. Il distacco dalla realtà storica, se provocava un largo varco attraverso il
quale sarebbe passato il vago e l’indeterminato nella nostra letteratura, procu­
rava alla letteratura una dimensione autonoma, parametrata sull’estetica, capace
di garantirle la permanenza nella cultura nazionale e sovrana­zionale. Sarà Tasso
che avvertirà, talora drammaticamente, la dicotomia tra bisogno di allettare il
pubblico e necessità di far passare attraverso la letteratura un messaggio di verità
e di educazione. Partito dall’affer­mazione che fondamento del poema epico è la
verità storica d’un’azione (di una sola) illustre, alla quale verità mai rinuncerà, egli
poi andrà concedendo alle esigenze di meraviglioso e di varietà, che il pubblico
aveva espresso col largo consenso dato all’Orlando furioso, lo spazio della religione
cristiana capace di coordinarsi alla verità senza scalfirne la solidità. La ricerca svolta
dal Tasso nei Dialoghi sul poema eroico insomma mostra le tensioni che si ponevano
in atto tra emittente e destinatario, tra le convinzioni, o se si vuole i sentimenti
del primo, e le richieste del secondo per accordargli il consenso. Insomma il
poeta della Gerusalemme liberata mette a nudo le difficoltà che crea la presenza di
un pubblico vasto in grado di imporsi più o meno perentoriamente allo scrittore
all’atto stesso della creazione letteraria. I Dialoghi cercano un compromesso che
salvaguarda i diritti di dignità e di nobiltà dello scrittore, ma oramai nella storia
della comunicazione letteraria è entrato il germe di quello che condizionerà la
figura dello scrittore sino a farne (o a cercare di farne) l’interprete dei gusti del
pubblico.
Niccolò Machiavelli
La questione della lingua risale al De vulgari eloquentia di Dante; e già in
nell’Alighieri essa si configurava come ricerca del canone letterario: quando, ad
esempio, il poeta stabiliva precise corrispondenze tra la lingua illustre cardinale
aulica e curiale e le forme ed i contenuti della canzone. La discussione sulla
lingua da allora in poi era sempre stata fondamentalmente discussione sulla
comunicazione letteraria, mentre il linguaggio parlato era andato occupando spazi
decisamente ristretti e secondari.
Gli anni di cui ci stiamo occupando, tra gli ultimi decenni del Quattrocento
ed i primi del Cinquecento, la questione della lingua si riaccende con significati
ed implicazioni più complesse: l’invenzione della stampa, con la diffusione del
libro e della letteratura a strati, certo non popolari, ma ampi della società e
soprattutto con il rafforzarsi della connotazione commerciale se non industriale
del libro, doveva creare le condizioni per una ripresa problematica sullo sfondo
di vari processi d’emersione: quello di un pubblico dislocato diffusamente sul
territorio peninsulare e desideroso di partecipare all’elaborazione culturale;
quello di una schiera di scrittori che volevano colloquiare con quel pubblico e
non erano più disposti al lungo lavoro di revisione e riscrittura in un contesto
che sollecita interventi e risposte; quello, altrettanto urgente, del bisogno della
definizione di una norma vuoi linguistica vuoi stilistica e, alla fin fine, del bisogno
di un canone letterario, sulla base del quale valutare esperienze individuali.
E, ancora, ma non seconda­riamente, l’emergere dell’affollarsi delle proposte
culturali, delle voci di intellettuali seri e intellettuali pretesi. E poi la creazione
dei problemi legati alla tecnica adottata: quello dell’editore, quello del diritto
d’autore, quello del trasporto della carta. Lo scrittore si trova così inserito in
un contesto assai più condizionante di quanto non fosse stato quello costituito
nei secoli precedenti dall’introduzione dei torchi: Petrarca e Boccaccio s’erano
dedicati per decenni interi alla loro opera rincorrendo una perfezione formale che
si confrontava con l’eternità e la gloria; gli anni dell’Umanesimo, quelli del Salutati
e del Valla, ma anche quelli di Lorenzo del Poliziano e del Pulci, pur proseguendo
nell’imitazione del modello petrarchesco, avevano proseguito nella convinzione
della letteratura come esperienza individuale aperta tutt’al più ad un pubblico,
comunque e sempre, omogeneo allo scrittore. Con l’introduzione della stampa
nella produzione intellettuale s’introducono disomogeneità e concorrenza: « Li
stampatori da la nuova forma / trovata per far libri in abondantia / mertan per
tutt’el mondo nomi­nancia / et gloria et fructo cum notabel norma, / perciò che per
suo mezo se pon fare / letrate et docte tutte le persone / ch’an intellecto, cum
mente prone / al studio, … ». Va da sé che la l’introduzione della stampa non
valse da sola a stabilire parametri di maggiore popolarità o di maggiore dialettica
culturale. I modelli già operanti, Petrarca in particolar modo e Boccaccio trionfanti,
Dante viepiù in subordine, valsero invece a mantenere la cultura in un canone
classicistico – Bembo e modello bembiano – sia per quanto attiene alla lingua
e allo stile della comunicazione letteraria sia per ciò che attiene al contenuto da
trattare e far passare. Ciò non ostante talune esperienze, come quella di Boiardo,
e come quella fiorentina dei Machiavelli dei Gelli dei Doni, produssero esiti
importanti se non duraturi.
Il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, attribuito a Niccolò Machiavelli, tenta
un’operazione di qualche rilievo. Ebbene, egli dice, uno dei padri protettori del
canone letterario, Boccaccio, dichiara apertamente che la lingua adoperata è la
fiorentina; Petrarca non dice nulla in proposito; Dante, invece, « afferma non avere
�
Bettino da Trizzo, Letilogia: la citazione è tratta da A. Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, a c. A. Asor Rosa, v. 2, Torino, Einaudi, 1983,
p. 570; qui si rimanda per la bibliografia completa.
scritto in fiorentino, ma in una lingua curiale ». Per Machiavelli l’affermazione
dantesca deriverebbe da un indomabile astio che il poeta avrebbe nutrito
nei confronti della sua città, in ciò venendo meno alla scienza e alla dottrina,
di cui sempre, per altro, egli darebbe prova. Basta, però, leggere la Commedia,
ed in particolare l’Inferno, per accorgersi che la lingua utilizzata è la fiorentina,
e soprattutto quella parlata. L’autore del discorso, con qualche superficialità e
generalizzazione tenta di far passare sì la tesi della fiorentinità delle corone del
canone, ma anche quella che il canone letterario adopera largamente un linguaggio
vivo e dinamico, non fissato nel modello classicistico volgare o latino come poi
sarà proposto da Bembo. Anzi, esistono generi letterari, come la commedia, per
i quali la lingua parlata è d’obbligo, pena la perdita d’immediatezza e fruibilità
da parte del pubblico: « Ma perché le cose sono trattate ridiculamente, conviene
usare termini e motti che faccino questi effetti, i quali termini, se non son proprii
e patrii, dove sieno soli, interi e noti, non muovono né posson muovere ». Per di
più quegli stessi generi si fanno portatori di contenuti diversi da quelli canonici,
assai più aderenti alla vita reale, forse per questo scartati dalla scrittori « gravi »,
e tuttavia portatori di frutti morali paragonabili a quelli che l’altra, alta, letteratura
porta: « Dico ancora come si scrivano molte cose che, senza scrivere i motti e i
termini proprii patrii, non sono belle. Di questa sorte sono le commedie; perché,
ancora che il fine d’una commedia sia proporre uno specchio d’una vita privata,
nondimeno il suo modo del farlo è con certa urbanità e termini che muovino riso,
acciò che gli uomini, correndo a quella delettazione, gustino poi l’esemplo utile
che vi è sotto. E perciò le persone con chi difficilmente possano essere persone
gravi, la trattano; perché non può esser gravità in un servo fraudolente, in un
vecchio deriso, in un giovane impazzato d’amore, in una puttana lusinghiera, in un
parasito goloso; ma ben ne risulta di questa composizione d’uomini effetti gravi
e utili alla vita nostra ».
In questa sede basterà limitarsi ad osservare come di fatto la comunicazione
letteraria assumeva temi ed argomenti diversi a seconda del canone linguisticostilistico prescelto. Naturalmente vale anche il discorso inverso, che cioè ritagliato
un ruolo della letteratura scaturiva di conseguenza il canone linguistico stilistico.
E ci limiteremo ad osser­vare che l’autore del Discorso punta la sua attenzione su
un pubblico, forse anche popolare, certo determinato nel tempo e nello spazio e
certo disomogeneo rispetto allo scrivente, che, per la necessità di averlo partecipe
sia della fabula rappresentata sia del suo significato, diventa il destinatario della
comunicazione letteraria, sia pure delimitata ad un genere specifico d’immediato
consumo. La stampa non è il teatro: ma con la stampa il teatro ha in comune
l’anonimato del pubblico e il supposto diverso livello culturale. Di qui la necessità
di un canone linguistico immediatamente fruibile da parte dello spettatore
come lo sarà quello destinato al lettore. Viene così messo in crisi un certo tipo
d’intellettuale che affidava la sua gravitas alla abilità formale, per pro­porne un
diverso modello capace di rendersi utile: non è, infatti, un caso che di lì a poco,
in Gelli ad esempio, il letterato che non scriva in volgare venga additato come
millantatore e falso dotto. Non è un caso che il Principe – ma così pure i Discorsi e
tutte le opere del segretario – venga scritto in un fiorentino moderno, e di getto,
quasi a cancellare ogni elaborazione formale, ma anche quasi a far coincidere
la comu­nicazione scritta con quella orale e l’una e l’altra con la comunicazione
funzionale, anche se di pensiero politico operativo.
Mandragola
Niccolò Machiavelli
PERSONAGGI
Callimaco
Siro
Messer Nicia
Ligurio
Sostrata
Frate Timoteo
Una donna
Lucrezia
Canzone
da dirsi innanzi alla commedia,
cantata da ninfe e pastori insieme
Perché la vita è brieve
e molte son le pene
che vivendo e stentando ognun sostiene;
dietro alle nostre voglie,
andiam passando e consumando gli anni,
ché chi il piacer si toglie
per viver con angosce e con affanni,
non conosce gli inganni
del mondo; o da quai mali
e da che strani casi
oppressi quasi sian tutti i mortali.
Per fuggir questa noia,
eletta solitaria vita abbiamo,
e sempre in festa e in gioia
giovin leggiadri e liete Ninfe stiamo.
Or qui venuti siamo
con la nostra armonia,
sol per onorar questa
sí lieta festa e dolce compagnia.
Ancor ci ha qui condutti
il nome di colui che vi governa,
in cui si veggon tutti
i beni accolti in la sembianza eterna
Per tal grazia superna,
per sí felice stato,
potete lieti stare,
godere e ringraziare chi ve lo ha dato.
PROLOGO
Iddio vi salvi, benigni uditori,
quando e’ par che dependa
questa benignità da lo esser grato.
Se voi seguite di non far romori,
noi vogliàn che s’intenda
un nuovo caso in questa terra nato.
Vedete l’apparato,
qual or vi si dimostra:
quest’è Firenze vostra,
un’altra volta sarà Roma o Pisa,
cosa da smascellarsi delle risa.
Quello uscio, che mi è qui in sulla man ritta,
la casa è d’un dottore,
che ’mparò in sul Buezio legge assai;
quella via, che è colà in quel canto fitta,
è la via dello Amore,
dove chi casca non si rizza mai;
conoscer poi potrai
a l’abito d’un frate
qual priore o abate
abita el tempio che all’incontro è posto,
se di qui non ti parti troppo tosto.
Un giovane, Callimaco Guadagni,
venuto or da Parigi,
abita là, in quella sinistra porta.
Costui, fra tutti gli altri buon compagno,
a’ segni ed a’ vestigi
l’onor di gentilezza e pregio porta.
Una giovane accorta
fu da lui molto amata,
e per questo ingannata
fu, come intenderete, ed io vorrei
che voi fussi ingannate come lei.
La favola Mandragola si chiama:
la cagion voi vedrete
nel recitarla, come io m’indovino.
Non è el componitor di molta fama;
pur, se vo’ non ridete,
egli è contento di pagarvi il vino.
Uno amante meschino,
un dottor poco astuto,
un frate mal vissuto,
un parassito, di malizia el cucco,
fien questo giorno el vostro badalucco.
E, se questa materia non è degna,
per esser pur leggieri,
d’un uom, che voglia parer saggio e grave,
scusatelo con questo, che s’ingegna
con questi van pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perch’altrove non have
dove voltare el viso,
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.
El premio che si spera è che ciascuno
si sta da canto e ghigna,
dicendo mal di ciò che vede o sente.
Di qui depende, sanza dubbio alcuno,
che per tutto traligna
da l’antica virtú el secol presente,
imperò che la gente,
vedendo ch’ognun biasma,
non s’affatica e spasma,
per far con mille suoi disagi un’opra,
che ’l vento guasti o la nebbia ricuopra.
Pur, se credessi alcun, dicendo male,
tenerlo pe’ capegli,
e sbigottirlo o ritirarlo in parte,
io l’ammonisco, e dico a questo tale
che sa dir male anch’egli,
e come questa fu la sua prim’arte,
e come, in ogni parte
del mondo ove el sí sona,
non istima persona
ancor che facci el sergieri a colui,
che può portar miglior mantel che lui.
Ma lasciàn pur dir male a chiunque vuole.
Torniamo al caso nostro
acciò che non trapassi troppo l’ora.
Far conto non si de’ delle parole,
né stimar qualche mostro,
che non sa forse s’ e’ si è vivo ancora.
Callimaco esce fuora
e Siro con seco ha,
suo famiglio, e dirà
l’ordin di tutto. Stia ciascuno attento,
né per ora aspettate altro argumento.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Callimaco, Siro.
CALLIMACO Siro, non ti partire, i’ ti voglio un poco.
SIRO Eccomi.
CALLIMACO Io credo che tu ti maravigliassi assai
della mia subita partita da Parigi; ed ora ti maravi­
gli, sendo io stato qui già un mese sanza fare alcuna
cosa.
SIRO Voi dite el vero.
CALLIMACO Se io non ti ho detto infino a qui quello
che io ti dirò, non è stato per non mi fidare di te, ma
per iudicare, che le cose che l’uomo vuole non si sap­
pino, sia bene non le dire, se non forzato. Pertanto,
pensando io di potere avere bisogno della opera tua,
ti voglio dire el tutto.
SIRO Io vi sono servitore: e servi non debbono mai
domandare e padroni d’alcuna cosa, né cercare alcu­
no loro fatto, ma quando per loro medesimi le dica­
no, debbono servirgli con fede; e cosí ho fatto e sono
per fare io.
CALLIMACO Già lo so. Io credo che tu mi abbi sentito
dire mille volte, ma e’ non importa che tu lo inten­
da mille una, come io avevo dieci anni quando da
e mia tutori, sendo mio padre e mia madre morti, io
fui mandato a Parigi, dove io sono stato venti anni. E
perché in capo di dieci cominciorono, per la passa­
ta del re Carlo, le guerre in Italia, le quali ruinorono
quella provincia, deliberai di vivermi a Parigi e non
mi ripatriare mai, giudicando potere in quel luogo vi­
vere piú sicuro che qui.
SIRO Egli è cosí.
CALLIMACO E commesso di qua che fussino venduti
tutti e mia beni, fuora che la casa, mi ridussi a vivere
quivi, dove sono stato dieci altr’anni con una felicità
grandissima...
SIRO Io lo so.
CALLIMACO ...avendo compartito el tempo parte alli
studii, parte a’ piaceri, e parte alle faccende. Ed in
modo mi travagliavo in ciascuna di queste cose, che
l’una non mi impediva la via dell’altra. E per questo,
come tu sai, vivevo quietissimamente, giovando a
ciascuno, ed ingegnandomi di non offendere per­
sona: tal che mi pareva essere grato a’ borghesi, a’
gentiluomini, al forestiero, al terrazzano, al povero
ed al ricco.
SIRO Egli è la verità.
CALLIMACO Ma, parendo alla Fortuna che io aves­
si troppo bel tempo, fece che e’ capitò a Parigi uno
Cammillo Calfucci.
SIRO Io comincio a indovinarmi del male vostro.
CALLIMACO Costui, come gli altri fiorentini, era spes­
so convitato da me; e, nel ragionare insieme, accad­
de un giorno che noi venimmo in disputa dove erono
piú belle donne, o in Italia o in Francia. E perché io
non potevo ragionare delle italiane, sendo sí piccolo
quando mi partii, alcuno altro fiorentino, che era pre­
sente, prese la parte franzese, e Cammillo la italiana;
e, dopo molte ragione assegnate da ogni parte, dis­
se Cammillo, quasi che irato, che, se tutte le donne
italiane fussino monstri, che una sua parente era per
riavere l’onore loro.
SIRO Io sono or chiaro di quello che voi volete dire.
CALLIMACO E nominò madonna Lucrezia, moglie di
messer Nicia Calfucci: alla quale dette tante laude
e di bellezza e di costumi, che fece restare stupidi
qualunche di noi, ed in me destò tanto desiderio di
vederla, che io, lasciato ogni altra deliberazione, né
pensando piú alle guerre o alle pace d’Italia, mi mes­
si a venire qui: dove arrivato, ho trovato la fama di
madonna Lucrezia essere minore assai che la verità,
il che occorre rarissime volte, e sommi acceso in tan­
to desiderio d’esser seco, che io non truovo loco.
SIRO Se voi me ne avessi parlato a Parigi, io saprei
che consigliarvi; ma ora non so io che mi vi dire.
CALLIMACO Io non ti ho detto questo per voler tua
consigli, ma per sfogarmi in parte, e perché tu prepa­
ri l’animo ad aiutarmi, dove el bisogno lo ricerchi.
SIRO A cotesto son io paratissimo; ma che speranza
ci avete voi?
CALLIMACO Ahimè! Nessuna o poche. E dicoti: In
prima mi fa la guerra la natura di lei, che è onestis­
sima e al tutto aliena dalle cose d’amore; avere el
marito ricchissimo, e che al tutto si lascia governare
da lei, e, se non è giovane, non è al tutto vecchio,
come pare; non avere parenti o vicini, con chi ella
convenga ad alcuna vegghia o festa o ad alcuno altro
piacere, di che si sogliono delettare le giovane Delle
persone mecaniche non gliene capita a casa nessu­
na; non ha fante né famiglio, che non tremi di lei in
modo che non ci è luogo ad alcuna corruzione.
SIRO Che pensate, adunque, di poter fare?
CALLIMACO E’ non è mai alcuna cosa sí desperata,
che non vi sia qualche via da poterne sperare; e ben­
ché la fussi debole e vana, e la voglia e il desiderio,
che l’uomo ha di condurre la cosa, non la fa parere
cosí.
SIRO Infine, e che vi fa sperare?
CALLIMACO Dua cose: l’una, la semplicità di messer
Nicia, che, benché sia dottore, egli è el piú semplice
ed e il più sciocco omo di Firenze; l’altra, la voglia
che lui e lei hanno di avere figliuoli, che, sendo stata
sei anni a marito e non avendo ancor fatti, ne hanno,
sendo ricchissimi, un desiderio che muoiono. Una
terza ci è, che la sua madre è suta buona compagna,
ma la è ricca, tale che io non so come governarmene
SIRO Avete voi per questo tentato per ancora cosa
alcuna?
CALLIMACO Sí ho, ma piccola cosa.
SIRO Come?
CALLIMACO Tu conosci Ligurio, che viene continua­
mente a mangiar meco. Costui fu già sensale di ma­
trimoni, dipoi s’è dato a mendicare cene e desinari e
perché gli è piacevole uomo, messer Nicia tien con
lui una stretta dimestichezza, e Ligurio l’uccella; e
benché nol meni a mangiare seco, li presta alle volte
danari. Io me lo son fatto amico, e gli ho comunicato
el mio amore, lui m’ha promesso d’aiutarmi con le
mane e co’ piè.
SIRO Guardate e’ non v’inganni: questi pappatori
non sogliono avere molta fede.
CALLIMACO Egli è el vero. Nondimeno, quando una
cosa fa per uno, si ha a credere, quando tu gliene
communichi, che ti serva con fede. Io gli ho promes­
so, quando e’ riesca, donarli buona somma di dana­
ri; quando non riesca, ne spicca un desinare ed una
cena, ché ad ogni modo non mangerei solo.
SIRO Che ha egli promesso insino a qui, di fare?
CALLIMACO Ha promesso di persuadere a messer
Nicia che vada con la sua donna al bagno in questo
maggio.
SIRO Che è a voi cotesto?
CALLIMACO Che è a me! Potrebbe quel luogo farla
diventare d’un’altra natura, perché in simili lati non
si fa se non festeggiare. E io me n’andrei là, e vi con­
durrei di tutte quelle ragion’ piaceri che io potessi,
né lascerei indrieto alcuna parte di magnificenzia;
fare’mi familiar suo, del marito. Che so io? Di cosa
nasce cosa, e il tempo la governa.
SIRO E’ non mi dispiace.
CALLIMACO Ligurio si partí questa mattina da me,
e disse che sarebbe con messer Nicia sopra questa
cosa, e me ne risponderebbe.
SIRO Eccogli di qua insieme.
CALLIMACO Io mi vo’ tirare da parte, per essere a
tempo a parlare con Ligurio, quando non si spicca
dal dottore. Tu intanto, ne va’ in casa alle tue faccen­
de, e, se io vorrò che tu facci cosa alcuna, io tel dirò.
SIRO Io vo.
SCENA SECONDA
Messer Nicia, Ligurio.
NICIA Io credo ch’e tua consigli sien buoni, e parla’ne
iersera alla donna. Disse che mi risponderebbe oggi;
ma, a dirti el vero, io non ci vo di buone gambe.
LIGURIO Perché?
NICIA Perché io mi spicco mal volentieri da bomba.
Dipoi, ad avere a travasare moglie, fante, masserizie,
ella non mi quadra. Oltra di questo, io parlai iersera
a parecchi medici. L’uno dice che io vadia a San Filip­
po, l’altro alla Porretta, e l’altro alla Villa; e’ mi parvo­
no parecchi uccellacci; e a dirti el vero, questi dottori
di medicina non sanno quello che si pescono.
LIGURIO E’ vi debbe dar briga, quello che voi dicesti
prima, perché voi non sete uso a perdere la Cupola
di veduta.
NICIA Tu erri! Quando io ero piú giovane, io son stato
molto randagio. E non si fece mai la fiera a Prato, che
io non vi andassi; e non c’è castel veruno all’intorno,
dove io non sia stato; e ti vo’ dire piú là: io sono stato
a Pisa ed a Livorno, oh va’!
LIGURIO Voi dovete avere veduto la carrucola di
Pisa.
NICIA Tu vuo’ dire la Verrucola.
LIGURIO Ah! sí, la Verrucola. A Livorno, vedesti voi
el mare?
NICIA Bene sai che io il vidi!
LIGURIO Quanto è egli maggiore che Arno?
NICIA Che Arno? Egli è per quattro volte, per piú di
sei, per piú di sette, mi farai dire: e’ non si vede se
non acqua, acqua, acqua.
LIGURIO Io mi maraviglio, adunque, avendo voi pi­
sciato in tante neve, che voi facciate tanta difficultà
d’andare ad uno bagno.
NICIA Tu hai la bocca piena di latte. E’ ti pare a te
una favola avere a sgominare tutta la casa? Pure, io
ho tanta voglia d’avere figliuoli, che io son per fare
ogni cosa. Ma parlane un poco tu con questi maestri,
vedi dove e’ mi consigliassino che io andassi; e io
sarò intanto con la donna, e ritroverrenci.
LIGURIO Voi dite bene.
SCENA TERZA
Ligurio, Callimaco.
LIGURIO Io non credo che sia nel mondo el più scioc­
co uomo di costui; e quanto la fortuna lo ha favorito!
Lui ricco, lei bella donna, savia, costumata, ed atta a
governare un regno. E parmi che rare volte si verifichi
quel proverbio ne’ matrimoni, che; “Dio fa gli uomi­
ni, e’ si appaiono”; perché spesso si vede uno uomo
ben qualificato sortire una bestia e, per avverso, una
prudente donna avere un pazzo. Ma della pazzia di
costui se ne cava questo bene, che Callimaco ha che
sperare. Ma eccolo. Che vai tu apostando, Callima­
co?
CALLIMACO Io ti aveva veduto col dottore, ed aspet­
tavo che tu ti spiccassi da lui, per intendere quello
avevi fatto.
LIGURIO Egli è uno uomo della qualità che tu sai, di
poca prudenzia, di meno animo: e partesi mal volen­
tieri da Firenze. Pure, io ce l’ho riscaldato, e mi ha
detto infine che farà ogni cosa. E credo che, quando
e’ ti piaccia questo partito, che noi ve lo condurreno;
ma io non so se noi ci fareno el bisogno nostro.
CALLIMACO Perché?
LIGURIO Che so io? Tu sai che a questi bagni va
d’ogni qualità gente, e potrebbe venirvi uomo a chi
madonna Lucrezia piacessi come a te, che fussi ricco
più di te, che avessi piú grazia di te: in modo che si
porta pericolo di non durare questa fatica per altri, e
che intervenga che la copia de’ concorrenti la faccino
piú dura, o che dimesticandosi, la si volga ad un altro
e non a te.
CALLIMACO Io conosco che tu di’ el vero. Ma come
ho a fare? Che partito ho a pigliare? Dove mi ho a vol­
gere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande,
sia periculosa, sia dannosa, sia infame. Meglio è mo­
rire che vivere cosí. Se io potessi dormire la notte, se
io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io
potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei piú
paziente ad aspettare el tempo; ma qui non ci è ri­
medio; e, se io non sono tenuto in speranza da qual­
che partito, io mi morrò in ogni modo; e, veggendo
di avere a morire, non sono per temere cosa alcuna,
ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele, ne­
fando.
LIGURIO Non dire così, raffrena cotesto impeto del­
l’animo.
CALLIMACO Tu vedi bene che, per raffrenarlo, io mi
pasco di simili pensieri. E però è necessario o che
noi seguitiamo di mandare costui al bagno, o che noi
entriamo per qualche altra via, che mi pasca d’una
speranza, se non vera, falsa almeno, per la quale io
nutrisca un pensiero, che mitighi in parte tanti mia
affanni.
LIGURIO Tu hai ragione, ed io sono per farlo.
CALLIMACO Io lo credo, ancora che io sappia ch’e
pari tuoi vivino d’uccellare li uomini. Nondimanco,
io non credo essere in quel numero, perché, quan­
do tu el facessi ed io me ne avvedessi, cercherei di
valermene, e perderesti ora l’uso della casa mia, e
la speranza di avere quello che per lo avvenire t’ho
promesso.
LIGURIO Non dubitare della fede mia, ché, quando
e’ non ci fussi l’utile che io sento e che io spero, ci
è che ’l tuo sangue si affà col mio, e desidero che tu
adempia questo tuo desiderio presso a quanto tu.
Ma lasciamo ire questo. El dottore mi ha commesso
che io truovi un medico, e intenda a quale bagno sia
bene andare. Io voglio che tu faccia a mio modo, e
questo è che tu dica di avere studiato in medicina,
e che abbi fatto a Parigi qualche sperienzia: lui è per
crederlo facilmente per la semplicità sua, e per es­
sere tu litterato e poterli dire qualche cosa in gram­
matica.
CALLIMACO A che ci ha a servire cotesto?
LIGURIO Serviracci a mandarlo a qual bagno noi vor­
reno, ed a pigliare qualche altro partito che io ho
pensato, che sarà piú corto, piú certo, piú riuscibile
che ’l bagno.
CALLIMACO Che di’ tu?
LIGURIO Dico che, se tu arai animo e se tu confiderai
in me, io ti do questa cosa fatta, innanzi che sia do­
mani questa otta. E, quando e’ fussi uomo che non è,
da ricercare se tu se’ o non se’ medico, la brevità del
tempo, la cosa in sé, farà o che non ne ragionerà o
che non sarà a tempo a guastarci el disegno, quando
bene e’ ne ragionassi.
CALLIMACO Tu mi risuciti. Questa è troppa gran pro­
messa, e pascimi di troppa gran speranza. Come fa­
rai?
LIGURIO Tu el saprai, quando e’ fia tempo; per ora
non occorre che io te lo dica, perché el tempo ci man­
cherà a fare nonché dire. Tu, vanne in casa, e quivi
m’aspetta, ed io anderò a trovare el dottore, e, se io
lo conduco a te, andrai seguitando el mio parlare ed
accomodandoti a quello.
CALLIMACO Cosí farò, ancora che tu mi riempia d’una
speranza, che io temo non se ne vadia in fumo.
CANZONE
dopo il primo atto
Chi non fa prova, Amore,
della tua gran possanza, indarno spera
di far mai fede vera
qual sia del cielo il piú alto valore;
né sa come si vive, insieme, e muore,
come si segue il danno e ’l ben si fugge,
come s’ama se stesso
men d’altrui, come spesso
timore e speme i cori adiaccia e strugge;
né sa come ugualmente uomini e dèi
paventan’ l’arde di che armato sei.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Ligurio, messer Nicia, Siro.
LIGURIO Come io vi ho detto, io credo che Dio ci ab­
bia mandato costui, perché voi adempiate el deside­
rio vostro. Egli ha fatto a Parigi esperienzie grandissi­
me; e non vi maravigliate se a Firenze e’ non ha fatto
professione dell’arte, che n’è suto cagione, prima,
per essere ricco, secondo, perché egli è ad ogni ora
per tornare a Parigi.
NICIA Ormai, frate sí, cotesto bene importa; perché
io non vorrei che mi mettessi in qualche lecceto, poi
mi lasciassi in sulle secche.
LIGURIO Non dubitate di cotesto; abbiate solo paura
che non voglia pigliare questa cura; ma, se la piglia e’
non è per lasciarvi infino che non ne veda el fine.
NICIA Di cotesta parte io mi vo’ fidare di te; ma della
scienzia io ti dirò bene io, come io li parlo, s’egli è
uom di dottrina, perché a me non venderà egli ve­
sciche.
LIGURIO E perché io vi conosco, vi meno io a lui ac­
ciò li parliate. E se, parlato li avete, e’ non vi pare
per presenzia, per dottrina, per lingua uno uomo da
metterli il capo in grembo, dite che io non sia desso.
NICIA Or sia, al nome dell’Agnol santo! Andiamo. Ma
dove sta egli?
LIGURIO Sta in su questa piazza, in quell’uscio che
voi vedete dirimpetto a noi.
NICIA Sia con buona ora. Picchia.
LIGURIO Ecco fatto.
SIRO Chi è?
LIGURIO Evvi Callimaco?
SIRO Sí, è.
NICIA Che non di’ tu maestro Callimaco?
LIGURIO E’ non si cura di simil baie.
NICIA Non dir cosí, fa’ il tuo debito, e, s’e’ l’ha per
male, scingasi!
SCENA SECONDA
Callimaco, messer Nicia, Ligurio.
CALLIMACO Chi è quel che mi vuole?
NICIA Bona dies, domine magister.
CALLIMACO Et vobis bona, domine doctor.
LIGURIO Che vi pare?
NICIA Bene, alle guagnèle!
LIGURIO Se voi volete che io stia qui con voi, voi par­
lerete in modo che io v’intenda, altrimenti noi fareno
duo fuochi.
CALLIMACO Che buone faccende?
NICIA Che so io? Vo cercando duo cose, ch’un altro
per avventura fuggirebbe: questo è di dare briga a
me e ad altri. Io non ho figliuoli, e vorre’ne, e, per
avere questa briga, vengo a dare impaccio a voi.
CALLIMACO A me non fia mai discaro fare piacere a
voi ed a tutti li uomini virtuosi e da bene come voi; e
non mi sono a Parigi affaticato tanti anni per imparare
per altro, se non per potere servire a’ pari vostri.
NICIA Gran mercé; e, quando voi avessi bisogno del­
l’arte mia, io vi servirei volentieri. Ma torniamo ad
rem nostram. Avete voi pensato che bagno fussi buo­
no a disporre la donna mia ad impregnare? Ché io so
che qui Ligurio vi ha detto quel che vi s’abbia detto.
CALLIMACO Egli è la verità; ma, a volere adempiere
el desiderio vostro, è necessario sapere la cagione
della sterilità della donna vostra, perché le possono
essere piú cagione. Nam cause sterilitatis sunt: aut in
semine, aut in matrice, aut in instrumentis semina­
riis, aut in virga, aut in causa extrinseca.
NICIA Costui è el piú degno uomo che si possa tro­
vare!
CALLIMACO Potrebbe, oltra a di questo, causarsi
questa sterilità da voi, per impotenzia; che quando
questo fussi non ci sarebbe rimedio alcuno.
NICIA Impotente io? Oh! voi mi farete ridere! Io non
credo che sia el più ferrigno ed il più rubizzo uomo
in Firenze di me.
CALLIMACO Se cotesto non è, state di buona voglia,
che noi vi troverremo qualche remedio.
NICIA Sarebbeci egli altro remedio che bagni? Per­
ché io non vorrei quel disagio, e la donna uscirebbe
di Firenze mal volentieri.
LIGURIO Sí, sarà! Io vo’ rispondere io. Callimaco è
tanto respettivo, che è troppo. Non m’avete voi det­
to di sapere ordinare certe pozione, che indubitata­
mente fanno ingravidare?
CALLIMACO Sí, ho. Ma io vo rattenuto con gli uomini
che io non conosco, perché io non vorrei mi tenessi­
no un cerretano.
NICIA Non dubitate di me, perché voi mi avete fatto
maravigliare di qualità, che non è cosa io non credes­
si o facessi per le vostre mane.
LIGURIO Io credo che bisogni che voi veggiate el se­
gno.
CALLIMACO Sanza dubbio, e’ non si può fare di
meno.
LIGURIO Chiama Siro, che vadia con el dottore a casa
per esso, e torni qui; e noi l’aspettereno in casa.
CALLIMACO Siro! Va’ con lui. E, se vi pare, messere,
tornate qui súbito, e penseremo a qualche cosa di
buono.
NICIA Come, se mi pare? Io tornerò qui in uno stante,
che ho più fede in voi che gli ungheri nelle spade.
SCENA TERZA
Messer Nicia, Siro.
NICIA Questo tuo padrone è un gran valente uomo.
SIRO Piú che voi non dite.
NICIA El re di Francia ne de’ far conto.
SIRO Assai.
NICIA E per questa ragione e’ debbe stare volentieri
in Francia.
SIRO Cosí credo.
NICIA E’ fa molto bene. In questa terra non ci è se
non cacastecchi, non ci si apprezza virtù alcuna. S’egli
stessi qua, non ci sarebbe uomo che lo guardassi in
viso. Io ne so ragionare, che ho cacato le curatelle per
imparare dua hac: e se io ne avessi a vivere, io starei
fresco, ti so dire!
SIRO Guadagnate voi l’anno cento ducati?
NICIA Non cento lire, non cento grossi, o va’! E que­
sto è che, chi non ha lo stato in questa terra, de’ no­
stri pari, non truova can che gli abbai; e non siamo
buoni ad altro che andare a’ mortori o alle ragunate
d’un mogliazzo, o a starci tutto dì in sulla panca del
Proconsolo a donzellarci Ma io ne li disgrazio, io non
ho bisogno di persona; cosí stessi chi sta peggio di
me. Non vorrei però che le fussino mia parole, che
io arei di fatto qualche balzello o qualche porro di
drieto, che mi fare’ sudare.
SIRO Non dubitate.
NICIA Noi siamo a casa, Aspettami qui: io tornerò
ora.
SIRO Andate.
SCENA QUARTA
Siro solo.
SIRO Se gli altri dottori fussino fatti come costui, noi
faremmo a sassi pe’ forni: che sí, che questo tristo di
Ligurio e questo impazzato di questo mio patrone lo
conducono in qualche loco, che gli faranno vergogna!
E veramente io lo desiderrei, quando io credessi che
non si risapessi: perché risapendosi, io porto perico­
lo della vita, el padrone della vita e della roba. Egli è
già diventato medico: non so io che disegno si sia el
loro, e dove si tenda questo loro inganno. Ma ecco el
dottore, che ha un orinale in mano: chi non riderebbe
di questo uccellaccio?
SCENA QUINTA
Messer Nicia, Siro.
NICIA Io ho fatto d’ogni cosa a tuo modo: di questo
vo’ io che tu facci a mio. S’io credevo non avere figliu­
li, io arei preso piú tosto per moglie una contadina.
Che se’ costí, Siro? Viemmi drieto. Quanta fatica ho io
durata a fare che questa monna sciocca mi dia questo
segno! E non è dire che la non abbi caro fare figliuoli,
ché la ne ha piú pensiero di me; ma, come io le vo’ far
fare nulla, egli è una storia!
SIRO Abbiate pazienzia: le donne si sogliono con le
buone parole condurre dove altri vuole.
NICIA Che buone parole! ché mi ha fracido. Va ratto,
di’ al maestro ed a Ligurio che io son qui.
SIRO Eccogli che vengon fuori.
SCENA SESTA
Ligurio, Callimaco, messer Nicia.
LIGURIO El dottore fia facile a persuadere; la difficul­
tà fia la donna, ed a questo non ci mancherà modo.
CALLIMACO Avete voi el segno?
NICIA E’ l’ha Siro, sotto.
CALLIMACO Dàllo qua. Oh! questo segno mostra de­
bilità di rene.
NICIA Ei mi par torbidiccio; eppur l’ha fatto ora ora.
CALLIMACO Non ve ne maravigliate. Nam mulieris,
uri nae sunt semper maioris grossitiei et albedinis, et
mi noris pulchritudinis quam virorum. Huius autem,
in caetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eo­
rum quae ex matrice exeunt cum urinis.
NICIA Oh! uh! potta di san Puccio! Costui mi raffini­
sce in tralle mani; guarda come ragiona bene di que­
ste cose!
CALLIMACO Io ho paura che costei non sia, la notte,
mal coperta, e per questo fa l’orina cruda.
NICIA Ella tien pure adosso un buon coltrone; ma la
sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri, in­
nanzi che la se ne venghi al letto, ed è una bestia a
patir freddo.
CALLIMACO Infine, dottore, o voi avete fede in me,
o no; o io vi ho ad insegnare un rimedio certo, o no.
Io, per me, el rimedio vi darò. Se voi arete fede in
me, voi lo piglierete; e se, oggi ad uno anno, la vo­
stra donna non ha un suo figliolo in braccio, io voglio
avervi a donare dumilia ducati.
NICIA Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto, e
per credervi piú che al mio confessoro.
CALLIMACO Voi avete ad intender questo, che non
è cosa piú certa ad ingravidare una donna che dar­
gli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è
una cosa esperimentata da me dua paia di volte, e
trovata sempre vera; e, se non era questo, la reina di
Francia sarebbe sterile, ed infinite altre principesse
di quello stato.
NICIA E’ egli possibile?
CALLIMACO Egli è come io vi dico. E la Fortuna vi
ha intanto voluto bene, che io ho condutto qui meco
tutte quelle cose che in quella pozione si mettono, e
potete averla a vostra posta.
NICIA Quando l’arebbe ella a pigliare?
CALLIMACO Questa sera dopo cena, perché la luna
è ben disposta, ed el tempo non può essere piú ap­
propriato.
NICIA Cotesto non fia molto gran cosa. Ordinatela in
ogni modo: io gliene farò pigliare.
CALLIMACO E’ bisogna ora pensare a questo: che
quello uomo che ha prima a fare seco, presa che l’ha,
cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo
camperebbe el mondo.
NICIA Cacasangue!. Io non voglio cotesta suzzac­
chera! A me non l’apiccherai tu! Voi mi avete concio
bene!
CALLIMACO State saldo, e’ ci è rimedio.
NICIA Quale?
CALLIMACO Fare dormire súbito con lei un altro che
tiri, standosi seco una notte, a sé tutta quella infe­
zione della mandragola: dipoi vi iacerete voi sanza
periculo.
NICIA Io non vo’ far cotesto.
CALLIMACO Perché?
NICIA Perché io non vo’ fare la mia donna femmina
e me becco.
CALLIMACO Che dite voi, dottore? Oh! io non vi ho
per savio come io credetti. Sí che voi dubitate di fare
quel lo che ha fatto el re di Francia e tanti signori
quanti sono là?
NICIA Chi volete voi che io truovi che facci cotesta
pazzia? Se io gliene dico, e’ non vorrà; se io non glie­
ne dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto: io non ci
voglio capitare sotto male.
CALLIMACO Se non vi dà briga altro che cotesto, la­
sciatene la cura a me.
NICIA Come si farà?
CALLIMACO Dirovelo: io vi darò la pozione questa
sera dopo cena; voi gliene darete bere e, súbito, la
metterete nel letto, che fieno circa a quattro ore di
notte. Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io,
e andrencene cercando in Mercato Nuovo, in Merca­
to Vecchio, per questi canti; ed el primo garzonaccio
che noi troviamo scioperato lo imbavagliereno, ed a
suon di mazzate lo condurreno in casa ed in camera
vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli
quel che gli abbia a fare, non ci fia difficultà veruna.
Dipoi, la mattina, ne manderete colui innanzi dí, fa­
rete lavare la vostra donna, starete con lei a vostro
piacere e sanza periculo.
NICIA Io sono contento, poiché tu di’ che e re e prin­
cipi e signori hanno tenuto questo modo. Ma sopra­
tutto, che non si sappia, per amore degli Otto!
CALLIMACO Chi volete voi che lo dica?
NICIA Una fatica ci resta, e d’importanza.
CALLIMACO Quale?
NICIA Farne contenta mogliama, a che io non credo
che la si disponga mai.
CALLIMACO Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi
essere marito, se io non la disponessi a fare a mio
modo.
LIGURIO Io ho pensato el rimedio.
NICIA Come?
LIGURIO Per via del confessoro.
CALLIMACO Chi disporrà el confessoro, tu?
LIGURIO Io, e danari, la cattività nostra, loro.
NICIA Io dubito, non che altro, che per mie detto la
non voglia ire a parlare al confessoro.
LIGURIO Ed anche a cotesto è remedio.
CALLIMACO Dimmi.
LIGURIO Farvela condurre alla madre.
NICIA La le presta fede.
LIGURIO Ed io so che la madre è della opinione
nostra. Orsú! avanziam tempo, ché si fa sera. Vatti,
Callimaco, a spasso, e fa’ che alle ventitré ore noi ti
ritroviamo in casa con la pozione ad ordine. Noi n’an­
dreno a casa la madre, el dottore ed io, a disporla,
perché è mia nota. Poi n’andreno al frate, e vi ragua­
gliereno di quello che noi aren fatto.
CALLIMACO Deh! non mi lasciar solo.
LIGURIO Tu mi pari cotto.
CALLIMACO Dove vuoi tu ch’io vadia ora?
LIGURIO Di là, di qua, per questa via, per quell’altra:
egli è sí grande Firenze!
CALLIMACO Io son morto.
CANZONE
dopo il secondo atto
Quanto felice sia ciascun sel vede,
chi nasce sciocco ed ogni cosa crede!
Ambizione nol preme,
non lo muove il timore,
che sogliono esser seme
di noia e di dolore.
Questo vostro dottore,
bramando aver figlioli,
credria ch’un asin voli;
e qualunque altro ben posto ha in oblio,
e solo in questo ha posto il suo disio.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Sostrata, messer Nicia, Ligurio.
SOSTRATA Io ho sempre mai sentito dire che gli è
ufizio d’un prudente pigliare de’ cattivi partiti el mi­
gliore: se, ad avere figliuoli, voi non avete altro rime­
dio che questo, si vuole pigliarlo, quando e’ non si
gravi la conscienzia.
NICIA Egli è così.
LIGURIO Voi ve ne andrete a trovare la vostra figliuo­
la, e messere ed io andreno a trovare fra’ Timoteo
suo confessoro, e narrerengli el caso, acciò che non
abbiate a dirlo voi: vedrete quello che vi dirà.
SOSTRATA Cosí sarà fatto. La via vostra è di costà;
ed io vo a trovare la Lucrezia, e la merrò a parlare al
frate, ad ogni modo.
SCENA SECONDA
Messer Nicia, Ligurio.
NICIA Tu ti maravigli forse, Ligurio, che bisogni fare
tante storie a disporre mogliama; ma, se tu sapessi
ogni cosa, tu non te ne maraviglieresti.
LIGURIO Io credo che sia, perché tutte le donne sono
sospettose.
NICIA Non è cotesto. Ell’era la piú dolce persona del
mondo e la piú facile; ma, sendole detto da una sua
vicina che, s’ella si botava d’udire quaranta mattine
la prima messa de’ Servi, che impregnerebbe, la si
botò, ed andovvi forse venti mattine. Ben sapete che
un di que’ fratacchioni le cominciò ’ndare d’atorno,
in modo che la non vi volle piú tornare. Egli è pure
male però che quegli che ci arebbono a dare buoni
essempli sien fatti cosí. Non dich’io el vero?
LIGURIO Come diavolo, se egli è vero!
NICIA Da quel tempo in qua ella sta in orecchi come
la lepre; e, come se le dice nulla, ella vi fa dentro
mille difficultà.
LIGURIO Io non mi maraviglio piú. Ma, quel boto,
come si adempié?
NICIA Fecesi dispensare.
LIGURIO Sta bene. Ma datemi, se voi avete, venti­
cinque ducati, ché bisogna, in questi casi, spende­
re, e farsi amico el frate presto, e darli speranza di
meglio.
NICIA Pigliagli pure; questo non mi dà briga, io farò
masserizia altrove.
LIGURIO Questi frati sono trincati, astuti; ed è ragio­
nevole, perché e’ sanno e peccati nostri, e loro, e chi
non è pratico con essi potrebbe ingannarsi e non gli
sapere condurre a suo proposito. Pertanto io non
vorrei che voi nel parlare guastassi ogni cosa, perché
un vostro pari, che sta tuttodí nello studio, s’intende
di quelli libri, e delle cose del mondo non sa ragiona­
re. (Costui è sí sciocco, che io ho paura non guastassi
ogni cosa).
NICIA Dimmi quel che tu vuoi ch’io faccia.
LIGURIO Che voi lasciate parlare a me, e non parliate
mai, s’io non vi accenno.
NICIA Io son contento. Che cenno farai tu?
LIGURIO Chiuderò un occhio; morderommi el lab­
bro... Deh no! Facciàno altrimenti. Quanto è egli che
voi non parlasti al frate?
NICIA È più di dieci anni.
LIGURIO Sta bene. Io gli dirò che voi sete assordato,
e voi non risponderete e non direte mai cosa alcuna,
se noi non parliamo forte.
NICIA Cosí farò.
LIGURIO Non vi dia briga che io dica qualche cosa
che vi paia disforme a quello che noi vogliamo, per­
ché tutto tornerà a proposito.
NICIA In buon ora.
LIGURIO Ma io veggo el frate che parla con una don­
na. Aspettian che l’abbi spacciata.
SCENA TERZA
Fra’ Timoteo, una donna.
TIMOTEO Se voi vi volessi confessare, io farò ciò che
voí volete.
DONNA Non, per oggi; io sono aspettata: e’ mi ba­
sta essermi sfogata un poco, cosí ritta ritta. Avete voi
dette quelle messe della Nostra Donna?
TIMOTEO Madonna sí.
DONNA Togliete ora questo fiorino, e direte dua
mesi ogni lunedí la messa de’ morti per l’anima del
mio marito. Ed ancora che fussi un omaccio, pure le
carne tirono: io non posso fare non mi risenta, quan­
do io me ne ricordo. Ma credete voi che sia in pur­
gatorio?
TIMOTEO Sanza dubio.
DONNA Io non so già cotesto. Voi sapete pure quel
che mi faceva qualche volta. Oh, quanto me ne dolsi
io con esso voi! Io me ne discostavo quanto io pote­
vo; ma egli era sí importuno! Uh, nostro Signore!
TIMOTEO Non dubitate, la clemenzia di Dio è gran­
de: se non manca a l’uomo la voglia, non gli manca
mai el tempo a pentirsi.
DONNA Credete voi che ’l Turco passi questo anno
in Italia?
TIMOTEO Se voi non fate orazione, sí.
DONNA Naffe! Dio ci aiuti, con queste diavolerie! Io
ho una gran paura di quello impalare. Ma io veggo
qua in chiesa una donna che ha certa accia di mio: io
vo’ ire a trovarla. Fate col buon dí.
TIMOTEO Andate sana.
SCENA QUARTA
Fra’ Timoteo, Ligurio, messer Nicia.
TIMOTEO Le piú caritative persone che sieno sono
le donne, e le piú fastidiose. Chi le scaccia, fugge e
fastidii e l’utile; chi le intrattiene, ha l’utile ed e fasti­
dii insieme. Ed è ’l vero che non è el mele sanza le
mosche. Che andate voi facendo, uomini da bene?
Non riconosco io messer Nicia?
LIGURIO Dite forte, ché gli è in modo assordato, che
non ode quasi nulla.
TIMOTEO Voi sete il ben venuto, messere!
LIGURIO Piú forte !
TIMOTEO El ben venuto!
NICIA El ben trovato, padre!
TIMOTEO Che andate voi faccendo?
NICIA Tutto bene.
LIGURIO Volgete el parlare a me, padre, perché voi,
a volere che v’intendessi, aresti a mettere a romore
questa piazza.
TIMOTEO Che volete voi da me?
LIGURIO Qui messere Nicia ed un altro uomo da
bene, che voi intenderete poi, hanno a fare distribui­
re in limosine parecchi centinaia di ducati.
NICIA Cacasangue!
LIGURIO (Tacete, in malora, e’ non fien molti!) Non
vi maravigliate, padre, di cosa che dica, ché non ode,
e pargli qualche volta udire, e non risponde a pro­
posito.
TIMOTEO Séguita pure, e lasciagli dire ciò che vuo­
le.
LIGURIO De’ quali danari io ne ho una parte meco;
ed hanno disegnato che voi siate quello che li distri­
buiate.
TIMOTEO Molto volentieri.
LIGURIO Ma egli è necessario, prima che questa li­
mosina si faccia, che voi ci aiutiate d’un caso strano
intervenuto a messere, che solo voi potete aiutare,
dove ne va al tutto l’onore di casa sua.
TIMOTEO Che cosa è?
LIGURIO Io non so se voi conoscesti Cammillo Cal­
fucci, nipote qui di messere.
TIMOTEO Sí, conosco.
LIGURIO Costui n’andò per certe sua faccende, uno
anno fa, in Francia; e, non avendo donna, che era
morta, lasciò una sua figliuola da marito in serbanza
in uno munistero, del quale non accade dirvi ora el
nome.
TIMOTEO Che è seguíto?
LIGURIO E’ seguíto che, o per straccurataggine delle
monache o per cervellinaggine della fanciulla, la si
truova gravida di quattro mesi; di modo che, se non
ci si ripara con prudenzia, el dottore, le monache, la
fanciulla, Cammillo, la casa de’ Calfucci è vituperata;
e il dottore stima tanto questa vergogna che s’è bota­
to, quando la non si palesi, dare trecento ducati per
l’amore di Dio.
NICIA Che chiacchiera!
LIGURIO (State cheto!) E daragli per le vostre mani; e
voi solo e la badessa ci potete rimediare.
TIMOTEO Come?
LIGURIO Persuadere alla badessa che dia una pozio­
ne alla fanciulla per farla sconciare.
TIMOTEO Cotesta è cosa da pensarla.
LIGURIO Guardate, nel far questo, quanti beni ne re­
sulta: voi mantenete l’onore al monistero, alla fanciul­
la, a’ parenti; rendete al padre una figliuola; satisfate
qui a messere, a tanti sua parenti; fate tante elemosi­
ne, quante con questi trecento ducati potete fare; e,
dall’altro canto, voi non offendete altro che un pezzo
di carne non nata, sanza senso, che in mille modi si
può sperdere; ed io credo che quello sia bene che
facci bene ai piú, e che e piú se ne contentino.
TIMOTEO Sia, col nome di Dio. Faccisi ciò che voi vo­
lete, e, per Dio e per carità, sia fatto ogni cosa. Ditemi
el munistero, datemi la pozione, e, se vi pare, cotesti
danari, da potere cominciare a fare qualche bene.
LIGURIO Or mi parete voi quel religioso, che io cre­
devo che voi fussi. Togliete questa parte de’ danari.
El munistero è... Ma aspettate, egli è qui in chiesa
una donna che mi accenna: io torno ora ora; non vi
partite da messer Nicia; io le vo’ dire dua parole.
SCENA QUINTA
Fra’ Timoteo, messer Nicia.
TIMOTEO Questa fanciulla, che tempo ha?
NICIA Io strabilio.
TIMOTEO Dico, quanto tempo ha questa fanciulla?
NICIA Mal che Dio gli dia!
TIMOTEO Perché?
NICIA Perché se l’abbia!
TIMOTEO E’ mi pare essere nel gagno. Io ho a fare
cor uno pazzo e cor un sordo: l’un si fugge, l’altro non
ode. Ma se questi non sono quarteruoli, io ne farò
meglio di loro! Ecco Ligurio, che torna in qua.
SCENA SESTA
Ligurio, fra’ Timoteo, messer Nicia.
LIGURIO State cheto, messere. Oh! io ho la gran nuo­
va, padre.
TIMOTEO Quale?
LIGURIO Quella donna con chi io ho parlato, mi ha
detto che quella fanciulla si è sconcia per se stessa.
TIMOTEO Bene! questa limosina andrà alla Grascia.
LIGURIO Che dite voi?
TIMOTEO Dico che voi tanto piú doverrete fare que­
sta limosina.
LIGURIO La limosina si farà, quando voi vogliate: ma
e’ bisogna che voi facciate un’altra cosa in benefizio
qui del dottore.
TIMOTEO Che cosa è?
LIGURIO Cosa di minor carico, di minor scandolo, piú
accetta a noi, e piú utile a voi.
TIMOTEO Che è? Io sono in termine con voi, e parmi
avere contratta tale dimestichezza, che non è cosa
che io non facessi.
LIGURIO Io ve lo vo’ dire in chiesa, da me e voi, ed
el dottore fia contento di aspettare qui. Noi torniamo
ora.
NICIA Come disse la botta a l’erpice! .
TIMOTEO Andiamo.
SCENA SETTIMA
Messer Nicia solo.
NICIA E’ egli di dì o di notte? Sono io desto o sogno?
Sono io imbriaco, e non ho beuto ancora oggi, per ire
drieto a queste chiacchiere? Noi rimanghiam di dire
al frate una cosa, e’ ne dice un’altra; poi volle che
io facessi el sordo, e bisognava io m’impeciassi gli
orecchi come el Danese, a volere che io non avessi
udite le pazzie, che gli ha dette, e Dio il sa con che
proposito! Io mi truovo meno venticinque ducati, e
del fatto mio non s’è ancora ragionato; ed ora m’han­
no qui posto come un zugo a piuolo. Ma eccogli che
tornano; in mala ora per loro, se non hanno ragionato
del fatto mio!
SCENA OTTAVA
Fra’ Timoteo, Ligurio, messer Nicia.
TIMOTEO Fate che le donne venghino. Io so quello
che io ho a fare; e, se l’autorità mia varrà, noi conclu­
deremo questo parentado questa sera.
LIGURIO Messer Nicia, fra’ Timoteo è per fare ogni
cosa. Bisogna vedere che le donne venghino.
NICIA Tu mi ricrii tutto quanto. Fia egli maschio?
LIGURIO Maschio.
NICIA Io lacrimo per la tenerezza.
TIMOTEO Andatevene in chiesa, io aspetterò qui le
donne. State in lato che le non vi vegghino; e, partite
che le fieno, Vi dirò quello che l’hanno detto.
SCENA NONA
Frate Timoteo solo.
TIMOTEO Io non so chi s’abbi giuntato l’uno l’altro.
Questo tristo di Ligurio ne venne a me con quella
prima novella, per tentarmi, acciò, se io non gliene
consentivo, non mi arebbe detta questa, per non pa­
lesare e disegni loro sanza utile, e di quella che era
falsa non si curavono. Egli è vero che io ci sono suto
giuntato; nondimeno, questo giunto è con mio utile.
Messer Nicia e Callimaco sono ricchi, e da ciascuno,
per diversi rispetti, sono per trarre assai; la cosa con­
vien stia secreta, perché l’importa cosí a loro a dirla
come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento. E’
ben vero che io dubito non ci avere dificultà, perché
madonna Lucrezia è savia e buona: ma io la giugnerò
in sulla bontà. E tutte le donne hanno poco cervello;
e come ne è una che sappi dire dua parole, e’ se ne
predica, perché in terra di ciechi chi v’ha un occhio è
signore. Ed eccola con la madre, la quale è bene una
bestia, e sarammi uno grande adiuto a condurla alle
mia voglie.
SCENA DECIMA
Sostrata, Lucrezia.
SOSTRATA Io credo che tu creda, figliuola mia, che
io stimi l’onore ed el bene tuo quanto persona del
mondo, e che io non ti consigliassi di cosa che non
stessi bene. Io t’ho detto e ridicoti, che se fra’ Timo­
teo ti dice che non ci sia carico di conscienzia, che tu
lo faccia sanza pensarvi.
LUCREZIA Io ho sempremai dubitato che la voglia,
che messer Nicia ha d’avere fìgliuoli, non ci faccia
fare qualche errore; e per questo, sempre che lui mi
ha parlato di alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia
e sospesa massime poi che m’intervenne quello che
vi sapete, per andare a’ Servi. Ma di tutte le cose che
si son tentate, questa mi pare la piú strana, di avere
a sottomettere el corpo mio a questo vituperio, ad
esser cagione che uno uomo muoia per vituperarmi:
perché io non crederrei, se io fussi sola rimasa nel
mondo e da me avessi a resurgere l’umana natura,
che mi fussi simile partito concesso
SOSTRATA Io non ti so dire tante cose, figliuola mia.
Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai
quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi, da
chi ti vuole bene.
LUCREZIA Io sudo per la passione.
SCENA UNDECIMA
Fra’ Timoteo, Lucrezia, Sostrata.
TIMOTEO Voi siate le ben venute! Io so quello che
voi volete intendere da me, perché messer Nicia
m’ha parlato. Veramente, io sono stato in su’ libri più
di dua ore a studiare questo caso; e, dopo molte esa­
mine, io truovo di molte cose che, e in particolare ed
in generale, fanno per noi.
LUCREZIA Parlate voi da vero o motteggiate?
TIMOTEO Ah, madonna Lucrezia! Sono, queste, cose
da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora?
LUCREZIA Padre, no; ma questa mi pare la più strana
cosa che mai si udissi.
TIMOTEO Madonna, io ve lo credo, ma io non voglio
che voi diciate piú cosí. E’ sono molte cose che di­
scosto paiano terribili, insopportabile, strane, che,
quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sop­
portabili, dimestiche; e però si dice che sono mag­
giori li spaventi ch’e mali: e questa è una di quelle.
LUCREZIA Dio el voglia!
TIMOTEO Io voglio tornare a quello, che io dicevo
prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare
questa generalità, che, dove è un bene certo ed un
male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene
per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi
ingraviderete, acquisterete una anima a messer Do­
menedio; el male incerto è che colui che iacerà, dopo
la pozione, con voi, si muoia; ma e’ si truova anche di
quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia,
però è bene che messer Nicia non corra quel peri­
culo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una
favola, perché la volontà è quella che pecca, non el
corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito,
e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete
dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare
in tutte le cose; el fine vostro si è riempire una sedia
in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibia
che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase
sole nel mondo, usorono con el padre; e, perché la
loro intenzione fu buona, non peccorono.
LUCREZIA Che cosa mi persuadete voi?
SOSTRATA Làsciati persuadere, figliuola mía. Non
vedi tu che una donna, che non ha figliuoli, non ha
casa? Muorsi el marito, resta com’una bestia, aban­
donata da ognuno.
TIMOTEO Io vi giuro, madonna, per questo petto
sacrato, che tanta conscienzia vi è ottemperare in
questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare
carne el mercodedí, che è un peccato che se ne va
con l’acqua benedetta.
LUCREZIA A che mi conducete voi, padre?
TIMOTEO Conducovi a cose, che voi sempre arete
cagione di pregare Dio per me; e piú vi satisfarà que­
sto altro anno che ora.
SOSTRATA Ella farà ciò che voi volete. Io la voglio
mettere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moc­
cicona? E’ c’è cinquanta donne, in questa terra, che
ne alzerebbono le mani al cielo.
LUCREZIA Io sono contenta: ma non credo mai esse­
re viva domattina.
TIMOTEO Non dubitar, figliuola mia: io pregherrò Id­
dio per te, io dirò l’orazione dell’agnol Raffaello, che
ti accompagni. Andate, in buona ora, e preparatevi a
questo misterio, ché si fa sera.
SOSTRATA Rimanete in pace, padre.
LUCREZIA Dio m’aiuti e la Nostra Donna, che io non
càpiti male.
SCENA DUODECIMA
Fra’ Timoteo, Ligurio, messer Nicia.
TIMOTEO O Ligurio, uscite qua!
LIGURIO Come va?
TIMOTEO Bene. Le ne sono ite a casa disposte a fare
ogni cosa, e non ci fia difficultà, perché la madre si
andrà a stare seco, e vuolla mettere al letto lei.
NICIA Dite voi el vero?
TIMOTEO Bembè, voi sete guarito del sordo?
LIGURIO San Chimenti gli ha fatto grazia.
TIMOTEO E’ si vuol porvi una immagine, per rizzarci
un poco di baccanella, acciò che io abbia fatto que­
st’altro guadagno con voi.
NICIA Non entriano in cetere. Farà la donna difficultà
di fare quel ch’io voglio?
TIMOTEO Non, vi dico.
NICIA Io sono el piú contento uomo del mondo.
TIMOTEO Credolo. Voi vi beccherete un fanciul ma­
schio,- e chi non ha non abbia.
LIGURIO Andate, frate, a le vostre orazioni, e, se bi­
sognerà altro, vi verreno a trovare. Voi, messere, an­
date a lei, per tenerla ferma in questa opinione, ed
io andrò a trovare maestro Callimaco, che vi mandi
la pozione; ed all’un’ora fate che io vi rivegga, per
ordinare quello che si de’ fare alle quattro.
NICIA Tu di’ bene. Addio!
TIMOTEO Andate sani.
CANZONE
dopo il terzo atto
Sí suave è l’inganno
al fin condotto imaginato e caro,
ch’altrui spoglia d’affanno,
e dolce face ogni gustato amaro.
O rimedio alto e raro,
tu mostri il dritto calle all’alme erranti;
tu, col tuo gran valore,
nel far beato altrui, fai ricco Amore;
tu vinci, sol co’ tuoi consigli santi,
pietre, veneni e incanti.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Callimaco solo.
CALLIMACO Io vorrei pure intendere quello che co­
storo hanno fatto. Può egli essere che io non rivegga
Ligurio? E, nonché le ventitré, le sono le ventiquattro
ore! In quanta angustia d’animo sono io stato e sto!
Ed è vero che la Fortuna e la Natura tiene el conto
per bilancio: la non ti fa mai un bene, che, a l’incon­
tro, non surga un male. Quanto piú mi è cresciuta la
speranza, tanto mi è cresciuto el timore. Misero a
me! Sarà egli mai possibile che io viva in tanti affanni
e perturbato da questi timori e queste speranze? Io
sono una nave vessata da dua diversi venti, che tanto
piú teme, quanto ella è più presso al porto. La sem­
plicità di messere Nicia mi fa sperare, la providenzia
e durezza di Lucrezia mi fa temere. Oimè, che io non
truovo requie in alcuno loco! Talvolta io cerco di vin­
cere me stesso, riprendomi di questo mio furore, e
dico meco: — Che fai tu? Se’ tu impazato? Quando
tu l’ottenga, che fia? Conoscerai el tuo errore, penti­
ra’ti delle fatiche e de’ pensieri che hai avuti. Non sai
tu quanto poco bene si truova nelle cose che l’uomo
desidera, rispetto a quello che l’uomo ha presuppo­
sto trovarvi? Da l’altro canto: el peggio che te ne va
è morire e andarne in inferno; e’ son morti tanti degli
altri! e sono in inferno tanti uomini da bene! Ha’ti
tu a vergognare d’andarvi tu? Volgi el viso alla sorte;
fuggi el male, e non lo potendo fuggire sopportalo
come uomo; non ti prosternere, non ti invilire come
una donna. — E così mi fo di buon cuore; ma io ci
sto poco sú, perché da ogni parte mi assalta tanto
desio d’essere una volta con costei, che io mi sento,
dalle piante de’ piè al capo, tutto alterare: le gambe
triemano, le viscere si commuovono, il cuore mi si
sbarba del petto, le braccia s’abandonano, la lingua
diventa muta, gli occhi abarbagliano, el cervello mi
gira. Pure, se io trovassi Ligurio, io arei con chi sfo­
garmi. Ma ecco che ne viene verso me ratto. El rap­
porto di costui mi farà o vivere allegro qualche poco
o morire affatto.
SCENA SECONDA
Ligurio, Callimaco.
LIGURIO Io non desiderai mai piú tanto di trovare
Callimaco, e non penai mai piú tanto a trovarlo. Se
io li portassi triste nuove, io l’arei riscontro al primo.
Io sono stato a casa, in Piazza, in Mercato, al Panco­
ne delli Spini, alla Loggia de’ Tornaquinci, e non l’ho
trovato. Questi innamorati hanno l’ariento vivo sotto
e pieti, e non si possono fermare.
CALLIMACO Che sto io ch’io non lo chiamo? E mi par
pure allegro: Oh, Ligurio! Ligurio!
LIGURIO Oh, Callimaco! dove sei tu stato?
CALLIMACO Che novelle?
LIGURIO Buone.
CALLIMACO Buone in verità?
LIGURIO Ottime.
CALLIMACO E’ Lucrezia contenta?
LIGURIO Sí.
CALLIMACO El frate fece el bisogno?
LIGURIO Fece
CALLIMACO Oh, benedetto frate! Io pregherrò sem­
pre Dio per lui. .
LIGURIO Oh, buono! Come se Dio facessi le grazie
del male, come del bene! El frate vorrà altro che
prieghi!
CALLIMACO Che vorrà?
LIGURIO Danari.
CALLIMACO Darégliene. Quanti ne gli hai tu promes­
si?
LIGURIO Trecento ducati.
CALLIMACO Hai fatto bene.
LIGURIO El dottore ne ha sborsati venticinque.
CALLIMACO Come?
LIGURIO Bastiti che gli ha sborsati.
CALLIMACO La madre di Lucrezia, che ha fatto?
LIGURIO Quasi el tutto. Come la ’ntese che la sua fi­
gliuola la avev’avere questa buona notte sanza pec­
cato, la non restò mai di pregare, comandare, confor­
tare la Lucrezia, tanto che ella la condusse al frate, e
quivi operò in modo, che la l’acconsentí.
CALLIMACO Oh, Dio! Per quali mia meriti debbo io
avere tanti beni? Io ho a morire per l’allegrezza!
LIGURIO Che gente è questa? Ora per l’allegrezza,
ora pel dolore, costui vuole morire in ogni modo. Hai
tu ad ordine la pozione?
CALLIMACO Sí, ho.
LIGURIO Che li manderai?
CALLIMACO Un bicchiere d’hypocras, che è a propo­
sito a racconciare lo stomaco, rallegra el cervello...
Ohimè, ohimè, ohimè, io sono spacciato!
LIGURIO Che è? Che sarà?
CALLIMACO E’ non ci è remedio.
LIGURIO Che diavol fia?
CALLIMACO E’ non si è fatto nulla, io mi son murato
un forno.
LIGURIO Perché? Ché non lo di? Lèvati le man’ dal
viso.
CALLIMACO O non sai tu che io ho detto a messer Ni­
cia che tu, lui, Siro ed io piglieremo uno per metterlo
a lato a la moglie?
LIGURIO Che importa?
CALLIMACO Come, che importa? Se io sono con voi,
non potrò essere quel che sia preso; s’io non sono, e’
s’avvedrà dello inganno.
LIGURIO Tu di’ el vero. Ma non ci è egli rimedio?
CALLIMACO Non, credo io.
LIGURIO Sí, sarà bene.
CALLIMACO Quale?
LIGURIO Io voglio un poco pensallo.
CALLIMACO Tu mi hai chiaro: io sto fresco, se tu l’hai
a pensare ora!
LIGURIO Io l’ho trovato.
CALLIMACO Che cosa?
LIGuRIo Farò che ’l frate, che ci ha aiutato infino a
qui, farà questo resto.
CALLIMACO In Che modo?
LIGURIO Noi abbiamo tutti a travestirci. Io farò trave­
stire el frate: contrafarà la voce, el viso, l’abito; e dirò
al dottore che tu sia quello; e’ sel crederà.
CALLIMACO Piacemi; ma io che farò?
LIGURIO Fo conto che tu ti metta un pitocchino in­
dosso, e con un liuto in mano te ne venga costí, dal
canto della sua casa, cantando un canzoncino.
CALLIMACO A viso scoperto?
LIGURIO Sí, ché se tu portassi una maschera, e’ gli
enterrebbe ’n sospetto.
CALLIMACO E’ mi conoscerà.
LIGURIO Non farà: perché io voglio che tu ti storca el
viso, che tu apra, aguzzi o digrigni la bocca, chiugga
un occhio. Pruova un poco.
CALLIMACO Fo io così?
LIGURIO No.
CALLIMACO Cosí?
LIGURIO Non basta.
CALLIMACO A questo modo?
LIGURIO Sí, sí, tieni a mente cotesto. Io ho un naso in
casa: io vo’ che tu te l’appicchi.
CALLIMACO Orbé, che sarà poi?
LIGURIO Come tu sarai comparso in sul canto, noi
saren quivi, torrénti el liuto, piglierenti, aggirerenti
condurrenti in casa, metterenti a letto. E ’l resto do­
verrai tu fare da te!
CALLIMACO Fatto sta condursi!
LIGURIo Qui ti condurrai tu. Ma a fare che tu vi possa
ritornare sta a te e non a noi.
CALLIMACO Come?
LIGURIo Che tu te la guadagni in questa notte, e che,
innanzi che tu ti parta, te le dia a conoscere, scuo­
prale lo inganno, mostrile l’amore le porti, dicale el
bene le vuoi, e come sanza sua infamia la può esser
tua amica, e con sua grande infamia tua nimica. È im­
possibile che la non convenghi teco, e che la voglia
che questa notte sia sola.
CALLIMACO Credi tu cotesto?
LIGURIO Io ne son certo. Ma non perdiam piú tempo:
e’ son già dua ore. Chiama Siro, manda la pozione a
messer Nicia, e me aspetta in casa. Io andrò per el
frate: farollo travestire, e condurrenlo qui, e troverre­
no el dottore e fareno quello manca.
CALLIMACO Tu di’ ben! Va’ via.
SCENA TERZA
Callimaco, Siro.
CALLIMACO O Siro!
SIRO Messere!
CALLIMACO Fatti costí.
SIRO Eccomi.
CALLIMACO Piglia quello bicchiere d’argento, che è
drento allo armario di camera e, coperto con un poco
di drappo, portamelo, e guarda a non lo versare per
la via.
SIRO Sarà fatto.
CALLIMACO Costui è stato dieci anni meco, e sem­
pre m’ha servito fedelmente. Io credo trovare, anche
in questo caso, fede in lui; e, benché io non gli abbi
comunicato questo inganno, e’ se lo indovina, ché gli
è cattivo bene e veggo che si va accomodando.
SIRO Eccolo.
CALLIMACO Sta bene. Tira, va a casa messer Nicia,
e digli che questa è la medicina, che ha a pigliare
la donna doppo cena subito; e quanto prima cena,
tanto sarà meglio; e, come noi sareno in sul canto ad
ordine, al tempo, e’ facci d’esservi. Va’ ratto.
SIRO I’ vo.
CALLIMACO Odi qua. Se vuole che tu l’aspetti, aspet­
talo, e vientene qui con lui; se non vuole, torna qui
da me, dato che tu glien’hai, e fatto che tu gli arai
l’ambasciata.
SIRO Messer, sí.
SCENA QUARTA
Callimaco solo.
CALLIMACO Io aspetto che Ligurio torni col frate; e
chi dice che gli è dura cosa l’aspettare, dice el vero.
Io scemo ad ogni ora dieci libbre, pensando dove io
sono ora, dove io potrei essere di qui a dua ore, te­
mendo che non nasca qualche cosa, che interrompa
el mio disegno. Che se fussi, e’ fia l’ultima notte della
vita mia, perché o io mi gitterò in Arno, o io m’impic­
cherò, o io mi gitterò da quelle finestre, o io mi darò
d’un coltello in sullo uscio suo. Qualche cosa farò io,
perché io non viva più. Ma veggo io Ligurio? Egli è
desso, egli ha seco uno che pare scrignuto, zoppo: e’
fia certo el frate travestito Oh, frati! Conoscine uno,
e conoscigli tutti. Chi è quell’altro, che si è accostato
a loro? E’ mi pare Siro, arà digià fatto l’ambasciata al
dottore; egli è esso. Io gli voglio aspettare qui, per
convenire con loro.
SCENA QUINTA
Siro, Ligurio, Callimaco, fra’ Timoteo travestito
SIRO Chi è teco, Ligurio?
LIGURIO Uno uom da bene.
SIRO E’ egli zoppo, o fa le vista?
LIGURIO Bada ad altro.
SIRO Oh! gli ha el viso del gran ribaldo!
LIGURIO Deh! sta’ cheto, ché ci hai fracido! Ove è
Callimaco?
CALLIMACO Io son qui. Voi siete e ben venuti!
LIGURIO O Callimaco, avvertisci questo pazzerello di
Siro: egli ha detto già mille pazzie.
CALLIMACO Siro, odi qua: tu hai questa sera a fare
tutto quello che ti dirà Ligurio; e fa’ conto, quando e’
ti comanda, che sia io; e ciò che tu vedi, senti o odi,
hai a tenere secretissimo, per quanto tu stimi la roba,
l’onore, la vita mia e il bene tuo.
SIRO Cosí si farà.
CALLIMACO Desti tu el bicchiere al dottore?
SIRO Messer, sl.
CALLIMACO Che disse?
SIRO Che sarà ora ad ordine di tutto.
TIMOTEO E’ questo Callimaco?
CALLIMACO Sono, a’ comandi vostri. Le proferte tra
noi sien fatte: voi avete a disporre di me e di tutte le
fortune mia, come di voi.
TIMOTEO Io l’ho inteso e credolo e sommi messo a
fare quello per te, che io non arei fatto per uomo del
mondo.
CALLIMACO Voi non perderete la fatica.
TIMOTEO E’ basta che tu mi voglia bene.
LIGURIO Lasciamo stare le cerimonie. Noi andreno
a travestirci, Siro ed io. Tu, Callimaco, vien’ con noi,
per potere ire a fare e fatti tua. El frate ci aspetterà
qui: noi torneren subito, e andreno a trovare messe­
re Nicia.
CALLIMACO Tu di’ bene: andiano.
TIMOTEO Vi aspetto.
SCENA SESTA
Frate solo travestito.
TIMOTEO E’ dicono el vero quelli che dicono che le
cattive compagnie conducono gli uomini alle forche,
e molte volte uno càpita male cosí per essere troppo
facile e troppo buono, come per essere troppo tri­
sto. Dio sa che io non pensavo ad iniurare persona,
stavomi nella mia cella, dicevo el mio ufizio, intratte­
nevo e mia devoti: capitommi inanzi questo diavolo
di Ligurio, che mi fece intignere el dito in uno errore,
donde io vi ho messo el braccio, e tutta la persona,
e non so ancora dove io m’abbia a capitare. Pure mi
conforto che quando una cosa importa a molti, molti
ne hanno aver cura. Ma ecco Ligurio e quel servo che
tornono.
SCENA SETTIMA
Fra’ Timoteo, Ligurio, Siro travestiti.
TIMOTEO Voi siate e ben tornati.
LIGURIO Stian noi bene?
TIMOTEO Benissimo.
LIGURIO E’ ci manca el dottore. Andian verso casa
sua: e’ son piú di tre ore, andian via!
SIRO Chi apre l’uscio suo? È egli el famiglio?
LICURI0 No: gli è lui. Ah, ah, ah, uh!
SIRO Tu ridi?
LIGURIO Chi non riderebbe? Egli ha un guarnacchino
indosso, che non gli cuopre el culo. Che diavolo ha
egli in capo? E’ mi pare un di questi gufi de’ cano­
nici, e uno spadaccino sotto: ah, ah! e’ borbotta non
so che. Tirianci da parte, e udireno qualche sciagura
della moglie.
SCENA OTTAVA
Messer Nicia travestito.
NICIA Quanti lezzi ha fatti questa mia pazza! Ella ha
mandato le fante a casa la madre, e ’l famiglio in vil­
la. Di questo io la laudo; ma io non la lodo già che,
innanzi che la ne sia voluta ire al letto, ell’abbi fatto
tante schifiltà: — Io non voglio! ... Come farò io?...
Che mi fate voi fare? ... Oh me!, mamma mia!.. E, se
non che la madre le disse il padre del porro, la non
entrava in quel letto. Che le venga la contina! Io vor­
rei ben vedere le donne schizzinose, ma non tanto;
ché ci ha tolta la testa, cervello di gatta! Poi, chi di­
cessi: Che impiccata sia la piú savia donna di Firenze
la direbbe: — Che t’ho io fatto?. Io so che la Pasquina
enterrà in Arezzo, ed inanzi che io mi parta da giuoco,
io potrò dire, come mona Ghinga: — Di veduta, con
queste mane. Io sto pur bene! Chi mi conoscereb­
be? Io paio maggiore, piú giovane, piú scarzo: e non
sarebbe donna, che mi togliessi danari di letto. Ma
dove troverrò io costoro?
SCENA NONA
Ligurio, messer Nicia, fra’ Timoteo, Siro.
LIGURIO Buona sera, messere.
NICIA Oh! eh! eh!
LIGURIO Non abbiate paura, no’ siàn noi.
NICIA Oh! voi siete tutti qui? S’io non vi conoscevo
presto, io vi davo con questo stocco, el piú diritto
che io sapevo! Tu, se’ Ligurio? e tu, Siro? e quell’altro
el maestro? ah?
LIGURIO Messere, si.
NICIA Togli! Oh, e’ s’è contraffatto bene! e’ non lo co­
noscerebbe Va-qua-tu!
LIGURIO Io gli ho fatto mettere dua noce in bocca,
perché non sia conosciuto alla voce.
NICIA Tu se’ ignorante.
LIGURIO Perché ?
NICIA Che non me ’l dicevi tu prima? Ed are’mene
messo anch’io dua e sai se gli importa non essere
conosciuto alla favella!
LIGURIO Togliete, mettetevi in bocca questo.
NICIA Che è ella?
LIGURIO Una palla di cera.
NICIA Dàlla qua... ca, pu, ca, co, co, cu, cu, spu... Che
ti venga la seccaggine, pezzo di manigoldo!
LIGURIO Perdonatemi, ché io ve ne ho data una in
scambio, che io non me ne sono avveduto.
NICIA Ca, ca, pu, pu... Di che, che, che, che era?
LIGURIO D’aloe.
NICIA Sia, in malora! Spu, spu... Maestro, voi non dite
nulla?
TIMOTEO Ligurio m’ha fatto adirare.
NICIA Oh! voi contrafate bene la voce.
LIGURIO Non perdian piú tempo qui. Io voglio esse­
re el capitano, e ordinare l’esercito per la giornata.
Al destro corno sia preposto Callimaco, al sinistro io,
intra le dua corna starà qui el dottore; Siro fia retro­
guardo, per dar sussidio a quella banda che inclinas­
si. El nome sia san Cucú.
NICIA Chi è san Cucú?
LIGURIO È el piú onorato santo, che sia in Francia.
Andiàn via, mettiàn l’aguato a questo canto. State a
udire: io sento un liuto.
NICIA Egli è esso. Che vogliàn fare?
LIGURIO Vuolsi mandare innanzi uno esploratore a
scoprire chi egli è, e, secondo ci riferirà, secondo fa­
reno.
NICIA Chi v’andrà?
LIGURIO Va’ via, Siro. Tu sai quello hai a fare. Consi­
dera, essamina, torna presto, referisci.
SIRO Io vo.
NICIA Io non vorrei che noi pigliassimo un granchio,
che fussi qualche vecchio debole o infermiccio, e che
questo giuoco si avessi a rifare domandassera.
LIGURIO Non dubitate, Siro è valent’uomo. Eccolo, e’
torna. Che truovi, Siro?
SIRO Egli è el piú bello garzonaccio, che voi vedessi
mai! Non ha venticinque anni, e viensene solo, in pi­
tocchino, sonando el liuto.
NICIA Egli è el caso, se tu di’ el vero. Ma guarda che
questa broda sarebbe tutta gittata addosso a te!
SIRO Egli è quel ch’io v’ho detto.
LIGURIO Aspettiàno ch’egli spunti questo canto, e
subito gli sareno addosso.
NICIA Tiratevi in qua, maestro: voi mi parete un uom
di legno. Eccolo.
CALLIMACO
Venir vi possa el diavolo allo letto,
Dapoi ch’io non vi posso venir io!
LIGURIO Sta’ forte. Da’ qua questo liuto!
CALLIMACO Ohimè! Che ho io fatto?
NICIA Tu el vedrai! Cuoprili el capo, imbavaglialo!
LIGURIO Aggiralo!
NICIA Dàgli un’altra volta! dagliene un’altra! mette­
telo in casa!
TIMOTEO Messere Nicia, io m’andrò a riposare, ché
mi duole la testa, che io muoio. E, se non bisogna, io
non tornerò domattina.
NICIA Sí, maestro, non tornate: noi potrem fare da
noi.
SCENA DECIMA
Frate Timoteo solo.
TIMOTEO E’ sono intanati in casa, ed io me ne andrò
al convento. E voi, spettatori, non ci appuntat:. per­
ché in questa notte non ci dormirà persona, sí che
gli Atti non sono interrotti dal tempo. Io dirò l’uffizio;
Ligurio e Siro ceneranno, ché non hanno mangiato
oggi; el dottore andrà di camera in sala, perchè la cu­
cina vadia netta. Callimaco e madonna Lucrezia non
dormiranno, perché io so, se io fussi lui e se voi fussi
lei, che noí non dormiremmo.
CANZONE
dopo il quarto atto
Oh dolce notte, oh sante
ore notturne e quete,
ch’i disïosi amanti accompagnate;
In voi s’adunan tante
letizie, onde voi siete
sole cagion di far l’alme beate.
Voi, giusti premii date,
all’amorose schiere,
delle lunghe fatiche;
voi fate, o felici ore,
ogni gelato petto arder d’amore!
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Fra’ Timoteo solo.
TIMOTEO Io non ho potuto questa notte chiudere
occhio, tanto è el desiderio, che io ho d’intendere
come Callimaco e gli altri l’abbino fatta. Ed ho atteso
a consumare el tempo in varie cose: io dissi mattuti­
no, lessi una vita de’ Santi Padri, andai in chiesa ed
accesi una lampana che era spenta, mutai un velo
ad una Nostra Donna, che fa miracoli. Quante volte
ho io detto a questi frati che la tenghino pulita! E si
maravigliano poi se la divozione manca! Io mi ricor­
do esservi cinquecento immagine, e non ve ne sono
oggi venti: questo nasce da noi, che non le abbiàno
saputa mantenere la reputazione. Noi vi solavamo
ogni sera doppo la compieta andare a procissione,
e farvi cantare ogni sabato le laude. Botavanci noi
sempre quivi, perché vi si vedessi delle imagine fre­
sche; confortavamo nelle confessioni gli uomini e le
donne a botarvisi. Ora non si fa nulla di queste cose,
e poi ci maravigliamo se le cose vanno fredde! Oh,
quanto poco cervello è in questi mia frati! Ma io sen­
to un grande romore da casa messer Nicia. Eccogli,
per mia fé! E’ cavono fuora el prigione. Io sarò giunto
a tempo. Ben si sono indugiati alla sgocciolatura, e’
si fa appunto l’alba. Io voglio stare ad udire quel che
dicono sanza scoprirmi.
SCENA SECONDA
Messer Nicia, Callimaco, Ligurio, Siro travestiti.
NICIA Piglialo di costà, ed io di qua, e tu, Siro, lo tieni
per il pitocco, di drieto.
CALLIMACO Non mi fate male!
LIGURIO Non aver paura, va’ pur via.
NICIA Non andiam più là.
LIGURIO Voi dite bene. Lasciallo ire qui. Diangli dua
volte, che non sappi donde e’ si da venuto. Giralo,
Siro!
SIRO Ecco.
NICIA Giralo un’altra volta.
SIRO Ecco fatto.
CALLIMACO El mio liuto!
LIGURIO Via, ribaldo, tira via! S’i’ ti sento favellare, io
ti taglierò el collo!
NICIA E’ s’è fuggito. Andianci a sbisacciare: e vuolsi
che noi usciamo fuori tutti a buona ora, acciò che non
si paia che noi abbiamo veghiato questa notte.
LIGURIO Voi dite el vero.
NICIA Andate, voi e Siro, a trovar maestro Callimaco,
e gli dite che la cosa è proceduta bene.
LIGURIO Che li possiamo noi dire? Noi non sappia­
mo nulla. Voi sapete che, arrivati in casa, noi ce n’an­
damo nella volta a bere: voi e la suocera rimanesti
alle mani seco, e non vi rivedemo mai se non ora,
quando voi ci chiamasti per mandarlo fuora.
NICIA Voi dite el vero. Oh! io vi ho da dire le bel­
le cose! Mogliama era nel letto al buio. Sostrata
m’aspettava al fuoco. Io giunsi su con questo garzo­
naccio, e, perché e’ non andassi nulla in capperuccia,
io lo menai in una dispensa, che io ho in sulIa sala,
dove era un certo lume annacquato, che gittava un
poco d’albore, in modo ch’e’ non mi poteva vedere
in viso.
LIGURIO Saviamente.
NICIA Io lo feci spogliare: e’ nicchiava; io me li vol­
si come un cane, di modo che gli parve mill’anni di
avere fuora e panni, e rimase ignudo. Egli è brutto di
viso: egli aveva un nasaccio, una bocca torta; ma tu
non vedesti mai le piú belle carne: bianco, morbido,
pastoso! E dell’altre cose non ne domandate.
LIGURIO E’ non è bene ragionarne, che bisognava
vederlo tutto.
NICIA Tu vuoi el giambo. Poi che io avevo messo
mano in pasta, io ne volsi toccare el fondo: poi vol­
li vedere s’egli era sano: s’egli avessi auto le bolle,
dove mi trovavo io? Tu ci metti parole.
LIGURIO Avete ragion voi.
NICIA Come io ebbi veduto che gli era sano, io me
lo tirai drieto, ed al buio lo menai in camera, messi
al letto; e innanzi mi partissi, volli toccare con mano
come la cosa andava, ché io non sono uso ad essermi
dato ad intendere lucciole per lanterne.
LIGURIO Con quanta prudenzia avete voi governata
questa cosa!
NICIA Tocco e sentito che io ebbi ogni cosa, mi uscii
di camera, e serrai l’uscio, e me n’andai alla suoce­
ra, che era al fuoco, e tutta notte abbiamo atteso a
ragionare.
LIGURIO Che ragionamenti son stati e vostri?
NICIA Della sciocchezza di Lucrezia, e quanto egli era
meglio che sanza tanti andirivieni, ella avessi ceduto
al primo. Dipoi ragionamo del bambino, che me lo
pare tuttavia avere in braccio, el naccherino! Tanto
che io sentii sonare le tredici ore; e, dubitando che
il dí non sopragiugnessi, me n’andai in camera. Che
direte voi, che io non potevo fare levare quel rubal­
done?
LIGURIO Credolo!
NICIA E’ gli era piaciuto l’unto! Pure, e’ si levò, io vi
chiamai, e l’abbiamo condutto fuora.
LIGURIO La cosa è ita bene.
NICIA Che dira’ tu, che me ne ’ncresce?
LIGURIO Di che?
NICIA Di quel povero giovane, ch’egli abbia a mori­
re sí presto, e che questa notte gli abbia a costar sí
cara.
LIGURIO Oh, voi avete e pochi pensieri! Lasciatene
la cura a lui.
NICIA Tu di’ el vero. Ma mi par bene mille anni di
trovare maestro Callimaco, e rallegrarmi seco.
LIGURIO E’ sarà fra una ora fuora. Ma egli è già chiaro
el giorno: noi ci andreno a spogliare; voi, che farete?
NICIA Andronne anch’io in casa, a mettermi e panni
buoni. Farò levare e lavare la donna, farolla venire
alla chiesa, ad entrare in santo. Io vorrei che voi e
Callimaco fussi là, e che noi parlassimo al frate, per
ringraziarlo e ristorallo del bene che ci ha fatto.
LIGURIO Voi dite bene: così si farà.
SCENA TERZA
Fra’ Timoteo solo.
TIMOTEO Io ho udito questo ragionamento, e mi è
piaciuto tutto, considerando quanta sciocchezza sia
in questo dottore; ma la conclusione utima mi ha so­
pra modo dilettato. E poiché debbono venire a tro­
varmi a casa, io non voglio star piú qui, ma aspettargli
alla chiesa, dove la mia mercanzia varrà piú. Ma chi
esce di quella casa? E’ mi pare Ligurio, e con lui deb­
be essere Callimaco. Io non voglio che mi vegghino,
per le ragione dette: pur, quando e’ non venissino a
trovarmi, sempre sarò a tempo ad andare a trovare
loro.
SCENA QUARTA
Callimaco, Ligurio.
CALLIMACO Come io ti ho detto, Ligurio mio, io stetti
di mala voglia infino alle nove ore; e, benché io aves­
si grande piacere, e’ non mi parve buono. Ma, poi che
io me le fu’ dato a conoscere, e ch’io l’ebbi dato ad
intendere l’amore che io le portavo, e quanto facil­
mente per la semplicità del marito, noi potavàno vi­
vere felici sanza infamia alcuna, promettendole che,
qualunque volta Dio facessi altro di lui, di prenderla
per donna; ed avendo ella, oltre alle vere ragioni,
gustato che differenzia è dalla iacitura mia a quella
di Nicia, e da e baci d’uno amante giovane a quelli
d’uno marito vecchio, doppo qualche sospiro, disse:
— Poiché l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito,
la semplicità di mia madre e la tristizia del mio con­
fessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per
me medesima arei fatto, io voglio iudicare che ven­
ga da una celeste disposizione, che abbi voluto così,
e non sono sufficiente a recusare quello che ’l Cielo
vuole che io accetti. Però, io ti prendo per signore,
patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu
voglio che sia ogni mio bene; e quel che ’l mio marito
ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre.
Fara’ti adunque suo compare, e verrai questa matti­
na alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso
noi; e l’andare e lo stare starà a te, e potreno ad ogni
ora e sanza sospetto convenire insieme. Io fui, uden­
do queste parole, per morirmi per la dolcezza. Non
potetti rispondere a la minima parte di quello che io
arei desiderato. Tanto che io mi truovo el piú felice e
contento uomo che fussi mai nel mondo; e, se questa
felicità non mi mancassi o per morte o per tempo, io
sarei piú beato ch’e beati, piú santo ch’e santi.
LIGURIO Io ho gran piacere d’ogni tuo bene, ed ètti
intervenuto quello che io ti dissi appunto. Ma che
facciamo noi ora?
CALLIMACO Andiàno verso la chiesa, perché io le
promissi d’essere là, dove la verrà lei, la madre ed
il dottore.
LIGURIO Io sento toccare l’uscio suo: le sono esse,
che escono fuora, ed hanno el dottore drieto.
CALLIMACO Avviànci in chiesa, e là aspettereno.
SCENA QUINTA
Messer Nicia, Lucrezia, Sostrata.
NICIA Lucrezia, io credo che sia bene fare le cose con
ti more di Dio, e non alla pazzeresca.
LUCREZIA Che s’ha egli a fare, ora?
NICIA Guarda come la risponde! La pare un gallo!
SOSTRATA Non ve ne maravigliate: ella è un poco
alterata.
LUCREZIA Che volete voi dire?
NICIA Dico che gli è bene che io vadia innanzi a
parlare al frate, e dirli che ti si facci incontro in sullo
uscio della chiesa, per menarti in santo, perché gli è
proprio, stamani, come se tu rinascessi.
LUCREZIA Che non andate?
NICIA Tu se’ stamani molto ardita! Ella pareva iersera
mezza morta.
LUCREZIA Egli è la grazia vostra!
SOSTRATA Andate a trovare el frate. Ma e’ non biso­
gna, egli è fuora di chiesa.
NICIA Voi dite el vero.
SCENA SESTA
Fra’ Timoteo, messer Nicia, Lucrezia, Callimaco, Li­
gurio, Sostrata.
TIMOTEO Io vengo fuora, perché Callimaco e Ligurio
m’banno detto che el dottore e le donne vengono
alla chiesa. Eccole.
NICIA Bona dies, padre!
TIMOTEO Voi sete le ben venute, e buon pro vi fac­
cia, madonna, che Dio vi dia a fare un bel figliuolo
maschio!
LUCREZIA Dio el voglia!
TIMOTEO E’ lo vorrà in ogni modo.
NICIA Veggh’io in chiesa Ligurio e maestro Callima­
co?
TIMOTEO Messer sí.
NICIA Accennateli .
TIMOTEO Venite!
CALLIMACO Dio vi salvi!
NICIA Maestro, toccate la mano qui alla donna mia.
CALLIMACO Volentieri.
NICIA Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che
noi aremo uno bastone che sostenga la nostra vec­
chiezza.
LUCREZIA Io l’ho molto caro, e vuolsi che sia nostro
compare.
NlCIA Or benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio
venghino stamani a desinare con esso noi.
LUCREZIA In ogni modo.
NICIA E vo’ dar loro la chiave della camera terrena
d’in su la loggia, perché possino tornarsi quivi a loro
comodità, che non hanno donne in casa, e stanno
come bestie.
CALLIMACO Io l’accetto, per usarla quando mi accag­
gia.
TIMOTEO Io ho avere e danari per la limosina?
NICIA Ben sapete come, domine, oggi vi si mande­
ranno.
LIGURIO Di Siro non è uomo che si ricordi?
NICIA Chiegga, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quan­
ti grossi hai a dare al frate, per entrare in santo?
LUCREZIA Dategliene dieci.
NICIA Affogaggine!
TIMOTEO E voi, madonna Sostrata, avete, secondo
che mi pare, messo un tallo in sul vecchio.
SOSTRATA Chi non sarebbe allegra?
TIMOTEO Andianne tutti in chiesa, e quivi direno
l’orazione ordinaria; dipoi, doppo l’uficio, ne andre­
te a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non
aspettate che noi usciàno piú fuora: l’uficio è lungo,
io mi rimarrò in chiesa, e loro, per l’uscio del fianco,
se n’andranno a casa. Valète!
- Fine -
Ludovico Ariosto
Se Pietro Bembo segna l’avvio alla definizione della letterarietà (an­cor meglio
conclusa dal Trissino) in un contesto in cui la stampa proponeva un ventaglio
assai ampio di tipologie culturali, di canoni letterari e di registri linguistici, con
buon tempismo contrappuntistico Ludovico Ariosto dava voce alla disillusione,
disarmante ed insieme contraddittoria, delle speranze tanto di una concreta
utilizzazione estetica della comunicazione letteraria nell’hinc et nunc, quanto di
una sua diversa utilizzazione, sia pure in prospettiva. Va da sé che tale sfiducia è
da inquadrarsi nel contesto più ampio degli atteggiamenti che l’Ariosto assunse
nei confronti della cultura rinascimentale di corte e non: e tuttavia la corsa a
procurarsi un posto nell’Olimpo della letteratura, cui la stampa aveva dato la
stura, si propose alla sua attenzione come la rappresentazione più evidente della
ipocrisia e dell’inganno che si nascondono nelle parole in genere, e nella parola
letteraria in particolare.
Già Boiardo, quando s’era accorto che tutta la penisola bruciava, aveva sospeso
la favola bella di Fiordespina e l’intero Orlando innamorato: è che la letteratura, e
la favola soprattutto non potevano reggere nel rumore creato dalla guerra. Anzi
parevano, ed erano, fuori di luogo e di tempo. Ludovico assolutizza il punto
d’arrivo boiardesco: l’intellettuale crede, o fa credere, di dire una verità, nella
quale ognuno può cogliere ciò che gli aggrada: così viene relativizzata l’intenzione
veridica, quando c’è, dell’autore, ma di fatto è resa irrilevante. La falsificazione è
nell’atto della ricezione della comunicazione letteraria che non può che essere
molteplice e contraddittoria: tal che, dica o non dica la verità, il poeta è sempre
mendace. I versi 23, 1-4 del canto xxvi possono essere l’epigrafe del discorso
ariostesco sulla letteratura:
Il buon Turpin, che sa che dice il vero,
e lascia creder poi quel ch’a l’uom piace,
narra mirabil cose di Ruggiero,
ch’udendolo, il direste voi mendace.
Così è che il discorso centrale dell’Orlando furioso, quello della pazzia d’Orlando
si gioca per gran parte sulla precisa scelta del paladino di intendere le scritte
che trova dappertutto nella foresta in maniera diversa dalla semplice verità che
chiaramente esprimono. Orlando riconosce nei nomi scritti, e legati in cento modi,
la grafia che egli ha letto altre volte («di tal’io n’ho vedute e lette», xxiii, 104, 2), e
finalmente crede di capire: Medoro è il nome di cui si serve Angelica per indicare
proprio lui. Indubbiamente nella falsa decodificazione del messaggio letterario
agisce la condizione di forte innamoramento del paladino: ma non è forse vero che
tutti gli uomini sono folli, e che ogni saggezza della terra è finita sulla Luna ? Se
la sorte insiste perché Orlando prenda atto della definitiva conclusione della sua
vicenda amorosa portandolo dinanzi alla grotta in cui la sua Angelica si rifugiava
col di lei Medoro, il paladino dal canto suo resta intrepidamente, e pateticamente,
fermo nelle sue convinzioni. Il passo, assai famoso, a noi serve per mettere in
evidenza il destino della comunicazione letteraria quando, lasciato dal suo autore
e divenuto testo, in qualche modo dovrebbe essere autonomo e autonomamente
in grado di rivelare il suo contenuto vero. Che si tratti di letteratura Ariosto si fa
premura d’avvertire il lettore: « Del gran piacer… Questa sentenza in versi avea
ridotta»: i versi di Medoro si estendono per due ottave che Ariosto struttura in
maniera peculiare: la prima ottava esplicita con chiarezza assoluta ciò che avveniva
in quella grotta e i protagonisti: «spesso nelle mia braccia nuda giacque» e
«Angelica che nacque Di Galafron», sino ad includervi una sufficientemente chiara
allusione allo stesso Paladino. La seconda ottava sviluppa il tema della lode dei
luoghi nel registro della deprecatio damni per i comodi che le erbe, l’ombra, l’antro
avevano offerto ai due amanti. Era una tematica assai diffusa nella letteratura dalla
petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque alle ariostesche rime di Non fu qui dove Amor
tra riso e gioco e O più che ’l giorno a me lucida e chiara. I due registri, l’uno per così dire
storico, l’altro letterario, incidono finalmente nella comprensione del disperato
amante che cerca, comunque, di non trovarvi quello che legge. Orlando è vicino ad
impazzire, quand’ecco che riesce a elaborare una interpretazione del messaggio
che gli « piace », che gli potrà fornire un lieve speranza: qualcuno vuole diffamare
ai suoi occhi Angelica o vuole che egli sia colpito dalla più dolorosa gelosia.
Orlando, cioè legge in chiave d’invezione letteraria le due parti della confessione,
annullando la veridicità dei dati della prima parte. È, insomma, sempre possibile
si fraintendano le parole scritte, o perché le condizioni dell’animo non permettono
la loro reale comprensione, o perché nel lettore esiste una precisa volontà di
allontanare la verità in esse contenuta.
La poesia scritta sulle pareti della grotta, se è più apertamente riconducibile alla
chiave di lettura della comunicazione letteraria, non esaurisce, però, le potenzialità
dell’intero episodio. Si ricorderà come Orlando con l’appena acquisita fievole
speranza si diriga verso la casupola di un pastore che l’ospita. È la casa dove
Angelica aveva portato Medoro mortalmente ferito e dove l’aveva curato, assistito
e, infine, dove i due s’erano sposati. Orlando non cena, ha bisogno di riposo. Ed
ecco le pareti il letto stesso gli offrono nuovamente mille e mille incisioni di quei
nomi. Il paladino è più inquieto che mai. Il pastore gli legge in viso la sua tristezza;
vorrebbe allegrare il suo animo con una storia dilettevole, come per altro ha fatto
altre volte. La sua è la storia di due amanti: lei bellissima, lui ferito. Lei lo cura,
ma Amore la ferisce profondamente, sì che ella non trovava pace. Anzi, incurante
d’essere la figliola del maggior re d’Oriente decide di diventare la moglie di un
povero fante. Il pastore vuole raccontare una di quelle novelle che si raccontavano
a corte, che si leggevano in tanta letteratura più o meno popolare: la sua è una
favola che serve a porgere diletto a chi l’ascolta e, come tutte le novelle, affonda
le sue radici nella realtà, ma da realtà di fatti divenuta parola e racconto, cioè
gioco di trame, peripezia che tende aristotelicamente alla catarsi del destinatario:
mercé del diletto. Questa è l’intenzione letteraria e la volontà del pastore. Ecco
che però, ancora una volta in Ariosto, il rapporto emittente destinatario fa corto
circuito e fallisce: la novella non porta diletto; ma è il dato oggettivo dell’anello
donato al pastore da Angelica quello che comunica e fa recepire la verità: è colpo
di scure che fa impazzire Orlando. Conta il rovesciamento del genere letterario:
conta la rinnovata professione dell’impossibilità della comunicazione verbale,
prima che letteraria, tra affabulatore, a voce o per iscritto, e pubblico.
In maniera pressoché complementare sta l’altro episodio in cui è espressa la
tematica della letteratura nel Furioso. Alludiamo all’episodio di Astolfo sulla Luna,
sulla quale il paladino ritrova ciò che si perde sulla terra « o per nostro diffetto, O
per colpa di tempo o di Fortuna »: i voti e le preghiere non esauditi, le lacrime e i
sospiri degli amanti, l’ozio degli uomini ignoranti. In vuote vesciche sono ridotti i
regni antichi: tutte le glorie terrene si rivelano essere bolle d’aria. Dai grandi regni
del passato si passa alle piccole corti, i cui doni, fatti per ricevere ricompense, e
le adulazioni rivelano una origine fraudolenta. Cicale scoppiate sono i « versi ch’in
laude dei signor si fanno », ed artigli d’aquile i poteri che i signori attribuiscono ai
fidi: la vita di corte è largamente rappresentata in tutte le sue storture. È inutile in
questa sede soffermarsi su ciò che Astolfo trova nel mondo della Luna. Basti per il
momento il ritrovamento del « monte » del senno: vi sono ampolle sulle quali sta
scritto il nome dell’originario padrone. Il senno si perde rincorrendo amori, onori,
ricchezze, ma anche opere d’arte, o in teorie filosofiche e scientifiche. Molto è,
sulla luna, il senno dei poeti:
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto. [xxxiv, 85]
Raccolta l’ampolla del senno d’Orlando, Astolfo viene portato nel palazzo
delle Parche e del Tempo. Qui termina il canto xxxiv. Il xxxv si apre, come spesso
avviene, con le considerazioni di Ludovico che in questo caso si concretano in
un’appassionata dichiarazione d’amore alla sua Alessandra Benucci. Converrà
rileggerla, giacché tutta la costruzione delle ottave che noi seguiremo è complessa
e ricca di rinvii e negazioni. Ariosto scrive che egli non può contare su nessuno
perché recuperi il suo ingegno perduto per amore dei begli occhi di Alessandra:
tuttavia egli non lamenta la perdita, purché non vada oltre quel limite e finisca
folle del tutto come Orlando. In vero, continua, non crede che si debba andare
sino al mondo della Luna a riprendere ciò che egli ha perso: il suo ingegno è negli
occhi sul seno sulle labbra della sua donna e per certo egli potrà recuperarlo
baciandoli se ella lo permetterà. Insomma, altra è la rappresentazione letteraria
della follia d’amore, altra la realtà, che non solo non è meno bella di quella, anzi
(qui tuttavia, ma forse non a caso), della rappresentazione letteraria è meno
drammatica, più rasserenante. Eppure la rappresentazione di Alessandra è tutta
modulata su un petrarchismo che diremmo di ma­niera tanto l’immagine del
dardo era d’uso comune, come d’uso comune sono il « sereno viso », il « sen
d’avorio » e gli « alabastrini poggi ». Sì che, negato il valore della fabula, della sua
fabula, letteraria Ariosto ricorreva alla funzione persuasiva della comunicazione
estetica per ottenere le grazie dell’amata: sempre che non sia, come pare, una
metamorforsi della letteratura adulatoria, questa volta indirizzata ad uno specifico
lettore privato, anziché al vasto pubblico ed al potere: sempre cioè, che le parole
ad Alessandra non siano manifestazione d’un ulteriore inganno della letteratura.
La narrazione riprende con la visita di Astolfo, sempre accompa­gnato da san
Giovanni, al palazzo dove erano i velli ancora da filare, delle vite, insomma,
future. E qui incontra, splendido tra gli altri un vello « più che d’or fino »: è il
vello del cardinale Ippolito che « non avea simile o pare ». La lode del cardinale
è intessuta dal santo per volontà del Signore. È uno dei momenti il cui il poeta
paga il suo tributo (ma risuona ancora l’eco delle parole ad Alessandra) più alto al
mecenatismo estense:
Quegli ornamenti che divisi in molti,
a molti basterian per tutti ornarli,
in suo ornamento avrà tutti raccolti
costui, di c’hai voluto ch’io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui soffolti
saran gli studi; e s’io vorrò narrar li
alti suoi merti, al fin son sì lontano,
ch’Orlando il senno aspetterebbe invano. [xxxv, 9]
Con le lodi di Ippolito si chiude la visita al palazzo dei velli da filare. Appena
fuori incontrano un vecchio, più veloce d’un cervo, che riempiva il mantello dei
nomi, incisi su piastre, di uomini più o meno illustri, e veniva a scaricarli in quel
fiume che si chiama Lete, il fiume dell’oblio. La maggior parte di quelle piastre
sprofonda nella sabbia sì che il mondo ne perde del tutto la memoria: « di
cento migliaia che l’arena Sul fondo involve, un se ne serva a pena ». Il tempo
involve tutto nella sua notte. L’appena terminato panegirico di Ippolito ha come
correlativa la forza distruttrice del tempo contro la quale a nulla valgono i voli di
corvi, avvoltoi e « mulacchie » che si calano su quelle piastre come prede e le
sottraggono al fiume. Sono i poeti che s’affannano a sottrarre all’oblio questo o
quel nome, ma « non han poi forza che ’l peso sostegna » così che è inevitabile
che il Lete travolga tutti nomi. Naturalmente, fa eccezione il nome d’Ippolito il cui
nome è portato con sicurezza da due bianchi cigni. Capita, infatti, talora che quegli
uccelli riescano a sottrarre alla condanna del tempo pochi nomi e a trasportarli
nel tempio dell’Immortalità dove una ninfa, la Fama, li colloca in un luogo dove si
possano vedere in eterno.
Astolfo chiede a san Giovanni cosa rappresentino gli uccelli: sono i ruffiani, gli
adulatori, i buffoni, gli omosessuali, sono, insomma, tutti quelli che vivono nelle
corti e che non pensano ad altro che ad « empir di cibo il sacco ». Sono costoro che
alla morte dei loro signori ricordano per qualche giorno i loro nomi, per lasciarli
subito dopo cadere nell’oblio. È, come si vede, critica feroce, della vita e della
cultura di corte, quella che tante volte Ludovico attacca tanto nell’Or­lando quanto
nelle Satire. Per il momento, tuttavia, non viene ancora attaccato il mecenatismo
letterario; anzi, « bene accorti e discreti » sono quei signori che si fanno « amici »
degli scrittori, giacché essi non avranno a temere le minacce del Lete. Vero è che
i grandi poeti sono assai rari: sia perché il cielo non permette che esistano se non
pochi uomini d’ingegno, sia perché i signori « avari » « lasciano mendicare i sacri
ingegni » e preferiscono deprimere le virtù, esaltare i vizi e allontanare in esilio
« le buone arti ». Non è senza un disegno provvi­denziale che i poeti siano tanto
pochi: infatti, si tratta di una strategia divina affinché tanti e tanto indegni signori
non abbiano possibilità alcuna di assurgere all’eternità. Alcuni signori, infatti,
« ancor ch’avesser tutti i rei costumi » potrebbero farsi protettori dei buoni poeti
tal che conseguirebbero « più grato odore… che nardo o mirra ».
La problematica sottesa è chiara: il mecenatismo è troppo potente e troppo
astuto perché non condizioni la letteratura. Il poeta, quello vero, il raro cigno
che la provvidenza concede esista, è veramente libero di affermare la verità ?
I donativi o le prepotenze dei signori non li costringono a mentire ? Moltissimi
uomini certo furono migliori di Enea, d’Achille e di Ettore, ma i discendenti di
costoro comprarono gli scrittori. Il rapporto committente/scrittore non può non
essere condizionante: viene, così, inficiata dall’Ariosto tanta parte di cultura che,
classica o contemporanea, era nata all’ombra della protezione dei potenti. E
tuttavia non sempre la falsificazione dei contenuti trova una spiegazione nella
situazione d’inferiorità in cui viene a trovarsi lo scrittore. Le ottave 27 e 28 sono
assai interessanti, perché la defor­mazione della storia, operata da Omero a
proposito della guerra di Troia e della vicenda di Ulisse, non ha spiegazione in un
rapporto diretto tra committente e scrittore. Ed ancor più lontana dalla medesima
spiegazione pare la figura di Penelope, che nella realtà sarebbe stata tutt’altro
della sposa fedele che Omero ha interesse a propagandare. La stessa cosa si dica
di Didone che Virgilio denigra: certo si potrebbero indicare ragioni politiche e
d’esaltazione della romanità, se non si presentassero due difficoltà: una di tipo
storico, Cartagine ai tempi d’Augusto era bella e scomparsa dalla storia; una di
tipo morale: perché fare di Didone una « bagascia », quando se ne poteva fare
una donna crudele, ambiziosa e chi più ne ha più ne metta.
Con questo non si dice che l’utile personale non sia condizionante dei poeti. Lo
si è visto prima e lo si vedrà ancora ed ancora più crudamente esposto: quello che
si vuol dire a proposito delle due ottave su indicate è che come Orlando non vuole
capire la verità che è narrata dal messaggio letterario di Medoro, così il poeta può
per mille motivi, anche semplicemente d’umor personale, non capire la verità che
ha davanti agli occhi, può non confessare quello che pensa e sente veramente. La
comunicazione letteraria trova pertanto altre e meno onorevoli motivazioni: ciò
che Ariosto mette in crisi è il modello umanistico dell’intellettuale, del saggio, del
vir bonus dicendi peritus: è da costoro che occorre prendere le distanze, anche da chi
ha appena dedicato la sua fatica ad Ippolito per averne in cambio protezione e
vantaggi. Naturalmente questo non significa che la comunicazione letteraria cessa
d’avere le sue ragioni d’esistenza: si vuole dire che occorre spogliare la letteratura
da quella sacralità d’origine che le teorie del furor apollineo e quella della sapientia
rerum di fatto comportavano.
Tuttavia l’operazione ariostesca non coincide sic et simpliciter con quella che,
insieme con altri, un Pietro Aretino poneva in atto quando propone un intellettuale
che adopera la propria capacità di elaborare messaggi indipendentemente da
ogni regola morale, solo fiducioso nella forza della comunicazione letteraria,
capace di persuadere il pubblico di qualunque cosa, vera e non vera, giusta e non
giusta. Ariosto rivendica la libertà dello scrittore di aderire alla propria umanità e,
se si vuole, alla propria debolezza: sta al destinatario, al lettore, allertarsi sempre
e prestar fede cum grano salis alle scritture. Lo scrittore non ha il dovere d’essere
santo e giusto: è un uomo che ha un gran dono, preziosissimo e raro, quello
dell’arte, che lo differenzia dagli altri mortali; ma non è eticamente migliore degli
altri, o per lo meno non ha l’obbligo d’esserlo.
Non è un caso che il ridimensionamento dello scrittore avvenga per bocca di
san Giovanni, santo e autore di un Vangelo e dell’Apocalisse, testi sui quali tanta
parte della fede cattolica trova autorità. Eppure lo stesso Giovanni ammette che
la sua scrittura gli guadagnò la ricono­scenza di Cristo e vantaggi:
E sopra tutti gli altri io feci acquisto
che non mi può levar tempo né morte:
e ben convenne al mio lodato Cristo
rendermi guidardon di sì gran sorte. [xxxv, 29, 1-4]
L’affermazione giovannea può sembrare addirittura cinica, se non si tenesse
conto che il bisogno di protezione e di gratificazioni da parte di scrive è così
cogente quanto è il bisogno di varvare in qualche modo i limiti della morte. Sono
modi di sentire e di agire che attengono alla vita, o almeno alla vita civile, in cui i
rapporti interpersonali si modulano sull’utilità, e che non conviene caricar troppo
di valori ed aspettative etiche ed ideali se non se ne vuol ricevere disinganni,
come all’Ariosto capitò a Roma. Non resta che constatare la miseria di chi viva
in un’epoca in cui i rapporti non sono fondati sul reciproco riconoscimento delle
dimensioni umane, non eroiche, e non se ne rassegni:
Duolmi di quei che sono al tempo tristo,
quando la cortesia chiuso ha le porte;
che con pallido viso e macro e asciutto
la notte e ’l dì vi picchian senza frutto. [xxxv, 29, 4-8]
In simili contesti la letteratura risulta falsa e falsificante, mentre altra volta la
cortesia e la riconoscenza di Augusto aveva permesso la lode di Virgilio, che a
sua volta aveva fatto passare in secondo piano le proscrizioni ingiuste ordinate
dall’imperatore. Se non altro, nella società dove vige la cortesia le lettere sono
apprezzate ed è apprezzato l’apporto che gli scrittori possono dare alla buona
fama del mecenate.
Per questa via la comunicazione letteraria, pur privata di spessori etici, diventa
gioco o, meglio, rapporto bidirezionato tra emittente e destinatario-committente:
questa comunicazione letteraria ha in sé le ragioni del suo essere e non ha più
bisogno di sostegni morali per giustificarsi: è in qualche misura inganno di parole,
ma noto, e sostanza dell’arte, perciò onesto inganno e auto-inganno; gioco alla
fine, se non morale, almeno civile: giacché dove non esiste la letteratura non c’è
posto neppure per le belve:
Sì che continuando il primo detto,
sono i poeti e gli studiosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
insin le fere abbandonano i lochi.[xxxv, 30, 1-4].
Per questa via Ariosto restituisce la letteratura all’umanità, collocan­dola nel
posto più alto tra le attività umane, senza che perciò subisca perdita di valore se
non quella di una finta sacralità che i tempi, e in quei tempi la stampa, rendevano
anacronistica. Questo spiega perché poi l’Orlando furioso si chiuda con l’immagine
della nave che si avvicina al porto nel quale i committenti-destinatari aspettano
l’autore. È una folla di uomini e donne che vivono a corte in qualità di signori o di
amici di signori: molti di essi sono letterati o sono presenti nei circoli di intellettuali
e sono rappresentati nei dialoghi che quel secolo produsse in gran quantità. I nomi
si succedono numerosi sì da essere rappre­sentativi del pubblico cui si indirizza
il poema: un pubblico di umanisti di studiosi e di intellettuali. Manca il pubblico
popolare, che della poematica cavalleresca presto si impossesserà per dare la
stura ad una letteratura, che, se manca troppo spesso d’arte e di poesia, fu tuttavia
il segno dello stabilizzarsi di un modo nuovo d’intendere l’attività letteraria; quel
pubblico avrebbe potuto condizionare la comunicazione scritta se gli intellettuali
avessero saputo, e potuto, staccarsi dal modello bembiano. Il destinatario cui
Ariosto indirizza il suo poema è ancora quello di corte; quello che richiede i tanti
poemi di continuazione, interessato al mero viluppo delle vicende, è un pubblico
borghese, svincolato dalle regole di raffinatezza e di cultura imposte dalla corte.
Ariosto si interessa a questo pubblico di traverso ed indirettamente, se tra le
tante cure che dedicò all’Orlando alcune ebbero a riguardare i problemi materiali
della stampa. Ne parliamo nel contesto della comunicazione letteraria che spesso
sarà condizionata non solamente dal pubblico, ma anche dagli editori, più o meno
autorizzati, dai falsari, e da tutta una serie di ostacoli che spesso spinsero gli
scrittori a rivedere e a ripubblicare ampliandole le proprie opere nella speranza
di ricu­perare lettori, e diritti d’autore. Qui riportiamo alcune lettere di Ludovico,
in cui il poeta chiede la protezione contro coloro che hanno stampato senza la
sua licenza il poema; in altre chiede sconti sul dazio della carta da utilizzare
per una nuova edizione dell’Orlando. Con un termine in uso nella teoria della
comunicazione questi problemi potrebbero chiamare il ’rumore’ che disturba il
rapporto tra l’emittente ed il destinatario.
ORLANDO FURIOSO
CANTO I
CANTO PRIMO
1 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
2Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
3 Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
4 Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensieri cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.
5Orlando, che gran tempo innamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti ed immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,
6 per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentì d’esservi giunto:
7Che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperi ai liti eoi
avea difesa con sì lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.
8Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che entrambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse, e diè in mano al duca di Bavera;
9 in premio promettendola a quel d’essi,
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degl’infideli più copia uccidessi,
e di sua man prestasse opra più grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.
10Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi al caso era salita in sella,
e quando bisognò le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.
11Indosso la corazza, l’elmo in testa,
la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
e più leggier correa per la foresta,
ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
Timida pastorella mai sì presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.
12Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l’angelico sembiante e quel bel volto
ch’all’amorose reti il tenea involto.
13 La donna il palafreno a dietro volta,
e per la selva a tutta briglia il caccia;
né per la rara più che per la folta,
la più sicura e miglior via procaccia:
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al destrier che la via faccia.
Di sù di giù, ne l’alta selva fiera
tanto girò, che venne a una riviera.
14 Su la riviera Ferraù trovosse
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
né l’avea potuto anco riavere.
15 Quanto potea più forte, ne veniva
gridando la donzella ispaventata.
A quella voce salta in su la riva
il Saracino, e nel viso la guata;
e la conosce subito ch’arriva,
ben che di timor pallida e turbata,
e sien più dì che non n’udì novella,
che senza dubbio ell’è Angelica bella.
16E perché era cortese, e n’avea forse
non men de’ dui cugini il petto caldo,
l’aiuto che potea tutto le porse,
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:
trasse la spada, e minacciando corse
dove poco di lui temea Rinaldo.
Più volte s’eran già non pur veduti,
m’al paragon de l’arme conosciuti.
17Cominciar quivi una crudel battaglia,
come a piè si trovar, coi brandi ignudi:
non che le piastre e la minuta maglia,
ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi.
Or, mentre l’un con l’altro si travaglia,
bisogna al palafren che ’l passo studi;
che quanto può menar de le calcagna,
colei lo caccia al bosco e alla campagna.
18 Poi che s’affaticar gran pezzo invano
i dui guerrier per por l’un l’altro sotto,
quando non meno era con l’arme in mano
questo di quel, né quel di questo dotto;
fu primiero il signor di Montalbano,
ch’al cavallier di Spagna fece motto,
sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco,
che tutto n’arde e non ritrova loco.
19Disse al pagan: - Me sol creduto avrai,
e pur avrai te meco ancora offeso:
se questo avvien perché i fulgenti rai
del nuovo sol t’abbino il petto acceso,
di farmi qui tardar che guadagno hai?
che quando ancor tu m’abbi morto o preso,
non però tua la bella donna fia;
che, mentre noi tardiam, se ne va via.
20 Quanto fia meglio, amandola tu ancora,
che tu le venga a traversar la strada,
a ritenerla e farle far dimora,
prima che più lontana se ne vada!
Come l’avremo in potestate, allora
di chi esser de’ si provi con la spada:
non so altrimenti, dopo un lungo affanno,
che possa riuscirci altro che danno. 21Al pagan la proposta non dispiacque:
così fu differita la tenzone;
e tal tregua tra lor subito nacque,
sì l’odio e l’ira va in oblivione,
che ’l pagano al partir da le fresche acque
non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone:
con preghi invita, ed al fin toglie in groppa,
e per l’orme d’Angelica galoppa.
22Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
Da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva.
23E come quei che non sapean se l’una
o l’altra via facesse la donzella
(però che senza differenza alcuna
apparia in amendue l’orma novella),
si messero ad arbitrio di fortuna,
Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraù molto s’avvolse,
e ritrovossi al fine onde si tolse.
24 Pur si ritrova ancor su la rivera,
là dove l’elmo gli cascò ne l’onde.
Poi che la donna ritrovar non spera,
per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde,
in quella parte onde caduto gli era
discende ne l’estreme umide sponde:
ma quello era sì fitto ne la sabbia,
che molto avrà da far prima che l’abbia.
25Con un gran ramo d’albero rimondo,
di ch’avea fatto una pertica lunga,
tenta il fiume e ricerca sino al fondo,
né loco lascia ove non batta e punga.
Mentre con la maggior stizza del mondo
tanto l’indugio suo quivi prolunga,
vede di mezzo il fiume un cavalliero
insino al petto uscir, d’aspetto fiero.
26Era, fuor che la testa, tutto armato,
ed avea un elmo ne la destra mano:
avea il medesimo elmo che cercato
da Ferraù fu lungamente invano.
A Ferraù parlò come adirato,
e disse: - Ah mancator di fé, marano!
perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi,
che render già gran tempo mi dovevi?
27Ricordati, pagan, quando uccidesti
d’Angelica il fratel (che son quell’io),
dietro all’altr’arme tu mi promettesti
gittar fra pochi dì l’elmo nel rio.
Or se Fortuna (quel che non volesti
far tu) pone ad effetto il voler mio,
non ti turbare; e se turbar ti déi,
turbati che di fé mancato sei.
28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino,
trovane un altro, ed abbil con più onore;
un tal ne porta Orlando paladino,
un tal Rinaldo, e forse anco migliore:
l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino:
acquista un di quei dui col tuo valore;
e questo, ch’hai già di lasciarmi detto,
farai bene a lasciarmi con effetto. 29All’apparir che fece all’improvviso
de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi,
e scolorossi al Saracino il viso;
la voce, ch’era per uscir, fermossi.
Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso
quivi avea già (che l’Argalia nomossi)
la rotta fede così improverarse,
di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.
30Né tempo avendo a pensar altra scusa,
e conoscendo ben che ’l ver gli disse,
restò senza risposta a bocca chiusa;
ma la vergogna il cor sì gli trafisse,
che giurò per la vita di Lanfusa
non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
se non quel buono che già in Aspramonte
trasse dal capo Orlando al fiero Almonte.
31E servò meglio questo giuramento,
che non avea quell’altro fatto prima.
Quindi si parte tanto malcontento,
che molti giorni poi si rode e lima.
Sol di cercare è il paladino intento
di qua di là, dove trovarlo stima.
Altra ventura al buon Rinaldo accade,
che da costui tenea diverse strade.
32Non molto va Rinaldo, che si vede
saltare inanzi il suo destrier feroce:
- Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!
che l’esser senza te troppo mi nuoce. Per questo il destrier sordo, a lui non riede
anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.
33 Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
34 Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura trema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.
35 Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno
s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fin in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.
36 Quivi parendo a lei d’esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l’estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
e quel va errando intorno alle chiare onde,
che di fresca erba avean piene le sponde.
37Ecco non lungi un bel cespuglio vede
di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose;
così voto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l’ombre più nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che ’l sol non v’entra, non che minor vista.
38Dentro letto vi fan tenere erbette,
ch’invitano a posar chi s’appresenta.
La bella donna in mezzo a quel si mette,
ivi si corca ed ivi s’addormenta.
Ma non per lungo spazio così stette,
che un calpestio le par che venir senta:
cheta si leva e appresso alla riviera
vede ch’armato un cavallier giunt’era.
39 Se gli è amico o nemico non comprende:
tema e speranza il dubbio cor le scuote;
e di quella aventura il fine attende,
né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
Il cavalliero in riva al fiume scende
sopra l’un braccio a riposar le gote;
e in un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.
40 Pensoso più d’un’ora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò con suono afflitto e lasso
a lamentarsi sì soavemente,
ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,
una tigre crudel fatta clemente.
Sospirante piangea, tal ch’un ruscello
parean le guance, e ’l petto un Mongibello.
41- Pensier (dicea) che ’l cor m’agghiacci ed ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,
e ch’altri a corre il frutto è andato prima?
a pena avuto io n’ho parole e sguardi,
ed altri n’ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affligger per lei mi vuo’ più il core?
42 La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avvicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
43 Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che ’l fior, di che più zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.
44 Sia Vile agli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sì larga copia.
Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
Dunque esser può che non mi sia più grata?
dunque io posso lasciar mia vita propia?
Ah più tosto oggi manchino i dì miei,
ch’io viva più, s’amar non debbo lei! 45 Se mi domanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch’egli è il re di Circassia,
quel d’amor travagliato Sacripante;
io dirò ancor, che di sua pena ria
sia prima e sola causa essere amante,
è pur un degli amanti di costei:
e ben riconosciuto fu da lei.
46Appresso ove il sol cade, per suo amore
venuto era dal capo d’Oriente;
che seppe in India con suo gran dolore,
come ella Orlando sequitò in Ponente:
poi seppe in Francia che l’imperatore
sequestrata l’avea da l’altra gente,
per darla all’un de’ duo che contra il Moro
più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro.
47 Stato era in campo, e inteso avea di quella
rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo:
cercò vestigio d’Angelica bella,
né potuto avea ancora ritrovarlo.
Questa è dunque la trista e ria novella
che d’amorosa doglia fa penarlo,
affligger, lamentare, e dir parole
che di pietà potrian fermare il sole.
48 Mentre costui così s’affligge e duole,
e fa degli occhi suoi tepida fonte,
e dice queste e molte altre parole,
che non mi par bisogno esser racconte;
l’aventurosa sua fortuna vuole
ch’alle orecchie d’Angelica sian conte:
e così quel ne viene a un’ora, a un punto,
ch’in mille anni o mai più non è raggiunto.
49Con molta attenzion la bella donna
al pianto, alle parole, al modo attende
di colui ch’in amarla non assonna;
né questo è il primo dì ch’ella l’intende:
ma dura e fredda più d’una colonna,
ad averne pietà non però scende,
come colei c’ha tutto il mondo a sdegno,
e non le par ch’alcun sia di lei degno.
50 Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola
le fa pensar di tor costui per guida;
che chi ne l’acqua sta fin alla gola
ben è ostinato se mercé non grida.
Se questa occasione or se l’invola,
non troverà mai più scorta sì fida;
ch’a lunga prova conosciuto inante
s’avea quel re fedel sopra ogni amante.
51 Ma non però disegna de l’affanno
che lo distrugge alleggierir chi l’ama,
e ristorar d’ogni passato danno
con quel piacer ch’ogni amator più brama:
ma alcuna fizione, alcuno inganno
di tenerlo in speranza ordisce e trama;
tanto ch’a quel bisogno se ne serva,
poi torni all’uso suo dura e proterva.
52E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
fa di sé bella ed improvvisa mostra,
come di selva o fuor d’ombroso speco
Diana in scena o Citerea si mostra;
e dice all’apparir: - Pace sia teco;
teco difenda Dio la fama nostra,
e non comporti, contra ogni ragione,
ch’abbi di me sì falsa opinione. 53Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,
ch’avea per morto sospirato e pianto,
poi che senza esso udì tornar le squadre;
con quanto gaudio il Saracin, con quanto
stupor l’alta presenza e le leggiadre
maniere, e il vero angelico sembiante,
improviso apparir si vide inante.
54 Pieno di dolce e d’amoroso affetto,
alla sua donna, alla sua diva corse,
che con le braccia al collo il tenne stretto,
quel ch’al Catai non avria fatto forse.
Al patrio regno, al suo natio ricetto,
seco avendo costui, l’animo torse:
subito in lei s’avviva la speranza
di tosto riveder sua ricca stanza.
55Ella gli rende conto pienamente
dal giorno che mandato fu da lei
a domandar soccorso in Oriente
al re de’ Sericani e Nabatei;
e come Orlando la guardò sovente
da morte, da disnor, da casi rei:
e che ’l fior virginal così avea salvo,
come se lo portò del materno alvo.
56 Forse era ver, ma non però credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch’era perduto in via più grave errore.
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibiIe,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu; che ’l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
57- Se mal si seppe il cavallier d’Anglante
pigliar per sua sciocchezza il tempo buono,
il danno se ne avrà; che da qui inante
nol chiamerà Fortuna a sì gran dono
(tra sé tacito parla Sacripante):
ma io per imitarlo già non sono,
che lasci tanto ben che m’è concesso,
e ch’a doler poi m’abbia di me stesso.
58Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch’a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch’io non adombri e incarni il mio disegno. 59Così dice egli; e mentre s’apparecchia
al dolce assalto, un gran rumor che suona
dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,
sì che mal grado l’impresa abbandona:
e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia
di portar sempre armata la persona),
viene al destriero e gli ripon la briglia,
rimonta in sella e la sua lancia piglia.
60Ecco pel bosco un cavallier venire,
il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:
candido come nieve è il suo vestire,
un bianco pennoncello ha per cimiero.
Re Sacripante, che non può patire
che quel con l’importuno suo sentiero
gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,
con vista il guarda disdegnosa e rea.
quando a lasciare il campo è stato primo. 61Come è più appresso, lo sfida a battaglia;
che crede ben fargli votar l’arcione.
Quel che di lui non stimo già che vaglia
un grano meno, e ne fa paragone,
l’orgogliose minacce a mezzo taglia,
sprona a un tempo, e la lancia in resta pone.
Sacripante ritorna con tempesta,
e corronsi a ferir testa per testa.
62Non si vanno i leoni o i tori in salto
a dar di petto, ad accozzar sì crudi,
sì come i duo guerrieri al fiero assalto,
che parimente si passar li scudi.
Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto
l’erbose valli insino ai poggi ignudi;
e ben giovò che fur buoni e perfetti
gli osberghi sì, che lor salvaro i petti.
63 Già non fero i cavalli un correr torto,
anzi cozzaro a guisa di montoni:
quel del guerrier pagan morì di corto,
ch’era vivendo in numero de’ buoni:
quell’altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch’al fianco si sentì gli sproni.
Quel del re saracin restò disteso
adosso al suo signor con tutto il peso.
64 L’incognito campion che restò ritto,
e vide l’altro col cavallo in terra,
stimando avere assai di quel conflitto,
non si curò di rinovar la guerra;
ma dove per la selva è il camin dritto,
correndo a tutta briglia si disserra;
e prima che di briga esca il pagano,
un miglio o poco meno è già lontano.
65 Qual istordito e stupido aratore,
poi ch’è passato il fulmine, si leva
di là dove l’altissimo fragore
appresso ai morti buoi steso l’aveva;
che mira senza fronde e senza onore
il pin che di lontan veder soleva:
tal si levò il pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso.
66 Sospira e geme, non perché l’annoi
che piede o braccio s’abbi rotto o mosso,
ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi
né pria né dopo il viso ebbe sì rosso:
e più, ch’oltre il cader, sua donna poi
fu che gli tolse il gran peso d’adosso.
Muto restava, mi cred’io, se quella
non gli rendea la voce e la favella.
67- Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca!
che del cader non è la colpa vostra,
ma del cavallo, a cui riposo ed esca
meglio si convenia che nuova giostra.
Né perciò quel guerrier sua gloria accresca
che d’esser stato il perditor dimostra:
così, per quel ch’io me ne sappia, stimo,
68 Mentre costei conforta il Saracino,
ecco col corno e con la tasca al fianco,
galoppando venir sopra un ronzino
un messagger che parea afflitto e stanco;
che come a Sacripante fu vicino,
gli domandò se con un scudo bianco
e con un bianco pennoncello in testa
vide un guerrier passar per la foresta.
69Rispose Sacripante: - Come vedi,
m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora;
e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi,
fa che per nome io lo conosca ancora. Ed egli a lui: - Di quel che tu mi chiedi
io ti satisfarò senza dimora:
tu dei saper che ti levò di sella
l’alto valor d’una gentil donzella.
70Ella è gagliarda ed è più bella molto;
né il suo famoso nome anco t’ascondo:
fu Bradamante quella che t’ha tolto
quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto
il Saracin lasciò poco giocondo,
che non sa che si dica o che si faccia,
tutto avvampato di vergogna in faccia.
71 Poi che gran pezzo al caso intervenuto
ebbe pensato invano, e finalmente
si trovò da una femina abbattuto,
che pensandovi più, più dolor sente;
montò l’altro destrier, tacito e muto:
e senza far parola, chetamente
tolse Angelica in groppa, e differilla
a più lieto uso, a stanza più tranquilla.
72Non furo iti due miglia, che sonare
odon la selva che li cinge intorno,
con tal rumore e strepito, che pare
che triemi la foresta d’ogn’intorno;
e poco dopo un gran destrier n’appare,
d’oro guernito e riccamente adorno,
che salta macchie e rivi, ed a fracasso
arbori mena e ciò che vieta il passo.
73- Se l’intricati rami e l’aer fosco,
(disse la donna) agli occhi non contende,
Baiardo è quel destrier ch’in mezzo il bosco
con tal rumor la chiusa via si fende.
Questo è certo Baiardo, io ’l riconosco:
deh, come ben nostro bisogno intende!
ch’un sol ronzin per dui saria mal atto,
e ne viene egli a satisfarci ratto. 74 Smonta il Circasso ed al destrier s’accosta,
e si pensava dar di mano al freno.
Colle groppe il destrier gli fa risposta,
che fu presto al girar come un baleno;
ma non arriva dove i calci apposta:
misero il cavallier se giungea a pieno!
che nei calci tal possa avea il cavallo,
ch’avria spezzato un monte di metallo.
75Indi va mansueto alla donzella,
con umile sembiante e gesto umano,
come intorno al padrone il can saltella,
che sia duo giorni o tre stato lontano.
Baiardo ancora avea memoria d’ella,
ch’in Albracca il servia già di sua mano
nel tempo che da lei tanto era amato
Rinaldo, allor crudele, allor ingrato.
76Con la sinistra man prende la briglia,
con l’altra tocca e palpa il collo e ’l petto:
quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia,
a lei, come un agnel, si fa suggetto.
Intanto Sacripante il tempo piglia:
monta Baiardo e l’urta e lo tien stretto.
Del ronzin disgravato la donzella
lascia la groppa, e si ripone in sella.
77 Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira
venir sonando d’arme un gran pedone.
Tutta s’avvampa di dispetto e d’ira,
che conosce il figliuol del duca Amone.
Più che sua vita l’ama egli e desira;
l’odia e fugge ella più che gru falcone.
Già fu ch’esso odiò lei più che la morte;
ella amò lui: or han cangiato sorte.
78E questo hanno causato due fontane
che di diverso effetto hanno liquore,
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie il core;
chi bee de l’altra, senza amor rimane,
e volge tutto in ghiaccio il primo ardore.
Rinaldo gustò d’una, e amor lo strugge;
Angelica de l’altra, e l’odia e fugge.
79 Quel liquor di secreto venen misto,
che muta in odio l’amorosa cura,
fa che la donna che Rinaldo ha visto,
nei sereni occhi subito s’oscura;
e con voce tremante e viso tristo
supplica Sacripante e lo scongiura
che quel guerrier più appresso non attenda,
ma ch’insieme con lei la fuga prenda.
80- Son dunque (disse il Saracino), sono
dunque in sì poco credito con vui,
che mi stimiate inutile e non buono
da potervi difender da costui?
Le battaglie d’Albracca già vi sono
di mente uscite, e la notte ch’io fui
per la salute vostra, solo e nudo,
contra Agricane e tutto il campo, scudo? 81Non risponde ella, e non sa che si faccia,
perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso,
che da lontan al Saracin minaccia,
come vide il cavallo e conobbe esso,
e riconohbe l’angelica faccia
che l’amoroso incendio in cor gli ha messo.
Quel che seguì tra questi duo superbi
vo’ che per l’altro canto si riserbi.
CANTO XIV
48Come in palude asciutta dura poco
stridula canna, o in campo àrrida stoppia
contra il soffio di borea e contra il fuoco
che ’l cauto agricultore insieme accoppia,
quando la vaga fiamma occupa il loco,
e scorre per li solchi, e stride e scoppia;
così costor contra la furia accesa
di Mandricardo fan poca difesa.
49 Poscia ch’egli restar vede l’entrata,
che mal guardata fu, senza custode;
per la via che di nuovo era segnata
ne l’erba, e al suono dei ramarchi ch’ode,
viene a veder la donna di Granata,
se di bellezze è pari alle sue lode:
passa tra i corpi de la gente morta,
dove gli dà, torcendo, il fiume porta.
50E Doralice in mezzo il prato vede
(che così nome la donzella avea),
la qual, suffolta da l’antico piede
d’un frassino silvestre, si dolea.
Il pianto, come un rivo che succede
di viva vena, nel bel sen cadea;
e nel bel viso si vedea che insieme
de l’altrui mal si duole, e del suo teme.
51Crebbe il timor, come venir lo vide
di sangue brutto e con faccia empia e oscura,
e’l grido sin al ciel l’aria divide,
di sé e de la sua gente per paura;
che, oltre i cavallier, v’erano guide,
che de la bella infante aveano cura,
maturi vecchi, e assai donne e donzelle
del regno di Granata, e le più belle.
52Come il Tartaro vede quel bel viso
che non ha paragone in tutta Spagna,
e c’ha nel pianto (or ch’esser de’ nel riso?)
tesa d’Amor l’inestricabil ragna;
non sa se vive in terra o in paradiso:
né de la sua vittoria altro guadagna,
se non che in man de la sua prigioniera
si dà prigione, e non sa in qual maniera.
53A lei però non si concede tanto,
che del travaglio suo le doni il frutto;
ben che piangendo ella dimostri, quanto
possa donna mostrar, dolore e lutto.
Egli, sperando volgerle quel pianto
in sommo gaudio, era disposto al tutto
menarla seco; e sopra un bianco ubino
montar la fece, e tornò al suo camino.
54Donne e donzelle e vecchi ed altra gente,
ch’eran con lei venuti di Granata,
tutti licenziò benignamente,
dicendo: - Assai da me fia accompagnata;
io mastro, io balia, io le sarò sergente
in tutti i suoi bisogni: a Dio brigata. Così, non gli possendo far riparo,
piangendo e sospirando se n’andaro;
55 tra lor dicendo: - Quanto doloroso
ne sarà il padre, come il caso intenda!
quanta ira, quanto duol ne avrà il suo sposo!
oh come ne farà vendetta orrenda!
Deh, perché a tempo tanto bisognoso
non è qui presso a far che costui renda
il sangue illustre del re Stordilano,
prima che se lo porti più lontano? 56De la gran preda il Tartaro contento,
che fortuna e valor gli ha posta inanzi,
di trovar quel dal negro vestimento
non par ch’abbia la fretta ch’avea dianzi.
Correva dianzi: or viene adagio e lento;
e pensa tuttavia dove si stanzi,
dove ritruovi alcun commodo loco,
per esalar tanto amoroso foco.
57Tuttavolta conforta Doralice,
ch’avea di pianto e gli occhi e ’l viso molle:
compone e finge molte cose, e dice
che per fama gran tempo ben le volle;
e che la patria, e il suo regno felice
che ’l nome di grandezza agli altri tolle,
lasciò, non per vedere o Spagna o Francia,
ma sol per contemplar sua bella guancia.
58- Se per amar, l’uom debbe essere amato,
merito il vostro amor; che v’ho amat’io:
se per stirpe, di me chi è meglio nato?
che’l possente Agrican fu il padre mio:
se per ricchezza, chi ha di me più stato?
che di dominio io cedo solo a Dio:
se per valor, credo oggi aver esperto
ch’esser amato per valore io merto. 59 Queste parole ed altre assai, ch’Amore
a Mandricardo di sua bocca ditta,
van dolcemente a consolar il core
de la donzella di paura afflitta.
Il timor cessa, e poi cessa il dolore
che le avea quasi l’anima trafitta.
Ella comincia con più pazienza
a dar più grata al nuovo amante udienza;
60 poi con risposte più benigne molto
a mostrarsegli affabile e cortese,
e non negargli di fermar nel volto
talor le luci di pietade accese:
onde il pagan, che da lo stral fu colto
altre volte d’Amor, certezza prese,
non che speranza, che la donna bella
non saria a’ suo’ desir sempre ribella.
61Con questa compagnia lieto e gioioso,
che sì gli satisfà, sì gli diletta,
essendo presso all’ora ch’a riposo
la fredda notte ogni animale alletta,
vedendo il sol già basso e mezzo ascoso,
comminciò a cavalcar con maggior fretta;
tanto ch’udì sonar zuffoli e canne,
e vide poi fumar ville e capanne.
62Erano pastorali alloggiamenti,
miglior stanza e più commoda, che bella.
Quivi il guardian cortese degli armenti
onorò il cavalliero e la donzella,
tanto che si chiamar da lui contenti;
che non pur per cittadi e per castella,
ma per tuguri ancora e per fenili
spesso si trovan gli uomini gentili.
63 Quel che fosse dipoi fatto all’oscuro
tra Doralice e il figlio d’Agricane,
a punto racontar non m’assicuro;
sì ch’al giudicio di ciascun rimane.
Creder si può che ben d’accordo furo;
che si levar più allegri la dimane,
e Doralice ringraziò il pastore,
che nel suo albergo le avea fatto onore.
64Indi d’uno in un altro luogo errando,
si ritrovaro al fin sopra un bel fiume
che con silenzio al mar va declinando,
e se vada o se stia, mal si prosume;
limpido e chiaro sì, ch’in lui mirando,
senza contesa al fondo porta il lume.
In ripa a quello, a una fresca ombra e bella,
trovar dui cavallieri e una donzella.
65Or l’alta fantasia, ch’un sentier solo
non vuol ch’i’segua ognor, quindi mi guida,
e mi ritorna ove il moresco stuolo
assorda di rumor Francia e di grida,
d’intorno il padiglione ove il figliuolo
del re Troiano il santo Impero sfida,
e Rodomonte audace se gli vanta
arder Parigi e spianar Roma santa.
66 Venuto ad Agramante era all’orecchio,
che già l’Inglesi avean passato il mare:
però Marsilio e il re del Garbo vecchio
e gli altri capitan fece chiamare.
Consiglian tutti a far grande apparecchio,
sì che Parigi possino espugnare.
Ponno esser certi che più non s’espugna,
se nol fan prima che l’aiuto giugna.
67 Già scale innumerabili per questo
da’ luoghi intorno avea fatto raccorre,
ed asse e travi, e vimine contesto,
che lo poteano a diversi usi porre;
e navi e ponti: e più facea che ’l resto,
il primo e il secondo ordine disporre
a dar l’assalto; ed egli vuol venire
tra quei che la città denno assalire.
68 L’imperatore il dì che ’l dì precesse
de la battaglia, fe’ dentro a Parigi
per tutto celebrare uffici e messe
a preti, a frati bianchi, neri e bigi;
e le gente che dianzi eran confesse,
e di man tolte agl’inimici stigi,
tutti communicar, non altramente
ch’avessino a morir il dì seguente.
69Ed egli tra baroni e paladini,
principi ed oratori, al maggior tempio
con molta religione a quei divini
atti intervenne, e ne diè agli altri esempio.
Con le man giunte e gli occhi al ciel supini,
disse: - Signor, ben ch’io sia iniquo ed empio,
non voglia tua bontà, pel mio fallire,
che ’l tuo popul fedele abbia a patire.
70E se gli è tuo voler ch’egli patisca,
e ch’abbia il nostro error degni supplici,
almeno la punizion si differisca
sì, che per man non sia de’ tuoi nemici;
che quando lor d’uccider noi sortisca,
che nome avemo pur d’esser tuo’ amici,
i pagani diran che nulla puoi,
che perir lasci i partigiani tuoi.
71E per un che ti sia fatto ribelle,
cento ti si faran per tutto il mondo;
tal che la legge falsa di Babelle
caccerà la tua fede e porrà al fondo.
Difendi queste genti, che son quelle
che ’l tuo sepulcro hanno purgato e mondo
da’ brutti cani, e la tua santa Chiesa
con li vicari suoi spesso difesa.
72 So che i meriti nostri atti non sono
a satisfare al debito d’un’oncia;
né devemo sperar da te perdono,
se riguardiamo a nostra vita sconcia:
ma se vi aggiugni di tua grazia il dono,
nostra ragion fia ragguagliata e concia;
né del tuo aiuto disperar possiamo,
qualor di tua pietà ci ricordiamo. 73Così dicea l’imperator devoto,
con umiltade e contrizion di core.
Giunse altri prieghi e convenevol voto
al gran bisogno e all’alto suo splendore.
Non fu il caldo pregar d’effetto voto;
però che ’l genio suo, l’angel migliore,
i prieghi tolse e spiegò al ciel le penne,
ed a narrare al Salvator li venne.
74E furo altri infiniti in quello instante
da tali messagger portati a Dio;
che come gli ascoltar l’anime sante,
dipinte di pietade il viso pio,
tutte miraro il sempiterno Amante,
e gli mostraro il commun lor disio,
che la giusta orazion fosse esaudita
del populo cristian che chiede aita.
75E la Bontà ineffabile, ch’invano
non fu pregata mai da cor fedele,
leva gli occhi pietosi, e fa con mano
cenno che venga a sé l’angel Michele.
- Va (gli disse) all’esercito cristiano
che dianzi in Picardia calò le vele,
e al muro di Parigi l’appresenta
sì, che ’l campo nimico non lo senta.
76Truova prima il Silenzio, e da mia parte
gli di’ che teco a questa impresa venga;
ch’egli ben proveder con ottima arte
saprà di quanto proveder convenga.
Fornito questo, subito va in parte
dove il suo seggio la Discordia tenga:
dille che l’esca e il fucil seco prenda,
e nel campo de’ Mori il fuoco accenda;
77 e tra quei che vi son detti più forti
sparga tante zizzanie e tante liti,
che combattano insieme; ed altri morti,
altri ne sieno presi, altri feriti,
e fuor del campo altri lo sdegno porti
sì che il lor re poco di lor s’aiti. Non replica a tal detto altra parola
il benedetto augel, ma dal ciel vola.
78Dovunque drizza Michel angel l’ale,
fuggon le nubi, e torna il ciel sereno.
Gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiàn di notte lampeggiar baleno.
Seco pensa tra via, dove si cale
il celeste corrier per fallir meno
a trovar quel nimico di parole,
a cui la prima commission far vuole.
79 Vien scorrendo ov’egli abiti, ov’egli usi;
e se accordaro infin tutti i pensieri,
che de frati e de monachi rinchiusi
lo può trovare in chiese e in monasteri,
dove sono i parlari in modo esclusi,
che ’l Silenzio, ove cantano i salteri,
ove dormeno, ove hanno la piatanza,
e finalmente è scritto in ogni stanza.
80Credendo quivi ritrovarlo, mosse
con maggior fretta le dorate penne;
e di veder ch’ancor Pace vi fosse,
Quiete e Carità, sicuro tenne.
Ma da la opinion sua ritrovosse
tosto ingannato, che nel chiostro venne:
non è Silenzio quivi; e gli fu ditto
che non v’abita più, fuor che in iscritto.
81Né Pietà, né Quiete, né Umiltade,
né quivi Amor, né quivi Pace mira.
Ben vi fur già, ma ne l’antiqua etade;
che le cacciar Gola, Avarizia ed Ira,
Superbia, Invidia, Inerzia e Crudeltade.
Di tanta novità l’angel si ammira:
andò guardando quella brutta schiera,
e vide ch’anco la Discordia v’era.
al tempo di Pitagora e d’Archita.
82 Quella che gli avea detto il Padre eterno,
dopo il Silenzio, che trovar dovesse.
Pensato avea di far la via d’Averno,
che si credea che tra’ dannati stesse;
e ritrovolla in questo nuovo inferno
(ch’il crederia?) tra santi uffici e messe.
Par di strano a Michel ch’ella vi sia,
che per trovar credea di far gran via.
83 La conobbe al vestir di color cento,
fatto a liste inequali ed infinite,
ch’or la cuoprono or no; che i passi e ’l vento
le giano aprendo, ch’erano sdrucite.
I crini avea qual d’oro e qual d’argento,
e neri e bigi, e aver pareano lite;
altri in treccia, altri in nastro eran raccolti,
molti alle spalle, alcuni al petto sciolti.
84Di citatorie piene e di libelli,
d’esamine e di carte di procure
avea le mani e il seno, e gran fastelli
di chiose, di consigli e di letture;
per cui le facultà de’ poverelli
non sono mai ne le città sicure.
Aveva dietro e dinanzi e d’ambi i lati,
notai, procuratori ed avocati.
85 La chiama a sé Michele, e le commanda
che tra i più forti Saracini scenda,
e cagion truovi, che con memoranda
ruina insieme a guerreggiar gli accenda.
Poi del Silenzio nuova le domanda:
facilmente esser può ch’essa n’intenda,
sì come quella ch’accendendo fochi
di qua e di là, va per diversi lochi.
86Rispose la Discordia: - Io non ho a mente
in alcun loco averlo mai veduto:
udito l’ho ben nominar sovente,
e molto commendarlo per astuto.
Ma la Fraude, una qui di nostra gente,
che compagnia talvolta gli ha tenuto,
penso che dir te ne saprà novella; e verso una alzò il dito, e disse: - È quella. 87Avea piacevol viso, abito onesto,
un umil volger d’occhi, un andar grave,
un parlar sì benigno e sì modesto,
che parea Gabriel che dicesse: Ave.
Era brutta e deforme in tutto il resto:
ma nascondea queste fattezze prave
con lungo abito e largo; e sotto quello,
attosicato avea sempre il coltello.
88Domanda a costei l’angelo, che via
debba tener, sì che ’l Silenzio truove.
Disse la Fraude: - Già costui solia
fra virtudi abitare, e non altrove,
con Benedetto e con quelli d’Elia
ne le badie, quando erano ancor nuove:
fe’ ne le scuole assai de la sua vita
89 Mancati quei filosofi e quei santi
che lo solean tener pel camin ritto,
dagli onesti costumi ch’avea inanti,
fece alle sceleraggini tragitto.
Cominciò andar la notte con gli amanti,
indi coi ladri, e fare ogni delitto.
Molto col Tradimento egli dimora:
veduto l’ho con l’Omicidio ancora.
90Con quei che falsan le monete ha usanza
di ripararsi in qualche buca scura.
Così spesso compagni muta e stanza,
che ’l ritrovarlo ti saria ventura;
ma pur ho d’insegnartelo speranza:
se d’arrivare a mezza notte hai cura
alla casa del Sonno, senza fallo
potrai (che quivi dorme) ritrovallo. 91Ben che soglia la Fraude esser bugiarda,
pur è tanto il suo dir simile al vero,
che l’angelo le crede; indi non tarda
a volarsene fuor del monastero.
Tempra il batter de l’ale, e studia e guarda
giungere in tempo al fin del suo sentiero,
ch’alla casa del Sonno, che ben dove
era sapea, questo Silenzio truove.
92 Giace in Arabia una valletta amena,
lontana da cittadi e da villaggi,
ch’all’ombra di duo monti è tutta piena
d’antiqui abeti e di robusti faggi.
Il sole indarno il chiaro dì vi mena;
che non vi può mai penetrar coi raggi,
sì gli è la via da folti rami tronca:
e quivi entra sotterra una spelonca.
93 Sotto la negra selva una capace
e spaziosa grotta entra nel sasso,
di cui la fronte l’edera seguace
tutta aggirando va con storto passo.
In questo albergo il grave Sonno giace;
l’Ozio da un canto corpulento e grasso,
da l’altro la Pigrizia in terra siede,
che non può andare, e mal reggersi in piede.
94 Lo smemorato Oblio sta su la porta:
non lascia entrar, né riconosce alcuno;
non ascolta imbasciata, né riporta;
e parimente tien cacciato ognuno.
Il Silenzio va intorno, e fa la scorta:
ha le scarpe di feltro, e ’l mantel bruno;
ed a quanti n’incontra, di lontano,
che non debban venir, cenna con mano.
95 Se gli accosta all’orecchio e pianamente
l’angel gli dice: - Dio vuol che tu guidi
a Parigi Rinaldo con la gente
che per dar, mena, al suo signor sussidi:
ma che lo facci tanto chetamente,
ch’alcun de’ Saracin non oda i gridi;
sì che più tosto che ritruovi il calle
la Fama d’avisar, gli abbia alle spalle. 96Altrimente il Silenzio non rispose,
che col capo accennando che faria;
e dietro ubidiente se gli pose;
e furo al primo volo in Picardia.
Michel mosse le squadre coraggiose,
e fe’ lor breve un gran tratto di via;
sì che in un dì a Parigi le condusse,
né alcun s’avide che miracol fusse.
97Discorreva il Silenzio, e tuttavolta,
e dinanzi alle squadre e d’ogn’intorno
facea girare un’alta nebbia in volta,
ed avea chiaro ogn’altra parte il giorno;
e non lasciava questa nebbia folta,
che s’udisse di fuor tromba né corno:
poi n’andò tra’ pagani, e menò seco
un non so che, ch’ognun fe’ sordo e cieco.
98 Mentre Rinaldo in tal fretta venìa,
che ben parea da l’angelo condotto,
e con silenzio tal, che non s’udia
nel campo saracin farsene motto;
il re Agramante avea la fanteria
messo ne’ borghi di Parigi, e sotto
le minacciate mura in su la fossa,
per far quel dì l’estremo di sua possa.
99Chi può contar l’esercito che mosso
questo dì contro Carlo ha ’l re Agramante,
conterà ancora in su l’ombroso dosso
del silvoso Apennin tutte le piante;
dirà quante onde, quando è il mar più grosso,
bagnano i piedi al mauritano Atlante;
e per quanti occhi il ciel le furtive opre
degli amatori a mezza notte scuopre.
100Le campane si sentono a martello
di spessi colpi e spaventosi tocche;
si vede molto, in questo tempio e in quello,
alzar di mano e dimenar di bocche.
Se ’l tesoro paresse a Dio sì bello,
come alle nostre openioni sciocche,
questo era il dì che ’l santo consistoro
fatto avria in terra ogni sua statua d’oro.
101S’odon ramaricare i vecchi giusti,
che s’erano serbati in quelli affanni,
e nominar felici i sacri busti
composti in terra già molti e molt’anni.
Ma gli animosi gioveni robusti
che miran poco i lor propinqui danni,
sprezzando le ragion de’ più maturi,
di qua di là vanno correndo a’ muri.
102Quivi erano baroni e paladini,
re, duci, cavallier, marchesi e conti,
soldati forestieri e cittadini,
per Cristo e pel suo onore a morir pronti;
che per uscire adosso ai Saracini,
pregan l’imperator ch’abbassi i ponti.
Gode egli di veder l’animo audace,
ma di lasciarli uscir non li compiace.
103E li dispone in oportuni lochi,
per impedire ai barbari la via:
là si contenta che ne vadan pochi,
qua non basta una grossa compagnia;
alcuni han cura maneggiare i fuochi,
le machine altri, ove bisogno sia.
Carlo di qua di là non sta mai fermo:
va soccorrendo, e fa per tutto schermo.
104Siede Parigi in una gran pianura,
ne l’ombilico a Francia, anzi nel core;
gli passa la riviera entro le mura,
e corre, ed esce in altra parte fuore.
Ma fa un’isola prima, e v’assicura
de la città una parte, e la migliore;
l’altre due (ch’in tre parti è la gran terra)
di fuor la fossa, e dentro il fiume serra.
105Alla città, che molte miglia gira,
da molte parti si può dar battaglia:
ma perché sol da un canto assalir mira,
né volentier l’esercito sbarraglia,
oltre il fiume Agramante si ritira
verso ponente, acciò che quindi assaglia;
però che né cittade né campagna
ha dietro, se non sua, fin alla Spagna.
106Dovunque intorno il gran muro circonda,
gran munizioni avea già Carlo fatte,
fortificando d’argine ogni sponda
con scannafossi dentro e case matte;
onde entra ne la terra, onde esce l’onda,
grossissime catene aveva tratte;
ma fece, più ch’altrove, provedere
là dove avea più causa di temere.
107Con occhi d’Argo il figlio di Pipino
previde ove assalir dovea Agramante;
e non fece disegno il Saracino,
a cui non fosse riparato inante.
Con Ferraù, Isoliero, Serpentino,
Grandonio, Falsirone e Balugante,
e con ciò che di Spagna avea menato,
restò Marsilio alla campagna armato.
108Sobrin gli era a man manca in ripa a Senna,
con Pulian, con Dardinel d’Almonte,
col re d’Oran, ch’esser gigante accenna,
lungo sei braccia dai piedi alla fronte.
Deh perché a muover men son io la penna,
che quelle genti a muover l’arme pronte?
che ’l re di Sarza, pien d’ira e di sdegno,
grida e bestemmia e non può star più a segno.
109Come assalire o vasi pastorali,
o le dolci reliquie de’ convivi
soglion con rauco suon di stridule ali
le impronte mosche a’ caldi giorni estivi;
come li storni a rosseggianti pali
vanno de mature uve: così quivi,
empiendo il ciel di grida e di rumori,
veniano a dare il fiero assalto i Mori.
110L’esercito cristian sopra le mura
con lance, spade e scure e pietre e fuoco
difende la città senza paura,
e il barbarico orgoglio estima poco;
e dove Morte uno ed un altro fura,
non è chi per viltà ricusi il loco.
Tornano i Saracin giù ne le fosse
a furia di ferite e di percosse.
111Non ferro solamente vi s’adopra,
ma grossi massi, e merli integri e saldi,
e muri dispiccati con molt’opra,
tetti di torri, e gran pezzi di spaldi.
L’acque bollenti che vengon di sopra,
portano a’ Mori insupportabil caldi;
e male a questa pioggia si resiste,
ch’entra per gli elmi, e fa acciecar le viste.
112E questa più nocea che ’l ferro quasi:
or che de’ far la nebbia di calcine?
or che doveano far li ardenti vasi
con olio e zolfo e peci e trementine?
I cerchi in munizion non son rimasi,
che d’ogn’intorno hanno di fiamma il crine:
questi, scagliati per diverse bande,
mettono a’ Saracini aspre ghirlande.
113Intanto il re di Sarza avea cacciato
sotto le mura la schiera seconda,
da Buraldo, da Ormida accompagnato,
quel Garamante, e questo di Marmonda.
Clarindo e Soridan gli sono allato,
né par che ’l re di Setta si nasconda;
segue il re di Marocco e quel di Cosca,
ciascun perché il valor suo si conosca.
114Ne la bandiera, ch’è tutta vermiglia,
Rodomonte di Sarza il leon spiega,
che la feroce bocca ad una briglia
che gli pon la sua donna, aprir non niega.
Al leon sé medesimo assimiglia;
e per la donna che lo frena e lega,
la bella Doralice ha figurata,
figlia di Stordilan re di Granata:
115quella che tolto avea, come io narrava,
re Mandricardo, e dissi dove e a cui.
Era costei che Rodomonte amava
più che’l suo regno e più che gli occhi sui;
e cortesia e valor per lei mostrava,
non già sapendo ch’era in forza altrui:
se saputo l’avesse, allora allora
fatto avria quel che fe’ quel giorno ancora.
116Sono appoggiate a un tempo mille scale,
che non han men di dua per ogni grado.
Spinge il secondo quel ch’inanzi sale;
che ’l terzo lui montar fa suo mal grado.
Chi per virtù, chi per paura vale:
convien ch’ognun per forza entri nel guado;
che qualunche s’adagia, il re d’Algiere,
Rodomonte crudele, uccide o fere.
117Ognun dunque si sforza di salire
tra il fuoco e le ruine in su le mura.
Ma tutti gli altri guardano, se aprire
veggiano passo ove sia poca cura:
sol Rodomonte sprezza di venire,
se non dove la via meno è sicura.
Dove nel caso disperato e rio
gli altri fan voti, egli bestemmia Dio.
118Armato era d’un forte duro usbergo,
che fu di drago una scagliosa pelle.
Di questo già si cinse il petto e ’l tergo
quello avol suo ch’edificò Babelle,
e si pensò cacciar de l’aureo albergo,
e torre a Dio il governo de le stelle:
l’elmo e lo scudo fece far perfetto,
e il brando insieme; e solo a questo effetto.
119Rodomonte non già men di Nembrotte
indomito, superbo e furibondo,
che d’ire al ciel non tarderebbe a notte,
quando la strada si trovasse al mondo,
quivi non sta a mirar s’intere o rotte
sieno le mura, o s’abbia l’acqua fondo:
passa la fossa, anzi la corre e vola,
ne l’acqua e nel pantan fin alla gola.
120Di fango brutto, e molle d’acqua vanne
tra il foco e i sassi e gli archi e le balestre,
come andar suol tra le palustri canne
de la nostra Mallea porco silvestre,
che col petto, col grifo e con le zanne
fa, dovunque si volge, ample finestre.
Con lo scudo alto il Saracin sicuro
ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro.
121Non sì tosto all’asciutto è Rodomonte,
che giunto si sentì su le bertresche,
che dentro alla muraglia facean ponte
capace e largo alle squadre francesche.
Or si vede spezzar più d’una fronte,
far chieriche maggior de le fratesche,
braccia e capi volare; e ne la fossa
cader da’ muri una fiumana rossa.
122Getta il pagan lo scudo, e a duo man prende
la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo.
Costui venìa di là dove discende
l’acqua del Reno nel salato golfo.
Quel miser contra lui non si difende
meglio che faccia contra il fuoco il zolfo;
e cade in terra, e dà l’ultimo crollo,
dal capo fesso un palmo sotto il collo.
123Uccide di rovescio in una volta
Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando:
il luogo stretto e la gran turba folta
fece girar sì pienamente il brando.
Fu la prima metade a Fiandra tolta,
l’altra scemata al populo normando.
Divise appresso da la fronte al petto,
ed indi al ventre, il maganzese Orghetto.
124Getta da’ merli Andropono e Moschino
giù ne la fossa: il primo è sacerdote;
non adora il secondo altro che ’l vino,
e le bigonce a un sorso n’ha già vuote.
Come veneno e sangue viperino
l’acque fuggia quanto fuggir si puote:
or quivi muore; e quel che più l’annoia,
è ’l sentir che nell’acqua se ne muoia.
125Tagliò in due parti il provenzal Luigi,
e passò il petto al tolosano Arnaldo.
Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi
mandar lo spirto fuor col sangue caldo;
e presso a questi, quattro da Parigi,
Gualtiero, Satallone, Odo ed Ambaldo,
ed altri molti: ed io non saprei come
di tutti nominar la patria e il nome.
126La turba dietro a Rodomonte presta
le scale appoggia, e monta in più d’un loco.
Quivi non fanno i Parigin più testa;
che la prima difesa lor val poco.
San ben ch’agli nemici assai più resta
dentro da fare, e non l’avran da gioco;
perché tra il muro e l’argine secondo
discende il fosso orribile e profondo.
127Oltra che i nostri facciano difesa
dal basso all’alto, e mostrino valore;
nuova gente succede alla contesa
sopra l’erta pendice interiore,
che fa con lance e con saette offesa
alla gran moltitudine di fuore,
che credo ben, che saria stata meno,
se non v’era il figliuol del re Ulieno.
128Egli questi conforta, e quei riprende,
e lor mal grado inanzi se gli caccia:
ad altri il petto, ad altri il capo fende,
che per fuggir veggia voltar la faccia.
Molti ne spinge ed urta; alcuni prende
pei capelli, pel collo e per le braccia:
e sozzopra là giù tanti ne getta,
che quella fossa a capir tutti è stretta.
129Mentre lo stuol de’ barbari si cala,
anzi trabocca al periglioso fondo,
ed indi cerca per diversa scala
di salir sopra l’argine secondo;
il re di Sarza (come avesse un’ala
per ciascun de’ suoi membri) levò il pondo
di sì gran corpo e con tant’arme indosso,
e netto si lanciò di là dal fosso.
130Poco era men di trenta piedi, o tanto,
ed egli il passò destro come un veltro,
e fece nel cader strepito, quanto
avesse avuto sotto i piedi il feltro:
ed a questo ed a quello affrappa il manto,
come sien l’arme di tenero peltro,
e non di ferro, anzi pur sien di scorza:
tal la sua spada, e tanta è la sua forza!
131In questo tempo i nostri, da chi tese
l’insidie son ne la cava profonda,
che v’han scope e fascine in copia stese,
intorno a quai di molta pece abonda
(né però alcuna si vede palese,
ben che n’è piena l’una e l’altra sponda
dal fondo cupo insino all’orlo quasi),
e senza fin v’hanno appiattati vasi,
132qual con salnitro, qual con oglio, quale
con zolfo, qual con altra simil esca;
i nostri in questo tempo, perché male
ai Saracini il folle ardir riesca,
ch’eran nel fosso, e per diverse scale
credean montar su l’ultima bertresca;
udito il segno da oportuni lochi,
di qua e di là fenno avampare i fochi.
133Tornò la fiamma sparsa tutta in una,
che tra una ripa e l’altra ha ’l tutto pieno;
e tanto ascende in alto, ch’alla luna
può d’appresso asciugar l’umido seno.
Sopra si volve oscura nebbia e bruna,
che ’l sole adombra, e spegne ogni sereno.
Sentesi un scoppio in un perpetuo suono,
simile a un grande e spaventoso tuono.
134Aspro concento, orribile armonia
d’alte querele, d’ululi e di strida
de la misera gente che peria
nel fondo per cagion de la sua guida,
istranamente concordar s’udia
col fiero suon de la fiamma omicida.
Non più, Signor, non più di questo canto;
ch’io son già rauco e vo’ posarmi alquanto.
CANTO xxiii (1521)
100.Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
101.Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.
102.Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
103.Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
104.Poi dice: – Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. –
Con tali opinïon dal ver remote
usando fraude a se medesmo, stette
ne la speranza il mal contento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.
105.Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
106.Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circonstanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.
107.Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenzia in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
et era ne la nostra tale il senso:
108.– Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognior lodarvi:
109.e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o vïandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –
110.Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni et onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.
111.Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
et ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112.Fu allora per uscir del sentimento,
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.
113.L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
114.Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
et abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.
115.In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.
116.Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.
117.Quanto più cerca ritrovar quïete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
118.Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:
119.come esso a’ prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:
120.e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.
121.Questa conclusïon fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
122.Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto) ,
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.
123.In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
124.Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, et esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi et urli apre le porte al duolo.
125.Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si maraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
126.– Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finîr, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
et è quel che si versa, e trarrà insieme
e ’l dolore e la vita all’ore estreme.
127.Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir son tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai ?
128.Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto et è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza. –
CANTO xxxv (1521)
in che legar gemma di pregio vuole.
1.Chi salirà per me, madonna, in cielo
a riportarne il mio perduto ingegno ?
che, poi ch’uscì da’ bei vostri occhi il telo
che ’l cor mi fisse, ognior perdendo vegno.
Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca, ma stia a questo segno;
ch’io dubito, se più si va sciemando,
di venir tal, qual ho descritto Orlando.
2.Per rïaver l’ingegno mio m’è aviso
che non bisogna che per l’aria io poggi
nel cerchio de la luna o in paradiso;
che ’l mio non credo che tanto alto alloggi.
Ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d’avorio e alabastrini poggi
se ne va errando; et io con queste labbia
lo corrò, se vi par ch’io lo rïabbia.
3.Per gli ampli tetti andava il paladino
tutte mirando le future vite,
poi ch’ebbe visto sul fatal molino
volgersi quelle ch’erano già ordite:
e scorse un vello che più che d’or fino
splender parea; né sarian gemme trite,
s’in filo si tirassero con arte,
da comparargli alla millesma parte.
4.Mirabilmente il bel vello gli piacque,
che tra infiniti paragon non ebbe;
e di sapere alto disio gli nacque,
quando sarà tal vita, e a chi si debbe.
L’evangelista nulla gliene tacque:
che venti anni principio prima avrebbe
che col . M. e col . D. fosse notato
l’anno corrente dal Verbo incarnato.
5.E come di splendore e di beltade
quel vello non avea simile o pare,
così saria la fortunata etade
che dovea uscirne al mondo singulare;
perché tutte le grazie inclite e rade
ch’alma Natura, o proprio studio dare,
o benigna Fortuna ad uomo puote,
avrà in perpetua et infallibil dote.
6.– Del re de’ fiumi tra l’altiere corna
or siede umil (diceagli) e piccol borgo:
dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna
d’alta palude un nebuloso gorgo;
che, volgendosi gli anni, la più adorna
di tutte le città d’Italia scorgo,
non pur di mura e d’ampli tetti regi,
ma di bei studi e di costumi egregi.
7.Tanta esaltazïone e così presta,
non fortuìta o d’aventura casca;
ma l’ha ordinata il ciel, perché sia questa
degna in che l’uom di ch’io ti parlo, nasca:
che, dove il frutto ha da venir, s’inesta
e con studio si fa crescer la frasca;
e l’artefice l’oro affinar suole,
8.Né sì leggiadra né sì bella veste
unque ebbe altr’alma in quel terrestre regno;
e raro è sceso e scenderà da queste
sfere superne un spirito sì degno,
come per farne Ippolito da Este
n’have l’eterna mente alto disegno.
Ippolito da Este sarà detto
l’uom a chi Dio sì ricco dono ha eletto.
9.Quegli ornamenti che divisi in molti,
a molti basterian per tutti ornarli,
in suo ornamento avrà tutti raccolti
costui, di c’hai voluto ch’io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui soffolti
saran gli studi; e s’io vorrò narrar li
alti suoi merti, al fin son sì lontano,
ch’Orlando il senno aspetterebbe invano. 10.Così venìa l’imitator di Cristo
ragionando col duca: e poi che tutte
le stanze del gran luogo ebbono visto,
onde l’umane vite eran condutte,
sul fiume usciro, che d’arena misto
con l’onde discorrea turbide e brutte;
e vi trovâr quel vecchio in su la riva,
che con gl’impressi nomi vi veniva.
11.Non so se vi sia a mente, io dico quello
ch’al fin de l’altro canto vi lasciai,
vecchio di faccia, e sì di membra snello,
che d’ogni cervio è più veloce assai.
Degli altrui nomi egli si empìa il mantello;
scemava il monte, e non finiva mai:
et in quel fiume che Lete si noma,
scarcava, anzi perdea la ricca soma.
12.Dico che, come arriva in su la sponda
del fiume, quel prodigo vecchio scuote
il lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte lascia cader l’impresse note.
Un numer senza fin se ne profonda,
ch’un minimo uso aver non se ne puote;
e di cento migliaia che l’arena
sul fondo involve, un se ne serva a pena.
13.Lungo e d’intorno quel fiume volando
givano corvi ed avidi avoltori,
mulacchie e vari augelli, che gridando
facean discordi strepiti e romori;
ed alla preda correan tutti, quando
sparger vedean gli amplissimi tesori:
e chi nel becco, e chi ne l’ugna torta
ne prende; ma lontan poco li porta.
14.Come vogliono alzar per l’aria i voli,
non han poi forza che ’l peso sostegna;
sì che convien che Lete pur involi
de’ ricchi nomi la memoria degna.
Fra tanti augelli son duo cigni soli,
bianchi, Signor, come è la vostra insegna,
che vengon lieti riportando in bocca
sicuramente il nome che lor tocca.
15.Così contra i pensieri empi e maligni
del vecchio che donar li vorria al fiume,
alcun’ ne salvan gli augelli benigni:
tutto l’avanzo oblivïon consume.
Or se ne van notando i sacri cigni,
et or per l’aria battendo le piume,
fin che presso alla ripa del fiume empio
trovano un colle, e sopra il colle un tempio.
16.All’Immortalitade il luogo è sacro,
ove una bella ninfa giù del colle
viene alla ripa del leteo lavacro,
e di bocca dei cigni i nomi tolle;
e quelli affige intorno al simulacro
ch’in mezzo il tempio una colonna estolle:
quivi li sacra, e ne fa tal governo,
che vi si pôn veder tutti in eterno.
17.Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio
senza alcun frutto i bei nomi dispensi,
e degli augelli, e di quel luogo pio
onde la bella ninfa al fiume viensi,
aveva Astolfo di saper desio
i gran misteri e gl’incogniti sensi;
e domandò di tutte queste cose
l’uomo di Dio, che così gli rispose:
18.– Tu déi saper che non si muove fronda
là giù che segno qui non se ne faccia.
Ogni effetto convien che corrisponda
in terra e in ciel, ma con diversa faccia.
Quel vecchio, la cui barba il petto inonda,
veloce sì che mai nulla l’impaccia,
gli effetti pari e la medesima opra
che ’l Tempo fa là giù, fa qui di sopra.
19.Volte che son le fila in su la ruota,
là giù la vita umana arriva al fine.
La fama là, qui ne riman la nota;
ch’immortali sariano ambe e divine,
se non che qui quel da la irsuta gota,
e là giù il Tempo ognior ne fa rapine.
Questi le getta, come vedi, al rio;
e quel l’immerge ne l’eterno oblio.
20.E come qua su i corvi e gli avoltori
e le mulacchie e gli altri varii augelli
s’affaticano tutti per trar fuori
de l’acqua i nomi che veggion più belli:
così là giù ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli
che viveno alle corti e che vi sono
più grati assai che ’l virtuoso e ’l buono,
21.e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l’asino e ’l ciacco;
de’ lor signor, tratto che n’abbia i fili
la giusta Parca, anzi Venere e Bacco,
questi di ch’io ti dico, inerti e vili,
nati solo ad empir di cibo il sacco,
portano in bocca qualche giorno il nome;
poi ne l’oblio lascian cader le some.
22.Ma come i cigni che cantando lieti
rendeno salve le medaglie al tempio,
così gli uomini degni da’ poeti
son tolti da l’oblio, più che morte empio.
Oh bene accorti principi e discreti,
che seguite di Cesare l’esempio,
e gli scrittor vi fate amici, donde
non avete a temer di Lete l’onde!
23.Son, come i cigni, anco i poeti rari,
poeti che non sian del nome indegni;
sì perché il ciel degli uomini preclari
non pate mai che troppa copia regni,
sì per gran colpa dei signori avari
che lascian mendicare i sacri ingegni;
che le virtù premendo, et esaltando
i vizi, caccian le buone arti in bando.
24.Credi che Dio questi ignoranti ha privi
de lo ’ntelletto, e loro offusca i lumi;
che de la poesia gli ha fatto schivi,
acciò che morte il tutto ne consumi.
Oltre che del sepolcro uscirian vivi,
ancor ch’avesser tutti i rei costumi,
pur che sapesson farsi amica Cirra,
più grato odore avrian che nardo o mirra.
25.Non sì pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né sì fiero Ettorre;
e ne son stati e mille e mille e mille
che lor si puon con verità anteporre:
ma i donati palazzi e le gran ville
dai descendenti lor, gli ha fatto porre
in questi senza fin sublimi onori
da l’onorate man degli scrittori.
26.Non fu sì santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fosse ingiusto,
né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici,
se gli scrittor sapea tenersi amici.
27.Omero Agamennón vittorïoso,
e fe’ i Troian parer vili et inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea sofferti.
E se tu vuoi che ’l ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l’istoria converti:
che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.
28.Da l’altra parte odi che fama lascia
Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico;
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar ch’io n’abbia ambascia,
e se di ciò diffusamente io dico.
Gli scrittori amo, e fo il debito mio;
ch’al vostro mondo fui scrittore anch’io.
29.E sopra tutti gli altri io feci acquisto
che non mi può levar tempo né morte:
e ben convenne al mio lodato Cristo
rendermi guidardon di sì gran sorte.
Duolmi di quei che sono al tempo tristo,
quando la cortesia chiuso ha le porte;
che con pallido viso e macro e asciutto
la notte e ’l dì vi picchian senza frutto.
30.Sì che continuando il primo detto,
sono i poeti e gli studiosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
insin le fere abbandonano i lochi. Così dicendo il vecchio benedetto
gli occhi infiammò, che parveno duo fuochi;
poi volto al duca con un saggio riso
tornò sereno il conturbato viso.
MATTEO BANDELLO
Matteo Bandello ebbe vita assai avventurosa, dimidiata tra vita ecclesiastica
e vita militare. Le Novelle sono l’opera cui attese tutta la vita: sono in tutto 214
novelle, non legate, come pur era uso frequente dopo il Decameron, da una
cornice generale; ogni racconto, però, è preceduto da una lettera, di dedica a un
personaggio del tempo e di narrazione delle circostanze mondane in cui il Bandello
avrebbe udito il racconto. I motivi e i temi delle sue novelle sono assai vari: miti
e leggende pagane (Amore e Psiche); argomenti e personaggi storici dell’antichità
(Ciro; Sofonisba), del medioevo (Giulietta e Romeo) o del rinascimento (Cesare
Borgia; contessa di Challant); beffe e burle simili a incantesimi (la moglie fedele
che beffa due magiari; Cornelia e Antonello); la passione amorosa che s’infiltra
profondamente nell’animo innocente delle giovani (Elena che crede giuoco
fanciullesco l’amore di Gherardo), o la passione che porta alla morte (Giulia
da Gazuolo che disonorata si getta nel fiume; Giulietta e Romeo); personaggi
caratteristici (il pazzo; l’incantatore; l’usuraio; Tommasone Grosso che spinge
Bernardino da Siena a predicare contro l’usura per rimanere il solo usuraio
a Milano); strane avventure di amori e di eroi (don Giovanni di Mendoza; don
Giovanni Emanuele); motti arguti e aneddoti piccanti; elementi comici e satire
contro gli ecclesiastici. Il Bandello non creò ex novo i temi di queste novelle,
e molti ne attinse a fonti classiche e medievali, com’era del resto tradizionale.
E volle non comporre un’opera organica, ma solo presentare una mistura di
accidenti diversi, né ebbe propositi particolari di stile, ché anzi dichiarò di non
avere uno stile. Le sue novelle sono dominate dal caso, dalla passione d’amore,
dalla virtù, e l’interesse del narratore è soprattutto psicologico. Un insistente
psicologismo lo differenzia dagli altri scrittori del suo secolo, che erano prima di
tutto stilisti e accademici, ché se anche egli non creò veri e propri caratteri, pure
ebbe un gusto tutto particolare per la descrizione psicologica dei sentimenti.
Ma non riesce a costrire il sentimento e di conseguenza l’unità psicologica del
personaggio: ne sortiscono abbozzi e non personaggi perfettamente disegnati.
Particolare importanza storica hanno le lettere dedicatorie, che riflettono la vita
delle corti d’Italia, e che, in un certo senso, talora attenuano il tono favoloso e
fiabesco di alcune sue più belle novelle riportandole alla realtà storica. F. De
Sanctis accomunava nella universale decadenza della novella cinquecentesca
anche il Bandello: ogni centro culturale d’Italia, affermava il critico, aveva il suo
Decameron, Salerno quello di Masuccio, Firenze le Cene del Lasca, e così sarebbe
nato anche il novelliere del Bandello, in cui il mondo ideale della cortesia è ormai
scomparso, e la novella « attinge tutta la società ne’ suoi vizi, nelle sue tendenze,
ne’ suoi accidenti, con nessun altro scopo se non d’intrattenere le brigate con
racconti interessanti. L’interesse è posto nella novità e straordinarietà degli
accidenti, come sono i mutamenti improvvisi di fortuna, o casi meravigliosi di
vizio o di virtù... La più parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri
in forma affrettata insieme e scorretta. L’interessante è stimolare la curiosità del
pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari».
Croce, invece, ha sottolineò la spontaneità e la vivacità, l’acume psicologico,
l’umanità del Bandello « al quale giovò il suo stesso proposito di mero informatore
e la sua umiltà di scrittore ’senza stile’ e senza pretese, e perciò è, fra tutti, quello
che più volentieri si legge, così per la maggior copia dei riferimenti che in lui
si trovano alle cose e al costume del tempo, come per quella sua scioltezza di
narratore, disuguale bensì per mancanza di cura artistica e per la comune rettorica
di cui talvolta si serve, ma, nel generale, intento alle cose e alle parole. Con le
occasioni reali o immaginate, che egli assegnava alle novelle che avrebbe udite
narrare e poi messe in iscritto, e che erano le conversazioni e discussioni, alle quali
si sarebbe trovato presente, di principi e principesse, di dame e gentiluomini,
di diplomatici e uomini di guerra, di letterati e artisti, egli riesce a comporre al
suo libro uno sfondo che è una rappresentazione dell’alta società italiana di quei
primi decenni del Cinquecento».
NOVELLA IX La sfortunata morte di dui infelicissimi
amanti che l’uno di veleno e l’altro di dolore moriro­
no, con varii accidenti.
Io credo, valoroso signor mio, se l’affezione che io
meritamente a la patria mia porto forse non m’ingan­
na, che poche città siano ne la bella Italia le quali a
Verona possano di bellezza di sito esser superiori, sí
per così nobil fiume com’è l’Adice che quasi per mez­
zo con le sue chiarissime acque la parte e de le mer­
cadanzie che manda l’Alemagna abondevole la ren­
de, come anco per gli ameni e fruttiferi colli e piace­
voli valli con aprici campi che le sono intorno. Taccio
tante fontane di freschissime e limpidissime acque
ricche, che al comodo de la città servono, con quat­
tro nobilissimi ponti sovra il fiume e mille venerande
antichità che per quella si vedeno. Ma perché a ra­
gionar non mi mossi per dir le lodi del nido mio natio
che da se stesso si loda e rende riguardevole, verrò
dirvi un pietoso caso ed infortunio grandissimo che a
dui nobilissimi amanti in quella avvenne. Furono già
al tempo dei signori de la Scala due famiglie in Vero­
na tra l’altro di nobiltà e ricchezze molto famose, cioè
i Montecchi e i Capelletti, le quali tra loro, che che se
ne fosse cagione, ebbero fiera e sanguinolente nemi­
cizia, di modo che in diverse mischie, essendo cia­
scuna potente, molti ci morirono cosí di Montecchi e
Capelletti come di seguaci che a quelli s’accostarono;
il che di piú in piú i lor odii accrebbe. Era alora signor
di Verona Bartolomeo Scala, il quale assai s’affaticò
per pacificar queste due schiatte, ma non ci fu ordine
già mai, tanto era l’odio abbarbicato nei petti loro.
Tuttavia gli ridusse a tale che se non vi pose pace, ne
levò almeno le continove mischie che tra loro assai
sovente con morte d’uomini si facevano; di maniera
che se si scontravano, i giovani davano luogo ai piú
vecchi de la contraria fazione. Avvenne adunque che
un anno, dopo natale si cominciarono a far de le feste
ove i mascherati concorrevano. Antonio Capelletto,
capo de la sua famiglia fece una bellissima festa a la
quale invitò gran nobiltà d’uomini e di donne.
Quivi si videro per la maggior parte tutti i giovani de
la città, tra i quali v’andò Romeo Montecchio che era
di venti in ventun anno, il piú bello e cortese di tutta
la gioventú di Verona. Egli era mascherato e con gli al­
tri entrò ne la casa del Capelletto, essendo già notte.
Si trovava Romeo alora fieramente innamorato d’una
gentildonna a la quale passavano circa dui anni che
s’era dato in preda, ed ancor che tutto il dì ove ella a
chiese od altrove andava, sempre la seguitasse, non­
dimeno ella d’un solo sguardo mai non gli era stata
cortese. Avevale piú e piú volte scritto lettere, ed
ambasciate mandato, ma troppa era la rigida durezza
de la donna che non sofferiva di far un buon viso a
l’appassionato giovane. Il che a lui era tanto grave e
molesto a poter comportare che per l’estremo dolo­
re che ne pativa, dopo l’essersi infinite volte lamen­
tato, deliberò da Verona partirsi e star fuori uno o
dui anni e con varii viaggi per l’Italia macerar questo
suo sfrenato appetito. Vinto poi dal fervente amore
che le portava, biasimava se stesso che in cosí folle
pensiero fosse caduto e a modo veruno partirsi non
sapeva. Talora tra sé diceva: – Non sia già vero che
io costei piú ami, poi che chiaramente a mille effetti
conosco la servitù mia non l’esser cara. A che seguirla
ovunque va, se il vagheggiarla nulla mi giova? Egli
mi conviene non andar né a chiesa né a luogo ov’ella
si sia, ché forse, non la veggendo, questo mio fuoco
che dai suoi begli occhi l’esca e l’alimento prende, si
scemerà a poco a poco. – Ma che! tutti i suoi pensieri
riuscivano vani, perciò che pareva, quanto piú ella
ritrosa si mostrava e che ei meno di speranza aveva,
che tanto piú l’amor verso lei crescesse e che quel dí
che non la vedeva non potesse aver bene. E perse­
verando piú costante e fervente in questo amore, du­
bitarono alcuni amici suoi che egli non si consumas­
se, onde molte fiate amorevolmente l’ammonirono e
pregarono che da tal impresa si distogliesse.
Ma cosí poco le lor vere ammonizioni e salutiferi con­
segli curava, come la donna di cose che egli facesse
teneva conto. Aveva tra gli altri Romeo un compa­
gno al quale troppo altamente incresceva che quel­
lo senza speranza di conseguir guiderdone alcuno,
dietro ad essa donna andasse perdendo il tempo
de la sua giovinezza col fior degli anni suoi; onde tra
molte altre volte una cosí gli parlò:– Romeo, a me
che come fratello t’amo, troppo di noia dà il vederti
a questo modo come neve al sole consumare; e poi
che tu vedi con tutto ciò che fai e spendi, e senza
onor e profitto spendi, che tu non puoi trar costei
che ad amarti si pieghi, e che cosa che tu adopri non
ti giova, anzi piú ritrosa la ritrovi, a che piú indarno
affaticarti? Pazzia estrema è voler una cosa non dif­
ficile ma impossibile render facile a fare. Tu sei pur
chiaro che ella né te né le cose tue cura. Forse ha
ella alcuno amante a lei tanto grato e caro che per
l’imperadore non l’abbandonarebbe. Tu sei giovane,
forse il piú bello che in questa nostra città si truovi;
tu sei, siami lecito sugli occhi dirti il vero, cortese,
vertuoso, amabile e, che assai la gioventú adorna, di
buone lettere ornato; poi unico al padre tuo figliuolo
ti ritruovi le cui grandi ricchezze a tutti sono notissi­
me. E forse che egli verso te tien le mani strette o ti
grida se tu spendi e doni come ti pare ? Egli t’è un
fattore che per te s’affatica e ti lascia far ciò che tu
vuoi. Omai destati e riconosci l’errore ove tutto il dí
vivi; leva dagli occhi tuoi il velo che gli acceca e non
ti lascia veder il camino che déi caminare; deliberati
por l’animo tuo altrove e di te far padrona donna che
lo vaglia. Ti muova giusto sdegno, che molto piú può
nei regni de l’amore che non può esso amore. Si co­
minciano a far de le feste e de le maschere per la ter­
ra: va a tutte le feste, e se per sorte vi vedrai quella
che tanto tempo indarno hai servito, non guardar lei,
ma mira ne lo specchio de l’amor che portato l’hai, e
senza dubio troverai compenso a tanto male quanto
soffri, perché giusto e ragionevol sdegno in te di tal
maniera s’accenderà che affrenerà questo tuo poco
regolato appetito e ti metterà in libertà. – Con molte
altre ragioni ch’ora non dico essortò il fedel compa­
gno il suo Romeo a distorsi da la mal cominciata im­
presa. Romeo ascoltò pazientemente quanto detto
gli fu e si deliberò il savio conseglio metter in opra.
Il perché cominciò andar su le feste, e dove vedeva
la ritrosa donna, mai non volgeva la vista, ma andava
mirando e considerando l’altre per scieglier quella
che piú gli fosse a grado, come se fosse andato ad
un mercato per comprar cavalli o panni. Avvenne in
quei dí, come s’è detto, che Romeo mascherato andò
su la festa del Capeletto, e ben che fossero poco ami­
ci, pur non s’offendevano. Quivi stato Romeo buona
pezza con la maschera sul viso, quella si cavò ed in
un canto se n’andò a sedere ove agiatamente vedeva
quanti in sala erano, la quale allumata da molti tor­
chi era chiara come se fosse stato di giorno. Ciascuno
guardava Romeo e massimamente le donne, e tutti si
meravigliavano ch’egli si liberamente in quella casa
dimorasse. Tuttavia perché Romeo oltra che era bel­
lissimo era anco giovinetto molto costumato e genti­
le, era generalmente da tutti amato.
I suoi nemici poi non gli ponevano cosí la mente
come forse averebbero fatto s’egli fosse stato di
maggior etate.
Quivi era divenuto Romeo consideratore de le bel­
lezze de le donne che erano su la festa, e questa e
quella più e meno secondo l’appetito commendava,
e senza danzare s’andava in cotal maniera dipor­
tando, quando gli venne veduta una fuor di misura
bellissima garzona che egli non conosceva. Questa
infinitamente gli piacque e giudicò che la piú bella
ed aggraziata giovane non aveva veduta già mai. Pa­
reva a Romeo quanto più intentamente la mirava che
tanto piú le bellezze di quella divenissero belle, e
che le grazie più grate si facessero, onde cominciò
a vagheggiarla molto amorosamente, non sapendo
da la di lei vista levarsi; e sentendo gioia inusitata in
contemplarla, tra sé propose far ogni suo sforzo per
acquistar la grazia e l’amor di quella. E cosí l’amore
che a l’altra donna portava, vinto da questo nuovo,
diede luogo a queste fiamme che mai piú dapoi se
non per morte si spensero. Entrato Romeo in que­
sto vago laberinto, non avendo ardire di spiare chi
la giovane si fosse, attendeva de la vaga di lei vista a
pascer gli occhi, e di quella tutti gli atti minutamente
considerando, beveva il dolce amoroso veleno, ogni
parte ed ogni gesto di quella meravigliosamente lo­
dando. Egli, come già dissi, era in un canto assiso, nel
qual luogo quando si ballava tutti gli passavano per
dinanzi. Giulietta, – ché cosí aveva nome la garzona
che cotanto a Romeo piaceva, – era figliuola del pa­
drone de la casa e de la festa. Non conoscendo anco
ella Romeo, ma parendole pure il piú bello e leggia­
dro giovine che trovar si potesse, meravigliosamente
de la vista s’appagava, e dolcemente e furtivamente
talora cosí sotto occhio mirandolo, sentiva non so che
dolcezza al core che tutta di gioioso ed estremo pia­
cere l’ingombrava.
Desiderava molto forte la giovane che Romeo si met­
tesse in ballo, a ciò che meglio veder si potesse e
l’udisse parlare, parendole che altra tanta dolcezza
devesse dal parlar di quello uscire quanta dagli oc­
chi di lui le pareva, tuttavia che il mirava, senza fine
gustare; ma egli tutto solo se ne sedeva né di ballar
aver voglia dimostrava.
Tutto il suo studio era in vagheggiar la bella giova­
netta, e quella ad altro non metteva il pensiero che
a mirar lui; e di tal maniera si guardavano che riscon­
trandosi talora gli occhi loro ed insieme mescolan­
dosi i focosi raggi de la vista de l’uno e de l’altra, di
leggero s’avvidero che amorosamente si miravano,
perciò che ogni volta che le viste si scontravano, tutti
dui empivano l’aria d’amorosi sospiri, e pareva che
per alora altro non desiderassero che di poter, insie­
me parlando, il lor nuovo fuoco scoprire. Ora stando
eglino in questo vagheggiamento venne il fine de la
festa del ballare e si cominciò a far la danza o sia il
ballo del “torchio” che altri dicono il ballo del “cap­
pello”. Facendosi questo giuoco fu Romeo levato da
una donna; il quale entrato in ballo fece il dover suo
e dato il torchio ad una donna, andò presso a Giu­
lietta, ché cosí richiedeva l’ordine, e quella prese per
mano con piacer inestimabile di tutte due le parti.
Restava Giulietta in mezzo a Romeo e a uno chiama­
to Marcuccio il guercio, che era uomo di corte molto
piacevole e generalmente molto ben visto per i suoi
motti festevoli e per le piacevolezze ch’egli sapeva
fare, perciò che sempre aveva alcuna novelluccia
per le mani da far ridere la brigata e troppo volen­
tieri senza danno di nessuno si sollazzava. Aveva poi
sempre il verno e la state e da tutti i tempi le mani
via piú fredde e piú gelate che un freddissimo ghiac­
cio alpino; e tutto che buona pezza scaldandole al
fuoco se ne stesse, restavano perciò sempre freddis­
sime. Giulietta che da la sinistra aveva Romeo e Mar­
cuccio da la destra, come da l’amante si seatí pigliar
per mano, forse vaga di sentirlo ragionare, con lieto
viso alquanto verso lui rivoltata, con tremante voce
gli disse: – Benedetta sia la venuta vostra a lato a me!
– e cosí dicendo amorosamente gli strinse la mano.
Il giovino che era avveduto e punto non teneva de
lo scemo dolcemente a lei stringendo la mano in
questa maniera le rispose: – Madonna, e che bene­
dizione è cotesta che mi date ? – e guardandola con
occhio gridante pietà, da la bocca di lei sospirando
se ne stava pendente.
Ella alora dolce ridendo rispose: – Non vi meraviglia­
te, gentil giovino che io benedica il vostro venir qui
perciò che messer Marcuccio già buona pezza con
il gelo de la sua fredda mano tutta m’agghiaccia, e
voi, la vostra mercé, con la dilicata mano vostra mi
scaldate. – A questo subito soggiunse Romeo: – Ma­
donna, che io in qual si sia modo servigio vi faccia,
m’è sommamente caro, ed altro al mondo non bramo
che potervi servire, ed alora beato mi terrò quando
degnarete di comandarmi come a vostro minimo ser­
vidore. Ben vi dico che se la mia mano vi scalda, che
voi con il fuoco dei begli occhi vostri tutto m’ardete,
assicurandovi che se aita non mi porgete a ciò possa
tanto incendio sofferire, non passerà troppo che mi
vederete tutto abbruciare e divenir cenere. – A pena
puoté egli finir di dire l’ultime parole che il giuoco
del “torchio” ebbe fine. Onde Giulietta che tutta
d’amor ardeva, sospirando e stringendo la mano, non
ebbe tempo di fargli altra risposta se non che disse:
– Oimè, che posso io dirvi se non ch’io sono assai
piú vostra che mia ? – Romeo, partendosi ciascuno,
aspettava per vedere ove la giovanetta s’inviasse;
ma guari non stette che egli chiaramente conobbe
che era figliuola del padrone de la casa, ed anco se
ne certificò da un suo benvogliente dimandandogli
di molte donne. Di questo si trovò forte di mala vo­
glia, stimando cosa perigliosa e molto difficile a po­
ter conseguir desiderato fine di questo suo amore.
Ma già la piaga era aperta e l’amoroso veleno molto
a dentro entrato. Da l’altra banda Giulietta bramosa
di saper chi fosse il giovine in preda di cui già senti­
va esser tutta, chiamata una sua vecchia che nodrita
l’aveva, entrò in una camera, e fattasi a la finestra che
per la strada da molti accesi torchi era fatta chiara,
cominciò a domandarla chi fosse il tale che cosí fatto
abito aveva e chi quello che la spada aveva in mano
e chi quell’altro, ed anco le richiese chi fosse il bel
giovine che la maschera teneva in mano. La buona
vecchia che quasi tutti conosceva, le nominava que­
sti e quelli, ed ottimamente conosciuto Romeo, le
disse chi fosse. Al cognome del Montecchio rimase
mezza stordita la giovane, disperando di poter otte­
ner per sposo il suo Romeo per la nemichevol gara
che era tra le due famiglie; nondimeno segno alcu­
no di mala contentezza non dimostrò. Andata poi a
dormire, nulla o poco quella notte dormì, varii pen­
sieri per la mente rivolgendo; ma distorsi d’amar il
suo Romeo né poteva né voleva, sí fieramente di lui
accesa si trovava. E combattendo in lei l’incredibil
bellezza de l’amante, quanto piú difficile e perigliosa
la cosa sua vedeva, tanto piú pareva che in lei, man­
cando la speranza, crescesse il disio. Cosí combat­
tuta da dui contrarii pensieri, dei quali l’uno le dava
animo di conseguir l’intento suo, l’altro del tutto ogni
via le troncava, diceva bene spesso tra sé: – Ove mi
lascio io da le mie mal regolate voglie trasportare?
che so io, sciocca che sono, che Romeo m’ami ? For­
se lo scaltrito giovine quelle parole per ingannarmi
m’ha dette, a ciò che ottenendo cosa da me meno
che onesta, di me si gabbi e donna di volgo mi faccia,
parendoli forse a questo modo far la vendetta de la
nemistà che tutto il dí incrudelisce più tra i suoi e i
miei parenti.
Ma tale non è la generosità de l’animo suo che sop­
portasse d’ingannar chi l’ama e adora. Non son le va­
ghe sue bellezze, se il viso da indizio manifesto de
l’animo, che sotto quelle si ferrigno e spietato core
alberghi; anzi mi giova credere che da cosí gentil e
bel giovìne altro non si possa aspettare che amore,
gentilezza e cortesia. Ora poniamo che veramente,
come mi fo a crederti, m’ami e per sua legitima mo­
glie mi voglia non debb’ío ragionevolmente pensare
che mio padre nol consentirà già mai? Ma chi sa che
per mezzo di questo parentado non si possa sperare
che segua tra queste due famiglie una perpetua con­
cordia e ferma pace ? Io ho pure più volte udito dire
che per gli sposalizii fatti, non solamente tra privati
cittadini e gentiluomini si sono de le paci fatte, ma
che molte volte tra grandissimi prencipi e regi tra i
quali le crudelissime guerre regnavano, una vera pace
ed amicizia con sodisfacimento di tutti è seguita. Io
forse quella sarò che con questa occasione metterò
tranquilla pace in queste due casate. – E in questo
pensiero fermata, ogni volta che Romeo passar per
la contrada poteva vedere, sempre tutta lieta se gli
mostrava; del che egli piacer grandissimo riceveva.
E ancor che non meno di lei coi suoi pensieri avesse
continova guerra ed or sperasse ed or si disperasse,
tuttavia perciò passava dinanzi a la casa de l’amata
giovane così di giorno come di notte con grandissimo
periglio. Ma le buone viste che gli faceva Giulietta, di
piú in piú infiammandolo, lo tiravano a quelle con­
trade. Aveva la camera di Giulietta le finestre suso
una vietta assai stretta cui di rimpetto era un casale;
e passando Romeo per la strada grande, quando arri­
vava al capo de la vietta, vedeva assai sovente la gio­
vane a la finestra, e quantunque volte la vedeva, ella
gli faceva buon viso e mostrava vederlo piú che vo­
lentieri. Andava spesso di notte Romeo ed in quella
vietta si fermava, si perché quel camino non era fre­
quentato ed altresí perché stando per iscontro a la
finestra sentiva pur talora la sua innamorata parlare.
Avvenne che essendo egli una notte in quel luogo, o
che Giulietta il sentisse o qual se ne fosse la cagione,
ella aprí la finestra. Romeo si ritirò dentro il casale,
ma non sí tosto ch’ella nel conoscesse, perciò che la
luna col suo splendore chiara la vietta rendeva.
Ella che sola in camera si trovava, soavemente l’ap­
pellò e disse: – Romeo, che fate voi qui a quest’ore
cosí solo ? Se voi ci foste còlto, misero voi, che sa­
rebbe de la vita vostra? Non sapete voi la crudel
nemistà che regna tra i vostri e i nostri e quanti già
morti ne sono ? Certamente voi sareste crudelmente
ucciso, del che a voi danno e a me poco onore ne
seguirebbe. – Signora mia, – rispose Romeo, – l’amor
ch’io vi porto è cagione ch’io a quest’ora qui venga;
e non dubito punto che se dai vostri fossi trovato,
ch’essi non cercassero d’ammazzarmi.
Ma io mi sforzareí per quanto le mie deboli forze va­
gliano, di far il debito mio, e quando pure da sover­
chie forze mi vedessi avanzare, m’ingegnerei non mo­
rir solo. E devendo io ad ogni modo morire in questa
amorosa impresa, qual piú fortunata morte mi può
avvenire che a voi vicino restar morto ? Che io mai
debbia esser cagione di macchiar in minimissima
parte l’onor vostro, questo non credo che avverrà già
mai, perché io per conservarlo chiaro e famoso com’è
mi ci affaticherei col sangue proprio. Ma se in voi tan­
to potesse l’amor di me come in me di voi può il vo­
stro, e tanto vi calesse de la vita mia quanto a me de
la vostra cale, voi levareste via tutte queste occasioni
e fareste di modo che io viverei il piú contento uomo
che oggidì sia. – E che vorreste voi che io facessi ?
– disse Giulietta. – Vorrei, – rispose Romeo, – che voi
amassi me com’io amo voi e che mi lasciaste venir
ne la camera vostra, a ciò che piú agiatamente e con
minor pericolo io potessi manifestarvi la grandezza
de l’amor mio e le pene acerbissime che di contino­
vo per voi soffro. – A questo Giulietta alquanto d’ira
accesa e turbata gli disse: – Romeo, voi sapete l’amor
vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa
persona amare, e forse piú di quello che a l’onor mio
si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me
godere oltra il convenevole nodo del matrimonio,
voi vivete in grandissimo errore e meco punto non
sarete d’accordio. E perché conosco che praticando
voi troppo sovente per questa vicinanza potreste
di leggero incappare negli spiriti maligni ed io non
sarei piú lieta già mai, conchiudo che se voi deside­
rate esser cosí mio come io eternamente bramo es­
ser vostra, che debbiate per moglie vostra legitima
sposarmi. Se mi sposarete, io sempre sarò presta a
venir in ogni parte ove piú a grado vi fia. Avendo altra
fantasia in capo, attendete a far i fatti vostri e me la­
sciate nel grado mio vivere in pace. – Romeo che al­
tro non bramava, udendo queste parole, lietamente
le rispose che questo era tutto il suo disio e che ogni
volta che le piacesse la sposeria in quel modo che
ella ordinasse. – Ora sta bene, – soggiunse Giulietta.
– Ma perché le cose nostre ordinatamente si faccia­
no, io vorrei che il nostro sponsalìzio a la presenza
del reverendo frate Lorenzo da Reggio, mio padre
spirituale, si facesse. – A questo s’accordarono, e si
conchiuse che Romeo con lui il seguente giorno del
fatto parlasse, essendo egli molto di quello domesti­
co. Era questo messer lo frate, de l’ordine dei minori,
maestro in teologia, gran filosofo ed esperto in molta
cose e distillator mirabile e pratico de l’arte magica.
E perché voleva il buon frate mantenersi in buona
openione del volgo ed anco goder di quei diletti che
gli capevano ne la mente, si sforzava far i fatti suoi
piú cautamente che poteva, e per ogni caso che po­
tesse occorrere, cercava sempre appoggiarsi ad alcu­
na persona nobile e di riputazione. Aveva tra gli altri
amici che in Verona il favorivano, il padre di Romeo,
ch’era gentiluomo di gran credito ed in buona stima
appo tutti, il quale portava ferma openione esso fra­
te esser santissimo. Romeo medesimamente molto
l’amava ed era dal frate sommamente amato, cono­
scendolo giovine prudente ed animoso. Né solamen­
te praticava in casa dei Montecchi, ma anco con i Ca­
pelletti teneva stretta domestichezza, ed in confes­
sione udiva la piú parte de la nobiltà de la città così
d’uomini come di donne. Preso ,dunque Romeo con­
gedo con l’ordine detto da Giulietta si partì e andò a
casa; e venuto il giorno, si trasferí a San Francesco e
a messer lo frate narrò tutto il successo del suo amo­
re e la conchiusione fatta con Giulietta. Fra Lorenzo
udito questo promise far tutto ciò che Romeo vole­
va, sí perché a quello non poteva cosa veruna negare
ed altresí ché con questo mezzo si persuadeva poter
pacificare insieme i Capelletti e i Montecchi ed ac­
quistarsi di piú in più la grazia del signor Bartolomeo,
che infinitamente desiderava che queste due casate
facessero pace per levar tutti i tumulti de la sua città.
Aspettavano i dui amanti l’occasione del confessarsi
per dar effetto a quanto avevano ordinato. Venne il
tempo de la quadragesima e per piú sicurezza dei
casi suoi Giulietta si deliberò fidarsi d’una sua vec­
chia che seco in camera dormiva e pigliata l’oportu­
nità, tutta l’istoria del suo amore a la buona vecchia
scoperse. E quantunque la vecchia assai la sgridasse
e dissuadesse da cotal impresa, nondimeno nessuno
profitto facendo condescese al voler di Giulietta, la
quale tanto seppe dire che indusse quella a portar
una lettera a Romeo. L’amante veduto quanto gli era
scritto, si ritrovò il piú lieto uomo del mondo, perciò
che quella gli scriveva che a le cinque ore de la notte
egli venisse a parlar a la finestra per iscontro il casale
e portasse seco una scala di corda. Aveva Romeo un
suo fidatissimo servidore del quale in cose di molta
importanza piú volte s’era fidato e trovatolo sempre
presto e leale. A costui, dettoli ciò che far intendeva,
diede la cura di trovar la scala di corda, e messo ordi­
ne al tutto, a l’ora determinata se n’andò con Pietro,
– ché così il servidore aveva nome, – al luogo ove
trovò Giulietta che l’aspettava.
La quale come il conobbe, mandò giú lo spago che
apprestato aveva e su tirò la scala a quello attaccata,
e con l’aita de la vecchia che seco era, la scala a la
ferrata fermamente accomandata, attendeva la salita
de l’amante.
Egli su arditamente salì e Pietro dentro al casale si
ricoverò.
Salito Romeo su la finestra che la ferrata aveva mol­
to spessa e forte di modo ch’una mano difficilmen­
te passar vi poteva, si mise a parlar con Giulietta. E
date e ricevute l’amorose salutazioni, così Giulietta
al suo amante disse:– Signor mio, a me vie piú caro
che la luce degli occhi miei, io vi ci ho fatto venire
perciò che con mia madre ho posto ordine andarmi
a confessare venerdí prossimo che viene, ne l’ora de
la predicazione.
Avvisatene fra Lorenzo, ché proveda del tutto. – Ro­
meo disse che già il frate era avvertito e disposto di
far quanto essi volevano. E ragionato buona pezza tra
loro dei loro amori, quando tempo li parve, Romeo
discese giú, e distaccata la fune de la corda e quel­
la presa, con Pietro si partì. Rimase Giulietta molto
allegra, parendole un’ora mill’anni che il suo Romeo
sposasse. Da l’altra banda Romeo, col suo servido­
re ragionando, era tanto lieto che non capeva ne la
pelle. Venuto il venerdí, come dato era l’ordine, ma­
donna Giovanna che era madre di Giulietta, presa la
figliuola e le sue donne, andò a San Francesco che
alora era in Cittadella, ed entrata in chiesa fece do­
mandar fra Lorenzo. Egli che del tutto avvertito era
e già aveva ne la cella del suo confessionario fatto
entrar Romeo e chiavatolo dentro, venne a la donna,
la quale gli disse: – Padre mio, io son venuta a buo­
n’ora a confessarmi e cosí anco ho condotto Giuliet­
ta, perché so che voi sarete tutto il dí occupatissimo
per le molte confessioni dei vostri figliuoli spirituali.
– Disse il frate che in nome di Dio fosse, e data loro
la benedizione andò dentro il convento ed entrò nel
confessionario ove Romeo era. Da l’altra parte Giu­
lietta prima fu che si presentò innanzi a messer lo fra­
te. Quivi entrata e chiusa la porta diede al frate il se­
gno che era dentro. Egli levata via la graticola, dopo
i convenevoli saluti disse a Giulietta: – Figliuola mia,
per quello che mi riferisce Romeo, tu seco accorda­
ta ti sei di prenderlo per marito ed egli è disposto
prender te per moglie. Sète voi ora di questa dispo­
sizione ? – Risposero gli amanti che altro non deside­
ravano. Messer lo frate udita la volontà d’ambidue,
poi che alcune cose ebbe detto in commendazione
del santo matrimonio, dette quelle parole che si co­
stumano secondo l’ordine de la Chiesa dir nei spo­
salizii, Romeo diede l’anello a la sua cara Giulietta
con grandissimo piacere di tutti dui. Preso poi seco
ordine d’andar la seguente notte a trovarla e per il
buco de la finestrella basciatisci, se n’usci cautamen­
te Romeo de la cella e del convento e lieto andò a
far i fatti suoi. Il frate rimissa la graticola a la finestra
e quella in modo acconciata che nessuno accorger si
potesse che fosse stata rimossa, udí la confessione
de la contenta giovane e poi de la madre e de l’altre
donne. Venuta poi la notte, a l’ora statuita, Romeo
con Pietro se n’andò a certo muro d’un giardino, ed
aiutato dal servidore salí il muro e nel giardino di­
scese, ove trovò la moglie che insieme con la vecchia
l’attendeva.
Come egli vide Giulietta, incontra l’andò con le
braccia aperte. Il medesimo fece Giulietta a lui, ed
avvinchiatogli il collo stette buona pezza da sover­
chia dolcezza ingombrata che nulla dir poteva. Era
al medesimo segno l’infiammato amante, parendogli
simil piacere non aver gustato già mai. Cominciaro­
no poi a basciarsi l’un l’altro con infinito diletto ed
indicibil gioia di tutte due le parti. Ritiratisi poi in
uno dei canti del giardino, quivi sovra certa banca
che ci era, amorosamente insieme giacendo consu­
marono il santo matrimonio. Ed essendo’ Romeo
giovine di forte nerbo e molto innamorato, piú e piú
volte a diletto con la sua bella sposa si ridusse. Poi
messo ordine di trovarsi de l’altre volte insieme ed
in questo mezzo far praticar messer Antonio per far
la pace ed il parentado, Romeo basciata mille e mil­
le fiate la moglie, se n’uscí del giardino seco stesso
pieno di gioia dicendo: – Qual uomo oggidí al mon­
do si truova che di me più felice viva? qual sarà che
meco in amor s’agguagli ? qual sí bella e sí leggiadra
giovanetta come io ho, ebbe già mai? – Né meno fra
se medesima Giulietta si prezzava e si teneva beata,
parendole pure che impossibil fosse che si potesse
trovar un giovine che di bellezza di belle maniere, di
cortesia, di gentilezza e dì mill’altre care e belle doti
al suo Romeo fosse uguale.
Aspettava adunque con il maggior desiderio del
mondo che le cose in modo si adattassero che senza
sospetto ella potesse Romeo godere. Così avvenne
che alcuni dí gli sposi insieme si ritrovarono ed alcu­
ni no. Fra Lorenzo tuttavia praticava quanto poteva la
pace tra’ Montecchi ed i Capelletti, ed aveva ridotto
le cose ad assai buon termine, di tal maniera che spe­
rava conchiuder il parentado degli amanti con buona
sodisfazione di tutte due le parti. Erano le feste de la
pasqua de la resurrezione, quando avvenne che su
il Corso vicino a la porta dei Borsari verso Castelvec­
chio molti di quelli dei Capelletti incontrarono alcuni
dei Montecchi e con l’arme fieramente gli assalirono.
Era tra i Capelletti Tebaldo primo cugino di Giulietta,
giovine molto prode de la persona, il quale essortava
i suoi a menar le mani animosamente contra i Mon­
tecchi e non risguardar in viso a persona Cresceva la
mischia, e tuttavia a l’una ed a l’altra parte venendo
aita di gente e d’arme, erano gli azzuffati in modo ac­
cesi che senza risguardo veruno si davano di molte
ferite. Or ecco che a caso vi sovragiunse Romeo, il
quale oltra i servidori suoi aveva anco seco alcuni
giovini suoi compagni, ed andavano per la città a di­
porto. Egli veduti i suoi parenti esser a le mani con i
Capelletti, si turbò forte, perciò che sapendo la prati­
ca che era de la pace che maneggiava messer lo frate,
non averebbe voluto che questione si fosse fatta. E
per acquetar il romore, ai suoi compagni e servidori
altamente disse, e fu da molti ne la contrada sentito:
– Fratelli entriamo in mezzo a costoro e vediamo per
ogni modo che la zuffa non vada piú innanzi, ma sfor­
ziamoci a fargli por giù l’arme.
– E cosí cominciò egli a ributtar i suoi e gli altri, ed es­
sendo dai compagni seguitato, animosamente s’ap­
provò con fatti e con parole far di modo che la zuffa
non procedesse piú avanti. Ma nulla puoté operare,
per ciò che il furore da l’una e l’altra parte era tanto
cresciuto, che ad altro non attendevano che a me­
nar le mani. Già erano per terra dui o tre per banda
caduti, quando indarno affaticandosi Romeo per far
a dietro ritirar i suoi, venne Tebaldo per traverso e
diede una gagliarda stoccata a Romeo in un fianco.
Ma perché egli aveva la corazzina de la maglia non
fu ferito, ché lo stocco non puoté passar la corazza.
Onde rivoltato verso Tebaldo con parole amichevoli
gli disse: – Tebaldo, tu sei grandemente errato se tu
credi che io qui sia venuto per far questione né teco
né con i tuoi. Io a caso mi ci sono abbattuto, e venni
per levarne via i miei, bramando che ormai viviamo
insieme da buoni cittadini. E così t’essorto e prego
che tu faccia con i tuoi, a ciò che più scandalo verruno
non segua, ché pur troppo sangue s’è sparso. – Que­
ste parole furono quasi da tutti udite; ma Tebaldo, o
non intendesse ciò che Romeo diceva o facesse vista
di non intenderlo, rispose: – Ah traditore, tu sei mor­
to ! – e con furia a dosso se gli avventò per ferirlo su
la testa. Romeo che aveva le maniche de la maglia
che sempre portava, ed al braccio sinistro avvolta la
cappa, se la pose sovra il capo, e rivoltata la punta
de la spada verso il nemico quello dirittamente ferí
ne la gola e gliela passò di banda in banda, di modo
che Tebaldo subito si lasciò cascar boccone in terra
morto. Il romore si levò grandissimo, ed arrivando la
corte del podestà, dei combattenti chi andò in qua
chi in là. Romeo fuor di misura dolente che Tebal­
do avesse morto, accompagnato da molti dei suoi se
n’andò a San Francesco a ricoverarsi ne la camera di
fra Lorenzo. Il buon frate udendo il caso intervenuto
de la morte del giovine Tebaldo, restò molto dispe­
rato, stimando che ordine piú non ci fosse di levar la
nemicizia tra le due famiglie. I Capelletti uniti insie­
me andarono a querelarsi al signor Bartolomeo. Da
l’altra parte il padre de l’ascoso Romeo con i primi
dei Montecchi provarono che andando Romeo per la
città a diporto con i suoi compagni, che a caso ab­
battendosi ove i Montecchi erano stati assaliti dai
Capelletti, entrò ne la zuffa per levar via i romori ed
acquetar la questione; ma che ferito di traverso da
Tebaldo, lo pregò che volesse far ritirar i suoi e de­
por l’armi, e che Tebaldo ritornò a ferirlo, ed il caso
com’era successo. E cosí l’un l’altro accusando e tutti
scusandosi, innanzi al signor Bartolomeo fieramente
tenzionavano. Tuttavia essendo assai manifesto i Ca­
pelletti esser stati gli assalitori, e provatosi per mol­
ti testimonii degni di fede ciò che Romeo prima ai
suoi compagni detto aveva e le parole verso Tebaldo
usate, il signor Bartolomeo fatto depor a tutti l’arme,
fece bandir Romeo. Era ne la casa dei Capelletti un
grandissimo pianto per la morte del loro Tebaldo.
Giulietta allargate le vene al lagrimare, a quello pun­
to non metteva sosta, ma dirottamente piangendo,
non la morte del cugino piangeva, ma de la perduta
speranza del parentado oltra modo s’attristava e mi­
seramente s’affligeva, non sapendo a che fine la cosa
riuscisse imaginarsi. Avendo poi per via di fra Loren­
zo inteso ove Romeo si trovava, gli scrisse una lettera
tutta piena di lagrime e per mano de la vecchia al fra­
te la mandò. Sapeva ella Romeo esser bandito e che
forza era che da Verona si partisse, onde affettuosis­
simamente lo pregava che le volesse dar il modo di
partirsi seco. Romeo le scrisse che si desse pace, ché
col tempo al tutto provederia, e che ancor non era
risoluto ove ricoverar si devesse; ma che piú vicino
che fosse possibile anderia a stare, e che innanzi che
partisse farebbe ogni sforzo di ritrovarsi con lei a par­
lamento ove piú comodo a quella fosse. Elesse ella
per men periglioso luogo il giardino ove le nozze del
suo matrimonio già fatte aveva; e determinata la pre­
cisa notte ch’insieme esser devevano, Romeo, prese
le sue arme, del convento con aita di fra Lorenzo uscì
ed accompagnato dal suo fidatissimo Pietro, a la mo­
glie si condusse. Entrato nel giardino fu da Giulietta
con infinite lagrime raccolto.
Stettero buona pezza tutti dui senza poter formar pa­
rola, bevendo, insiememente basciandosi, l’ un de
l’altro le stillanti lagrime che in abbondanza grandis­
sima distillavano.
Poi condolendosi che sí tosto divider si devessero,
altro non sapevano fare che lagrimare e lamentarsi
de la contraria fortuna ai lor amori, ed abbraccian­
dosi e basciandosi insieme, piú volte amorosamente
insieme presero piacere. Appropinquandosi poi l’ora
del partire, Giulietta, con quelle preghiere che puo­
té le maggiori, supplicò il marito che seco condur la
volesse. – Io, – diceva ella, – caro il mio signore, mi
raccorcerò la lunga chioma e vestirommi da ragazzo,
ed ovunque piú vi piacerà andare, sempre ne verrò
vosco ed amorevolmente vi servirò. E qual piú fida­
to servidore di me potreste voi avere? Deh, caro il
mio marito, fatemi questa grazia e lasciatemi correr
una medesima fortuna con voi, a ciò che quello che
sarà di voi sia di me. – Romeo quanto piú poteva con
dolcissime parole la confortava e si sforzava conso­
larla, assicurandola che portava ferma openione che
in breve il suo bando saria rivocato, perciò che di già
il principe n’aveva data alcuna speranza a suo padre;
e che quando condurla seco volesse, non in abito di
paggio la menarebbe, ma come sua moglie e signora
vorrebbe che onoratamente e da sua pari accompa­
gnata andasse.
L’affermava poi che il bando piú d’un anno non du­
reria, perché se in questo mezzo la pace tra i paren­
ti loro non si faceva amicabilmente, che il signore
vi metteria poi la mano ed a mal grado di chi non
volesse gli faria pacificare. Avvenisse poi ciò che si
volesse, che veggendo le cose andar in lungo, egli
prenderia altro partito, essendogli impossibile che
senza lei, lungo tempo vivesse. Diedero poi ordine
di darsi nuova con lettere.
Molte cose disse Romeo a sua moglie per lasciarla
consolata ma la sconsolata giovane altro non faceva
che piangere. A la fine cominciando l’aurora a voler
uscire, si basciarono e strettamente abbracciarono
gli amanti, e pieni di lagrime e sospiri si dissero a
Dio. Romeo a San Francesco se ne tornò e Giulietta
in camera. Indi poi a dui o tre giorni, avendo già Ro­
meo disposto il modo che voleva tenere a partirsi,
celatamente in abito di mercadante straniero, di Ve­
rona uscito, trovò buona e fidata compagnia a l’ordi­
ne ed a Mantova sicuramente si condusse.
Quivi, presa una casa, non gli lasciando suo padre
mancar danari, onoratamente e ben accompagna­
to se ne stava. Giulietta tutto il dí altro non faceva
che piangere e sospirare, e poco mangiava e meno
dormiva, menando le notti uguali ai giorni. La madre
veggendo il pianger de la figliuola, piú e piú volte le
dimandò la cagione di quelli sua mala contentezza e
che cosa si sentisse, dicendole. che oggimai era tem­
po di por fine a tante lagrime e che purtroppo la mor­
te del suo cugino pianto aveva. Giulietta rispondeva
non saper che cosa s’avesse.
Tuttavia come da la compagnia involar si poteva, si
dava in preda al dolore ed a le lagrime. Il che fu ca­
gione che ella ne divenne magra e tutta malinconica,
di modo che piú quella bella Giulietta che prima era,
quasi non assembrava.
Romeo con lettere la teneva visitata e confortata,
dandole sempre speranza che in breve sarebbero
insieme. La pregava anco caldamente a star allegra e
trastullarsi e non si prender tanta malinconia, ché al
tutto si prenderebbe il miglior modo che si potesse.
Ma il tutto era indarno, perciò che ella non poteva
senza Romeo pigliar a le sue pene rimedio alcuno.
Pensò sua madre che la tristezza de la giovane fos­
se che, per esser state maritate alcune compagne di
quella, ella altresí volesse marito.
Cadutole questo pensiero in capo, lo comunicò al
marito e gli disse: – Marito mio, questa nostra figliuo­
la mena una tristissima vita, ed altro mai non fa che
pianger e sospirare, e quanto piú può fugge la con­
versazione di ciascuno. Io piú volte l’ho dimandata la
cagione di questa sua mala contentezza ed ho spiato
da ogni banda per venirne in cognizione, e nulla ho
potuto in, tender già mai. Ella mi risponde sempre
d’un tenore, che non sa che cosa s’abbia e tutti quei
di casa si stringono ne le spalle né sanno che se ne
dire. Certo è che alcuna gran passione la tormenta,
poi che cosí sensibilmente ella va come cera al fuoco
consumandosi. E poi che mille cose tra me m’ho ima­
ginate, una sola m’è venuta a la mente, per la quale
io dubito forte che avendo vedute tutte le sue com­
pagne esser il carneval passato divenute spose e che
di lei non si parli di darle marito, che quindi nasca
questa sua tristezza. Ella a questa santa Eufemia che
viene compirà i suoi diciotto anni; onde m’è paruto,
marito mio, dirtene un motto, parendomi ch’oramai
sia tempo che tu debbia procacciarle un buono ed
onorato partito e non tenerla piú senza marito, per­
ché cotesta non è mercadanzia da tener per casa.
– Udito messer Antonio quanto la moglie detto gli
aveva e non gli parendo fuor di proposito, cosí le ri­
spose: – Moglie, poi che tu non hai potuto cavar altro
de la malinconia de la nostra figliuola e ti pare che se
le debbi dar marito, io farò quelle pratiche che piú al
proposito mi parranno per trovarle marito condecen­
te al grado de la casa nostra. Ma vedi tu fra questo
mezzo spiare se ella talora fosse innamorata e da lei
intender che marito piú gli piaceria. – Madonna Gio­
vanna disse di far tutto ciò che saperia, e non mancò
di nuovo d’investigare e da la figliuola e dagli altri di
casa quanto seppe e puoté; ma nulla mai intese. In
questo tempo fu messo per le mani a messer Antonio
il conte Paris di Lodrone, giovine di ventiquattro in
venticinque anni, molto bello e ricco. E praticandosi
questo buon partito con non poca speranza di buon
fine, rnesser Antonio lo disse a la moglie, ed ella pa­
rendole cosa buona e molto onorata, lo disse a la fi­
gliuola, del che Giulietta se ne mostrò fuor di modo
dolente e trista. Madonna Giovanna ciò veggendo, si
trovò pur troppo di mala voglia non potendo indo­
vinare di questo la cagione. E poi che molti ragiona­
menti ebbe con Giulietta fatti, le disse: – Adunque,
figliuola mia, a quello che io sento tu non vuoi ma­
rito. – Io non vo’ altrimenti maritarmi, – rispose ella
a la madre soggiungendo che se punto l’amava e di
lei le caleva, che non le favellasse di marito. La ma­
dre udendo la risposta de la figliuola, a quella disse:
– Che vuoi tu adunque essere se non vuoi marito ?
vuoi tu farti pinzochera o diventar monaca ? Dimmi
l’animo tuo. – Giulietta alora le rispose che non vo­
leva esser pinzochera né monaca e che non sapeva
ciò che si volesse, se non morire. Restò la madre a
queste risposte piena d’ammirazione e dispiacere e
non sapeva che dirsi e meno che farsi. Tutti quei di
casa altro non sapevano che dire se non che Giulietta
dopo la morte del cugino sempre era stata di malis­
sima voglia e che non cessava mai di piangere, né
dopoi a le finestre era stata veduta. Riferí ogni cosa
madonna Giovanna a messer Antonio. Egli chiama­
ta a sé la figliola, dopo alcuni ragionamenti le disse:
– Figliuola mia, veggendoti oggimai d’età da marito,
t’ho ritrovato uno sposo molto nobile, ricco e bello,
il quale è signor e conte di Lodrone. Perciò disponti
a prenderlo e far quanto io voglio, ché simili onore­
voli partiti si trovano di rado. –A questo Giulietta con
maggior animo che ad una fanciulla non conveniva,
liberamente rispose che ella non voleva maritarsi. Il
padre si turbò forte e salito in còlera fu vicino a bat­
terla. Ben la minacciò rigidamente con agre parole,
ed a la fine le conchiuse che volesse o no, fra tre o
quattro giorni ella deliberasse andar con la madre ed
altre parenti a Villafranca, perciò che quivi deveva
venir il conte Paris con sua compagnia a vederla, e
che a questo non facesse né replica né resistenza se
non voleva che le rompesse il capo e la facesse la píú
trista figliuola che mai fosse nata. Qual fosse l’animo
di Giulietta, quali i pensieri, pensilo chi mai provò
le fiamme amorose. Ella restò si stordita che proprio
pareva tócca da la saetta del folgorante tuono. In sé
poi rivenuta avvisò del tutto Romeo per via di fra Lo­
renzo. Romeo le riscrisse che facesse buon animo,
perché verria in breve a levarla de la casa del padre
e condurla a Mantova. Or fu pur forza che andasse a
Villafranca, ove il padre aveva un bellissimo podere.
Ella v’andò con quel piacere che vanno i condannati
a la morte su le forche ad esser impiccati per la gola.
Era quivi il conte Paris, il quale ne la chiesa a messa
la vide, e ben che fosse magra, pallida e malinconica,
gli piacque, e venne a Verona ove con messer Anto­
nio conchiuse il matrimonio. Ritornò anco Giulietta a
Verona, a cui il padre disse come il matrimonio del
conte Paris e di lei era conchiuso, essortandola a star
di buona voglia e rallegrarsi. Ella fatto forte animo,
ritenne le lagrime de le quali gli occhi aveva colmi e
niente al padre rispose. Certificata poi che le nozze
s’apprestavano per mezzo settembre venente e non
sapendo trovar compenso in così forzato bisogno ai
casi suoi, deliberò andar ella stessa a parlar con fra
Lorenzo e seco consegliarsi del modo che tener deve­
va a liberarsi dal già promesso matrimonio. Era vicina
la festa de la gloriosa assunzione de la sempre bea­
tissima Vergine madre del nostro Redentore; onde
Giulietta, presa questa occasione, trovata sua madre,
cosí le disse: – Madre mia cara, io non so né posso
imaginarmi onde sia pasciuta questa mia fiera malin­
conia che tanta m’affigge, perché dapoi che Tebaldo
fu morto mai non ho potuto rallegrarmi, e par che di
continovo io vada di mal in peggio né truovi cosa che
mi giovi. E perciò ho pensato a questa benedetta e
santa festa de l’assunzione de la nostra avvocata Ver­
gine Maria confessarmi, ché forse con questo mezzo
io riceverò alcun compenso a le mie tribulazioni. Che
ne dite voi, madre mia dolce ? parvi egli ch’io faccia
quanto m’è caduto in mente ? Se altra via vi pare che
prendersi debbia, insegnatemela, ché io per me non
so dove mi dia del capo. – Madonna Giovanna che
era buona donna e molto religiosa, ebbe caro inten­
der l’intenzion de la figliuola e l’essortò a seguir il
suo proposito, commendandole molto cotal pensie­
ro. E cosí di brigata se n’andarono a San Francesco
e fecero chiamar fra Lorenzo, al quale venuto e nel
confessionario entrato, Giulietta da l’ altra banda se
n’andava a porsi dinanzi e in questo modo gli disse:
– Padre mio, non é persona al mondo che meglio di
voi sappia quello che tra mio marito e me è passato,
e perciò non fa mestieri che io altrimenti ve lo ridica.
Devete anco ricordarvi d’aver letta la lettera che io vi
mandai che leggessi e poi la mandassi al mio Romeo
ove scriveva come mio padre m’aveva promessa per
moglie al conte Paris di Lodrone. Romeo mi riscrisse
che verrà e che farà, ma Dio sa quando. Ora il fatto
sta che tra loro hanno conchiuso, questo mese di set­
tembre che viene, che le nozze si facciano ed io sia
condotta a l’ordine.E perché il tempo s’appressa ed
io non veggio via da svilupparmi da questo Lodrone,
che ladrone ed assassino mi pare, volendo le cose
altrui rubare, son qui venuta per conseglio ed aita. Io
non vorrei con questo “verrò e ben farò” che Romeo
mi scrive restar avviluppata, perciò che io son moglie
di Romeo e consumato ho il matrimonio, né d’altri
che di lui esser posso, ed ancora che io potessi non
voglio, perché di lui solo eternamente esser intendo.
Mi bisogna mò l’aita vostra ed il conseglio.
Ma udite quanto in mente m’è caduto di voler fare.
Io vorrei, padre mio, che voi mi facessi ritrovar calze,
giuppone ed il resto de le vestimenta da ragazzo, a
ciò che vestita ch’io ne sia, possa la sera sul tardi o
il matino a buonissim’ora uscirmene di Verona che
persona non mi conoscerà, e me n’anderò di lungo
a Mantova e mi ricovererò in casa del mio Romeo.
– Messer lo frate udendo questa favola non troppo
maestrevolmente ordita e punto non piacendogli,
disse: – Figliuola mia, il tuo pensiero non è da met­
tersi ad essecuzione, perciò che a troppo gran rischio
tu ti porresti. Tu sei troppo giovanetta delicatamente
nodrita, e non potresti sofferire la fatica del viaggio,
ché usa non sei a caminar a piede. Poi tu non sai il
camino e andresti errando or qua or là. Tuo padre
subito che non ti trovasse in casa, manderia a tutte
le porte de la città e per tutte le strade del conta­
do, e senza dubio di leggero le spie ti troverebbero.
Ora essendo rimenata a casa, tuo padre vorrebbe da
te intender la cagione del tuo partire così vestita da
uomo. Io non so come potresti sopportar le minaccie
che ti fariano e forse le battiture che ti sarebbero dai
tuoi date per intender la verità del fatto, e dove fa­
cevi il tutto per andar a veder Romeo, perderesti la
speranza di rivederlo piú mai. – A le verisimili paro­
le del frate acquetandosi, Giulietta gli replicò: – Poi
che l’avviso mio, padre, non vi par buono ed io vi
credo, consegliatemi adunque voi ed insegnatemi
snodar questo mio intricato nodo, ov’io, misera me,
ora avviluppata mi trovo, a ciò che quanto possibil fia
con minor travaglio, col mio Romeo possa trovarmi
con ciò sia cosa che senza lui è impossibil ch’io viva.
E se in altro modo darmi aita non potete, aiutatemi
almeno che non devendo essere di Romeo, io non
sia di nessun altro. Romeo m’ha detto che voi sète
gran distillatore d’erbe e d’altre cose, e che distillate
un’acqua che in due ore senza far dolore alcuno a la
persona ammazza l’uomo. Datemene tanta quantità
che basti a liberarmi da le mani di questo ladrone,
poi che altramente a Romeo render non mi potete.
Egli amandomi come so che m’ama, si contenterà
ch’io piú tosto mora che a le mani d’altri viva per­
venga. Me poi liberarete da una grandissima vergo­
gna e tutta la casa mia, perciò che se altra via non ci
sarà a levarmi fuor di questo tempestoso mare ove
ora in sdruscito legno senza governo mi ritrovo, io vi
prometto la fede mia e quella vi attenderò, che una
notte con un tagliente coltello contra me stessa in­
crudelirò e mi segherò le vene de la gola, ché prima
morir deliberata sono che di non mantener la fede
coniugale a Romeo.
– Era il frate un grandissimo esperimentatore che ai
suoi dì aveva cercati assai paesi ed erasi dilettato di
provare e saper cose diverse, e sopra il tutto cono­
sceva la vertú de l’ erbe e de le pietre, ed era uno dei
gran distillatori che a quei tempi si trovassero. E tra l’
altre sue cose egli componeva alcuni sonniferi sem­
plici insieme, ed una pasta ne faceva, che poi ridu­
ceva in minutissima polvere che era di meravigliosa
vertú. Ella poi che era con un poco d’acqua bevuta,
in uno o dui quarti d’ora di modo faceva dormire chi
bevuta l’avesse, e sí gli stordiva gli spiriti e di ma­
niera l’acconciava che non c’era medico per eccellen­
tissimo che fosse e ben pratico che non giudicasse
colui esser morto. Teneva poi in cosí dolce morte il
bevitore circa quaranta ore almeno e talora piú, se­
condo la quantità che si beveva e secondo il tempe­
ramento degli umori del corpo di chi la beveva. Fatta
che aveva la polvere la sua operazione, svegliavasi
l’uomo o donna né piú né meno come se lungo sonno
dolcemente avesse dormito, né altro disturbo o male
faceva.
Ora avendo messer lo frate intesa chiaramente la
deliberata disposizione de la sconsolata giovane, a
pietà di lei commosso, a gran pena puoté ritener le
lagrime, onde con pietosa voce le disse: – Vedi, fi­
gliuola mia, egli non bisogna parlar di morire, perché
io t’assicuro che se una volta morrai, che di qua non
tornerai piú se non il giorno de l’universal giudizio,
quando insieme con tutti i morti saremo suscitati. Io
vo’ che tu pensi a vivere fin che a Dio piacerà. Egli
ci ha data la vita, egli la ci conserva: egli quando gli
piace a sé la ritoglia. Sí che caccia da te questo me­
lanconico pensiero. Tu sei giovane e adesso ti deve
giovar di vivere e di goder il tuo Romeo. Noi trova­
remo rimedio a tutto, non dubitare. Come tu vedi,
io sono in questa magnifica città generalmente appo
tutti in grandissimo credito e buona riputazione. Se
si sapesse ch’io fossi stato consapevole del tuo ma­
trimonio, e danno e vergogna infinita ne riporterei.
Ma che saria se io ti dessi veleno? Io non n’ho, e
quando ben n’avessi non te ne darei, sí perché l’of­
fesa di Dio sarebbe mortalissima e sí anco ché io in
tutto perderei il credito. Tu puoi ben intendere che
per l’ordinario poche cose d’importanza si fanno che
io con la mia autorità non ci intravenga; e non sono
ancor quindeci giorni che il signor de la città m’ado­
però in un maneggio di grandissimo momento.
Perciò, figliuola, io volentieri per te e per Romeo
m’affaticherò, e a tuo scampo farò di modo che reste­
rai di Romeo e non di questo Lodrone, né ti converrà
morire.
Ma bisogna far di modo che la cosa non si risappia
già mai. A te mò conviene esser sicura ed animosa,
che ti deliberi di far quanto t’ordinerò, che sarà senza
farti un minimo nocumento in alcun conto che si sia;
ed odi in che modo. – Quivi il frate puntalmente a la
giovane manifestò la sua polvere e le disse la vertú
che aveva e che piú volte l’aveva esperimentata e
sempre trovatala perfetta.
– Figliuola mia, – diceva messer lo frate, – questa mia
polvere è tanto preziosa e di si gran valore che sen­
za nocumento ti farà dormire quanto t ho detto, ed
in quel mezzo che tu quietissimamente riposerai, se
Galeno, Ippocrate, Messue, Avicenna e tutta la scola
dei piú eccellenti medici che sono o furono già mai,
ti vedessero e ti toccassero il polso, tutti ad una voce
morta ti giudicheriano.
E come tu l’averai digerita, da quell’artificiato dor­
mire cosí sana e bella ti desterai come suoli quando
il mattino fuor del tuo letto ti levi. Si che bevendo
quest’acqua là ne l’apparir de l’alba, poco dopoi ti
addormenterai, e a l’ora del levare veggendo i tuoi
che tu dormi, ti vorranno svegliare e non potran­
no. Tu resterai senza polso e fredda come ghiaccio.
Chiameransi i medici e i parenti, e insomma tutti ti
giudicheranno morta, e cosí su la sera ti faranno se­
pellire e ti metteranno dentro l’arca dei tuoi Capel­
letti. Quivi a tuo bell’agio riposerai la notte e il di. La
notte poi seguente, Romeo ed io verremo a levarti
fuori, perciò che io del caso per messo a posta avvi­
serò Romeo. E cosí egli con segreta maniera ti merrà
a Mantova ed ivi celatamente ti terrà fio che questa
benedetta pace tra i suoi e i tuoi si faccia, ché a me
dà l’animo agevolmente di farla. Se questa via non
prendi, io non so con che altro poterti dar soccorso.
Ma vedi: come t’ho detto, egli ti convien esser segre­
ta e ritener questa cosa in te, altrimenti guastaresti
i fatti tuoi e i miei. – Giulietta che dentro una forna­
ce ardente per trovar Romeo andata saria non che
in una sepoltura, diede intiera credenza a le parole
del frate e senza altrimenti pensarvi vi s’accordo e gli
disse: – Padre, io farò il tutto che voi mi dite, e così
ne le mani vostre mi rimetto.
Ch’io dica questa cosa a persona non dubitate, ché io
sarò segretissima. – Corse subito il frate a la camera
ed a la giovane recò tanta polvere quanta capirebbe
in un cucchiaio involta in un poco di carta. Presa Giu­
lietta la polvere, la mise in una sua borsa e molto rin­
graziò fra Lorenzo. Egli che assai difficilmente poteva
credere ch’una fanciulla fosse sí sicura e tanto auda­
ce che in un avello tra’ morti si lasciasse chiudere, le
disse: – Dimmi, figliuola, non averai tu paura di tuo
cugino Tebaldo, che è cosí poco tempo che fu ucciso
e ne l’arca ove posta sarai giace e deve fieramente
putire ? – Padre mio, – rispose l’animosa giovane, –
di questo non vi caglia, ché se per passar per mezzo
le penaci pene de l’inferno io credessi trovar Romeo,
io nulla temerei quel fuoco eternale.
– Or sia col nome del nostro signor Iddio, – disse il
frate.
Tornò Giulietta a la madre tutta lieta e ne l’andar ver­
so la casa le disse:–Madre mia, io vi dico per certo
che tra Lorenzo è un santissimo uomo. Egli m’ha di
modo con le sue dolci e sante parole consolata che
quasi m’ha tratto fuora de la sí fiera malinconia che
io pativa.
Egli m’ha fatto una predichetta tanto divota ed a pro­
posito del mio male, quanto si potesse imaginare.
– Madonna Giovanna che vedeva la figliuola assai
piú del solito allegra e udiva quanto diceva, non ca­
piva in sé per l’allegrezza che sentiva del piacer e
conforto de la figliuola, e le rispose: – Cara figliuola
mia, che Dio ti benedica ! Io mi trovo molto di buo­
na voglia, poi che tu cominci a rallegrarti, e restiamo
pur assai ubligate a questo nostro padre spirituale.
Egli si vuol aver caro e soccorrerlo con le nostre ele­
mosine, perciò che il monastero è povero ed ogni dì
prega Dio per noi. Ricordati spesso di lui e mandagli
alcuna buona pietanza. – Credette madonna Giovan­
na che invero Giulietta per il sembiante de l’allegria
che mostrava fosse fuor de la malinconia che prima
aveva, e lo disse al marito, e tutti dui se ne tenevano
ben contenti e pagati, e si levarono via il sospetto
che avevano, che quella fosse in alcuna persona in­
namorata. Ed ancor che imaginar non si potessero la
cagione de la mala contentezza de la figliuola, pen­
savano che la morte del cugino o altro strano acci­
dente l’avesse contristata. Onde perché pareva loro
ancor troppo giovanetta, volentieri, se con onore si
fosse potuto fare, l’averebbero tenuta dui o tre anni
senza darle marito; ma la cosa col conte era già tanto
innanzi che senza scandalo non si poteva disfare ciò
che fatto era e conchiuso. Si prefisse il determina­
to giorno a le nozze, e Giulietta fu pomposamente
di ricche vestimenta e di gioie messa in ordine. Ella
stava di buona voglia, rideva e scherzava, ed un’ora
mill’anni le pareva che venisse l’ora del ber l’acqua
con la polvere. Venuta la notte che il dí seguente,
che era domenica, deveva publicamente esser spo­
sata essa giovane senza far motto a persona apprestò
un bicchiero con acqua dentro, e senza che la vecchia
se n’avedesse, al capo del letto se lo mise. Ella nul­
la o ben poco quella notte dormì, varii pensieri per
l’animo ravvolgendo. Cominciandosi poi ad appres­
sar l’ora de l’alba ne la quale ella Beveva ber l’acqua
con la polvere, se le cominciò a rappresentar ne la
imaginazion Tebaldo del modo che veduto l’aveva
ferito ne la gola, tutto sanguinolente. E pensando
che a lato a quello o forse a dosso sarebbe sepelli­
ta, e che dentro quel monimento erano tanti corpi di
morti e tante ignude ossa, le venne un freddo per il
corpo, e di modo tutti i peli se le arricciarono a dosso
che oppressa da la paura tremava come una foglia al
vento. Oltra questo se le sparse per tutte le membra
un gelato sudore, parendole tratto tratto che ella da
quei morti fosse in mille pezzi smembrata.
Con questa paura stette alquanto che non sapeva
che farsi; poi alquanto ripreso d’ardire, diceva fra sé:
– Oimè, che voglio io fare ? ove voglio lasciarmi por­
re ? Se per sorte io mi destassi prima che il frate e
Romeo vengano, che sarà di me ? Potrò io sofferire
quel gran puzzo che deve render il guasto corpo di
Tebaldo, che a pena per casa ogni tristo odore quan­
tunque picciolo non posso patire ? Chi sa che alcu­
no serpe e mille vermini in quel sepolcro non siano,
i quali io cotanto temo ed aborrisco ? E se il core
non mi dà di mirargli, come potrò sofferire che a tor­
no mi stiano e mi tocchino ? Non ho io poi senitito
dir tante e tante volte che molte spaventevoli cose
di notte sono avvenute non che dentro a sepolture
ma ne le chiese e cimiteri ? – Con questo pauroso
pensiero mille abominevoli cose imaginando, quasi
si deliberò di non prender la polvere e fu vicina a
spargerla per terra, e andava in strani e varii pensieri
farneticando, dei quali alcuno l’invitava a pigliarla ed
altri le proponevano mille casi perigliosi a la men­
te. A la fine poi che buona pezza ebbe chimerizzato,
spinta dal vivace e fervente amore del suo Romeo
che negli affanni cresceva, ne l’ora che già l’Aurora
aveva cominciato a por il capo fuor del balcone de
l’oriente, ella in un sorso, cacciati i contrarii pensieri,
la polvere con l’acqua animosamente bevendo, a ri­
posar cominciò e guari non stette che s’addormentò.
La vecchia che seco dormiva, ancor che tutta la notte
avesse cormpreso che la giovane nulla o poco dor­
miva, non pertanto del beveraggio da quella bevuto
s’accorse; e di letto levatasi, attese a far suoi bisogni
per casa come era usata. Venuta poi l’ora del levarsi
de la giovane, tornò la vecchia a la camera dicendo
come fu dentro: – Su su, ché gli è tempo di levar­
si. – Ed aperte le finestre e veggendo che Giulietta
non si moveva né faceva vista di levarsi, se le acco­
stò e dimenandola disse: – Su su, dormigliona, levati.
– Ma la buona vecchia cantava a’ sordi. Cominciò a
scuoterla fortemente e dimenarla quanto poteva, e
poi tirarle il naso e punzicchiarla; ma ogni fatica era
nulla. Ella aveva di modo legati gli spiriti vitali che i
piú orrendi e strepitosi tuoni del mondo non l’ave­
rebbero con il tremendo romore che fanno destata.
Del che la povera vecchia fieramente spaventata, e
veggendo che né piú né meno faceva sembiante di
sentire come averebbe fatto un corpo morto, tenne
per fermo Giulietta esser morta. Onde fuor di misura
dolente e trista, amarissimamente piangendo se ne
corse a trovar madonna Giovanna, a la quale dal so­
verchio doler impedita, a pena puoté dire ansando:
– Madonna, vostra figliuola è morta. – Corse la madre
con frettoloso passo tuttavia lagrimando, e trovata
la figliuola acconcia del modo che udito avete, se fu
dolente e da estremo cordoglio ingombrata non è da
domandare. Ella mandando le pietose voci fino a le
stelle averebbe mosso a compassione le pietre ed
addolcite le tigri quando per la perdita dei figliuoli
piú irate sono. Il pianto e il grido de la madre e de
la vecchia udito per tutta la casa, fu cagione che cia­
scuno quivi corresse ove il romor si faceva. Vi corse il
padre, e trovata la figliuola piú fredda che il ghiaccio
e che sentimento alcuno non mostrava, fu vicino a
morir di doglia. Divolgatosi il caso, di mano in mano
tutta la città ne fu piena. Vi vennero parentied amici,
e quanto piú crescevano le genti ne la casa il pianto
vie piú si faceva maggiore. Fu subito mandato per i
più famosi medici de la città, i quali, usati tutti quegli
argomenti che seppero i piú convenevoli e salutife­
ri e nulla con l’arte loro di profittevole aita operan­
do, e la vita intesa de la giovane che già molti dí era
consueta di fare, che altro non faceva che piangere
e sospirare,tutti concorsero in questa openione, che
ella veramente da soverchio dolor soffocata fosse
morta. A questo si raddoppiò il piato senza fine, e
per tutta Verona generalmente ciascuno di cosí ac­
cerba ed impensata morte si dolse. Ma sovra tutti
la dolente madre era quella che acerbissimamente
piangeva e si lamentava e non voleva ricever conso­
lazione veruna, isvenne e tanto morta quanto quella
pareva; il che doglia a doglia accresceva e pianto a
pianto. L’erano a torno di molte donne, che tutte si
sforzavano a la meglio che si poteva di consolarla.
Ella aveva di modo allentate le redine al dolore e
cosí in poter di quello s’era lasciata trascorrere, che
quasi in disperazione caduta, non intendeva cosa che
se le dicesse, ed altro non faceva che pianger e so­
spirare e mandar ad ora per ora le strida sino al cielo
e scapigliarsi come forsennata. Messer Antonio non
meno di lei dolente, quanto meno con lagrime sfoga­
va il suo cordoglio tanto più a dentro quello maggior
diveniva; tuttavia egli che teneramente la figliuola
amava, sentiva dolor grandissimo, ma come piú pru­
dente meglio sapeva temperarlo. Fra Lorenzo quella
matina scrisse a lungo a Romeo l’ordine dato de la
polvere e quanto era seguito, e che egli la seguente
notte anderia a cavar Giulietta fuor de la sepoltura e
la porteria a la sua camera. E perciò che egli studias­
se venirsene travestito a Verona, che lo attenderia
fino a mezzanotte del seguente giorno, e che si terria
poi quel modo che meglior lor fosse paruto. Scritta
la lettera e suggellata, la diede ad un suo fidato frate
e strettissimamente gli commise che quel che an­
dasse a Mantova e trovasse Romeo Montecchio e a
lui desse la lettera e non ad altra persona, che fosse
chi si volesse. Andò il frate ed arrivò a Mantova assai
a buon’ora e smontò al convento di San Francesco.
Messo giù il cavallo, mentre che egli cercava il padre
guardiano per farsi dar un compagno per poter ac­
compagnato andar per la città a far sue bisogne, tro­
vò che molto poco innanzi era morto uno dei frati di
quel convento, e perché era un poco di sospetto di
peste, fu giudicato dai deputati de la sanità il detto
frate esser dubio morto di pestilenza, e tanto più che
gli ritrovò un gavocciolo assai più grosso d’un ovo ne
l’anguinaia, che era certo ed evidentissimo indizio
di quel pestifero morbo. Or ecco che in quell’ora a
punto che l frate veronese domandava il compagno,
sovravennero i che al padre guardiano comandaro­
no, sotto pene gravissime per parte del signor de
la città, che egli per quanto aveva cara la grazia del
principe a modo veruno non lasciasse uscir persona
fuor del monastero. Il frate venuto da Verona voleva
pure allegare che alora alora era arrivato né s’era me­
scolato con nessuno; ma invano s’affaticò, ché a mal
suo grado gli convenne rimanere con gli altri frati nel
convento, onde non diede quella benedetta lettera
a Romeo né altrimenti gli mandò a dir cosa alcuna.
Il che fu di grandissimo male e scandaloso cogione,
come a mano a mano intenderete.
Fra questo mezzo in Verona s’apparecchiavano le so­
lennissime esequie de la giovine che si teneva per
morta, e si deliberò farle quel dì stesso ne l’ora tarda
de la sera. Pietro servidor di Romeo sentendo dire
che Giulietta era morta, tutto sbigottì e deliberò tra
sé d’andar a Mantova, ma prima aspettar l’ora del­
la sepoltura de la giovane e vederla portar a la se­
poltura, per poter dire al padrone che veduta morta
l’aveva. Ché pure ch’egli potesse di Verona uscire,
faceva pensiero cavalcar di notte ed a l’aprir de la
porta entrar in Mantova. Fu adunque sul tardi con
universal dispiacere di tutta Verona levata la bara
funebre con Giulietta dentro, e con la pompa di tutti
i chierici e frati de la città indirizzata verso San Fran­
cesco. Pietro era cosí stordito, e per la compassione
del suo padrone, il quale sapeva che unicamente la
giovane amava, cosí fuor di sé che mai non ebbe av­
viso d’andar a veder fra Lorenzo e parlar seco, come
l’altre volte era solito di fare; ché se egli andava a
trovar il frate, averebbe intesa l’istoria de la polvere
e dicendola a Romeo, non succedevano gli scandali
che successero.
Ora vista che egli ebbe Giulietta in bara e quella ma­
nifestamente conosciuta, montò a cavallo, e andato
di buon passo a Villafranca quivi a rifrescar il suo ca­
vallo e dormir una pezza attese. Levatosi poi di piú
di due ore innanzi giorno, nel levar del sole entrò in
Mantova e andò a la casa del padrone. Ma torniamo
a Verona. Portata la giovane a la chiesa e cantati so­
lennemente gli ufficii dei morti, come è il costume
in simili essequie di farsi, fu circa mezz’ora di notte
messa ne l’avello. Era l’avello del marmo molto gran­
de fuor de la chiesa sovra il cimitero, e da un lato era
attaccato ad un muro che in un altro cimitero aveva
da tre in quattro braccia di luogo murato, ove quando
alcun corpo dentro l’arca si metteva, si gettavano l’
ossa di quelli che ivi primieramente erano sepelliti
ed aveva alcuni spiragli assai alti da la terra. Come
l’arca fu aperta, fra Lorenzo fece tantosto in una de le
bande de l’avello ritirar il corpo di Tebaldo, il quale
perché di natura era stato molto magro ed a la morte
aveva perduto tutto il sangue, poco era marcito e non
molto putiva. Fatta poi spazzar l’arca e nettare, aven­
do egli la cura di far la giovane sepellire, dentro ve
la fece quanto piú soavemente si puoté distendere
e porle un origliero sotto il capo. Indi si fece riserrar
l’arca. Pietro entrato in casa, trovò Romeo che ancora
era in letto, e come gli fu innanzi, da infiniti singhioz­
zi e lagrime impedito non poteva formar parola. Del
che Romeo grandemente meravigliato e pensando
non ciò che avvenuto era ma altri mali, gli teneva pur
detto : – Pietro, che cosa hai ? che novelle mi rechi
da Verona ? come sta mio padre ed il resto dei nostri
? Di’, non mi tener piú sospeso: che cosa può egli
essere che tu sei cosí afflitto ? Orsú, spedisceti.
– Pietro a la fine fatto violenza al suo dolore, con de­
bole voce e con parole interrotte gli disse la morte
di Giulietta e che egli l’aveva veduta portar a sepel­
lire e che si diceva che di doglia era morta. A questo
cosí dolente e fiero annonzio restò Romeo per buona
pezza quasi fuor di se stesso; poi come forsennato
saltò fuor di letto e disse: – Ahi traditor Romeo, di­
sleale, perfido e di tutti gli ingrati ingratissimo! Non
è il dolore che abbia la tua donna morta, ché non si
muor di doglia; ma tu, crudele, sei stato il manigoldo,
sei stato il micidiale. Tu quello sei che morta l’hai.
Ella ti scriveva pure che prima voleva morire che la­
sciarsi da nessun altro sposare e che tu andassi per
ogni modo a levarla de la casa del padre. E tu scono­
scente, tu pigro, tu poco amorevole, tu can mastino,
le davi parole che ben anderesti, che faresti e che
stesse di buona voglia, e andavi indugiando di dì in
dì, non ti sapendo risolvere a quanto ella voleva. Ora
tu sei stato con le mani a cintola e Giulietta è morta.
Giulietta è morta e tu sei vivo ? Ahi traditore, quante
volte l’hai scritto e a bocca detto che senza lei non
potevi vivere ? e pur tu sei vivo ancora. Ove pen­
si che ella sia? Ella qui dentro se ne va errando ed
aspetta pure che tu la segua e tra sé dice: “Ecco bu­
giardo, ecco fallace amante e marito infidele, che a la
nuova ch’io son morta sostìene di vivere “. Perdona­
mi, perdonami, moglie mia carissima, ché io confesso
il gravissimo mio peccato. Ma poi che il dolor ch’io
provo fuor di misura penosissimo non è bastante a
tormi la vita, io stesso farò quell’ufficio che il dolore
deverebbe fare. Io mal grado di lui e di morte che
non mi vogliono ancidere, a me stesso darò morte.
– Questo dicendo diede di mano a la spada che al
capo del suo letto era, e quella subito tratta del fodro
verso il suo petto contorse, mettendo la punta a la
parte del core.
Ma il buon servidore Pietro fu tanto presto che egli
non si puoté ferire, e in un tratto Tarme gli levò di
mano.
Gli disse poi quelle parole che in simil caso ogni fedel
servidore al suo padrone deve dire, ed onestamente
di tanta follia quello ripigliando, lo confortò quanto
seppe e puoté il meglio, essortandolo a dever vive­
re, poi che con soccorso umano a la morta giovane
cita dar non si poteva. Era sì a dentro Romeo de la
crudelissima nuova di cosí impensato caso stordito
e quasi impietrato e divenuto marmo, che lagrima da
gli occhi non gli poteva uscire. E chi l’avesse in faccia
guardato averia detto che piú a statua che ad uomo
assembrasse. Ma guari non stette che le lagrime co­
minciarono a stillare in tanta abbondanza che pareva
un vivo fonte che con sorgente vena acqua versasse.
Le parole che piangendo e sospirando disse avereb­
bero mosso a pietà i piú duri e adamantini cori che
mai tra barbari fossero. Come poi il doler interno si
cominciò a sfogare, cosí cominciò Romeo varie cose
tra sé pensando, a lasciarsi vincer da le sue acerbe
passioni e dar luogo ai malvagi e disperati pensie­
ri, e deliberò poi che la sua cara Giulietta era morta,
non voler a modo veruno piú vivere. Ma di questo
suo fiero proponimento non ne fece sembiante al­
cuno né motto disse, anzi l’animo suo dissimulò, a
ciò che un’altra volta dal servidore o da chi fosse non
ricevesse impedimento a far quanto in animo caduto
gli era di mandar ad essecuzione. Impose adunque
a Pietro che solo era in camera, che de la morte de
la moglie niente a persona dicesse e meno palesas­
se l’errore in che quasi era caduto di voler uccider
se stesso; poi gli disse che mettesse ad ordine dui
cavalli freschi, perché voleva ch’andassero a Verona.
– Io vo’, – diceva, – che a mano a mano tu ti parta sen­
za far motto a nessuno; e come tu sei a Verona, senza
dir nulla a mio padre che io sia per venire, fa che tu
truovi quei ferramenti che bisognano per aprir l’avel­
lo ove mia moglie è sepolta, e puntelli da puntellar­
lo, perché io questa sera al tardi entrerò in Verona e
me ne verrò tutto dritto a la casetta che tu tieni dietro
al nostro orto, e tra le tre e le quattro ore aneleremo
al cimitero, perciò che io vo’ veder la sfortunata mia
moglie cosí morta come giace, ancora una volta. Poi
di buon matino io sconosciuto uscirò fuor di Verona
e tu mi verrai un poco dietro, e ce ne torniremo qui.
– Né guari stette che rimandò Pietro indietro.
Partito che fu Pietro, scrisse Romeo una lettera a suo
padre e gli domandò perdono se senza sua licenza
s’era maritato, narrandogli. a pieno tutto il suo amore
ed il successo del matrimono. Pregavalo poi molto
affettuosamente che a la sepoltura di Giulietta come
di sua nota che era, volesse far celebrar un ufficio da
morti solenne, e questo ordinasse de le sue entrate
che fosse perpetuo.
Aveva Romeo alcune possessioni che una sua zia
morendo gli lasciò, per testamento instituendolo suo
erede. A Pietro anco provide di modo che senza star
a mercede altrui poteva comodamente vivere. E di
queste due cose ne fece al padre instanzia grandissi­
ma, affermando questa esser l’ultima sua volontà. E
perché di pochi giorni avanti quella sua zia era mor­
ta, pregava il padre che i primi frutti che da le sue
possessioni si cero tutti gli facesse dar a’ poveri per
amor di Dio. Scritta la lettera e suggellata, se la pose
in seno. Prese poi un ’arnpolletta piena d’acqua vele­
nosissima, e vestito da tedesco montò a cavallo dan­
do ad intender ai suoi che ne la casa restavano, che il
giorno seguente a buon’ora tornarebbe, e non volle
da persona esser accompagnato. Camminando adun­
que con diligenza, egli ne l’ora de l’avemaria entrò in
Verona e se n’andò di lungo a trovar Pietro e trovollo
in casa, che il tutto che gli era stato imposto aveva
apprestato onde cosí là circa le quattr’ore con quegli
strumenti e ferramenti che giudicarono esser al biso­
gno se ne andarono verso la Cittadella, e senza trovar
impedimento venino giunsero al cimitero de la chie­
sa di San Francesco. Quivi trovato l’avello ov’era Giu­
lietta, quello con lordigni destramente apersero ed
il coperchio con fermi puntelli puntellarono. Aveva
Pietro per commissione di Romeo portato seco una
picciola lanternetta che altri chiamano “ceca”, altri
“sorda”, la quale, scoperta, diede loro cita ad aprir
l’arca e ben puntellarla.
Entrò dentro Romeo e vide la carissima moglie che
invero pareva morta. Cadette subito Romeo tutto
svenuto a lato a Giulietta, di duella assai piú morto,
ed un pezzo stette fuor di sé tanto dal dolore op­
presso che fu vicino a morire. In sé poi rivenuto la
carissima moglie abbracciò e piú volte basciandola,
di caldissime lagrime lo smorto viso le bagnava e
dal dirotto pianto impedito non poteva formar paro­
la. Egli pianse assai e poi disse di molte parole che
averebbero commosso a pietà i piú ferrigni animi del
mondo. A la fine avendo tra sé deliberato di non vo­
ler piú vivere, presa la picciola ampolletta che recata
aveva, l’acqua del veleno che dentro v’era postisi a la
bocca, tutta in un sorso mandò giú per la gola.
Fatto questo, chiamò Pietro che in uno dei canti del
cimitero stava, e gli disse che su salisse. Salito che
fu ed a l’orlo de l’arca appoggia, te, Romeo in questo
modo gli parlò: – Eccoti, o Pietro, mia moglie, la qua­
le se io amava ed amo tu in parte lo sai. Io conosco
che tanto m’era possibil vivere senza lei quanto sen­
za anima può viver un corpo, e perciò portai meco
l’acqua del serpente, che sai che in meno di un’ora
ammazza l’uomo, e quella ho bevuta lietamente e
volentieri per restar morto qui a canto a quella che in
vita tanto a; mai, a ciò che se vivendo non m’è lecito
di starmene seco, morto almeno con lei resti sepolto.
Vedi l’ampolla ove era dentro l’acqua che, se ti ricor­
di, ci diede in Mantova quello spoletino che aveva
quegli aspidi vivi ed altri serpenti. Iddio per sua mi­
sericordia ed infiniti bontà mi perdoni, perciò che me
stesso non ho io ucciso per offenderlo, ma per non ri­
manere in vita senza la cara mia consorte. E sebbene
mi vedi gli occhi molli di lagrime, non ti pensar già
che io per pietà di me che giovanetto mora, pianga;
ma il pianto mio procede dal dolore che sento gran­
dissimo per la morte di costei che degna era viver
piú lieti e tranquilla vita. Darai questa mia lettera a
mio padre, al quale ho scritto quanto desidero che
faccia dopo la morte mia, cosí circa questa sepoltura
come circa i miei servidori che sono in Mantova. A
te che sempre m’hai fedelmente servito ho fatto tal
parte che non averai mestieri servir altrui. Io son
certo che mio padre darà esecuzione integralmente
a quanto gli scrivo. Or via io sento la vicina morte,
perciò che conosco il veleno de l’acqua mortifera già
tutte le membra avvelenando, m’ingombra. Di, spun­
tella l’arca e qui mi lascia appresso a la mia donna
morire. – Pietro per le già dette cose era in tal modo
do– lente che pareva che dentro al petto il core se
gli schiantasse per l’infinito cordoglio che sentiva.
Le parole furono assai che egli al padrone disse, ma
tutte indarno, perché a li velenosa acqua rimedio al­
cuno giovar pair poteva, avendo ella già tutte le parti
de l’infetto corpo cubate. Romeo, presa Giulietta in
braccio e quella di conti, novo basciando, attendevi
la vicina ed inevitabil morte, tuttavia dicendo a Pie­
tro che l’arca dispuntellasse.
Giulietta che già la vertú de la polvere consumata e
digesti aveva, in quel tempo si destò, e sentendo­
si basciare dubitò che il frate venuto per levarla e
averla a portar in camera, la tenesse in braccio ed
incitato dal concupiscibile appetito la basciasse, e
disse: – Ahi padre fra Lorenzo, è questa la fede che
Romeo aveva in voi ? Fatevi in coste. – E scotendo­
si per uscirli de le braccia, aperse gli occhi e si vide
esser in braccio i Romeo, ché ben lo conobbe ancora
che avesse vestimenti da tedesco, e disse: –Oimè,
voi sète qui vita mia? ove è fra Lorenzo? ché non mi
levate voi Fuor di questa sepoltura ? Andiamo via
per amor di Dio. – Romeo come vide aprir gli occhi a
Giulietta e quella senti parlare, e s’avvide sensibil­
mente che morta non era ma viva, ebbe in un tratto
allegrezza e doglia fuor d’ogni credenza inestimabi­
le, e lagrimando e la sua carissima moglie al petto
stringendosi disse: – Ahi vita de la mia vita e cor del
corpo mio, qual uomo al mondo ebbe mai tanta gioia
quanta io in questo punto provo, che por, tanto fer­
ma openione che voi foste morta, viva e sana ne le
mie braccia vi tengo ? Mi qual mai fu doler al mio do­
lor eguale e qual pair penosa pena il mio cordoglio
agguaglía, poi che io mi sento esser giunto al fine dei
miei infelicissimi giorni e mancar la vita mia quando
piú che mai doveva giovarmi di vivere? Ché s’io vivo
mezz’ora ancora, questo è tutto il tempo che io restar
in vita possa. Ove fu già mai piú in un sol soggetto in
uno istesso punto estrema allegrezza e doglia infini­
ta, come io in me medesimo manifestamente provo
? Lietissimo sono io, e vie piú che dir non si può di
gioia e contentezza pieno, poi che a l’improviso veg­
gio voi, consorte mia dolcissima, viva, che morta cre­
dei e tanto amaramente ho pianto. E veramente, mo­
glie mia soavissima, in questo caso debbio ragione­
volmente allegrarmi con voi. Ma doglia inestimabile
e dolore senza pari patisco, pensando che tanto sto
piú non mi si concederà di vedervi, udirvi e starmi
vosco godendo la vostra dolcissima compagnia tanto
da me bramata. È ben vero che la gioia di vedervi
viva avanza di gran lunga queh la doglia che mi tor­
menta, appropinquandosi l’ora che da voi dividermi
deve; e prego il nostro signor Iddio che gli anni i qua­
li a l’infelice mia gioventú leva, aggiunga a la vostra,
e vi conceda che lungamente con piú felice sorte di
me possiate vivere, ché io sento che già la vita mia
finii sec. – Giulietta sentendo ciò che Romeo dice­
va, essendosi già alquanto rilevata, gli disse: – Che
parole son coteste, signor mio, che voi ora mi dite
? questa è la consolazione che volete darmi ? e da
Mantova qui sète venuto a portars mi si fatta nuova ?
che cosa vi sentite voi ? – Narrolle alora lo sventurato
Romeo il caso del veleno che bevuto aveva. – Oimè,
oimè, – disse Giulietta, – che sento io ? che mi dite
voi ? Lassa me L adunque a quello che io odo, non
v’ha fra Lorenzo scritto l’ordine che egli ed io insieme
avevamo messo ? che pur mi promise che il tutto vi
seri= veria. – Cosí la sconsolata giovane piena d’ama­
rissimo cordoglio, lagrimando, gridando, sospirando
e quasi di smania Fuor di sé andando, contò minuta­
mente ciò che il frate ed ella ordinato avevano a ciò
che ella non fosse af stretta a sposar il marito che il
padre voleva darle. IL che udendo Romeo, accrebbe
infinitamente dolore agli affano rei che sofferiva.
E mentre che Giulietta fieramente del lor infortunio
si querelava e chiamava il cielo e le stelle con tutti
gli elementi crudelissimi, vide Romeo quivi il cor­
po del morto Tebaldo che alcuni mesi innanzi egli
ne la zuffa, come già intendeste, aveva ucciso. E ri­
conosciutolo, verso quello rivolto disse: – Tebaldo,
ovunque tu ti sia, tu déi sapere che io non cercava
d’offenderti anzi entrai ne la mischia per acquetarla
e ti ammonii che tu facessi ritirar i tuoi, ché io ai miei
averei fatto depor Tarme. Ma tu che pieno eri d’ira
e d’odio antico, non curasti le mie pa rete, ma con
fellone animo per incrudelir in me mi assali, sti. Io da
te sforzato e perduta la pazienza, non volli riti, rarmi
un dito indietro, e diffendendomi volle la tua mala
sorte che io t’ammazzai. Ora ti chieggio perdono de
l’offesa che al corpo tuo feci, e tanto piú che io già era
tuo parente divenuto per la tua cugina da me già per
moglie sposata. Se tu brami da me vendetta, ecco
che couseguta ’hai. E qual vendetta maggiore pote­
vi tu desiderare che sapere che colui che t’uccise si
sia da se stesso a la presenza tua avvelenato e a te
dinanzi volontariamente se ne mora, a te ancora ac­
canto restando sepellito ? Se in vita guerreggiacomo,
in morte in un stesso sepolcro resteremo senza lite’.
– Pietro a questi pietosi ragionamenti del marito e al
pianto de la moglie se ne stava come una statua di
mar, mo, e non sapeva se era vero ciò che vedeva e
udiva o ve, ramerete se si sognava, e non sapeva che
dirsi né che farsi, cosí era stordito. La povera Giuliet­
ta piú che altra donna dolente, poi che senza fine si
dolse, a Romeo disse: – Da, poi che a Dio non è pia­
ciuto che insieme viviamo, piacciagli almeno che io
qui con voi resti sepolta. E siate pur sicuro, avvenga
mò ciò che si voglia, che quindi senza voi non mi di­
partirò già mai. – Romeo presala di nuovo in braccio,
la cominciò lusinghevolmente a pregare che ella si
consolasse e attendesse a vivere, perciò che egli se
n’an, derebbe consolato quando fosse certo che ella
restasse in vita, e a questo proposito molte cose le
disse. Egli si sentivama poco a poco venir meno e già
quasi gli era in buona parte offuscata la vista, e l’altre
forze del corpo sí erano deboli diveniate che piú drit­
to tener non si poteva; onde abban, donandosi si la­
sciò andar giú e pietosamente nel volto de la dolente
moglie guardando, disse: – Oimè, vita mia, che io mi
muoio. – Fra Lorenzo, che che fosse la cagione, non
volle Giulietta portar a la camera quella notte che fu
sepellita. La seguente notte poi veggendo che Ro­
meo non compariva, preso un suo fidato frate, se ne
venne con suoi ferramenti per aprir l’arca ed arrivò in
quello che Romeo s’abbandonò. E veggendo aperta
l’arca e ricon,)sciuto Pies tro, disse: – Buona vita, ov’è
Romeo ? – Giulietta udita la voce e conosciuto il frate
alzando il capo disse: – Dio vel perdoni, voi manda­
ste ben la lettera a Romeo – Io la mandai, – rispose
il frate, – e la portò frate Anselmo che pur tu conosci.
E perché mi dici tu cotesto ? – Pian. Bendo acerba­
mente Giulietta: – Salite su, – disse – e lo vederete.
– Sali il frate e vide Romeo giacersi che poco piú di
vita aveva, e disse: – Romeo, figliuol mio, che hai ?
– Romeo aperti i languidi occhi lo conobbe e piano
disse che gli raccomandava Giulietta, e che a luì non
accadeva piú né aita né conseglio, e che pentito dei
suoi mali a luì e a Dio ne domandava perdono. Puoté
a gran pena linfe. lice amante proferir queste ultime
parole e percuotersi lievemente il petto, che perduto
ogni vigore e chiusi gli occhi se ne mori. Quanto que­
sto fosse grave, noioso e quasi I~ insopportabile a la
sconsolata moglie non mi dà il core di poterlo dimo­
strare, ma persilo chi veramente ama e s’i, magini a
si orrendo spettacolo ritrovarsi. Ella miseramen; te e
senza pro affliggendosi, il pianse assai, e molte fiate
l’a; nato nome invano chiamando, piena d’angoscia
sovra il corpo del marito si lasciò tramortita cadere,
e buona pez, za isvenuta stette. Il frate e Pietro ultra
modo dolenti tanto fecero che ella rivenne. Rivenuta
che fu, s’aggruppò in una le mani ed allargato il fre­
no a le lagrime, tante e tan; te ne versò quante mai
femina spargesse, e basciando il morto corpo diceva:
– Ahi dolcissimo albergo di tutti i miei pensieri e di
quanti piaceri mai abbia goduto, caro ed unico mio
signore, come di dolce fatto mi sei amaro ! Tu sul fio­
re de la tua bella e leggiadra giovanezza hai il tuo
corso finito, nulla curando la vita che tanto da tutti
viene stimata. Tu sei voluto morire quando altrui il
vivere piú diletta, e a quel fine giunto sei ove a tutti
o tardi o per tempo arrivar conviene. Tu, signor mio,
in grembo di colei sei venuto a finir i giorni tuoi, che
sovra ogni cosa amasti e da la quale unicamente sei
amato, ed ove quella morta e sepellita esser credevi,
volontariamente sei ve, venuto a sepellìrti. Già mai
tu non hai pensato aver queste mie amarissime e ve­
racissime lagrime. Già non ti persua, devi andar a l’al­
tro mondo e non mi vi ritrovare. Io son certissima che
non mi vi ritrovando, che tu qui tornato sei a veder se
io ti vengo dietro. Non sento io che lo spirito tuo qui
d’intorno vagando se ne va e già si meraviglia anzi si
duole che io tanto tardi ? Signor mio, io ti veggio io
ti sento, io ti conosco, e so che altro non attendi se
non la venuta mia.
Non temere, signor mio, non dubitare che io voglia
qui senza la compagnia tua rimanere, con,ciò sia che
senza te la vita assai piú dura e vie più angosciosa mi
sarebbe che ogni sorta di morire che l’uomoginar si
possa si possa, ché senza te io non viverci, e se pur
paresse altrui che io vivessi, quel vivere mi sarebbe
un continovo e tor.
mentoso morire. Sí che, signor mio caro, sta sicuro
che iotantosto verrò a starmi sempre teco. E con qual
compagnia posso io andar fuora di questa misera e
travagliata vita che più cara e piú fidata mi sia, che
venirti dietro e se; guitar i tuoi vestigi ? Certo, che io
mi creda, nessuna.
– Il frate e Pietro che a torno l’erano, vieti da infinita
cumpassione piangevano, e come meglio sapevano
s’ingegnavano di darle alcun conforto; ma il tutto in­
vano.
Le diceva fra Lorenzo: – Figliuola mia, le cose fatte
esser non può che fatte non siano. Se per lagrime
Romeo suscitar si potesse, noi ci risolveremo tutti in
lagrime per aiutarlo; ma non ci è rimedio. Confortati
e attendi a vivere, e se non vuoi tornar a casa tua, a
me dà il core metterti in un san, tissimo monastero,
ove potrai servendo a Dio pregar per l’anima del tuo
Romeo. – Ella a modo venino non voleva ascoltarlo,
ma nel suo fiero proponimento perseverando, si do­
leva che non potesse con la vita sua ricuperar quella
del suo Romeo, e in tutto si dispose voler morire.
Ristretti adunque in sé gli spirti con il suo Romeo in
grembo, senza dir nel a se ne morí.
Or ecco mentre che i dei frati e Pietro s’affaticavano
intorno a la morta giovane credendo che fosse sve­
nuta, che i sergenti de la corte a caso quindi passar­
do videro il lume ne l’arca e tutti vi corsero. Quivi
giunti presero i frati e Pietro e inteso il pietoso caso
degli sfortunati amanti, lasciati i frati con buona guar­
dia, con: dessero Pietro al signor Bartolomeo e gli
fecero intendere del modo che trovato l’avevano. Il
signor Bartolomeo fattosi minutamente contar tutta
l’istoria dei dei amanti, essendo già venuta l’alba, si
levò e voller veder i duo cadaveri. Si sparse la voce
di questo accidente per tutta Verona, di modo che
grandi e piccioli vi concorsero. Fu perdonato a’ frati
ed a Pietro, e con particolar dolore dei Montecchi e
Capelletti e general di tutta la città, furono fatte l’es­
sequie con pompa grandissima; e volle il signore die
in quello stesso avello gli amanti restassero sepolti.
Il che fu cagione che tra i Montecchi e Capelletti si
fece la pace, ben che non molto dopoi durasse. Il pa­
dre di Romeo letta la lettera del figliuolo, dopo l’es­
sersi estremamente doluto, sodisfece pienamente al
voler di quello. Fu sopra la sepoltura dei dai aman­
ti il seguente epitaffio intagliato, il quale in questo
modo diceva: Credea Romeo che la sua sposa bella
già morta Cosse, e viver piú non volse, ch’a sé la tuta
in grembo a lei si tolse con l’acqua che “del serpe”
l’uom appella. Come conobbe il fiero caso quella, al
suo signor piangendo si rivolse e quanto puoté sovra
quel si dolse, chiamando il ciel iniquo ed ogni stella.
Veggendol poi la vita, oimè, finire, piú di lui morta, a
pena disse: – O Dio, dammi ch’io possa il mio signor
seguire: questo sol prego, cerco e sol desio, ch’ovun­
que ci vada io possa seco giro. – E ciò dicendo alor
di duol morio.
il bandello al magnifico e vertuoso messer francesco
torre Rade volte, come per esperienza veduto avete,
suol avvenire che quando questi gentiluomini ve­
neziani vengono a diporto in terraferma tra loro di
brigata o con le moglie ed altre donne, e capitano a
Verona, il signor Cesare Fregoso mio padron non gli
faccia sontuosi e splendidi conviti, tanto qui in Ve­
rona quanto fuori, al mormorio de le freschissime e
limprdissime fontane di Montorio tanto dal Boccac­
cio nel Filocopo celebrate, e a Garda da cui il famoso
lago di Benaco ora ha preso il nome. A Garda hanno
questi signori Fregosi un gran palagio con giardini
bellissimi ove sono tutti gli arbori di fruta soavissimi
che questo cielo può nodrire. Quivi sono naranci, ce­
dri, limoni pomi granati bellissimi, per non raccordar
tana altre sorti di frutti. Vi si gode poi l’amenità del
piscoso e bellissimo lago che ne l’una e l’altra sponda
Pomona, Bacco e Flora pomposamente adornano.
Ma io porto de le civette ad Atene. Ora essendo
questi dí una bella ed onorata compagnia di vaghe
e bellissime donne veneziane con i mariti ed altri lor
parenti ed amici venuta a Verona ed avendo loro il
signor Cesare fatto apparecchiar un desinare ed una
cena a Mortorio, fece arco invitar molti gentiluomini
veronesi, e la signora Gos stanza sua moglie invitò
alcune donne. Voi alora eravate a Mantova mandato
dal reverendissimo vescovo di Verona Gian Matteo
Liberto a negoziar alcuni suoi affari appo l’illustrissi­
mo e reverendissimo signor Ercole cardinal di Man­
tova. Il che al signor Cesare non mezzanamente di­
spiacque, con ciòsia cosa che molto desiderava che
voi fossi a Verona per intertener cosí gentil e bella
compagnia di donne. Fu il desinare secondo l’usanza
fregosa bello e veramente luculliano, ed opra le carni
domestiche vi si mangiarono tutti quei salvaggiumi
cosí d’augelli come di quadrupedi che la stagione
comportava, mescolando variamente, secondo che
convenevol pareva a messer Antonio Giovenazzo no­
stro maestro di casa, di tutte quelle maniere di pesci
che quelle fontane in abbondanza fan, no, con i piú
delicati che produce il famoso Benaco. Dopo il desi­
nare st fecero molti piacevoli giunchi sotto un folto e
tnolto lungo e largo francato fatto a posta, ove arco al
suono dei pi~’ari si ballò da chi poco curava il caldo.
A l’ora poi del merigge, essendo il caldo grande e i
balli cessati, si misero uomini e donne diversamente
a ragionar insieme secondo che loro piú era a grado.
Io mi ritirai in una molto onorata compagnia ov’era il
signor Cesare e sentii che parlavano del De camero­
ne del Boccaccio e d’alcune novelle di quello, rac­
contando le beffe fatte da Bruno e Buffalmacco al po­
vero Calandrino e a quel valente medico, maestro Si­
mone da Villa. Era quivi il gentilissimo dottor di leggi
messer Lodovico Dante Aligeri, il qual disse molte
cose in commendazione del Boccaccio, nomandolo
suo compatriota, perciò che esso Aligeri, come chiaro
si sa, è disceso per lutea maschile da uno dei fìgliuoli
del famoso e dottissimo Dante che in Verona rimase
al servigio dei signori de la Scala. Il conte Raimon­
do da la Torre vostro zio, uomo di molte buone doti
ornato, seguendo il parlar di messer Lodovico nar­
rò una piacevol novella, la quale il signor Cesare mi
comandò che io scrivessi. Il che avendo fatto, ancor
ch’io creda che più volte voi l’abbiate udita raccon­
tare, ’è parato convenevole tale quale descritta l’ho,
che sia vostra. So bene che non averò saputo rappre­
sentar l’eloquenza di vostro zio né por in iscritto la
novella cori puntalmente come fu da lui narrata. Io
ho ben avuto buon animo, ma il non saper piú è stato
cagione che secondo l’animo non ho avuto le forze.
Tale adunque qual è ve la dono ed al vertuoso vo­
stro nome de, dico e consacro. Scrissi non è molto la
novelletta che voi pure a Montorio narraste quando
un’altra. compagnia dal signor Cesare vi fu condotta,
e quella ho donata al nostro gentilissimo conte Bar­
tolomeo Canossa a cui le cose da voi narrate sogliono
mirabilmente piacere. Ma a chi non piace egli ciò che
voi con la penna od in prosa od in verso scrivete o
tra gli amici ed al, trovi ragionate? Egli. sarà bene di
poco gusto e di rintuzzato ingegno. State sano.
NOVELLA X Piacevoli beffe d’un pittor veronese fat­
te al conte di Cariati, al Bembo e ad altri, con faceti
ragionamenti.
Egli è circa un anno che in questo medesimo luogo
il valoroso e splendidissimo signor Cesare che quivi
con quei capitani ed altri gentiluomini e vaghe don­
ne ragiona, e ad un’altra bella compagnia venuta da
Vinegia fece un largo e splendido convito, come ordi­
nariamente fa a chi dei nostri gentiluomini veneziani
ci càpita; oltra che poche segnalate persone càpitano
a Verona che egli non levi da l’osteria e conduca a
casa sua, onorando ciascuno secondo la qualità e va­
lore degli uomini. E nel vero io ho veduti pochi suoi
pari che sappiano accarezzare cosí umanamente un
forestiero come egli festeggia, intertiene ed onora.
Questo maggio passato, se vi ricorda, vennero a Ve­
rona alcuni signori e signore mantovane ai quali qui
in questo proprio luogo, ai Lanfranchini e sul lago di
Garda fece conviti sontuosissimi, di modo che non ci
fu persona che non rimanesse stupefatta de la deli­
catura, copia e varietà dei cibi e del quieto e bellis­
simo ordine del servire; ed alora la vertuosa e genti­
lissima signora sua consorte che quivi vedete non ci
puoté essere, perciò che non era una settimana che
di parto giaceva nel letto. Avete veduto che desinar
è stato quello d’oggi, e la cena vederete che non sarà
meno un pelo, anzi ci sarà alcuna cosa da vantaggi,,
dMa io vi vo’ Iar vedere che quando a mezzo giorno
è il cielo senza una minima nugoletta sereno, che il
sole risplc n, da, che chi non è orbo il vede chiaris­
simamente, come al presente si vede: cosí voglio io
farvi conoscer la genero, sita, lo splendore e la cor­
tese liberalità di questo valoroso signore quasi che
tutto ’l dí non si veda e si tocchi con mano. Or ecco
che esso signor Cesare se ne ritorna qui ed io a lui
mi volterò. Quando voi di qui vi partiste noi erava­
mo, signor mio, entrati a ragionar de l’eloquente e fa,
condissimo messer Giovanni Boccaccio e de le beffe
fatte da Bruno e Buffalmacco a Calandrino lor sozio
ed a maestro Simone, quando fu fatto cavalier ba­
gnato di Laterino per voler esser innamorato de la
contessa di Civillari.
E certamente non si può se non dire che tra l’altre
opere in lingua toscana d’esso Boccaccio il Decame­
rone sia da esser più lodato di tutte. E ben merita­
mente il nostro eccellente dottore messer Lodovico
Aligeri Dante, ricordandosi che i suoi avoli ebbero
l’origine loro da Firenze, l’ha lodato come suo citta­
dino e s’è allegrato a sentirne parlare; il che dimostra
la generosità de l’animo suo e l’amore verso l’anti­
ca sua patria. Io medesimamente tutte le volte che
mi occorre veder o sentir ragionar dei nostri de la
Torre, che cacciati fuor di Milano di cui erano signo­
ri e per l’Italia in varii luoghi dispersi, mantengono
ancora per tutto l’antica lor nobiltà, non posso fare
che non mi rallegri, parendo pure che la natura ed
il sangue m’inchini e tiri ad amarli. Vedo altresí voi,
signor Cesare, onorare, accarezzare e volentier veder
tutti i vostri Fregosi che per l’Italia ne l’arte militare
rappresentano il valore dei vostri antichi; e non so­
lamente i Fregosi ma egli non càpita genovese chi si
sia a Verona o uomo del paese de la Liguria che voi
non gli diate albergo in casa vostra e che di danari ed
altri bisogni non gli soccorriate, perché sono genove­
si, e l’onoranda memoria di vostro padre fu duce di
Genova, e voi contra piú di sei mila fanti tra italiani
e spagnuoli dei quali era capo il capitano generale
de l’artiglieria de l’imperadore, Gabriele Tadino, con
settecento scelti soldati eletti da voi Genova per for­
za pigliaste e tutta quella fanteria rompeste, facendo
prigione esso Tadino. Ma perché sète qui presente,
io non vi voglio in faccia lodare. Solamente dirò che
voi ancora non passavate venticinque anni quando
faceste questa gloriosa impresa, e Genova ad instan­
zia de la serenissima Signoria vostra riduceste sot­
to l’ubidienza del re cristianissimo. Ma tornando al
Boccaccio, io dico che non si può negare che Bruno
e Buffalmacco per quello che in diverse novelle di
loro scrive il Boccaccio non fossero uomini d’ingegno,
maliziosi, avveduti ed accorti; tuttavia a dir il vero, se
eglino avessero avuto a far con persone svegliate ed
avviste, non so come loro le beffe fossero riuscite.
Essi si abbatterono in un Calandrino, sempliciotto
e disposto a creder tutto quello che udiva ed uomo
proprio da fargli mille beffe.
Taccio il bambo, quel maestro Simone che quando
ci partí da Bologna credo io che con la bocca aperta
fuor se n’uscisse e tutto il senno che apparato aveva,
col fiato volò via. Io vorrei che si fossero apposti a
beffar altri che uno scemonnito pittore ed un medico
insensato che non sapeva se era morto o vivo, tanto
teneva del poco senno.
Credetelo, che averebbero imparato senno a le spe­
se loro e cosí di leggero non veniva lor fatto di far
dispregnar Calandrino e fargli l’altre beffe che gli fe­
cero, né averiano fatto credere quello andar in corso
e tante meraviglie come credette maestro Simone.
Ma le novelle si scriveno secondo che accadeno, o
almeno deveriano esser scritte non variando il sog­
getto, se bene con alcun colore s’adorna. E poi che
io veggio che il caldo è in colmo e che fin a cena ci
è tempo assai, e che questi nostri gentiluomini e
gentildonne col ragionar tra loro in diversi drappelli
passano il tempo, io vi vo’ far toccar con mano che in
Verona è stato un pittore di molto maggior avvedi­
mento ed accortezza che non furono i dui pittori del
Boccaccio; con ciò sia cosa che se eglino ingannarono
ser Calandrino e maestro Simone che erano pecora
campi oves et boves, questo nostro di cui intendo
parlarvi ingannò, o per dir meglio, senza dubio beffò
due segnalate ed accortissime persone e degli altri
assai, che quando gli nominerò vi farò far di mera­
viglia il santo segno de la croce. Egli primieramente
beffò il signor Gian Battista Spinello conte di Cariati
al tempo che governava la cittá nostra di Verona a
nome di Massimigliano d’Austria imperadore, e non­
dimeno esso conte era astutissimo ed uomo di gran
maneggio. Beffò poi il dottissimo e vertuoso signor
Pietro Bembo che tutti conoscete di che ingegno sia e
prudenza, il quale papa Leone, uomo giudizioso e di
buoni ed elevati ingegni conoscitore, non averebbe
eletto per suo segretario se conosciuto non l’avesse
di prudenza, sagacitá ed accortezza dotato. E se non
vogliamo per riverenza di questi dui personaggi ec­
cellenti dire che il nostro pittore gli beffasse, almeno
diremo che diede loro il giambo, e v’aggiungeremo
per terzo l’eccellente messer Girolamo Fracastore,
che sempre che gliene dimandarete, largamente vi
confesserá come restò ingannato. Io non credo giá
che ci sia uomo di cosí poco vedere che voglia paran­
gonare a costoro Calandrino e maestro Simone; e se
il facondissimo Boccaccio avesse avuto questo sog­
getto, io mi fo a credere che ne averebbe composta
una o due bellissime novelle ed ampliatele e polite
con quella sua larga e profluente vena di dire. Ma
io dirò semplicemente il caso come occorse, senza
fuco d’eloquenza e senza altrimenti con ampliazioni
e colori retorici polirlo. Devete adunque sapere che
il pittore di cui vi parlo fu maestro Girolamo da Ve­
rona, che quasi tutti avete conosciuto e poco tempo
è che morí. Egli era il piú faceto e piacevol uomo ed
il meglior compagno che si possa imaginare, e trop­
po volentieri dava il giambo ed il pigliava. Era poi
tanto affezionato ai nostri signori veneziani che tutta
Verona per tale il conosceva. Ora in quei calamitosi
tempi de le guerre che tanto a la cittá nostra nocque­
ro e senza dolore non si ponno ricordare, mentre che
Verona fu in poter dei nemici di San Marco, non era
possibile che maestro Girolamo tacesse e che non
discoprisse l’affezion sua. Aveva il conte di Cariati
un giorno fatto levar via San Marco ch’era su la porta
del palazzo del signor podestá, e in luoco di quel­
lo volle che vi si dipingesse l’aquila con l’insegna di
casa d’Austria. Fu l’impresa data a maestro Girolamo
il quale mal volentieri prese l’assunto di farlo; nondi­
meno non essendo a quei dí chi gli desse guadagno,
per esser una gran parte dei cittadini fuori, chi in es­
siglio e chi per non veder tutte l’ore lo strazio che
dai soldati si faceva, non avendo altro essercizio a le
mani da guadagnarsi il vivere, si mise a dipingere le
dette insegne.
E mentre dipingeva v’era sempre gente in piazza ed
alcuni si fermavano a vedere. Il buon pittore a cui
troppo era dispiaciuto il levar via San Marco e gli
doleva dever far quell’arme, non si poteva contener
che non sospirasse e molte volte dicesse: – Durabunt
tempore curto, – onde fu subito accusato al conte per
un gran marchesco. Il conte dubitò che forse ne la cit­
tá fosse alcun occulto trattato contra l’imperadore e
che il pittore ne fosse consapevole. Il perché fattolo a
sé chiamare, diligentemente cominciò ad essaminar­
lo e domandargli a che fine aveva dette quelle paro­
le latine. Egli che non credeva esser stato sentito e
vedeva che il il negarle non ci aveva luogo, da subito
conseglio aiutato, con un buon viso rispose: – Signo­
re, io vi confesso aver dette le parole che mi ricerca­
te, e le dico anco di bel nuovo, che quelle insegne
non dureranno. Sapete voi perché? Perchè ho avuti
tristi colori che a l’aria e a la pioggia non reggeranno.
– Piacque mirabilmente la pronta risposta al conte,
ed in effetto pensò che a cotal fine qual narrato ave­
va, il pittore le parole puramente dette avesse, e piú
innanzi non investigò il fatto. Ché ancora che trattato
contra gli imperiali non ci fosse, nondimeno il sagace
pittore disse le parole, come agli amici affermava, con
salda speranza che i veneziani devessero ricuperar
la cittá e far levar via l’aquila con l’insegna d’Austria,
come non dopo molto fu fatto. Vi par egli che al biso­
gno si sapesse schermire e che molto galantemente
si salvasse? Egli seppe sí ben fare e di modo gover­
narsi che del conte divenne molto domestico e ne
traeva assai profitto. Ma vegnamo a parlar del signor
Pietro Bembo, la cui novella sará molto piú festevole
e da ridere ed io meglio ve la saperò contare, perché
li cosa fu in casa nostra ed io vi fui presente e vi fu
anco il nostro Fracastore che ebbe la parte sua de la
beffa. Non accade che con ambito di parole a voi tutti
che qui sète io m’affatichi a voler dar a conoscere che
personaggio si sia il signor Pietro Bembo, essend’egli
per le sue rare ed eccelientissime doti ed opere ne
l’una e l’altra lingua composte e stampate a tutta cri­
stianitá notissimo. Questo vi dirò ben io esser sua
consuetudine, per l’amicizia che ha con noi che suoi
ospiti siamo, ogni volta che viene a Verona venirsene
domesticamente a smontar in casa nostra, ove tanto
v’alberga con i suoi che vengono seco quanto gli pia­
ce dimorar ne la cittá, e con noi diportarsi nei luoghi
nostri di Valle Policella e di Pantena, come noi vol­
garmente diciamo, ove ai nostri poderi gli doniamo
quegli onesti piaceri che la stagion comporta ed il
luogo ci può dare. Vi venne egli uni volta tra l’altre e
seco vi era quell’altro dottissimo giovine, – giovine,
dico, a par del signor Pietro, – messer Andrea Na­
vagero. Fu quando a casa nostra in Verona vennero,
del mese di gennaro, ed arrivarono la sera a le ven­
tiquattro ore. Miei fratelli ed io secondo il costume
nostro facemmo lor quelle grate accoglienze che per
noi si seppero le maggiori. Invitammo subito alcuni
gentiluomini a venirgli a tener compagnia, tra i quali
venne messer Girolanio Fracastore nostro e dei dui
ospiti amicissimo.
Vedetelo lá, il Fracastore, dico, che ora tutto solo se
ne sta a contemplar le limpide e cristalline acque di
questi fonti e forse compone alcuna bella cosa de­
gna dei suo sublime ingegno. Messer Gian Battista
mio fratello, di sempre acerba ed onorata memoria,
mi disse ciò che intendeva fare per riereazion de la
compagnia, a cui io risposi che mi rimetteva a lui. Si
diede ordine che la cena fosse onorevole. Poi che gli
osti nostri si furono a le camere loro cavati gli stivali
e le vestimenta da viaggio, se ne vennero in sala ove
ardeva un buon fuoco e si misero a sedere. Il Navage­
ro cominciò a parlar col Fracastore, ed alcuni altri ed
io ci intertenevamo col signor Bembo di varie cose
ragionando. Messer Giulio mio fratello, perché era
cagionevole alquanto de la persona, presa licenza
se n’andò via. In quello arrivò messer Gian Battista,
la cui venuta fu cagione che il Navagero, lasciato il
Fracastore, si ritirò a parlar seco. Erano quasi le due
ore di notte quando io domandai se volevano cena­
re. Essi risposero che potevano ancora star una ora.
Ed in questo ecco che si sentí picchiar molto forte a
la porta, né guari stette che venne di sopra un dei no­
stri servidori il quale al Bembo disse: – Signore, egli
è di sotto un vostro parente che viene per visitarvi, e
dice che anch’egli ha nome Pietro Bembo. – Senten­
do questo il signor Bembo stette un pochetto sovra
di sé; da poi rivolto a noi altri disse: – Che buona ven­
tura può aver condutto in qua questo vecchio? Egli
suol aver la stanza in Vicentina ad un suo podere, e
sono piú di vent’anni ch’io nol vidi ancor che siamo
stretti parenti, –Alora messer Gian Battista comandò
che si accendessero duo torchi per andar a farlo ve­
nir su. Voleva il Bembo andargli incontra, ma noi nol
sofferimmo; onde io ci andai e condussi il vecchio in
sala, al quale il capo e le mani forte tremavano.
Com’egli fu in sala, parlando schietto il parlar ve­
neziano dei nicoletti, abbracciò il Bembo dicendo:
– Lodato sia Iddio, Zenso mio, che avanti ch’io mora
ti veggio, la Dio mercé, sano, (si chiamano l’un l’altro
Zenso se hanno un medesimo nome), e con questo
lo basciò in fronte lasciandogli un poco di bava sul
viso. E perché sappiate come era vestito, udite. Egli
aveva indosso una toga a la ducale che giá fu di scar­
latto e alora era scolorita e pelata che se le vedeva
tutta l’orditura, e non aggiungeva a un gran palmo ai
piedi. Aveva poi una cornetta che si chiama da’ ve­
neziani becca, di panno morello, piú vecchia che la
madre di Evandro e in alcuni luoghi stracciata.
La berretta era a la veneziana, unta e bisunta fuor di
misura. Le calze erano ne le calcagna lacerate, con un
paio di pantofole che i veneziani chiamano zoccoli,
si triste che i diti. dei piedi per la rottura de le calze
pendevano fuori. Messer Gian Battista l’abbracciò e
gli disse: – Magnifico, voi ci avete fatto torto a non
venir a smontar qui in casa vostra, ché essendo pa­
rente del signor Bembo, sète padrone di noi altri.
– E volendo mio fratello mandar a l’osteria a pigliar
i cavalli, disse il vecchio che non bisognava, perché
era venuto suso una cavalla a vettura e ito ad albergo
col Cigogna suo antico oste. Il signor Pietro veggendo
il vecchio sí mal in arnese e che cosí sgarbatamente
parlava, mezzo si stordí e non sapeva che dirsi. In
questo il vecchio entrò a ragionar di casa Bemba e sí
minutamente raccontò tutti i parenti loro e di quanto
gli era per molti anni avvenuto, che pareva che aves­
se il registro di ciò che diceva innanzi agli occhi.
E parlando del padre ed avo e di messer Carlo fratel­
lo del Bembo, si lasciava di tenerezza cader alcune
lagrime.
Poi disse: – io ho inteso, Zenso mio, che tu componi
di bei versi che sono piú belli che non è il Serafino
né il Tebaldeo.
Che Dio ti benedica, Zenso mio. – Dicendo questo
sternutò dinanzi e di dietro tre volte molto forte e
disse: – Perdonatemi, figliuoli miei, ché io son vec­
chio ed il freddo dei piedi m’ha causato questo; onde
s’accostò al fuoco e cavando i piedi de le pantofole,
or l’uno ed or l’altro scaldava. Veggendo il Bembo
che i diti apparivano fuori, mezzo turbato disse a
mio fratello: Di grazia levatemi questa seccaggine di
questo mio parente rimbambito. – Mio fratello si scu­
sò che non sapeva come fare. Il vecchio alora disse:
– Figliuoli, non vi meravigliate se io sono cosí mal
in ordine, perché questo è abito cavalcaresco, ma a
casa io ho bene de l’altre veste; e poi entrò in un
pecoreccio di pappolate da far ridere ogni svogliato
e malinconico, di maniera che il Bembo ancor che in
còlera fosse, non poteva far che non ridesse.
Volendo poi il vecchio nettarsi il naso cavò un fazzo­
letto assai grande, rotto in piú luoghi e tanto sporco
che pareva che fosse stato un mese in cucina a nettar
le padelle.
Il Navagero ancor che ridesse, tuttavia mezzo adirato
gli disse: – Messere, voi sète venuto a far un gran­
d’onore al vostro parente, ed essendo stato tanto a
vederlo, l’avete fatto maschio. Egli è ben fatto che
questi gentiluomini vi diano da cena, perché noi non
ceneremo di qui a buona pezza. – o figliuol mio, – ri­
spose egli, – io veggio bene che i poveri vecchi sono
malveduti dai giovini.
Io ho avuta tanta voglia di veder il mio parente, ed
ora tu vuoi che me ne vada? A le guagnele di san Zac­
caria, tanto che egli stará qui, io lo vo’ godere. Cenate
pure tanto tardi quanto volete, che io aspetterò, per­
ché non sono tre ore che il mio oste quando smontai
mi fece mangiar quattro fegatelli di cappone e ber
duo bicchieri di vernaccia. – Io me ne crepava de le
risa, e per non guastar la coda al pavone mi ritirai
verso la credenza, fingendo veder ciò che si faceva.
Mio fratello senza punto cangiarsi di viso, rivolto al
vecchio disse: – Magnifico, lasciate dir chi vuole, ché
voi sète in casa vostra. – Il Bembo gli teneva pur det­
to: – Voi, messer Gian Battista, pensate farmi piacere
e mi fate il maggior dispetto del mondo, Lasciatelo
andar per l’amor di Dio, ché io mi muoio di vergo­
gna. – Alora il Fracastore mosso a compassione del
fastidio del Bembo, al vecchio disse: – Magnifico, il
signor Navagero vi dá un buon conseglio: voi sète
attempato anzi che no e il tempo è freddo. Io che,
medico sono, v’essorto a cenar a buon’ora ed andarvi
a posare. – Domine magister, – rispose il vecchio, pi­
gliate questo conseglio per voi, ché io non lo voglio.
Ma saperci ben volentieri chi è questo Navagero, an­
cor che essendo col mio Zenso deve esser Andrea
che intendo aver di gran lettere. –Voi v’ingannate,
– disse il Navagero, – perché io mi chiamo Pancrati.
– Io non so, soggiunse il vecchio, – chi usurpi questo
nome se non quelli da ca’Giustiniana. So bene che i
Navageri non l’hanno. E qui fece un altro catalogo di
casa Navagera. ora la cosa andò motto in lungo con
dispiacer infinito del Bembo, il quale vedeva questo
suo parente, ché per tale lo credeva, in raccontar le
genealogie veneziane esser un Tullio, ma nel resto
dimostrarsi il maggior sciocco del mondo.
A la fine il vecchio mutata la voce e il modo di par­
lare, ridendo disse: – Io so che sète galanti uomini
a non riconoscer il vostro Girolamo pittore. Che vi
venga il gavocciolo, “poëtis quae pars est “. – Fu su­
bito riconosciuto, e risolvendosi il tutto in riso, egli
se n’andò in una camera, e spogliatosi l’abito da co­
media si rivestí i suoi panni e ritornò in sala, dando
a tutti la baia e facendoli di nuovo molto ben ridere.
Affermava il Bembo averlo sempre tenuto per il suo
parente, ed ancor che lo vedesse sí mal in arnese e
cosí mal costumato, che credeva che per la vecchiaia
fosse rimbambito, e che in vero n’aveva una strema
vergogna. Il Navagero si disperava di non averlo co­
nosciuto, perché e in Vinegia e in Verona esso pittore
a lui e al Bembo era molto domestico. Ma sovra tutti
il Fracastore era quello che non si poteva dar pace,
ché tutto ’l dí avendo pratica con lui e conversando
familiarmente insieme e dilettandosi de le chiacchie­
re di quello, alora fosse sí smemorato e fuor di sé che
mai non gli fosse venuto in mente. Medesimamente
gli altri gentiluomini veronesi che ci erano e dome­
sticamente di continovo il praticavano, confessarono
senza dubio non averlo in quell’abito buffonesco co­
nosciuto giá mai. Insomma tutta la cena fu piena di
riso e di gioia, né mai il signor Pietro mi scrive, – che
pure per cortesia sua spesso mi manda lettere, – che
qui sempre non faccia menzione di questa beffa e
che ancora non ne rida. Ma ora io non vo’ dirvi la bef­
fa che fece a Massimigliano Cesare in Isprucco, che
forse non fu men faceta di questa.
il bandello al magnifico e vertuoso messer emilio de­
gli emilii Sono, sí come sapete, giá alcuni anni che io
cominciai a scriver le mie novelle secondo che dagli
amici m’erano narrate o per altra via mi venivano a le
mani; ed avendone giá scritte molte, fui a ,al grado
sforzato d’abbandonar Milano per la cagione che giá
vi dissi e d’andarmene peregrinando variamente per
l’Italia.
Tornato poi che fui a Milano, trovai con mio grandis­
simo dispiacere che dai soldati spagnuoli alcuni miei
coffani erano stati sconficcati, pensando forse tro­
varvi dentro un gran tesoro; ma veggendo che altro
non c’era che libri ne portarono via una gran parte e
lasciarono i forzieri aperti, di maniera che, oltra i libri
stampati, mi furono rubati molti scritti di mia mano,
cosí mie composizioni come di molti belli ingegni de
l’etá nostra che io aveva raccolti essendo a Roma, a
Napoli e in varii altri luoghi. E tra l’altre cose mi ruba­
rono la maggior parte de le mie rime ed alcune no­
velle insieme con quel mio gran volume dei vocaboli
latini, da me raccolti da tutti i buoni autori che a le
mani venuti m erano, il quale tanto vi piacque quan­
do lo vedeste. Di questo libro piú mi grava la perdita
che di tutti gli altri, perché mai piú non mi verrá fatto
che io abbia l’ozio di durar piú tanta fatica, e ben che
io avessi l’ozio, non averò piú la copia di tanti libri
quanti alora aveva. Poi è morto il non mai a pieno
lodato e degno di viver molti secoli, il dottissimo
messer Aldo Manuzio, col cui mezzo non si stampava
libro ne la Magna, in Francia e in Italia che io subito
non l’avessi. Sí che io sono fuor di speranza di mai
piú metterlo insieme. Ora avendo io ricuperati alcuni
fragmenti cosí de le mie rime come de le novelle,
mi son messo a trascrivere esse novelle ed anco,
– secondo che di nuovo alcuna n’intendo, – scriver e
come a le mani mi vengono a metterle insieme, non
mi curando dal loro ordine alcuno. Onde avendone
alquante scritte che sono state da molti lette, m’è
stato detto che in due cose sono biasimate. Dicono
per la prima che non avendo io stile non mi deveva
metter a far questa fatica. Io rispondo loro che dicono
il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E
per questo non faccio profession di prosatore. Ché se
solamente quelli devessero scrivere che hanno buon
stile, io porto ferma openione che molto pochi scrit­
tori averemmo.
Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che
scritta fosse ne la piú rozza e zotica lingua che si sia,
sempre diletterá il suo lettore. E queste mie novelle,
s’ingannato non sono da chi le recita, non sono favole
ma vere istorie. Dicono poi che non sono oneste.
In questo io son con loro, se sanamente intenderan­
no questa onesta. Io non nego che non ce ne siano
alcune che non solamente non sono oneste, ma dico
e senza dubio confesso che sono disonestissime,
perciò che se io scrivo ch’una vergine compiaccia del
suo corpo a l’amante, io non posso se non dire che il
caso sia disonestissimo. Medesimamente se la mo­
glie concede il suo corpo ad altri che al marito facen­
dolo duca di Cornovaglia, chi presumerá dire che ella
non sia disonesta? Taccio di quelle che con fratelli,
cognati, cugini ed altri del proprio sangue si meschia­
no. Né peccano meno gli uomini de le donne. Ché se
l’uomo lasciata la propria moglie morir di freddo sola
nel letto, va adulterando le mogli altrui, chi sará che
nomi costui onesto? Egli sará pur chiamato adultero,
e gli adulteri per la legge Giulia deveno esser puni­
ti. Ed in effetto io credo che non si trova nessuno di
sana mente che non biasimi gli incesti, i ladronecci, i
micidiali ed altri vizii.
Confesso io adunque molte de le mie novelle con­
tener di questi e simili enormi e vituperosi peccati,
secondo che gli uomini e le donne gli commettono;
ma non confesso giá che io meriti d’esser biasimato.
Biasimar si deveno e mostrar col dito infame coloro
che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle
che da me scritte sono e che si scriveranno, sono e
saranno scritte de la maniera che i narratori l’hanno
raccontate. Affermo bene averle scritte e volerne de
l’altre scrivere piú modestamente che sia possibile,
con parole oneste e non sporche né da far arrossire
chi le sente o legge. Affermo anco che non si troverá
che ’l vizio si lodi né che i buoni costumi e la vertú si
condannino, anzi tutte le cose mal fatte sono biasi­
mate e l’opere vertuose si commendano e si lodano.
E perché avendone alcuna volta parlato insieme, ho
trovato che voi sète de la mia openione, io lascerò
dire ciò che si vorranno questi cosí scropolosi che,
forse altra intenzione hanno di quella che ne le pa­
role mostrano, sovenendomi di quello che una volta
disse il piacevole e faceto Proto da Lucca al signor
Prospero Colonna. Egli diceva che lo scriver le cose
mal fatte non è male mentre non si lodino, e che ne
la Sacra Sctittura sono adulterii descritti, incesti ed
omicidii, come chiaramente si sa. Ora avendone nuo­
vamente scritta una che narrò a una bella compagnia
il nostro Pandino da Pandino, che è di quelle che
muoveno lo stomaco a questi critici, ve la mando e
sotto il nome vostro voglio che sia letta, perché es­
sendo voi, come sète, uomo di giudizio, non de lo
scrittore vi scandalezarete ma di chi averá le sconcie
e disoneste cose operato, come il dever ricerca. Sta­
te sano.
NOVELLA XXII Narra il signor Scipione Attellano
come il signor Timbreo di Cardona essendo col re
Piero di Ragona in Messina s’innamora di Fenicia Lio­
nata, e i varii e fortunevoli accidenti che avvennero
prima che per moglie la prendesse.
Correndo gli anni di nostra salute MCCLXXXIII, i si­
ciliani, non parendo loro di voler più sofferire il do­
minio dei francesi, con inaudita crudeltà quanti ne
l’isola eremo un giorno, ne l’ora del vespro, ammaz­
zarono; ché così per tutta l’isola era il tradimento or­
dinato. Né solamente uomini e donne de la nazion
francese uccisero, ma tutte le donne siciliane, che si
puotero imaginare esser di francese nessuno gravi­
de, il dì medesimo svenarono, e successivamente se
donna alcuna era provata che fosse da francese in­
gravidata, senza compassione era morta. Onde nac­
que la miserabil voce del vespro siciliano.
Il re Piero di Ragona, avuto questo avviso, subito ne
venne con l’armata prese il dominio de l’isola, perciò
che papa Niccolò III a questo lo sospinse dicendo­
gli che a lui, come a marito di Costanza figliuola del
re Manfredi, l’isola apparteneva. Esso re Piero tenne
molti dì in Palermo la corte molto reale e magnifica, e
de l’acquisto de l’isola faceva meravigliosa festa. Da­
poi sentendo che il re Carlo II, figliuolo del re Carlo I,
che il reame di Napoli teneva, con grossissima arma­
ta veniva per mare per cacciarlo di Sicilia, gli andò a
l’incontro con l’armata di navi e galere che aveva, e
venuti insieme al combattere fu la mischia grande e
con uccisione di molti crudele.
Ma a la fine il re Piero disfece l’armata del re Carlo
e quello prese prigione. E per meglio attendere a
le cose de la guerra ritirò la reina con tutta la cor­
te a Messina, come in quella città che è per iscontro
a l’Italia e da la quale coli breve tragitto si passa in
Calavria. Quivi tenendo egli una corte molto reale,
e per la ottenuta vittoria essendo ogni cosa in alle­
grezza ed armeggiandosi tutto ’l dì e facendosi balli,
un suo cavalier e barone molto stimato ed il quale
il re Piero, perché era prode de la persona e ne le
passate guerre sempre s’era valorosamente diporta­
to, sommamente amava, d’una giovanetta figliuola di
messer Lionato de’ Lionati, gentiluomo di Messina,
la quale oltra ogn’altra de la contrada era gentilesca,
avvenente e bella, fieramente s’innamorò, e a poco
a poco così fattamente di lei s’accese, che senza la
soave vista di quella né sapeva né voleva vivere. Do­
mandavasi il barone il signor Timbreo di Cardona, e
la fanciulla Fenicia si chiamava. Egli, perciò che per
terra e per mare fin da la sua fanciullezza aveva sem­
pre il re Piero servito, fu molto riccamente rimeritato;
ché oltra gli infiniti doni che ebbe, il re in quei dì gli
aveva data la contea di Collisano con altre terre, di
maniera che la sua entrata, senza la pensione che dal
re aveva, era di più di XII mila ducati. Ora cominciò il
signor Timbreo passar ogni giorno dinanzi la casa de
la fanciulla, quel dì che la vedeva beato stimandosi.
Fenicia, che era, ben che fanciulletta, avveduta e sag­
gia, s’avvide di leggero de la cagione del passeggiar
del cavaliero. Era fama che il signor Timbreo fosse
uno dei favoriti appo il re, e che pochi ci fossero in
corte che valessero quello ch’egli valeva, onde da
tutti era onorato. Il perché Fenicia, oltra ciò che udito
ne aveva, veggendolo molto signorilmente vestito e
con onorata famiglia dietro, ed oltra questo che era
bellissimo giovine e molto mostrava esser costuma­
to, cominciò anch’ella piacevolmente a guardarlo ed
onestamente farli riverenza. Il cavaliere ogni di più
s’accendeva, e quanto più spesso la mirava tanto più
sentiva la fiamma sua farsi maggiore, ed essendo tan­
to nel suo core questo nuovo fuoco cresciuto che tut­
to si sentiva per amor de la bella fanciulla struggere,
deliberò per ogni via che possibil fosse averla. Ma il
tutto fu indarno, perciò che a quante lettere, messi
ed ambasciate ch’egli le mandò, ella altro mai non ri­
spose, se non che la sua virginità ella inviolata serbar
intendeva a chi dato le fosse per marito.
Il perché il povero amante si ritrovava molto di mala
voglia, e tanto più quanto che mai non aveva potuto
farle ritenere né lettere né doni. Tuttavia deliberato­
si d’averla, e veggendo la costanza di lei esser tale,
che se voleva di quella divenir possessore bisognava
che per moglie la prendesse, poi che molti discorsi
sovra di questo ebbe fatto, conchiuse tra sé di farla
al padre richieder per moglie.
E ben che a lui paresse che molto si abbassava,
nondimeno, sapendo quel, la esser d’antico e nobi­
lissimo sangue, deliberò non ci metter più indugio,
tanto era l’amore che a la fanciulla portava. Fatta tra
sé questa deliberazione, ritrovò un gentiluomo mes­
sinese con cui aveva molta famigliarità e a quello nar­
rò l’animo suo, imponendogli quanto voleva che con
messer Lionato facesse.
Andò il messinese e il tutto essequì secondo la com­
missione avuta dal cavaliere. Messer Lionato, udita
così buona nuova e sapendo di quanta autorità e va­
lore il signor Timbreo era, senza altrimenti a parenti
od amici chieder conseglio, dimostrò con gratissima
risposta quanto gli era caro che il cavalier degnasse
seco imparentarsi.
Ed essendo a casa andato, a la moglie ed a Fenicia
fece intender la promessa che al signor Timbreo ave­
va fatta. La cosa estremamente a Fenicia piacque, e
con divoto core ringraziò il nostro signor Iddio che
del suo casto amore così glorioso fine le donasse,
e in vista si dimostrava molto allegra. Ma la fortu­
na, che mai non cessa l’altrui bene impedire, nuovo
modo ritrovò di porre impedimento a così da tutte
due le parti desiderate nozze. E udite come. Divol­
gossi per Messina come fra pochi dì il signor Timbreo
Cardona deveva sposar Fenicia figliuola di messer
Lionato, la qual nuova generalmente piacque a tut­
ti i messinesi, perciò che messer Lionato era genti­
luomo che da tutti si faceva amare, come colui che a
nessuno cercava di dar nocumento e a tutti quanto
poteva giovava, di modo che ciascuno di tal parenta­
do mostrava grandissimo piacere. Era in Messina un
altro cavaliere giovine e di nobil famiglia, detto per
nome il signor Girondo Olerio Valenziano, il quale de
la persona sua molto prode in su quelle guerre s’era
dimostrato ed era poi uno degli splendidi e liberali
de la corte.
Questo, udendo così fatta nuova, restò senza fine di
mala voglia, perciò che poco innanzi s’era de le bel­
lezze di Fenicia innamorato e così fieramente aveva
le fiamme amorose nel petto ricevute, che teneva per
fermo di morire se Fenicia per moglie non aveva. Ed
avendo determinato chiederla al padre per moglie,
udita la promessa al signor Timbreo fatta, si credette
di cordoglio spasimare, e al suo dolore non ritrovan­
do in modo alcuno compenso, tanto farneticò su que­
sta cosa, che da la passione amorosa vinto, non aven­
do riguardo a ragione alcuna, si lasciò trasportare a
far cosa, non solo a cavaliere e gentiluomo com’egli
era ma a ciascuno, biasimevole. Egli era stato in tutte
l’imprese militari quasi sempre compagno del signor
Timbreo ed era tra loro una fratellevole amicizia.
Ma di questo amore, che che se ne fosse cagione,
sempre s’erano celati l’un l’altro. Pensò adunque il
signor Girondo tra il signor Timbreo e la sua aman­
te seminare sì fatta discordia che la promessa del
matrimonio si romperebbe, e in questo caso egli do­
mandandola al padre per moglie sperava averla. Né
guari al folle pensiero tardò di dare effetto. E avendo
ritrovato al suo sfrenato ed accecato appetito uomo
conforme, quello diligentemente de l’animo suo in­
formò. Era costui, che il signor Grondo si aveva per
confidente e ministro de la sceleratezza preso, un
giovine cortegiano, uomo di poca levatura ed a cui
più il male che il bene piaceva, il quale, essendo de
la cosa che deveva tramare ottimamente instrutto,
n’andò il seguente matino a ritrovar il signor Tim­
breo, che ancora non era di casa uscito, ma tutto solo
in un giardino de l’albergo si diportava. Ed entrato il
giovine ne l’orto, fu dal signor Timbreo, veggendo­
lo in verso sé venire, cortesemente raccolto. Quivi,
dopo i communi saluti, in questo modo il giovine al
signor Timbreo disse: – Signor mio, io sono a questa
ora venuto per parlar teco di cose di grandissima im­
portanza che al tuo onore ed utile appartengono. E
perché potrei dir qualche cosa che forse l’animo tuo
offenderia, ti prego che mi perdoni, e scusimi appo
te la mia servitù, e pensa che a buon fine mosso mi
sono. Questo so ben io che ciò che ora ti dirò, se tu
sarai quel gentil cavaliero che sempre sei stato, ti re­
cherà profitto pur assai. Ora, venendo al fatto, ti dico
che ieri intesi come ti sei convenuto con messer Lio­
nato de’ Lionati per sposar Fenicia sua figliuola per
tua moglie. Guarda, signor mio, ciò che tu fai ed abbi
riguardo a l’onor tuo. Questo ti dico perché un genti­
luomo amico mio, quasi due e tre volte la settimana,
si va a giacer seco e gode de l’amor di lei, e questa
sera deve medesimamente andarci ed io, come l’al­
tre volte soglio, a simil fatto l’accompagno. Quando
tu voglia darmi la parola tua e giurarmi di non offen­
der né me né l’amico mio, farò che tu stesso il luogo
e il tutto vederai. E a ciò che tu sappia, sono molti
mesi che questo amico mio gode costei. La servitù
che teco ho e i molti piaceri che tu, la tua mercè, fatti
m’hai, a palesarti questo m’inducono. Sì che ora farai
quello che più di tuo profitto ti parrà; a me basta aver
in questo fatto quell’ufficio che al debito mio verso
te appartiene. – A queste parole rimase il signor Tim­
breo tutto stordito e di modo fuor di sé, che quasi fu
per uscire di sentimento.
E poi che buona pezza stette mille cose tra sé rivol­
gendo, in lui più potendo l’acerbo e, al parer suo,
giusto sdegno che il fervido e leal amore che a la bel­
la Fenicia portava, sospirando al giovine così rispose:
– Amico mio, io non debbo né posso se non restarti
eternamente ubligatissimo, veggendo quanto amo­
revolmente di me e de l’onor mio cura ti prendi, ed
un giorno ti farò conoscer con effetto quanto tenuto
ti sono. Però per ora quanto più so e posso ti rendo
quelle grazie che per me si ponno le maggiori. E poi
che di grado t’offeri a farmi veder quello che mai non
mi sarei imaginato, io ti priego, per quella carità che
spirito ti ha di questo fatto ad avisarmi, che tu libe­
ramente l’amico tuo accompagni, ed io t’impegno la
fede mia che da leal cavaliero né a te né al tuo amico
darò nocumento alcuno, e questa cosa terrò sempre
celata, a ciò che l’amico tuo possa goder questo suo
amore in pace. Ché io deveva esser più avvisto da
prima ed aprendo ben gli occhi spiare minutamente
il tutto con diligenza. – Disse adunque a l’ultimo il
giovine al signor Timbreo: – Voi, signor mio, questa
notte a le tre ore anderete verso la casa di messer
Lionato e in quelle rovine di edificii, che sono dirim­
petto al giardino di esso messer Lionato, vi porrete in
aguato. – Rispondeva a quella parte una facciata del
palazzo di messer Lionato, ove era una sala antica a
le cui finestre, che giorno e notte stavano aperte, so­
leva talora dimostrarsi Fenicia, perciò che meglio da
quella banda si godeva la bellezza del giardino; ma
messer Lionato con la famiglia abitava ne l’altra par­
te, ed il palazzo era antico e molto grande, e capace
non de la gente d’un gentiluomo, ma d’una corte d’un
prencipe. Ora, dato l’ordine detto, il fallace giovine
si partì ed andò a ritrovar il perfido Girondo, a cui
disse il tutto che aveva col signor Timbreo Cardona
ordinato. Del che il signor Girondo fece meraviglio­
sa festa parendogli che il suo dissegno gli riuscisse a
pennello. Onde, venuta l’ora statuita, il disleal Giron­
do vestì onoratamente un suo servidore, di quanto
aveva a far già instrutto, e quello di soavissimi odori
profumò. Andò il profumato servidore di compagnia
del giovine che al signor Timbreo aveva parlato, e
loro appresso seguiva un altro con uno scalapertico
in spalla. Ora qual fusse l’animo del signor Timbreo e
quanti e quali fossero i pensieri che per la mente gli
passarono tutto il dì, chi potrebbe a pieno narrare?
Io per me so che mi affaticherei indarno. Il troppo
creduto e sfortunato signore, dal velo di gelosia ac­
cecato, quel giorno nulla o poco mangiò. E chiunque
in viso il mirava giudicava che più morto che vivo fos­
se. Egli di mezza ora innanzi il termine posto s’andò
appiattare in quel luogo rovinoso, di tal maniera che
poteva benissimo vedere chiunque quindi passava,
parendoli pur impossibile che Fenicia s’avesse dato
altrui in preda. Diceva poi tra sé che le fanciulle sono
mobili, leggere, instabili, sdegnose ed appetitose di
cose nuove, ed ora dannandola ora scusandola, stava
ad ogni movimento attento. Non era molto scura la
notte, ma forte queta. Ed ecco che egli cominciò a
sentir lo stropiccio dei piedi di quelli che venivano
ed anco sentire qualche paroluccia, ma imperfetta.
In questo vide i tre che passavano e ben conobbe
il giovine che la matina l’aveva avvisato, ma gli al­
tri dui non puoté egli raffigurare. Nel passare che i
tre dinanzi gli fecero, sentì che il profumato, in forma
d’amante vestito, disse a colui che portava la scala:
– Vedi che tu ponga la scala così destramente a la
finestra che tu non faccia romore, perché, poi non ci
fummo, la mia signora Fenicia mi disse che tu l’avevi
appoggiata con troppo strepito. Fa destro e cheta­
mente il tutto. – Queste parole sentì chiaramente il
signor Timbreo, che al core gli erano tanti pungen­
ti ed acuti spiedi. E quantunque fosse solo ed altre
armi che la spada non avesse, e quelli che passavano
avessero, oltra le spade, due arme astate e forse fos­
sero armati, nondimeno tanta e sì mordace era la ge­
losia che gli rodeva il core e sì grande lo sdegno che
lo infiammava, che egli fu vicino de l’aguato uscire
ed animosamente quegli assalendo ammazzar colui
che amante esser de la Fenicia giudicava, o vero, re­
stando morto, finire in un’ora tanti affanni, quanti per
soverchia pena miseramente sofferiva. Ma sovvenu­
toli de la data fede, e grandissima viltà e sceleragine
stimando i già affidati da la sua parola assalire, tutto
pieno di còlera, di stizza, d’ira e di furore, in sé ro­
dendosi, attese de la cosa il fine.
Così i tre, giunti dinanzi a la finestra de la casa di
messer Lionato, a quella banda che si è detto, molto
soavemente al balcone la scala appoggiarono, e co­
lui che l’amante rappresentava su vi salì ed entrò ne
la casa come se dentro avesse avuto fidanza. Il che
poi che lo sconsolato signor Timbreo ebbe veduto
e credendo fermamente che colui che salito era se
n’andasse con Fenicia a giacere, assalito da fieris­
simo cordoglio si sentì tutto svenire. Ma tanto pure
in lui il giusto sdegno, com’egli credeva, puoté, che
cacciata via ogni gelosia, il fervente e sincero amore
che a Fenicia portava non solamente in tutto s’affred­
dò, ma in crudel odio si converse. Onde, non volen­
do altrimenti aspettare che il suo rivale venisse fuori
da ’l luogo ov’era appiattato, partì ed al suo albergo
se ne ritornò. Il giovine, che veduto l’aveva partire
e chiaramente conosciutolo, quello di lui pensò che
in effetto era. Il perché non dopo molto fece un suo
segno ed il salito servidore dismontò, e di brigata a
casa del signor Girondo se n’andarono, al quale nar­
rato il tutto, egli fece di questo meravigliosa festa, e
già gli pareva esser de la bella Fenicia possessore.
Il signor Timbreo, che molto poco il rimanente de la
notte aveva dormito, si levò molto a buon’ora, e fat­
tosi chiamar quel cittadino messinese col cui mezzo
aveva al padre domandata Fenicia per moglie, a lui
impose quanto voleva che facesse. Costui, de l’ani­
mo e voluntà del signor Timbreo pienamente infor­
mato e da lui astretto, su l’ora del desinare andò a
trovar messer Lionato, che ne la sala passeggiava
aspettando che il desinare fosse ad ordine, ove me­
desimamente era l’innocente Fenicia, che in compa­
gnia di due sorelle di lei minori e de la madre, certi
suoi lavori di seta trapungeva. Quivi il cittadino giun­
to e da messer Lionato graziosamente raccolto, così
disse: – Messer Lionato, io ho a fare un messo a voi,
a la donna vostra ed a Fenicia per parte del signor
Timbreo. – Siate il ben venuto, – rispose egli; – e che
ci è? Moglie e tu Fenicia, venite ad intender meco ciò
che il signor Timbreo ci fa intendere.
– Alora il messo di questa maniera parlò: – Egli si
suol communemente dire che ambasciatore in riferir
quanto gli è imposto non deve pena alcuna patire. Io
vengo a voi mandato da altri e duolmi infinitamente
ch’io vi rechi nuova che vi annoi. Il signor Timbreo di
Cardona a voi, messer Lionato, e a la donna vostra
manda, dicendo che voi vi provediate d’un altro ge­
nero, imperò che egli non intende d’aver voi per suo­
ceri, non già per mancamento vostro, i quali egli cre­
de e tiene esser leali e da bene, ma per aver veduto
con gli occhi suoi cosa in Fenicia che mai creduto non
averebbe. E per questo a voi lascia il proveder ai casi
vostri. A te mo’, Fenicia, dice egli che l’amore che a
te portava mai non deveva ricever il guiderdone che
dato gli hai, e che d’altro marito tu ti proveggia, sì
come d’altro amante ti sei prevista, o vero quello pi­
gli a cui la tua verginità donasti; perciò che egli non
intende aver teco pratica alcuna, poi che prima facesti
sire di Corneto che marito. – Fenicia, udendo questa
amara e vituperosa ambasciata, restò come morta. Il
simile fece messer Lionato con la donna sua. Tuttavia
pigliando animo e lena, che quasi per isvenimento
gli era mancata, così messer Lionato al messo disse:
– Frate, io sempre dubitai dal primo punto che mi
parlasti di questo maritaggio, che il signor Timbreo
non starebbe saldo ne la sua domanda, perciò ch’io
conosceva bene e conosco che io son povero gen­
tiluomo e non par suo. Nondimeno e’ mi pare che,
se egli era pentito di pigliar mia figliuola per moglie,
che deveva bastargli dire che non la voleva e non
imporle così vituperosa macchia di bagascia come
fa. Gli è ben vero che ogni cosa fattibile può essere,
ma io so come mia figliuola è stata allevata e quali
sono i suoi costumi. Iddio giusto giudice farà un gior­
no, spero, conoscer la verità. – Con questa risposta
partì il cittadino, e messer Lionato restò con questa
openione, che il signor Timbreo si fosse pentito di far
il parentado, parendogli che forse troppo si abbas­
sasse e tralignasse da’ suoi maggiori. Era il legnaggio
di messer Lionato in Messina antichissimo e nobile
e di molta riputazione, ma le sue ricchezze erano di
privato gentiluomo, ancor che antica memoria ci fos­
se che i suoi vecchi avevano avute di molte terre e
castella con amplissima giurisdizione. Ma per le varie
mutazioni de l’isola e per le guerre civili erano de le
lor signori decaduti, come in altre assai famiglie si
vede. Ora non avendo mai il buon padre ne la figliuo­
la veduto cosa meno che onestissima, pensò che il
cavaliero la lor povertà e presente fortuna a sdegno
s’avesse preso. Da l’altro canto Fenicia, a cui per
estrema doglia e svenimento di core erano venuti al­
cuni accidenti, sentendosi a grandissimo torto incol­
pare, come fanciulla tenera e delicata, e non avvezza
ai colpi di perversa fortuna abbandonando se stessa,
più cara la morte averia avuto che la vita. Onde, da
grave e penetrevole dolore assalita, si lasciò andare
come morta, e perdendo subito il nativo colore più
a una statua di marmo che a creatura rassembrava.
Il perché fu di peso sovra un letto portata. Quivi con
panni caldi ed altri rimedii, dopo non molto, furono
gli smarriti spiriti rivocati. Ed essendosi mandato per
i medici, la fama per Messina si sparse come Fenicia
figliuola di messer Lionato infermava sì gravemente
ch’era in periglio de la vita. A questa voce vennero
di molte gentildonne parenti ed amiche a visitar la
sconsolata Fenicia, e intendendo la cagione del male
si sforzavano a la meglio che sapevano di consolarla.
E come tra la moltitudine de le donne suol avvenire,
sovra così pietoso caso varie cose dicevano e tutte
generalmente con agre rampogne il signor Timbreo
biasimavano. Erano per la maggior parte intorno al
letto de la giovane inferma.
Onde Fenicia, avendo ottimamente inteso quello
che detto s’era, ripigliando alquanto di lena e veg­
gendo che per pietà di lei quasi tutte lagrimavano,
con debol voce pregò tutte che s’acchetassero. Poi
così languidamente disse: – Onorande madri e sorel­
le, rasciugate omai queste lagrime, perciò che a voi
non giovano ed a me sono elle di nuova doglia cagio­
ne, e al caso occorso niente di profitto recano. Egli è
così piacciuto a nostro signor Iddio e conviene aver
pazienza. La doglia che io acerbissima sento e che mi
va a poco a poco troncando lo stame de la vita, non è
che sia repudiata, ancor che senza fine mi doglia; ma
il modo di questo repudio è quello che mi trafigge fin
su ’l vivo e che senza rimedio mi accora. Poteva il si­
gnor Timbreo dire che io non gli piaceva per moglie,
e il tutto stava bene; ma col modo che mi rifiuta, io so
che appo tutti i messinesi io acquisto biasimo eterno
di quel peccato che mai, non dirò feci, ma certo di
far non ci pensai già mai. Tuttavia io come putta sarò
sempre mostrata a dito. Io ho sempre confessato, e
di nuovo confesso, che il grado mio non s’agguaglia­
va a tal cavaliere e barone qual è il signor Timbreo,
ché tanto alto maritarmi le poche facultà dei miei non
cercavano.
Ma per nobiltà e antiquità di sangue si sa quello che
sono i Lionati, come quelli che sono i più antichi e
nobili di tutta questa isola, essendo noi discesi da
nobilissima famiglia romana prima che il signor no­
stro Giesu Cristo incarnasse, come per antichissime
scritture si fa fede.
Ora, sì come per le poche ricchezze dico che io non
era degna di tanto cavaliere, dico altresì che inde­
gnissimamente sono rifiutata, conciò sia cosa chiaris­
sima che io mai non ho pensato di dar di me ad altrui
quello che il diritto vuole che al marito sia serbato.
Sallo Iddio che io dico il vero, il cui santo nome sem­
pre sia lodato e riverito.
E chi sa se la maestà divina con questo mezzo mi vo­
glia salvare? Ché forse essendo tant’alto maritata, mi
sarei levata in superbia e divenuta altiera con sprez­
zar questo e quella, e forse meno averei conosciuto
la bontà di Dio verso me. Or faccia Iddio di me quello
che più gli aggrada, e mi doni che questo mio tra­
vaglio ceda a salvezza de l’anima mia. Poi con tutto
il core lo prego divotissimamente che al signor Tim­
breo apra gli occhi, non perché mi rivoglia per sposa,
ché a poco a poco morir mi sento, ma a ciò che egli,
a cui la mia fede è stata di poco prezzo, insieme con
tutto il mondo conosca che io mai non commisi quel­
la follia e sì vituperoso errore, di cui contra ogni ra­
gione sono incolpata, a ciò che, se con questa infamia
moro, in qualche tempo discolpata, resti.
Godasi egli altra donna a cui Iddio l’ha destinato e
lungamente seco viva in pace. A me di qui a poche
ore quattro braccia di terra basteranno. Mio padre
e mia madre e tutti i nostri amici e parenti in tanta
pena abbino almeno questo poco di consolazione,
che de l’infamia che mi è apposta io sono innocen­
tissima e piglino per testimonio la mia fede, la quale
io dò loro, come ubidiente figliuola deve dare, ché
maggior pegno né testimonio al mondo non posso
io al presente dare. E mi basti che innanzi al giusto
tribunale di Cristo conosciuta sia di tale infamia in­
nocente. E così a lui che me la diede raccomando
l’anima mia, che desiosa d’uscire di questo carcere
terreno verso lui prende il camino. – Detto questo, fu
tanta la grandezza del dolore che intorno al core se le
inchiavò e sì fieramente lo strinse, che ella, volendo
non so che più oltra dire, comminciò a perder la fa­
vella e balbutire parole mozze, che da nessuno erano
intese, e tutto insieme se le sparse per ogni membro
un sudor freddissimo, in modo che incrocicchiate le
mani si lasciò andar per morta. In questo i medici che
quivi ancora erano, non potendo in parte alcuna a sì
fiero accidente dar compenso, per morta l’abbando­
narono, dicendo che l’acerbità del dolore era stata sì
grande che l’aveva accorata, e si partirono. Né guari
si stette che Fenicia ne le braccia di quelle sue ami­
che e parenti fredda e senza polso rimase, che da
tutte fu giudicata per morta. E fatto ritornar uno dei
medici, disse, non le trovando polso, che era morta.
Quanti alora per lei crudi lamenti, quante lagrime,
quanti sospiri pietosi fossero sparsi, a voi, pietose
donne, pensar il lascio. Il povero e lagrimoso padre,
la scapigliata e dolente madre averebbero fatto pia­
gnere i sassi. Tutte l’altre donne e gli altri che là era­
no facevano un miserabil lamento. Già erano passate
da cinque in sei ore e si dava l’ordine de la sepoltura
per il giorno seguente.
La madre, assai più morta che viva, poi che la molti­
tudine de le donne fu partita, ritenne seco una sua
cognata, moglie d’un fratello di messer Lionato, e
tutte due insieme, non volendo altra persona seco,
fatto porre de l’acqua al fuoco, in camera si chiusero,
e, spogliata Fenicia, quella cominciarono con acqua
calda lavare.
Erano stati circa sette ore gli smarriti spiriti di Fenicia
a spasso, quando, mentre erano le fredde membra
lavate, ritornarono al lor ufficio, e dando la fanciulla
manifesti segni che era viva cominciò alquanto aprir
gli occhi. La madre e la cognata furono quasi per
gridare. Tuttavia facendo buon animo, le posero la
mano al core e quello sentirono dar alcuni movimen­
ti. Il perché credettero fermamente la fanciulla esser
viva. Onde con panni caldi ed altri argomenti, senza
far strepito nessuno, fecero tanto che Fenicia quasi
del tutto in sé rivenne ed aprendo ben gli occhi con
un grave sospiro disse: – Oimè, ove son io? – Non
vedi, – disse la madre, – che tu se’ qui meco e con tua
zia? Egli ti era venuto un isvenimento di tal fierezza
che noi credevamo che tu fossi morta. Ma lodato sia
Iddio che tu sei pur viva. – Ahi quanto era meglio,
– rispose Fenicia, – che io fossi morta ed uscita di
tanti affanni. – Figliuola mia, – dissero la madre e la
zia, – e’ si vuol vivere poi che così piace a Dio, e al
tutto si darà rimedio.
– La madre, celando l’allegrezza che aveva, aperto un
poco l’uscio de la camera fece chiamar messer Liona­
to, che incontinente venne. Com’egli vide la figliuola
in sé ritornata, se fu allegro non è da domandare. E
molte cose tra sé divisate, primieramente egli non
volle che persona alcuna di questo fatto sapesse nul­
la, deliberando mandar la figliuola fuor di Messina a
la villa del suo fratello, la cui moglie era quivi presen­
te. Poi ricreata la fanciulla con cibi delicati e preziosi
vini, e quella a la primiera beltà e fortezza ridotta,
mandò a chiamar il fratello, e quello di quanto inten­
deva che facesse ottimamente instrusse. Fu adun­
que l’ordine che tra loro si compose tale. Condusse
messer Girolamo, – ché così aveva nome il fratello di
messer Lionato, – la notte seguente Fenicia in casa
sua e quivi in compagnia de la moglie segretissima­
mente la tenne. Poi fatto provigione ne la villa di
quello che bisognava, mandò una matina a buon’ora
fuori essa sua moglie con Fenicia e una sua figliuola
e una sorella di Fenicia, che era di tredici in quat­
tordici anni e Fenicia ne aveva sedici. Fecero questo
a ciò che Fenicia crescendo e cangiando, come con
l’età si fa, aria, la potesse poi fra dui o tre anni sotto
altro nome maritare. Il seguente giorno dopo l’acci­
dente occorso, essendo per tutta Messina la voce
che Fenicia era morta, fece messer Lionato ordinare
l’essequie secondo il grado suo, e fatta far una cassa
in quella, senza che nessuno se ne accorgesse, non
volendo la madre di Fenicia che nessuno se ne im­
pacciasse, fece mettere non so che, e riserrò la cassa,
e inchiodatala la fece turar di pece, di maniera che
ciascheduno teneva per fermo che cola dentro fosse
il corpo di Fenicia. Dapoi su la sera, essendo messer
Lionato con i parenti vestiti di nero, accompagnaro­
no la cassa a la chiesa, mostrando così il padre e la
madre tanta estrema doglia, come se il vero corpo de
la figliuola avessero a la sepoltura accompagnato.
Il che moveva generalmente ciascuno a pietà, per­
ché, divolgata la cagione de la morte, tutti i messi­
nesi tennero per certo che il cavaliero quella favola
s’avesse finta. Fu adunque l’arca messa in terra con
general pianto di tutta la città, e sovra l’arca fatto un
deposito di pietre e quello con l’insegne dei Lionati
dipinto. Messer Lionato ci fece scrivere sopra que­
sto epitaffio: Fenicia fu ’l mio nome, e indegnamente
a crudo cavalier fui maritata, che poi, pentito ch’io
gli fossi data, femmi di grave error parer nocente. Io,
ch’era verginella ed innocente, come mi vidi a tor­
to sì macchiata, prima volli morir ch’esser mostrata a
dito, oimè, per putta da la gente. Né fui bisogno ferro
al mio morire; ché ’l dolor fiero più che ’l ferro valse,
quando contra ragion m’udii schernire.
Morendo, Iddio pregai che l’opre false al fin facesse
al mondo discoprire, poi ch’al mio sposo di mia fé
non calse. Fatte le lagrimose essequie e parlandosi
largamente in ogni luogo de la cagione de la morte
di Fenicia, e varii ragionamenti su questo facendo­
si, e tutti mostrando di così pietoso accidente com­
passione come di cosa che fosse stata finta, il signor
Timbreo cominciò a sentir grandissima doglia con
un certo inchiavamento di core, che non sapeva che
imaginarsi. A lui pareva pure che non devesse esser
biasimato, avendo egli veduto salire su per la scala
un uomo ed entrare in casa. Poi, meglio pensando a
le cose vedute ed essendosi già lo sdegno in gran
parte intepidito e la ragione aprendoli gli occhi, di­
ceva fra sé che forse colui, che era in casa entrato,
poteva essere o per altra donna o per rubare là su
salito. Sovvenivagli poi che la casa di messer Liona­
to era grandissima, e che in quella parte ove l’uomo
era asceso nessuno abitava, e che non poteva essere
che, dormendo Fenicia in compagnia de le sorelle ne
la camera di dietro a quella di suo padre e di sua
madre, che fosse potuta venire a quella banda, con­
venendole passar per la camera dei padre; di modo
che, combattuto ed afflitto da’ suoi pensieri, non ri­
trovava riposo. Medesimamente il signor Girondo,
udita la maniera de la morte di Fenicia e conoscendo
chiaramente sé esser stato il manigoldo e omicida di
quella, sì perché fieramente era di lei acceso ed altre­
sì per esser stato la vera cagione di tanto scandalo, si
sentiva scoppiare di soverchia doglia il core, e qua­
si disperato fu per ficcarsi un pugnale nel petto due
o tre volte. E non potendo né mangiar né dormire,
stavasi come uno smemorato, anzi pure spiritato, e
farneticando da ogn’ora non poteva pigliar né requie
né riposo. A la fine, essendo fatto il settimo dì dei
funerali di Fenicia e non li parendo più poter vivere
se al signor Timbreo non scopriva la sceleratezza che
fatta aveva, ne l’ora che ciascuno se n’andava a casa
per desinare andò verso il palazzo dei re ed incontrò
esso signor Timbreo che da la corte a l’albergo suo se
n’andava, al quale così il signor Girondo disse: – Si­
gnor Timbreo, egli non vi sia grave venir meco qui
presso per un mio servigio. – Egli, che il signor Giron­
do da compagno amava, seco se n’andò dì varie cose
ragionando. Onde in pochi passi vennero a la chiesa
ove il sepolcro di Fenicia era stato fatto. Quivi giunti,
comandò il signor Girondo ai servidori che nessun di
loro entrasse in chiesa, pregando il signor Timbreo
che altrettanto comandasse ai suoi. Il che egli fece di
subito. Entrarono dunque tutti dui soli in chiesa ne la
quale non era persona, ed il signor Girondo, inviatosi
a la cappella dove era la finta sepoltura, colà condus­
se il signor Timbreo. Come furono dentro, il signor
Girondo, inginocchiatosi innanzi a la sepoltura e sfo­
drato un pugnale che a lato aveva, quello così ignudo
diede in mano al signor Timbreo, che tutto pieno di
meraviglia attendeva che cosa fosse questa, e ancora
non s’era avvisto che sepoltura fosse quella innanzi a
cui il suo compagno s’era inginocchiato. Poi, pieno di
singhiozzi e di lagrime, così al signor Timbreo parlò:
– Magnanimo e gentil cavaliere, avendoti io per mio
giudicio infinitamente offeso, non sono venuto qui
per chiederti perdono, perciò che il mio fallo è tale
che non merita perdono.
Però se mai pensi far cosa degna del tuo valore, se
credi operar cavalierescamente, se desideri far ope­
ra accetta a Dio e grata al mondo, metti quel ferro che
in mano hai, in questo scelerato e traditor petto e
del mio vizioso ed abominevol sangue fa convenevol
sacrificio a queste santissime ossa de l’innocente e
sfortunata Fenicia, che in questo deposito fu questi
dì seppellita, imperò che de la sua indegna ed im­
matura morte io maliziosamente sono stato la sola
cagione. E se tu, più di me pietoso che io pur di me
stesso non sono, questo mi negherai, io con queste
mani quella vendetta di me prenderò che per me ul­
timamente si potrà. Ma se tu sarai quel vero e leal
cavaliere che fin qui sei stato, che mai una minima
ombra di macchia non volesti sofferire, di te e de la
sventurata Fenicia insiememente prenderai debita
vendetta. – Il signor Timbreo, avvistosi che quello
era il deposito del corpo de la bella Fenicia e sentite
le parole che il signor Girondo diceva, era quasi di se
stesso fuori non sapendosi imaginare che cosa fosse
questa, e pure, da non so che commosso, cominciò
amaramente a lagrimare, pregando il signor Giron­
do che in piè si levasse e più chiaramente dicesse
questa istoria; e con questo gettò via il pugnale lungi
da sé. Poi tanto fece e disse che il signor Girondo,
in piè levatosi, tuttavia piangendo, così gli rispose:
– Tu dei saper, signor mio, che Fenicia ardentissima­
mente fu da me amata e di tal modo che, se io cento
età campassi, mai più non spero trovar sostegno né
conforto, perciò che l’amor mio a la sgraziata fanciul­
la fu d’amarissima morte cagione. Ché, veggendo io
che da lei mai non potei aver una buona guardatura
né un minimo cenno a’ miei desiri conforme, quando
intesi che a te fu per moglie promessa, accecato dal
mio sfrenato appetito, m’imaginai che se io ritrovava
modo che tua moglie non divenisse, che di leggero
chiedendola poi io al padre l’averei sposata. Né po­
tendomi imaginar altro compenso al mio ferventissi­
mo amore e più innanzi non considerando, ordinai
una traina la più alta del mondo, e con inganno ti feci
veder uno andarle la notte in casa, il quale era uno
dei miei servidori. E colui che ti venne a parlare e
darti ad intendere che Fenicia aveva l’amor suo al­
trui donato, fu da me del tutto instrutto e sospinto
a farti l’ambasciata che ti fece. Onde fu il seguente
giorno Fenicia da te repudiata, e per tal repudio la
sfortunata se ne morì e qui fu sepellita. Il perché, es­
sendo io stato il beccaio, il manigoldo ed il crudel as­
sassino che tanto fieramente e te e lei ho offesi, con
le braccia in croce, – e alora di nuovo s’inginocchiò,
– ti supplico che de la commessa da me sceleraggine
tu voglia pigliar la condecente vendetta, imperò che
pensando di quanto scandalo sono stato cagione ho
il vivere a sdegno. – Queste cose udendo, il signor
Timbreo piangeva molto amaramente, e conoscendo
il già commesso errore esser irreparabile e che es­
sendo Fenicia morta non poteva più tornare in vita,
pensò non voler contra il signor Girondo incrudelire,
ma perdonandogli ogni fallo far che la fama fosse a
Fenicia reintegrata e resole l’onore che senza cagio­
ne le era con sì gran vituperio levato.
Volle adunque che il signor Girondo si levasse in pie­
de, a cui dopo molti caldi sospiri d’amarissime lagri­
me mischii, in tal forma parlò: – Quanto era meglio
per me, fratel mio, che io mai non fossi nasciuto o,
devendo pur venire al mondo, fossi nato sordo, a ciò
che mai non avessi udito cosa tanto a me noiosa e
grave, per la quale mai più non viverò lieto, pensan­
do che io per troppo credere abbia colei morta, il cui
amore e le singolari ed eccellenti vertuti e doti che
in quella il re del cielo aveva collocate, da me altro
guiderdone meritavano che infamia vituperosissima
e così immatura morte. Ma poi che così Iddio ha per­
messo, contra il cui volere non si muove in arbore
foglia, e che le cose passate più tosto si ponno ri­
prendere che emendare, io non intendo di te altra
vendetta prendere; ché, perdendo amico sovra ami­
co, sarebbe accrescere doglia a doglia, né per tutto
questo la benedetta anima di Fenicia ritornarebbe al
suo castissimo corpo che ha fatto il suo corso. D’una
cosa ti voglio ben riprendere a ciò che mai più in si­
mil errore non caschi.
E questo è che tu devevi scoprirmi il tuo amore, sa­
pendo che io ne era innamorato e nulla di te sape­
va, perciò che io, innanzi che al padre l’avessi fatta
richiedere, in questa amorosa impresa ti averei ce­
duto e, come sogliono fare i magnanimi e generosi
spiriti, me stesso vincendo, averei anteposto la no­
stra amicizia a l’appetito mio; e forse che tu, udite
le mie ragioni, ti saresti da questa impresa ritratto e
non sarebbe seguito lo scandalo che è successo. Ora
la cosa è fatta e rimedio non ci è a far che fatta non
sia. In questo vorrei bene che tu mi compiacessi e
facessi quanto ti dirò. – Comanda, signor mio, – disse
il signor Girondo, – ché il tutto senza eccezione farò.
Io vo’, – soggiunse il signor Timbreo, – che essendo
da noi Fenicia stata a torto per bagascia incolpata,
che noi quanto per tutti dui si potrà le restituiamo la
fama e le rendiamo il debito onore, prima appo gli
sconsolati suoi parenti, dapoi appo tutti i messinesi,
perciò che, divolgatosi quanto io le feci dire, può di
leggero tutta la città credere ch’ella fosse una putta.
Altrimenti a me di continovo parrebbe aver dinanzi
agli occhi l’adirata ombra di lei, che fieramente con­
tra me vendetta a Dio sempre gridasse. – A questo
piangendo il signor Girondo subito rispose: – A te,
signore, appartiene il comandare ed a me l’ubidire.
Io prima per amicizia ti era congiunto; ora per l’ingiu­
ria che fatta ti ho, e che tu come troppo pietoso e leal
cavaliere, a me perfido e villano così cortesemente
perdoni, ti resto eternamente servidore e schiavo.
– Dette queste parole, ambidui amaramente pian­
gendo s’inginocchiarono innanzi a la sepoltura, e con
le braccia in croce umilmente, l’uno de la scelerag­
gine fatta e l’altro de la troppa credulità, a Fenicia
e a Dio domandarono perdono. Dapoi, rasciugati gli
occhi, volle il signor Timbreo che a casa di messer
Lionato il signor Girondo seco n’andasse. Andarono
adunque di brigata a la casa e trovarono che messer
Lionato, che insieme con alcuni suoi parenti aveva
desinato, si levava da tavola; il quale, come udì che
questi dui cavalieri gli volevano parlare, tutto pieno
di meraviglia si fece loro incontro e disse che fosse­
ro i benvenuti. I dui cavalieri, come videro messer
Lionato con la moglie vestiti di nero, per la crudel
rimembranza de la morte di Fenicia cominciarono a
piangere e a pena potevano parlare. Ora, fatto recar
duo scanni e tutti postosi a sedere, dopo alcuni so­
spiri e singhiozzi il signore Timbreo, a la presenza di
quanti quivi erano, narrò la dolorosa istoria cagione
de l’acerbissima ed immatura morte, come credeva,
di Fenicia, e insieme col signor Girondo si gettò a ter­
ra, chiedendo al padre e a la madre di lei di così fatta
sceleratezza perdono. Messer Lionato di tenerezza
e di gioia piangendo, ambidui amorevolmente ab­
bracciando, perdonò loro ogni ingiuria, ringraziando
Iddio che sua figliuola fosse conosciuta innocente. Il
signor Timbreo, dopo molti ragionamenti, a messer
Lionato rivolto gli disse: – Signor padre, poi che la
mala sorte non ha voluto che io vi resti genero, come
era il mio sommo disio, vi prego quanto più posso
astringo, che di me e de le cose mie vogliate preva­
lervi come se il parentado fosse tra noi seguito, per­
ciò che sempre vi averò in quella riverenza ed osser­
vanza che amorevole obediente figliuolo deve avere
al padre. E se degnarete comandarmi, trovarete che
l’opere mie saranno conformi a le mia parole, perciò
che io non so certamente cosa al mondo, quantun­
que difficile, che io per voi non facessi. – A questo il
buon vecchio ringraziò con amorevoli parole il signor
Timbreo; in fine gli disse: – Poi che sì largamente tan­
te cortese offerte mi fate e che fortuna avversa m’ha
fatto indegno de la vostra affinità, una cosa piglierò
ardire di supplicarvi, la quale a voi sarà facile a fare,
e quest’è che io vi prego per quella lealtà che in voi
regna e per quanto amore mai portaste a la poverel­
la Fenicia, che quando vorrete pigliar moglie sarete
contento farmelo intendere e, dandovi io donna che
vi piaccia, quella prenderete. – Parendo al signor
Timbreo che lo sconsolato vecchio picciola ricom­
pensa di tanta perdita quanta fatta aveva chiedesse,
porgendogli la mano ed in bocca basciatolo così gli
rispose: – Signor padre, poiché così leggera cosa mi
ricercate, essendovi io di molto maggior ubligato e
desiderando farvi conoscere quanto io desideri far­
vi cosa grata, non solamente non prenderò donna
senza saputa vostra, ma quella sola sposerò che voi
mi consigliarete e darete. E così su la fede mia a la
presenza di tutti questi signori gentiluomini vi pro­
metto. – Fece medesimamente il signor Girondo le
belle parole a messer Lionato, offerendosi sempre
prontissimo a’ suoi piaceri.
Fatto questo, i dui cavalieri andarono a desinare e
la cosa come era per Messina si sparse, in modo che
appo tutti fu chiaro Fenicia indegnamente essere
stata incolpata.
Similmente quel dì istesso fu Fenicia dal padre per
un messo a posta avvisata di quanto era occorso. Del
che ella fece meravigliosa festa e divotamente Iddio
ringraziò del ricuperato onore. Ora era passato circa
un anno che Fenicia stava in villa, ove sì bene andò
la bisogna che mai nessuno seppe che fosse viva. Tra
questo mezzo il signor Timbreo tenne stretta prati­
ca con messer Lionato, il quale, avvisata Fenicia di
quanto intendeva fare, metteva ad ordine le cose
al suo proposito pertinenti; ed in questo tempo Fe­
nicia oltra ogni credenza era divenuta bellissima e
aveva compiti i dicesette anni di sua età, e in modo
era cresciuta che chi veduta l’avesse non l’averebbe
mai per Fenicia conosciuta, massimamente tenendo
quella già esser morta. La sorella che seco stava, ed
era di circa quindeci anni e Belfiore aveva nome, pa­
reva proprio un bellissimo fiore, di maniera che poco
meno beltà dimostrava de la sorella sua maggiore. Il
che veggendo, messer Lionato, che sovente le anda­
va a vedere, deliberò non tardare più di metter ad
effetto il suo pensiero.
Onde, essendo un dì in compagnia dei dui cavalieri,
disse sorridendo al signor Timbreo: – Tempo è og­
gimai, signor mio, che de l’obbligo che voi, la vostra
mercè, meco avete vi scioglia. Io penso avervi trova­
ta per moglie una giovane gentilissima e bella, de la
quale, secondo il parer mio, quando l’averete vista
vi contentarete.
E se forse con tanto amore non sarà da voi presa con
quanto eravate per sposar Fenicia, di questo v’assi­
curo ben io che minor beltà, minor nobiltà e minor
gentilezza voi non pigliarete. De l’altre donnesche
doti e gentilissimi costumi ella, la Dio mercè, ne è
abondevolmente fornita ed ornata. Voi la vederete
poi sarà in libertà vostra far tutto quello che a vostro
profitto vi parrà. Domenica matina io ne verrò a l’al­
bergo vostro con quella compagnia che tra parenti e
amici miei sceglierò, e voi insieme col signor Girondo
sarete ad ordine, per ciò che conviene che andiamo
fuor di Messina circa a tre miglia, ad una villa ove udi­
remo messa, e poi si vederà la giovane di cui v’ho
parlato e di brigata desinaremo.
– Accettò l’invito e l’ordine dato il signor Timbreo e
la domenica col signor Girondo a buon’ora si mise a
l’ordine per cavalcare. Ed ecco messer Lionato arri­
vare con una squadra di gentiluomini, che già in villa
aveva fatto ogni cosa necessaria onoratamente appa­
recchiare.
Come il signor Timbreo fu avvertito del venir di mes­
ser Lionato, egli col signor Girondo e servidori a ca­
vallo salì, e dato il buon dì e ricevuto, tutti di brigata
di Messina se ne uscirono. E, come in simil cavalcate
avviene, di diverse cose ragionando giunsero a la vil­
la che non se ne accorsero, ove furono onoratamente
raccolti.
Quivi udirono messa in una chiesa a la casa vicina.
Finita la messa tutti si ridussero in sala, che era di
razzi alessandrini e tapeti onoratamente apparata.
Come furono tutti in Sala, eccoti che d’una camera
uscirono molte gentildonne tra le quali era Fenicia
con Belfiore, e proprio pareva Fenicia la luna quando
nel ciel sereno più splende tra le stelle. I dui signori
con gli altri gentiluomini le raccolsero con riverente
accoglienza, come sempre ogni gentiluomo deve con
le donne fare. Messer Lionato alora, preso per mano
il signor Timbreo ed a Fenicia accostatosi, la quale
Lucilla sempre si era chiamata dapoi che in villa fu
condotta: – Ecco, signor cavaliero, – disse, – la signo­
ra Lucilla, la quale io vi ho scelta per darvi per moglie
quando vi piaccia. E se al mio parer vi atterrete ella
sarà vostra sposa. Nondimeno voi sète in vostra liber­
tà, di pigliarla o lasciarla. – Il signor Timbreo, veduta
la giovane che nel vero era bellissima, ed essendogli
su la prima vista meravigliosamente piacciuta, aven­
do già deliberato di sodisfare a messer Lionato, stato
un poco sovra di sé, così disse: – Signor padre, non
questa che ora mi presentate, che mi pare una real
giovane, accetto, ma ogn’altra che da voi mi fosse
stata mostrata averei io accettato. E a ciò che veggia­
te quanto son desideroso di sodisfarvi e conosciate
che la promessa che io vi feci non è vana, questa e
non altra piglio io per mia legittima sposa, essendo
però il suo voler al mio conforme. – A queste parole
rispose la giovane e disse: – Signor cavaliero, io sono
qui presta a far tutto quello che da messer Lionato
mi sarà detto. – Ed io, – soggiunse messer Lionato,
– bella giovane, vi essorto a pigliar il signor Timbreo
per marito. – Onde, per non dar più indugio a la cosa,
fu fatto cenno a un dottore che ivi era che dicesse le
consuete parole secondo l’uso de la santa Chiesa. Il
che saggiamente messer lo dottore facendo, il signor
Timbreo per parole di presente sposò la sua Fenicia,
credendo una Lucilla sposare. Esso signor Timbreo,
come prima vide la giovarle uscir di camera, così in­
torno al core sentì un certo non so che parendogli
nel viso di quella scernere alcune fattezze de la sua
Fenicia, e non si poteva saziar di mirarla di modo che
l’amore che a Fenicia aveva portato sentì tutto a que­
sta nuova giovane voltarsi.
Fatto questo sponsalizio, si diede subito l’acqua a
le mani, In capo di tavola fu messa la sposa. Da la
banda destra appo lei fu assiso il signor Timbreo, per
scontro a cui sedeva Belfiore, dietro la quale seguiva
il cavalier Girondo.
E così di mano in mano furono posti un uomo ed una
donna a sedere. I cibi vennero dilicati e con bellis­
simo ordine, e tutto il convito fu sontuoso e quieto
e gentilmente servito. I ragionamenti, i motti e mille
altri trastulli non mancarono. A la fine, recate quel­
le frutte che la stagione concedeva, la zia di Fenicia,
che in villa cori lei era per la maggior parte de l’an­
no dimorata e che appo il signor Timbreo a mensa
sedeva, veggendo che il desinar si finiva, come se
nulla mai dei casi occorsi avesse sentito, così festeg­
gevolmente al signor Timbreo disse: – Signor sposo,
aveste voi mai moglie? Egli da sì fatta madrona do­
mandato si sentì colmar gli occhi di lagrime, le quali
prima caddero ch’egli potesse rispondere. Pure vin­
cendo la tenerezza de la natura, di questa maniera
rispose: – Signora zia, la vostra umanissima domanda
mi riduce a la mente una cosa che sempre ho in core,
e per la quale io credo tosto finire i giorni miei. E ben
che io de la signora Lucilla mi truovo contentissimo,
nondimeno per un altra che amai, e così morta amo
più che me stesso, mi sento di continovo un doloroso
verme intorno al core, che a poco a poco mi va roden­
do e fieramente mi tormenta, con ciò sia cosa che io
fui de la sua acerbissima morte, contra ogni debito,
sola cagione. – A queste parole il signor Girondo vo­
lendo rispondere ed essendo da mille singhiozzi e
da le abondanti lagrime che a filo a filo cadevano im­
pedito, pur a la fine con parole mezze mozze disse:
– Io, signore, io disleale, fui pur il ministro e il mani­
goldo de la morte de la infelicissima giovane, che era
degna per le sue rare doti viver più lungamente che
non ha fatto, e tu non ci avesti colpa alcuna, ché tutta
la colpa fu mia. – In questi ragionamenti, a la sposa
cominciarono altresì empirsi gli occhi di lagrimosa
pioggia, per la fiera rimembranza dei passati cordo­
gli che sofferti amaramente aveva. Seguitò poi la zia
de la sposa e domandò con queste parole al nipo­
te: – Deh, signor cavaliero, per cortesia, ora che altro
non ci è che ragionare, ditemi come avvenne questa
novella, de la quale voi e quest’altro gentiluomo sì
teneramente ancora lagrimate.
– Oimè, – rispose il signor Timbreo, – voi volete,
signora zia, che io rinnovelli il più disperato e fiero
dolore che mai da me fosse sofferto e che solo pen­
sando mi dispolpi e strugga. Ma per compiacervi
con mia eterna doglia e poco onore, ché fui troppo
credulo, il tutto vi dirò. – Cominciò adunque egli, e
dal principio a la fine non senza caldissime lagrime,
e con grandissima pietà e meraviglia degli ascoltan­
ti, tutta la miserabil istoria narrò. Soggiunse alora la
madrona: – Meravigliosa e crudel novella mi narrate,
signor cavaliero, a cui simile forse mai più al mon­
do non avvenne. Ma ditemi, se Dio vi aiuti, se in­
nanzi che questa qui vi fosse stata data per moglie
voi avessi potuto suscitar la vostra innamorata, che
avereste voi fatto per poterla riaver viva ? – li signor
Timbreo, tuttavia piangendo, disse: – Giuro a Dio,
signora mia, che io di questa mia sposa mi ritrovo
molto ben sodisfatto e spero a la giornata di meglio.
Ma se prima avessi potuto ricomperare la morta, io
averei dato la metà degli anni miei per riaverla, oltra
il tesoro che speso ci averei, perciò che veramente
io l’amava quanto da uomo che sia si possa donna
amare, e s’io mille e mille anni campassi, così mor­
ta com’è sempre l’amerò, e per amor di lei sempre
averò in riverenza quanti ci sono dei suoi parenti. – A
questo, non potendo più il consolato padre di Feni­
cia celar l’allegrezza che aveva, al genero rivoltato,
di soverchia dolcezza e tenerezza di core piangendo,
disse: – Mal dimostrate, signor figliuolo e genero che
così vi debbo appellare, con effetti quello che con
la bocca parlate, imperciò che, avendo voi la vostra
tanto amata Fenicia sposato e tutta matina statole
appresso, ancora non la conoscete. Ove è ito cote­
sto vostro così fervido amore? Ha ella così cangiato
forma, sono in tanto le fattezze sue così cangiate, che
avendola appresso non la riconosciate? – Alora alora
a queste parole s’apersero gli occhi de l’amoroso ca­
valiere, e gettatosi al collo de la sua Fenicia, quella
mille fiate basciando e di gioia infinita colmo, senza
fine con fisi occhi mirava, e tuttavia dolcemente pian­
geva senza mai poter formar parola, chiamandosi tra
se stesso ceco. Narrato poi da messer Lionato come
il caso era successo, restarono tutti d’estrema mera­
viglia ed insiememente molto allegri. Il signor Giron­
do alora, levatosi da tavola, fortemente piangendo
si gettò a’ piedi di Fenicia domandandole con ogni
umiltà perdono. Ella subito umanamente il raccolse
e con amorevoli parole gli rimise l’ingiurie passate.
Al suo sposo poi rivolta che del fallo commesso si
accusava, quello con dolcissime parole pregò che
più di simil pratica non le ragionasse, perciò che non
avendo egli fallito non le deveva a modo alcuno chie­
der perdonanza. E quivi, l’uno l’altro basciando e di
gioia piangendo, bevevano le lor calde lacrime tutti
pieni di estremo contento. Ora, mentre che ciascuno
dimorava in grandissimo piacere e che si preparava
di carolare e star in festa, il cavalier Girondo a mes­
ser Lionato accostatosi, che pieno di gioia pareva che
coi diti toccasse il cielo, quello pregò che degnasse
di farli una grandissima grazia, che a lui sarebbe di
meravigliosa contentezza cagione.
Messer Lionato gli rispose che chiedesse, perciò che
se era cosa che egli far potesse che molto volentieri
e di grado la farebbe. – Ed io, – soggiunse il signor
Girondo, – domando voi, signor Lionato, per suoce­
ro e padre, la signora Fenicia ed il signor Timbreo
per cognati, e la signora Belfiore, che è qui, per mia
legitima ed amorevole consorte. – Il buon padre,
sentendo accumularsi nuova gioia e quasi fuor di
sé per tanta non sperata consolazione, non sapeva
se sognava o pur era vero ciò che udiva e vedeva.
E parendogli pure che non dormisse, ringraziò di
core Iddio che tanto altamente il guiderdonava non
l’avendo egli meritato, ed al signor Girondo rivolto
umanamente rispose che era contento di quello che
a lui piaceva. Onde in quello stante chiamata a sé
Belfiore: – Tu vedi, figliola, – disse, – come la cosa
va. Questo signor cavaliere ti ricerca per moglie; se
tu vuoi lui per marito, io ne sarò contentissimo, e tu
per ogni ragione far lo déi; sì che dinne liberamente
il tuo volere. – La bella figliuola tutta tremante, con
sommessa voce vergognosamente al padre rispose
che era presta per far quanto egli volesse. Onde, per
non dar indugio a la cosa, il signor Girondo di con­
sentimento di tutti i parenti, con le debite cerimonie
de le consuete parole, diede l’anello a la bellissima
Belfiore. Del che infinita fu la contentezza di messer
Lionato e di tutti i suoi. E perciò che il signor Tim­
breo aveva la sua cara Fenicia sotto nome di Lucilla
sposata, quella alora solennemente sotto il nome di
Fenicia di nuovo sposò. Così tutto il giorno in balli e
piaceri si consumò. Era la bella e gentilissima Feni­
cia vestita d’una veste di finissimo damasco bianco
come pura neve, con tiri certo abbigliamento in capo
che faceva mirabil vedere. Ella era convenevolmente
grande, per l’età che aveva, e assai bene in carne,
tuttavia crescendo, come quella che giovanetta era.
Il petto sotto il sottile e nobilissimo drappo di finis­
sima seta alquanto rilevato si mostrava, spingendo
in fuori la forma di duo pomi rotondi, l’uno da l’al­
tro condecentemente separati. Chi il vago colore del
volto vedeva, vedeva una piacevole e pura bian­
chezza di condecevole e vergineo rossore sparsa; la
quale non l’arte, ma la maestra natura, e più e meno
secondo i varii avvenimenti ed atti, d’ostro dipin­
geva. Il rilevato petto pareva una piacevolissima e
quasi viva massa d’alabastro candido e schietto, con
la gola ritondetta che di neve sembrava. Ma chi la
soavissima bocca, quando le dolci parole formava,
aprirsi e serrarsi vedeva, egli certamente poteva dire
che aveva veduto aperto un museo inestimabile, di
finissimi rubini cinto e pieno di perle orientali, le più
ricche e le più belle che mai l’odorato Oriente a noi
mandasse. Se poi vedevi quei dui begli occhi, anzi
due fulgentissime stelle, anzi pur duo folgoranti soli,
quando ella maestrevolmente quinci e quindi gli gi­
rava, tu potevi ben giurare che dentro a quei placi­
dissimi lumi albergava Amore e che in quel chiarissi­
mo splendore affinava i suoi pungenti strali; e quanto
bene campeggiavano le chiome inanellate e sparte,
che sovra la pura e spaziosa fronte scherzanti pare­
vano proprio fila di terzo e biondo oro, che al dolce
soffiar d’una picciola aura lascivamente si girassero!
Erano le braccia di giusta misura, con due bellissime
mani sì proporzionata mente fatte, che l’invidia non
ci trovarebbe che emendarle. Ed insomma tutta la
persona era vaga e snella, e così gentilmente da la
natura formata, che niente le mancava. Ella poi così
a tempo e tanto gaiamente, secondo gli accidenti, or
parte or tutta la persona moveva, che ogni suo atto,
ogni cenno ed ogni movimento era pieno d’infinita
grazia, e pareva che a viva forza i cori dei riguardanti
involasse. Onde chi Fenicia la disse non si discostò
punto dal vero, perciò che ella era una fenice che tut­
te l’altre giovani di gran lunga di bellezza avanzava.
Né ancora men bella presenza dimostrava Belfiore,
se non che essendo più fanciulla, tanta maiestate e
tanta grazia negli atti e movimenti suoi non aveva.
Ora si stette tutto quel dì in gioia ed in festa, e i dui
sposi non si potevano saziare di mirare e goder par­
lando le lor donne.
Ma il signor Timbreo era quello che fuor di modo
gioiva, e quasi a se stesso non credeva esser là dove
era, dubitando non s’insognare, o forse che questo
non fosse qualche incantamento fatto per arte magi­
ca. Finito quel giorno e venuto il dì seguente, s’ap­
parecchiarono per ritornarsene a Messina e quivi far
le nozze con quella solennità che al grado dei dui
signori apparteneva. Essi signori sposi prima per
messi a posta avevano del successo loro avvisato
un loro amico, molto del re domestico, e a lui com­
messo quanto desideravano che egli facesse. Questi
il di medesimo ne andò a far riverenza al re Piero a
nome dei dui cavalieri, e a quello narrò tutta l’istoria
de l’amore dei dui cavalieri e quanto dal principio a
la fine era successo. Di che il re mostrò non piccio­
la allegrezza. E fatta chiamar la reina, volle che colui
intieramente un’altra volta a la presenza di lei tutta
l’istoria narrasse. Il che egli puntalmente fece con
grandissima sodisfazione e non piccola ammirazione
de la reina, che, sentendo il pietoso caso avvenuto a
Fenicia, fu astretta per pietà de la giovane a lagrima­
re. Ora, perciò che a quei tempi nel re Piero più che
in tutti gli altri prencipi regnava liberal cortesia, ed
era quello che meglio sapeva rimeritar chiunque il
valeva, e la reina altresì era cortese e gentilissima, il
re a quella aperse l’animo suo e quanto far intendeva
le disse. La reina, udendo così magnifica delibera­
zione, assai commendò il parere la volontà del suo
marito e signore. Il perché, fatto condiligenza metter
in ordine tutta la corte e fatti invitar tutti i gentiluo­
mini e le gentildonne di Messina, ordinò alora il re
che tutti i più onorati baroni di corte con infinita com­
pagnia d’altri cavalieri e gentiluomini, sotto la cura
e governo de l’infante don Giacomo Dongiavo, che
era il suo primogenito, andassero fuor di Messina ad
incontrar le due sorelle spose. Onde, essendo il tut­
to alora con bellissimo ordine essequito, cavalcarono
fuor de la città, e non andarono un miglio che incon­
trarono le due spose, che con i mariti loro ed altre
assai persone verso Messina allegramente venivano.
Come furono appresso, l’infante don Giacomo fece
rimontar i cavalieri ch’erano a farli riverenza smonta­
ti, e seco e con le belle sorelle per nome del padre
cortesemente del loro sponsalizio si rallegrò, ed egli
fu da tutti con somma riverenza raccolto.
L’accoglienze poi di tutti i cortegiani, e degli altri de
la compagnia che da Messina veniva, ai dui sposi e a
le spose furono non meno gentili che grate. E così i
dui cavalieri e le mogli loro tutti onestamente ringra­
ziarono, ma sovra tutto a l’infante don Giacomo rese­
ro quelle grazie che per loro si poterono le maggiori.
Di brigata poi s’inviarono verso la città favoleggiando
e scherzando come in simili allegrezze si suole. Don
Giacomo con piacevoli motti intertenne gran pezza
ora la signora Fenicia ed ora la signora Belfiore. Il re,
a punto per punto avvisato, quando tempo gli parve,
montato a cavallo con la reina e con onorata compa­
gnia d’uomini e di donne, a l’entrare de la città ri­
scontrò la bella schiera che arrivava.
Ed essendo già ciascuno smontato a far riverenza al
re ed a la reina, furono tutti graziosamente ricevuti.
Volse poi il re che tutti rimontassero ed egli si pose
in mezzo di messer Lionato e del signor Timbreo.
Madama la reina si pose a destra la bella Fenicia e a
la sinistra Belfiore.
L’infante don Giacomo si mise a paro a signor Giron­
do.
Fecero il medesimo tutti gli altri gentiluomini e gen­
tildonne, venendo tutti di mano in mano con bellissi­
mo ordine, e verso il real palazzo, volendo così il re,
tutti se n’andarono. Quivi sontuosamente si desinò e
dopo il mangiare, per comandamento del re, a la pre­
senza di tutto il convito, il signor Timbreo narrò tutta
l’istoria del suo amore. Cominciarono, fatto questo, a
ballare, e tutta la settimana il re tenne corte bandita,
volendo che ciascuno in quei dì mangiasse al palazzo
reale. Finite le feste, il re chiamò a sé messer Lionato
e gli domandò che dote era quella che aveva a le fi­
gliuole promessa e che modo aveva di darla. Messer
Lionato al re rispose che de le doti niente mai s’era
favellato e che egli quella onesta dote darebbe loro
che le sue facultà patissero.
Disse alora il re: – Noi vogliamo dare a le vostre fi­
gliuole quella dote che a noi parrà che a loro ed ai
miei cavalieri convenga, e non vogliamo che di più
spesa elle vi siano per l’avvenire in conto alcuno. – E
così il liberalissimo re, con singular commendazione
non solamente di tutti i siciliani ma di chiunque l’in­
tese, fattisi chiamare i dui sposi e le loro mogli, volle
che tutti solennemente a quanto mai potessero pre­
tendere di dover avere de la roba di messer Lionato
renunziassero, ed a questo egli interpose il decreto
regio che ogni atto di tal renunzia confermava. Dapoi
senza intervallo, non come figliuole d’un suo cittadi­
no ma quasi come sue, le dotò onoratissimamente,
e ai divi sposi accrebbe la pensione che da lui ave­
vano. La reina, non meno del re magnifica, genero­
sa e liberale, volle che le due spose fossero donne
de la sua corte e le ordinò su alcuni suoi dazii una
riccia provigione per ogni anno, e sempre le tenne
care. Elle, che nel vero erano gentilissime, di modo
si diportarono che in breve ebbero la grazia di quanti
erano in corte.
Fu anco dato dal re a messer Lionato un ufficio in
Messina molto onorevole, del quale egli traeva non
picciolo profitto. E vedendosi egli già attempato,
fece di modo che il re lo confermò ad un suo figliuo­
lo. Così adunque avvenne al signor Timbreo del suo
onestissimo amore, ed il male che il signor Girondo
tentò di fare, in bene se gli converti, e tutti dui da­
poi lungamente le lor donne goderono vivendo in
grandissima pace, spesse fiate tra loro rammentando
con piacere gli infortunii a la bella Fenicia avvenuti.
Esso signor Timbreo fu il primo che in Sicilia fondò
la nobilissima schiatta dei signori de la casa di Car­
dona, dei quali oggidì e in Sicilia nel regno di Napoli
molti uomini ci serio di non poca stima. In Spagna
medesimamente fiorisce questo nobilissimo sangue
di Cardona, producendo uomini che da li avoli loro
punto non tralignano così ne l’arme come ne la toga.
Ma che dirò io dei dui nobilissimi fratelli don Pietro
e don Giovanni di Cardona, valorosi nel vero ed ec­
cellenti signori e guerrieri? Veggio esser qui presenti
alcuni di voi che conosciuto avete il signor don Pie­
tro conte di Colisano e gran contestabile ed amirante
di Sicilia, il quale tanto il signor Prospero Colonna,
uomo incomparabile, onorava ed il saggio conseglio
di quello apprezzava. E certamente che il conte di
Colisano era uomo singolarissimo.
Morì egli nel fitto d’arme che si fece a la Bicocca, con
general dolore di tutta Lombardia. Ma don Giovanni
suo fratello, marchese de la Palude, molto innanzi,
sotto Ravenna ne la giornata che tra francesi e spa­
gnoli si fece, valorosamente diportandosi fu ammaz­
zato. Ora io, non m’avveggendo, era trascorso in luo­
go di novellare a far panegirici.
il bandello al magnifico cugino carissimo messer
giacomo francesco bandello Sì come chiaramente è
noto, la terra nostra di Castelnuovo è posta non mol­
to lontano da le radici de l’Apennino, a la foce ove
Schirmia scarca le sue per l’ordinario limpidissime
acque in Po. Quivi è l’aria tanto temperata quanto
in altro luogo di Lombardia. Del che fanno fede am­
plissima i molti uomini vecchi che vi si truovano e la
sanità che di continuo vi persevera, perciò che molto
di rado suol avvenire che straordinarie infermità vi
regnino.
E, tra l’altre, non ci è memoria che in nessuno di quel­
la patria mai si ritrovasse gotta, se forse altrove non
sono andati ad abitare. Io mi ricordo, quando era fan­
ciullo, che per miracolo vedeva messer Pietro Gras­
so, il qual, essendo nato di madre milanese a Milano
ed in Milano nodrito, ne la sua vecchiezza venne a
fare il rimanente de la sua vita a Castelnuovo, così
mal concio de la gotta, che non poteva andare né aiu­
tarsi de le mani, ma se ne stava sempre a sedere; e
conveniva che dai servidori in qua ed in là fosse por­
tato, perciò che aveva i piedi gonfi, stravolti e da le
gomme nodose resi assiderati ed attratti, e le mani in
modo guaste ed i nodi de le dita di sorte aggroppati
e fatti gonfi, che parevano carchi di nespole.
Da l’altra parte poi, tra i molti vecchi che ci erano, i
quali o arrivavano ai cento anni o gli passavano, io
vedeva ogni giorno Giacomo de la famiglia dei Se­
condi, che, per quello che egli ed altri affermavano,
passava cento quindici anni, e nondimeno era la sua
vecchiezza sì forte e prospera, che per tutto camina­
va assai dritto de la persona e con la sua vista ancora
chiara ed acuta.
Ora io, che mi dilettava di fuggir il disagio più che io
poteva ed imitare le grui e le cicogne, soleva, come
più in destro mi veniva, nel tempo de la state andare
o in Valtellina a goder que’ freschi di Caspano e dei
Bagni del Masino, o vero mi riduceva a Castelnuo­
vo ne le case di mio padre, ove di luglio le notti sì
fresche erano che io, che altrove a quei tempi non
poteva lenzuolo sopra di me soffrire, quivi tutta la
notte dormiva con una buona coperta a dosso, ed il
giorno in una saletta terrena senza sentir caldo quel
noioso tempo trapassava, avendo sempre compa­
gnia d’amici nostri e di parenti. Avvenne che mes­
ser Gian Guglielmo Grasso, uomo costumatissimo e
molto letterato e che de la lingua volgare si diletta,
mi diede un giorno desinare in casa sua, presso la
chiesa dei Serri, ore si trovarono altri di compagnia.
Passato il desinare, s’entrò a dire de la guerra civi­
le che ai tempi degli avoli nostri fu tra i dertonesi
e loro, per cagione de l’acque del ruscello che fa il
molino di Gualdonasce, e da questo ragionamento
si travarcò a ragionar de la fondazione de la patria
nostra, essendoci chi voleva che l’origine sua da’ goti
venisse, ed altri affermano che da’ longobardi fosse
stata fondata. Io alora dissi quanto me n’occorreva.
Onde si conchiuse che gli ostrogoti insieme con una
banda di soldati romani che nel principio del regno
di Teodorico sotto di lui militarono prima che egli a
Roma levasse l’armi, furono quelli che Castelnuovo
fondarono. Dopo questo, cominciandosi ad investi­
gare quali fossero le famiglie discese dai romani e
quali quelle che vennero dagli ostrogoti, e dicendo,
e chi una e chi un’altra, messer Bonifazio Grasso, fra­
tello di messer Gian Guglielmo, interrompendo il
parlare, narrò una novella accaduta nel principio de
la edificazione de la detta nostra patria, la quale fa
generalmente da tutti commendata per l’astuzia che
usò una fanciulla in uccellar la sua nutrice a ciò che
non si scoprisse il suo amore.
Io, ritornato a casa, essa novella scrissi e posi appres­
so l’altre già da me scritte. E a questi dì, rivolgendo
le reliquie dei miei libri e scritti che da la preda che
fecero i soldati spagnuoli ne la mia libraria mi sono
rimasi, mi venne tra l’altre cose a le mani questa no­
vella, la quale, volendo io secondo che le truovo ri­
durre in un colpo insieme, m’è parso di donarvi que­
sta sotto la tutela del vostro nome, portando ferma
openione che, come disse messer Bonifazio, il giovi­
ne del qual si parla in essa novella fosse quello che
diede origine a la nostra famiglia.
Non è adunque da meravigliarsi se la maggior parte
degli uomini del nostro legnaggio così sovente e così
volentieri si lasciano ne l’amor de le donne irretire,
poi che il capo del ceppo nostro fu sì amoroso e a le
passioni d’amore soggetto. E nel vero questa amoro­
sa passione è tanto piacevole, tanto dolce, tanto di­
lettevole e tanto per l’ordinario radicata negli animi
degli uomini gentili, che non val forza, non sapere,
non santità, né qual altro ingegno sia al mondo per
potersene guardare. Di’ più poi, se per sorte s’appi­
glia in rozzo core e di basso sangue, è tanto il valore
e poter suo, che quel core innalza, purga e trasforma
in altre qualità e lo rende nobilissimo, come già più
e più volte per prova s’è veduto. Resterà adunque
questa novella eternamente sotto il nostro nome, se
tanto gli scritti miei dureranno, i quali io pure scrissi a
ciò che perpetuamente durassero. Vi dirò ciò che ora
mi sovviene. Devete sapere che nel martirologio ec­
clesiastico si legge che del mese d’aprile a Nemausio
in Francia, che ora Nimis si appella, fu martirizzato
per la fede san Bandello goto. Il che mi fa credere
questo nome Bandello esser stato antico la nazione
dei goti. State sano.
Torquato Tasso
È stata sottolineata la peculiare coincidenza in Torquato Tasso del poeta e del
teorico della poesia, sì che è stata possibile un’efficace lettura della Gerusalemme
liberata alla luce dei Discorsi dell’arte poetica e in particolare del poema eroico scritti verso il
1562 e pubblicati quasi tren­t’anni dopo. Questo permette di soffermarsi sui soli
Discorsi, senza che l’assenza del poema costituisca un vero e proprio ostacolo alla
com­prensione del suo pensiero sulla comunicazione letteraria. Dei Discorsi il nume
tutelare è in maniera pressoché esclusiva Aristotele, dalla cui Poetica Tasso assume
l’idea che la letteratura, e in definitiva il poema eroico, sia determinata come tale
dalla trama: è la trama che offre il diletto ed insieme l’insegnamento che sono il
fine della letteratura. Passano così in secondo piano il ruolo dell’artificio verbale
e quello dell’estetica delle immagini delle descrizioni delle raffigurazioni.
Per altro l’avanzare in primo piano della vicenda comportò in Tasso
l’enfatizzazione dell’aristotelico verosimile sino a diventare un valore da giudicare
a sé stante, non solo cioè all’interno del poema, ma come valore assoluto:
« dovendo l’epico cercare in ogni parte verisimile […], non è verisimile ch’una
azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta e passata
a la memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria. I successi grandi non possono
esser incogniti; e ove non siano ricevuti in iscrittura, da questo solo argomentano
gli uomini la loro falsità ». La falsità della materia non resta senza influenza sul
risultato finale dell’opera d’arte, giacché una vicenda ritenuta falsa non può non
attirare la disistima del lettore e dell’ascoltatore, i quali non potranno ricevere
quel diletto e quell’insegnamento che il poema deve comunque perseguire.
Risulterà, invece, facile al poeta che attinge alla storia commuovere e persuadere
visto che potrà avvalersi dell’autorità di questa.
Fissata una volta per tutte l’idea che la materia del poema epico debba essere
storicamente provabile, conseguiva l’opportunità, ma per Tasso è la necessità,
che anche l’ornamento meraviglioso del racconto fosse veritiero. Ora, poiché
l’esperienza mostra come le meraviglie muovono non solo l’animo delle persone
ignoranti, ma anche quello dei più dotti, la letteratura poematica del tempo – alla
mente soccorre subito l’Orlando furioso – è piena di anelli incantati, di cavalli e
cavalieri volanti, di fantasmi che combattono tra loro: il poeta che vuole avere
successo non può non « condire » con simili trovate il suo lavoro; tuttavia nel
momento in cui si rivolge a forze soprannaturali, o dèi pagani finisce per togliere
credibilità alla sua opera: anzi quegli orna­menti rendono « freddo ed insipido e di
nissuna virtù » il poema. Insomma sembra oggi esista una sorta di contraddizione
tra il verosi­mile e il meraviglioso nella scrittura poematica, tant’è che sono state
proposte soluzioni inaccettabili d’alternanza – il poema dev’essere ora verosimile,
ora meraviglioso – ed addirittura d’esclusione completa dell’una o dell’altra delle
componenti.
Ribadito che « il verisimile non è una di quelle condizioni richieste nella poesia
a maggior sua bellezza ed ornamento, ma è propria ed intrinseca dell’essenza sua,
ed in ogni sua parte sovra ogn’altra cosa necessaria », Tasso offriva la soluzione
nella cristianizzazione del mera­viglioso: gli eventi che trascendo la natura si
attribuiscano a Dio ai dèmoni agli angeli, e a coloro, come i maghi e le fate, ai
quali Dio e Satana hanno concesso poteri straordinari. Onde l’altro punto fermo
dei Discorsi: « l’argumento dell’epico debba esser tratto da istoria non gentile, ma
cristiana od ebrea ». Tanto più che il poema che abbia una simile materia acquista
dal punto di vista formale caratteri di « gran­dezza », « dignità » e « maestà »; e
dal punto di vista del conseguimento del fine ottiene risultati più confacenti alla
nobiltà dell’arte: « dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non
in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è
uomo civile e parte della repubblica, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri
uomini con l’esempio de’ cavalieri fedeli che d’infedeli, moven­do sempre più
l’esempio de’ simili che dei dissimili, ed i domestici che gli stranieri ».
Dunque, il ricorso alle storie cristiane o ebree non si configura solamente
come il prodotto di una scelta ideologica, ma anche come eminente fattore
formale che coopera alla dignità dell’opera letteraria. La comunicazione letteraria
viene così tenuta lontano da quello che era il rischio dell’elaborazione formale
fine a se stessa che presto diverrà la dominante nell’arte della parola barocca.
Anche il protagonista del Naugerius del Fracastoro s’era trovato ad affrontare
l’obiezione che nei versi sull’oscurità della selva s’annidasse più d’un pleonasmo
e che l’elaborazione formale si riducesse ad un’inutile ridondanza di concetti.
Nell’elaborazione tassiana della Poetica la comunicazione letteraria si presenta
sempre, o prevalentemente, come comunicazione di contenuti il cui spessore
estetico è proporzionale alla veridicità intrinseca ed all’utilità, diretta o indiretta,
che se ne può ricavare. « L’illustre » è la qualità sia della tragedia che del poema
eroico: tuttavia la qualità dell’un genere è diversa dalla qualità dell’altro e la
diversità risiede nei contenuti: « L’illustre del tragico consiste nell’inaspettata e
subita muta­zion di fortuna e nella grandezza degli avvenimenti che portino seco
orrore e misericordia; ma l’illustre dell’eroico è fondato sovra l’imprese d’una
eccelsa virtù bellica, sovra i fatti di cortesia, di generosità, di pietà, di religione ».
Onde è necessario per il poeta epico fare ricorso a personaggi ed azioni eccellenti,
come eccellente nella forza delle armi era Achille, nella astuzia Ulisse, nella pietas
Enea, nella costanza Brada­mante.
La conversione in valori formali dei contenuti etici diviene costante nel
secondo e terzo Discorso. Nel secondo in particolare la definizione retorica della
comunicazione letteraria è contestata con ragioni teoreti­che basate sulla natura
delle parole. Delle quali viene ripresa la nozione aristotelica della origine umana
e del valore ad libitum che i suoni hanno. I suoni infatti non denoterebbero nulla
e potrebbero significare indifferentemente ora questo ora quel concetto. La
conclusione che Tasso ne trae è paradigmatica della sua concezione letteraria:
« e non avendo bruttezza o bellezza alcuna, che sia lor propria e naturale, belle e
brutte paiono secondo l’uso le giudica; il quale mutabilissimo essen­do, necessario
è che mutabili siano tutte le cose che da lui dependo­no ». A petto delle parole
stanno le cose che hanno in sé bellezza o bruttezza, sulle quali l’uso non ha alcuna
autorità; si pensi al vizio ed alla virtù: di per sé malvagio è il vizio, come lodevole
è la virtù.
Oggettiva è altresì la bellezza della natura: o, meglio, la natura è produttrice di
una bellezza oggettiva che consiste nella proporzione delle parti e nella misura
conveniente accompagnate dalla soavità dei colori: le cose così proporzionate e
colorate sono state e sempre saranno belle indipendentemente dai gusti e dalle
mode. Imitare la natura in questo è in qualche modo assicurarsi la bellezza: « Di
qui avviene che quelle statue di Prassitele o di Fidia, che salve da la malignità
de’ tempi ci sono restate, così belle paiono a i nostri uomini, come belle a gli
antichi soleano parere; né il corso di tanti secoli o l’alterazione di tante usanze
cosa alcuna ha potuto scemare della loro degnità ».
Tasso, tuttavia, sa bene che non è possibile non tenere conto affatto del pubblico
al quale (il feed-back era implicito nella poetica d’Aristote­le: « di∆ ejlevou kai; fovbou
peraivnounsa th;n tw`n toiouvtwn paqhmavtwn kav­qarsin ») spetta di sancire il
successo e l’insuccesso d’un’opera: l’esito dell’Italia liberata da’ Goti di G. G. Trissino
è sotto gli occhi e non può essere ignorato. Quanto egli andrà a concedere ai
gusti del destinatario resta però sempre subordinato al criterio di verosimiglianza
e di eccellenza che ha stabilito nel primo Discorso. La meraviglia infatti « nasce
dalle cose sublimi e magnifiche ». È a questo punto che Tasso recupera l’aspetto
formale della comunicazione letteraria: giacché il « magnifico » è peculiare del
poema epico benché sia necessario talora adoperare gli altri quando la materia lo
richieda: sbaglia il Trissino per il privilegio dato allo stile dimesso; sbaglia Ariosto
per quello concesso al mediocre. Lo stile magnifico, anzi, si addice esclusivamente
al poema epico: non alla tragedia come voleva Aristotele. Magnifico, tuttavia,
non coincide con un alto tasso di elaborazione formale. Resta nell’au­tore della
Gerusalemme una profonda diffidenza nei confronti della retorica, anche se si rende
conto della necessità di un compromesso con i gusti che vanno mutando nella
direzione opposta. Così per un verso il criterio della verosimiglianza gli impone di
tenere conto del fatto che i personaggi quando sono vittime di forti passioni difficil­
mente possono far ricorso ad un linguaggio elaborato senza incorrere nella perdita
di plausibilità. Per altro verso il medesimo criterio di verosimiglianza impone che
quando il poeta parla per sé, ed insomma racconta, non può non ricorrere ad un
linguaggio che lo distingua dal parlare comune. E certo non è un caso che ricorra
qui una non lieve eco di platonismo: « Al poeta, a l’incontro, quando ragiona in
sua persona, sì come colui che crediamo essere pieno di deità e rapito di divino
furore sovra se stesso, molto sovra l’uso comune, e quasi con un’altra mente e con
un’altra lingua, gli si concede a pensare e a favellare ».
Ma in generale, è bene tener presente, il punto di riferimento resta la qualità
della materia trattata, che comunque sempre precede e condi­ziona la forma.
Benché il poeta non lo dica esplicitamente, tuttavia sembra esporre una vera e
propria successione: « Può nascere la magnificenza da’ concetti, da le parole e
da le composizioni delle parole: e da queste tre parti risulta lo stile »: i concetti
saranno l’imma­gine mentale delle cose rappresentate (e ancora una volta:
Dio, gli angeli, gli eroi, le battaglie). Per esprimere la loro grandezza occorre
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« Attraverso una serie di vicende pietose e paurose produce la purificazione �� ����������� ���� ������ ��� ���������������������������������� �����������������
dell’animo da tali sentimenti », Poetica, 1149b 27-28.
intervenga artificio sulla parola: le figure di frasi, le iperboli, l’amplifica­zione che
« fanno parer grandi le cose », e la personificazione, la reticenza e simili, tutte
connotate dalla circostanza che « non caggiono così di leggieri nelle menti degli
uomini ordinari » e che, anzi, « sono atte ad indurvi la meraviglia ». La deviazione
dalla normalità dei par­lanti è la sostanza della comunicazione poematica: Tasso
insiste con vigore: il « magnifico dicitore » se vuole raggiungere il suo scopo, e
non può non raggiungerlo, pena la perdita della propria definizione di poeta,
deve adottare un registro del tutto alieno dal linguaggio comune: « Sarà sublime
l’elocuzione, se le parole saranno non comuni, ma peregrine e da l’uso popolare
lontane ». Ci si permetterà di sottoli­neare che la sublimità dell’espressione per
Tasso, nello specifico poematico cui si riferisce, non influisce affatto, o influisce
assai poco sulla qualità dei contenuti dai quali essa dipende (« i concetti non
devono pendere da le parole: anzi tutto il contrario è vero, che le parole devono
pendere da’ concetti e prender legge da quelli »), visto che questi attengono
a sfere concettuali difficilmente modificabili verso l’alto: Dio, gli angeli, l’eroe
sono già sublimi di per sé. L’elaborazione formale si dirige fuori dal poema, e
riguarda il destinatario: « proprio del magnifico dicitore è il commover e il rapire
gli animi, come dell’u­mile l’insegnare, e del temperato il dilettare, ancora che e
nell’essere mosso e nell’esser insegnato trovi il lettore qualche diletto ». Ma non
è assolutamente in grado di mutare la natura dei valori che lo scrittore intende
esprimere: e si veda, allorché Tasso propone la distinzione tra il poeta epico e
quello lirico, la conversione dell’estetica dalla forma ai contenuti, operata pur con
qualche limite: « Né è vero che quello che constituisce la spezie della poesia lirica
sia la dolcezza del numero, la sceltezza delle parole la vaghezza e lo splendore
dell’elocuzione, la pittura de’ translati e dell’altre figure; ma è la soavità, la venustà
e, per così dirla, la amenità de’ concetti: da le quali condizioni dependono poi
quell’altre ».
In questo nostro discorso resta volutamente in margine la questione sull’unità
o molteplicità delle azioni narrate nel poema e tuttavia non possiamo tralasciare
la proporzionalità che Torquato ritrova tra la molteplicità delle azioni e il diletto
che ne è determinato: « Concedo io quel che vero stimo e che molti negarebbono:
cioè che ’l diletto sia il fine della poesia ». Il diletto che l’opera deve perseguire
comporta alcune importanti determinazioni nella definizione del ruolo del poeta.
Assai più della catarsi aristotelica, infatti, che mantiene una forte impronta etica
epperciò ottiene una validità più duratura, il piacere si lega al gusto dei lettori
e finisce per coincidere col successo del poema. Notoriamente Tasso risolveva
la questione in nome dell’unità dell’azio­ne arricchita tuttavia dalla varietà dei
personaggi dei paesaggi degli eventi che si coagulano intorno a quell’unità: è la
varietà che produce diletto, non la molteplicità delle azioni. Ma non è trascurabile
che il poeta senta di non poter negare d’assecondare in qualche misura i gusti
del pubblico: l’avvicinamento al pubblico avviene tanto sul piano della lingua
quanto su quello del corredo, diremmo, contenutistico: « ogni poesia è composta
di parole e di cose. In quanto a le parole concedasi (poi che nulla rileva al nostro
proposito) che quelle migliori siano che più da l’uso sono commendate: però che
in se stesse né belle sono né brutte, ma quali paiono, tali la consuetudine le fa
parere: onde le voci che appo il re Enzo ed appo gli altri antichi dicitori furono in
prezzo suonano a l’orecchie nostre un non so che di spiacevole. Le cose poi che
da l’usanza dependono, come la maniera dell’armeggiare, i modi dell’aventure,
il rito de’ sacrifici e dei conviti, le cerimonie, il decoro e la maestà delle persone:
queste, dico, come piace a l’usanza, che oggi vive e che domina il mondo, si
devono accomodare ».
La ricerca di un equilibrio tra unità e varietà, tra dovere di verità e ricerca del
consenso costituisce la grande fatica dello scrittore che non deve cedere alla
tentazione di assecondare troppo i gusti di un pubblico che certamente si diletta
della molteplicità degli intrecci, degli incante­simi e dei molti amori: per altro la
molteplicità delle azioni significa complessità e di conseguenza poco perspicuità
dei veri valori perse­guiti: « Questa varietà sì fatta tanto sarà più lodevole quanto
recarà seco più di difficultà: però che è assai agevol cosa e di nissuna industria il
far che ’n molte e separate azioni nasca gran varietà d’accidenti; ma che la stessa
varietà in una sola azione si trovi, hoc opus, hic labor est. In quella che da la moltitudine
delle favole per se stessa nasce, arte o ingegno alcuno del poeta non si conosce, e
può essere a’ dotti e a gli indotti comune: questa totalmente da l’artificio del poeta
depende e, come intrinseca a lui, da lui solo si riconosce, né può da mediocre
ingegno essere asseguita. Quella, in somma, tanto meno dilettarà quanto sarà
più confusa e meno intelligibile; questa, per l’ordine e per la legatura delle sue
parti, non solo sarà più chiara e più distinta, ma molto più portarà di novità e di
meraviglia. Una dunque deve esser la favola e la forma, come in ogni altro poema,
così in quelli che trattano l’armi e gli amori degli eroi e de’ cavallieri erranti e che
con nome comune poemi eroici si chiamano ».
GERUSALEMME LIBERATA
CANTO PRIMO
Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.
2.Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.
3.Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ’l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.
4.Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dí fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
5. È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
6.Già ’l sesto anno volgea, ch’in oriente
passò il campo cristiano a l’alta impresa;
e Nicea per assalto, e la potente
Antiochia con arte avea già presa.
L’avea poscia in battaglia incontra gente
di Persia innumerabile difesa,
e Tortosa espugnata; indi a la rea
stagion diè loco, e ’l novo anno attendea.
7.E ’l fine omai di quel piovoso inverno,
che fea l’arme cessar, lunge non era;
quando da l’alto soglio il Padre eterno,
ch’è ne la parte piú del ciel sincera,
e quanto è da le stelle al basso inferno,
tanto è piú in su de la stellata spera,
gli occhi in giú volse, e in un sol punto e in una
vista mirò ciò ch’in sé il mondo aduna.
8. Mirò tutte le cose, ed in Soria
s’affisò poi ne’ principi cristiani;
e con quel guardo suo ch’a dentro spia
nel piú secreto lor gli affetti umani,
vide Goffredo che scacciar desia
de la santa città gli empi pagani,
e pien di fé, di zelo, ogni mortale
gloria, imperio, tesor mette in non cale.
9. Ma vede in Baldovin cupido ingegno,
ch’a l’umane grandezze intento aspira:
vede Tancredi aver la vita a sdegno,
tanto un suo vano amor l’ange e martira:
e fondar Boemondo al novo regno
suo d’Antiochia alti princípi mira,
e leggi imporre, ed introdur costume
ed arti e culto di verace nume;
10. cotanto internarsi in tal pensiero,
ch’altra impresa non par che piú rammenti:
scorge in Rinaldo e animo guerriero
e spirti di riposo impazienti;
non cupidigia in lui d’oro o d’impero,
ma d’onor brame immoderate, ardenti:
scorge che da la bocca intento pende
di Guelfo, e i chiari antichi essempi apprende.
11. Ma poi ch’ebbe di questi e d’altri cori
scòrti gl’intimi sensi il Re del mondo,
chiama a sé da gli angelici splendori
Gabriel, che ne’ primi era secondo.
E tra Dio questi e l’anime migliori
interprete fedel, nunzio giocondo:
giú i decreti del Ciel porta, ed al Cielo
riporta de’ mortali i preghi e ’l zelo.
Disse al suo nunzio Dio: — Goffredo trova,
e in mio nome di’ lui: perché si cessa?
perché la guerra omai non si rinova
a liberar Gierusalemme oppressa?
Chiami i duci a consiglio, e i tardi mova
a l’alta impresa: ei capitan fia d’essa.
Io qui l’eleggo; e ’l faran gli altri in terra,
già suoi compagni, or suoi ministri in guerra. —
13. Cosí parlògli, e Gabriel s’accinse
veloce ad esseguir l’imposte cose:
la sua forma invisibil d’aria cinse
ed al senso mortal la sottopose.
Umane membra, aspetto uman si finse,
ma di celeste maestà il compose;
tra giovene e fanciullo età confine
prese, ed ornò di raggi il biondo crine.
14. Ali bianche vestí, c’han d’or le cime,
infaticabilmente agili e preste.
Fende i venti e le nubi, e va sublime
sovra la terra e sovra il mar con queste.
Cosí vestito, indirizzossi a l’ime
parti del mondo il messaggier celeste:
pria sul Libano monte ei si ritenne,
e si librò su l’adeguate penne;
15. vèr le piaggie di Tortosa poi
drizzò precipitando il volo in giuso.
Sorgeva il novo sol da i lidi eoi,
parte già fuor, ma ’l piú ne l’onde chiuso;
e porgea matutini i preghi suoi
Goffredo a Dio, come egli avea per uso;
quando a paro co ’l sol, ma piú lucente,
l’angelo gli apparí da l’oriente;
16. gli disse: — Goffredo, ecco opportuna
già la stagion ch’al guerreggiar s’aspetta;
perché dunque trapor dimora alcuna
a liberar Gierusalem soggetta?
Tu i principi a consiglio omai raguna,
tu al fin de l’opra i neghittosi affretta.
Dio per lor duce già t’elegge, ed essi
sopporran volontari a te se stessi.
17. Dio messaggier mi manda: io ti rivelo
la sua mente in suo nome. Oh quanta spene
aver d’alta vittoria, oh quanto zelo
de l’oste a te commessa or ti conviene! —
Tacque; e, sparito, rivolò del cielo
a le parti piú eccelse e piú serene.
Resta Goffredo a i detti, a lo splendore,
d’occhi abbagliato, attonito di core.
18. Ma poi che si riscote, e che discorre
chi venne, chi mandò, che gli fu detto,
se già bramava, or tutto arde d’imporre
fine a la guerra ond’egli è duce eletto.
Non che ’l vedersi a gli altri in Ciel preporre
d’aura d’ambizion gli gonfi il petto,
ma il suo voler piú nel voler s’infiamma
del suo Signor, come favilla in fiamma.
19. Dunque gli eroi compagni, i quai non lunge
erano sparsi, a ragunarsi invita;
lettere a lettre, e messi a messi aggiunge,
sempre al consiglio è la preghiera unita;
ciò ch’alma generosa alletta e punge,
ciò che può risvegliar virtú sopita,
tutto par che ritrovi, e in efficace
modo l’adorna sí che sforza e piace.
20. Vennero i duci, e gli altri anco seguiro,
e Boemondo sol qui non convenne.
Parte fuor s’attendò, parte nel giro
e tra gli alberghi suoi Tortosa tenne.
I grandi de l’essercito s’uniro
(glorioso senato) in dí solenne.
Qui il pio Goffredo incominciò tra loro,
augusto in volto ed in sermon sonoro:
d’ogni nostra vittoria? e che piú ’l vieta?
21. — Guerrier di Dio, ch’a ristorar i danni
de la sua fede il Re del Cielo elesse,
e securi fra l’arme e fra gl’inganni
de la terra e del mar vi scòrse e resse,
sí ch’abbiam tante e tante in sí pochi anni
ribellanti provincie a lui sommesse,
e fra le genti debellate e dome
stese l’insegne sue vittrici e ’l nome,
22. già non lasciammo i dolci pegni e ’l nido
nativo noi (se ’l creder mio non erra),
né la vita esponemmo al mare infido
ed a i perigli di lontana guerra,
per acquistar di breve suono un grido
vulgare e posseder barbara terra,
ché proposto ci avremmo angusto e scarso
premio, e in danno de l’alme il sangue sparso.
23. Ma fu de’ pensier nostri ultimo segno
espugnar di Sion le nobil mura,
e sottrarre i cristiani al giogo indegno
di servitú cosí spiacente e dura,
fondando in Palestina un novo regno
ov’abbia la pietà sede secura;
né sia chi neghi al peregrin devoto
d’adorar la gran tomba e sciòrre il voto.
24. Dunque il fatto sin ora al rischio è molto,
piú che molto al travaglio, a l’onor poco,
nulla al disegno ove o si fermi o vòlto
sia l’impeto de i’armi in altro loco.
Che gioverà l’aver d’Europa accolto
sí grande sforzo, e posto in Asia il foco,
quando sia poi di sí gran moti il fine
non fabriche di regni, ma ruine?
25. Non edifica quei che vuol gl’imperi
su fondamenti fabricar mondani,
ove ha pochi di patria e fé stranieri
fra gl’infiniti popoli pagani,
ove ne’ Greci non conven che speri,
e i favor d’Occidente ha sí lontani;
ma ben move ruine, ond’egli oppresso
sol construtto un sepolcro abbia a se stesso.
26. Turchi, Persi, Antiochia (illustre suono
e di nome magnifico e di cose)
opre nostre non già, ma del Ciel dono
furo, e vittorie fur meravigliose.
Or se da noi rivolte e torte sono
contra quel fin che ’l donator dispose,
temo ce ’n privi, e favola a le genti
quel sí chiaro rimbombo al fin diventi.
27. Ah non sia alcun, per Dio, che sí graditi
doni in uso sí reo perda e diffonda!
A quei che sono alti princípi orditi
di tutta l’opra il filo e ’l fin risponda.
Ora che i passi liberi e spediti,
ora che la stagione abbiam seconda,
ché non corriamo a la città ch’è mèta
28. Principi, io vi protesto (i miei protesti
udrà il mondo presente, udrà il futuro,
l’odono or su nel Cielo anco i Celesti):
il tempo de l’impresa è già maturo;
men diviene opportun piú che si resti,
incertissimo fia quel ch’è securo.
Presago son, s’è lento il nostro corso,
avrà d’Egitto il Palestin soccorso. —
29. Disse, e a i detti seguí breve bisbiglio;
ma sorse poscia il solitario Piero,
che privato fra’ principi a consiglio
sedea, del gran passaggio autor primiero:
— Ciò ch’essorta Goffredo, ed io consiglio,
né loco a dubbio v’ha, sí certo è il vero
e per sé noto: ei dimostrollo a lungo,
voi l’approvate, io questo sol v’aggiungo:
30. se ben raccolgo le discordie e l’onte
quasi a prova da voi fatte e patite,
i ritrosi pareri, e le non pronte
e in mezzo a l’esseguire opre impedite,
reco ad un’altra originaria fonte
la cagion d’ogni indugio e d’ogni lite,
a quella autorità che, in molti e vari
d’opinion quasi librata, è pari.
31. Ove un sol non impera, onde i giudíci
pendano poi de’ premi e de le pene,
onde sian compartite opre ed uffici,
ivi errante il governo esser conviene.
Deh! fate un corpo sol de’ membri amici,
fate un capo che gli altri indrizzi e frene,
date ad un sol lo scettro e la possanza,
e sostenga di re vece e sembianza. —
32. Qui tacque il veglio. Or quai pensier, quai petti
son chiusi a te, sant’Aura e divo Ardore?
Inspiri tu de l’Eremita i detti,
e tu gl’imprimi a i cavalier nel core;
sgombri gl’inserti, anzi gl’innati affetti
di sovrastar, di libertà, d’onore,
sí che Guglielmo e Guelfo, i piú sublimi,
chiamàr Goffredo per lor duce i primi.
33. L’approvàr gli altri: esser sue parti denno
deliberare e comandar altrui.
Imponga a i vinti legge egli a suo senno,
porti la guerra e quando vòle e a cui;
gli altri, già pari, ubidienti al cenno
siano or ministri de gl’imperii sui.
Concluso ciò, fama ne vola, e grande
per le lingue de gli uomini si spande.
34. Ei si mostra a i soldati, e ben lor pare
degno de l’alto grado ove l’han posto,
e riceve i saluti e ’l militare
applauso, in volto placido e composto.
Poi ch’a le dimostranze umili e care
d’amor, d’ubidienza ebbe risposto,
impon che ’l dí seguente in un gran campo
tutto si mostri a lui schierato il campo.
35. Facea ne l’oriente il sol ritorno,
sereno e luminoso oltre l’usato,
quando co’ raggi uscí del novo giorno
sotto l’insegne ogni guerriero armato,
e si mostrò quanto poté piú adorno
al pio Buglion, girando il largo prato.
S’era egli fermo, e si vedea davanti
passar distinti i cavalieri e i fanti.
36. Mente, de gli anni e de l’oblio nemica,
de le cose custode e dispensiera,
vagliami tua ragion, sí ch’io ridica
di quel campo ogni duce ed ogni schiera:
suoni e risplenda la lor fama antica,
fatta da gli anni omai tacita e nera;
tolto da’ tuoi tesori, orni mia lingua
ciò ch’ascolti ogni età, nulla l’estingua.
37. Prima i Franchi mostràrsi: il duce loro
Ugone esser solea, del re fratello.
Ne l’Isola di Francia eletti foro,
fra quattro fiumi, ampio paese e bello.
Poscia ch’Ugon morí, de’ gigli d’oro
seguí l’usata insegna il fer drapello
sotto Clotareo, capitano egregio,
a cui, se nulla manca, è il nome regio.
38. Mille son di gravissima armatura,
sono altrettanti i cavalier seguenti,
di disciplina a i primi e di natura
e d’arme e di sembianza indifferenti;
normandi tutti, e gli ha Roberto in cura,
che principe nativo è de le genti.
Poi duo pastor de’ popoli spiegaro
le squadre lor, Guglielmo ed Ademaro.
39. L’uno e l’altro di lor, che ne’ divini
uffici già trattò pio ministero,
sotto l’elmo premendo i lunghi crini,
essercita de l’arme or l’uso fero.
Da la città d’Orange e da i confini
quattrocento guerrier scelse il primiero;
ma guida quei di Poggio in guerra l’altro,
numero egual, né men ne l’arme scaltro.
40. Baldovin poscia in mostra addur si vede
co’ Bolognesi suoi quei del germano,
ché le sue genti il pio fratel gli cede
or ch’ei de’ capitani è capitano.
Il conte di Carnuti indi succede,
potente di consiglio e pro’ di mano;
van con lui quattrocento, e triplicati
conduce Baldovino in sella armati.
41. Occupa Guelfo il campo a lor vicino,
uom ch’a l’alta fortuna agguaglia il merto;
conta costui per genitor latino
de gli avi Estensi un lungo ordine e certo.
Ma german di cognome e di domino,
ne la gran casa de’ Guelfoni è inserto:
regge Carinzia, e presso l’Istro e ’l Reno
ciò che i prischi Suevi e i Reti avièno.
42. questo, che retaggio era materno,
acquisti ei giunse gloriosi e grandi.
Quindi gente traea che prende a scherno
d’andar contra la morte, ov’ei comandi:
usa a temprar ne’ caldi alberghi il verno,
e celebrar con lieti inviti i prandi.
Fur cinquemila a la partenza, e a pena
(de’ Persi avanzo) il terzo or qui ne mena.
43. Seguia la gente poi candida e bionda
che tra i Franchi e i Germani e ’l mar si giace,
ove la Mosa ed ove il Reno inonda,
terra di biade e d’animai ferace;
e gl’insulani lor, che d’alta sponda
riparo fansi a l’ocean vorace:
l’ocean che non pur le merci e i legni,
ma intere inghiotte le cittadi e i regni.
44. Gli uni e gli altri son mille, e tutti vanno
sotto un altro Roberto insieme a stuolo.
Maggior alquanto è lo squadron britanno;
Guglielmo il regge, al re minor figliuolo.
Sono gl’Inglesi sagittari, ed hanno
gente con lor ch’è piú vicina al polo:
questi da l’alte selve irsuti manda
la divisa dal mondo ultima Irlanda.
45. Vien poi Tancredi, e non è alcun fra tanti
(tranne Rinaldo) o feritor maggiore,
o piú bel di maniere e di sembianti,
o piú eccelso ed intrepido di core.
S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti
rende men chiari, è sol follia d’amore:
nato fra l’arme, amor di breve vista,
che si nutre d’affanni, e forza acquista.
46. È fama che quel dí che glorioso
fe’ la rotta de’ Persi il popol franco,
poi che Tancredi al fin vittorioso
i fuggitivi di seguir fu stanco,
cercò di rifrigerio e di riposo
a l’arse labbia, al travagliato fianco,
e trasse ove invitollo al rezzo estivo
cinto di verdi seggi un fonte vivo.
47. Quivi a lui d’improviso una donzella
tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
era pagana, e là venuta anch’ella
per l’istessa cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la bella
sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse.
Oh meraviglia! Amor, ch’a pena è nato,
già grande vola, e già trionfa armato.
48 Ella d’elmo coprissi, e se non era
ch’altri quivi arrivàr, ben l’assaliva.
Partí dal vinto suo la donna altera,
ch’è per necessità sol fuggitiva;
ma l’imagine sua bella e guerriera
tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
e sempre ha nel pensiero e l’atto e ’l loco
in che la vide, esca continua al foco.
49. ben nel volto suo la gente accorta
legger potria: « Questi arde, e fuor di spene »;
cosí vien sospiroso, e cosí porta
basse le ciglia e di mestizia piene.
Gli ottocento a cavallo, a cui fa scorta
lasciàr le piaggie di Campagna amene,
pompa maggior de la natura, e i colli
che vagheggia il Tirren fertili e molli.
50. Venian dietro ducento in Grecia nati
che son quasi di retro in tutto scarchi:
pendon spade ritorte a l’un de’ lati,
suonano al tergo lor faretre ed archi;
asciutti hanno i cavalli, al corso usati,
a la fatica invitti, al cibo parchi:
ne l’assalir son pronti e nel ritrarsi,
e combatton fuggendo erranti e sparsi.
51. Tatin regge la schiera, e sol fu questi
che, greco, accompagnò l’arme latine.
Oh vergogna! oh misfatto! or non avesti
tu, Grecia, quelle guerre a te vicine?
E pur quasi a spettacolo sedesti,
lenta aspettando de’ grand’atti il fine.
Or, se tu se’ vil serva, è il tuo servaggio
(non ti lagnar) giustizia, e non oltraggio.
52. Squadra d’ordine estrema ecco vien poi
ma d’onor prima e di valor e d’arte.
Son qui gli aventurieri, invitti eroi,
terror de l’Asia e folgori di Marte.
Taccia Argo i Mini, e taccia Artú que’ suoi
erranti, che di sogni empion le carte;
ch’ogni antica memoria appo costoro
perde: or qual duce fia degno di loro?
53. Dudon di Consa è il duce; e perché duro
fu il giudicar di sangue e di virtute,
gli altri sopporsi a lui concordi furo,
ch’avea piú cose fatte e piú vedute.
Ei di virilità grave e maturo,
mostra in fresco vigor chiome canute;
mostra, quasi d’onor vestigi degni,
di non brutte ferite impressi segni.
54. Eustazio è poi fra i primi; e i propri pregi
illustre il fanno, e piú il fratel Buglione.
Gernando v’è, nato di re norvegi,
che scettri vanta e titoli e corone.
Ruggier di Balnavilla infra gli egregi
la vecchia fama ed Engerlan ripone;
e celebrati son fra’ piú gagliardi
un Gentonio, un Rambaldo e duo Gherardi.
55. Son fra’ lodati Ubaldo anco, e Rosmondo
del gran ducato di Lincastro erede
non fia ch’Obizzo il Tosco aggravi al fondo
chi fa de le memorie avare prede,
né i tre frati lombardi al chiaro mondo
involi, Achille, Sforza e Palamede,
o ’l forte Otton, che conquistò lo scudo
in cui da l’angue esce il fanciullo ignudo
56. Né Guasco né Ridolfo a dietro lasso,
né l’un né l’altro Guido, ambo famosi,
non Eberardo e non Gernier trapasso
sotto silenzio ingratamente ascosi.
Ove voi me, di numerar già lasso,
Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi,
rapite? o ne la guerra anco consorti
non sarete disgiunti ancor che morti!
57. Ne le scole d’Amor che non s’apprende?
Ivi si fe’ costei guerriera ardita:
va sempre affissa al caro fianco, e pende
da un fato solo l’una e l’altra vita.
Colpo che ad un sol noccia unqua non scende,
ma indiviso è il dolor d’ogni ferita;
e spesso è l’un ferito, e l’altro langue,
e versa l’alma quel, se questa il sangue.
58. Ma il fanciullo Rinaldo, e sovra questi
e sovra quanti in mostra eran condutti,
dolcemente feroce alzar vedresti
la regal fronte, e in lui mirar sol tutti.
L’età precorse e la speranza, e presti
pareano i fior quando n’usciro i frutti;
se ’l miri fulminar ne l’arme avolto,
Marte lo stimi; Amor, se scopre il volto.
59. Lui ne la riva d’Adige produsse
a Bertoldo Sofia, Sofia la bella
a Bertoldo il possente; e pria che fusse
tolto quasi il bambin da la mammella,
Matilda il volse, e nutricollo, e instrusse
ne l’arti regie; e sempre ei fu con ella,
sin ch’invaghí la giovanetta mente
la tromba che s’udia da l’oriente.
60. Allor (né pur tre lustri avea forniti)
fuggí soletto, e corse strade ignote;
varcò l’Egeo, passò di Grecia i liti,
giunse nel campo in region remote.
Nobilissima fuga, e che l’imíti
ben degna alcun magnanimo nepote.
Tre anni son che è in guerra, e intempestiva
molle piuma del mento a pena usciva.
61. Passati i cavalieri, in mostra viene
la gente a piede, ed è Raimondo inanti.
Regea Tolosa, e scelse infra Pirene
e fra Garona e l’ocean suoi fanti.
Son quattromila, e ben armati e bene
instrutti, usi al disagio e toleranti;
buona è la gente, e non può da piú dotta
o da piú forte guida esser condotta.
62. Ma cinquemila Stefano d’Ambuosa
e di Blesse e di Turs in guerra adduce.
Non è gente robusta o faticosa
se ben tutta di ferro ella riluce.
La terra molle, lieta e dilettosa
simili a sé gli abitator produce.
Impeto fan ne le battaglie prime,
ma di leggier poi langue, e si reprime.
63. Alcasto il terzo vien, qual presso a Tebe
già Capaneo, con minaccioso volto:
seimila Elvezi, audace e fera plebe,
da gli alpini castelli avea raccolto,
che ’l ferro uso a far solchi, a franger glebe,
in nove forme e in piú degne opre ha vòlto;
e con la man, che guardò rozzi armenti,
par ch’ i regni sfidar nulla paventi.
64. Vedi appresso spiegar l’alto vessillo
co ’I diadema di Piero e con le chiavi.
Qui settemila aduna il buon Camillo
pedoni, d’arme rilucenti e gravi,
lieto ch’a tanta impresa il Ciel sortillo,
ove rinovi il prisco onor de gli avi,
o mostri almen ch’a la virtú latina
o nulla manca, o sol la disciplina.
65. Ma già tutte le squadre eran con bella
mostra passate, e l’ultima fu questa,
quando Goffredo i maggior duci appella,
e la sua mente a lor fa manifesta:
— Come appaia diman l’alba novella
vuo’ che l’oste s’invii leggiera e presta,
sí ch’ella giunga a la città sacrata,
quanto è possibil piú, meno aspettata.
66. Preparatevi dunque ed al viaggio
ed a la pugna e a la vittoria ancora. —
Questo ardito parlar d’uom cosí saggio
sollecita ciascuno e l’avvalora.
Tutti d’andar son pronti al novo raggio,
e impazienti in aspettar l’aurora.
Ma ’l provido Buglion senza ogni tema
non è però, benché nel cor la prema.
67. Perch’egli avea certe novelle intese
che s’è d’Egitto il re già posto in via
inverso Gaza, bello e forte arnese
da fronteggiare i regni di Soria.
Né creder può che l’uomo a fere imprese
avezzo sempre, or lento in ozio stia;
ma, d’averlo aspettando aspro nemico,
parla al fedel suo messaggiero Enrico:
68. — Sovra una lieve saettia tragitto
vuo’ che tu faccia ne la greca terra.
Ivi giunger dovea (cosí m’ha scritto
chi mai per uso in avisar non erra)
un giovene regal, d’animo invitto,
ch’a farsi vien nostro compagno in guerra:
prence è de’ Dani, e mena un grande stuolo
sin da i paesi sottoposti al polo.
69. Ma perché ’l greco imperator fallace
seco forse userà le solite arti,
per far ch’o torni indietro o ’l corso audace
torca in altre da noi lontane parti,
tu, nunzio mio, tu, consiglier verace,
in mio nome il disponi a ciò che parti
nostro e suo bene, e di’ che tosto vegna,
ché di lui fòra ogni tardanza indegna.
70. Non venir seco tu, ma resta appresso
al re de’ Greci a procurar l’aiuto,
che già piú d’una volta a noi promesso
e per ragion di patto anco è dovuto. —
Cosi parla e l’informa, e poi che ’I messo
le lettre ha di credenza e di saluto,
toglie, affrettando il suo partir, congedo,
e tregua fa co’ suoi pensier Goffredo.
71. Il dí seguente, allor ch’aperte sono
del lucido oriente al sol le porte,
di trombe udissi e di tamburi un suono,
ond’al camino ogni guerrier s’essorte.
Non è sí grato a i caldi giorni il tuono
che speranza di pioggia al mondo apporte,
come fu caro a le feroci genti
l’altero suon de’ bellici instrumenti.
72. Tosto ciascun, da gran desio compunto,
veste le membra de l’usate spoglie,
e tosto appar di tutte l’arme in punto,
tosto sotto i suoi duci ogn’uom s’accoglie,
e l’ordinato essercito congiunto
tutte le sue bandiere al vento scioglie:
e nel vessillo imperiale e grande
la trionfante Croce al ciel si spande.
73. Intanto il sol, che de’ celesti campi
va piú sempre avanzando e in alto ascende,
I’arme percote e ne trae fiamme e lampi
tremuli e chiari, onde le viste offende.
L’aria par di faville intorno avampi,
e quasi d’alto incendio in forma splende,
e co’ feri nitriti il suono accorda
del ferro scosso e le campagne assorda.
74. Il capitan, che da’ nemici aguati
le schiere sue d’assecurar desia,
molti a cavallo leggiermente armati
a scoprire il paese intorno invia;
e inanzi i guastatori avea mandati,
da cui si debbe agevolar la via,
e i vòti luoghi empire e spianar gli erti,
e da cui siano i chiusi passi aperti.
75. Non è gente pagana insieme accolta,
non muro cinto di profonda fossa,
non gran torrente, o monte alpestre, o folta
selva, che ’l lor viaggio arrestar possa.
Cosí de gli altri fiumi il re tal volta,
quando superbo oltra misura ingrossa,
sovra le sponde ruinoso scorre,
né cosa è mai che gli s’ardisca opporre.
76. Sol di Tripoli il re, che ’n ben guardate
mura, genti, tesori ed arme serra,
forse le schiere franche avria tardate,
ma non osò di provocarle in guerra.
Lor con messi e con doni anco placate
ricettò volontario entro la terra,
e ricevé condizion di pace,
sí come imporle al pio Goffredo piace.
77. Qui del monte Seir, ch’alto e sovrano
da l’oriente a la cittade è presso,
gran turba scese de’ fedeli al piano
d’ogni età mescolata e d’ogni sesso:
portò suoi doni al vincitor cristiano,
godea in mirarlo e in ragionar con esso,
stupia de l’arme pellegrine; e guida
ebbe da lor Goffredo amica e fida.
78. Conduce ei sempre a le maritime onde
vicino il campo per diritte strade,
sapendo ben che le propinque sponde
l’amica armata costeggiando rade,
la qual può far che tutto il campo abonde
de’ necessari arnesi e che le biade
ogni isola de’ Greci a lui sol mieta,
e Scio pietrosa gli vendemmi e Creta.
79. Geme il vicino mar sotto l’incarco
de l’alte navi e de’ piú levi pini,
sí che non s’apre omai securo varco
nel mar Mediterraneo a i saracini;
ch’oltra quei c’ha Georgio armati e Marco
ne’ veneziani e liguri confini,
altri Inghilterra e Francia ed altri Olanda,
e la fertil Sicilia altri ne manda.
80. questi, che son tutti insieme uniti
con saldissimi lacci in un volere,
s’eran carchi e provisti in vari liti
di ciò ch’è d’uopo a le terrestri schiere,
le quai trovando liberi e sforniti
i passi de’ nemici a le frontiere,
in corso velocissimo se ’n vanno
là ’ve Cristo soffrí mortale affanno.
81. Ma precorsa è la fama, apportatrice
de’ veraci romori e de’ bugiardi,
ch’unito è il campo vincitor felice,
che già s’è mosso e che non è chi ’I tardi;
quante e quai sian le squadre ella ridice,
narra il nome e ’I valor de’ piú gagliardi,
narra i lor vanti, e con terribil faccia
gli usurpatori di Sion minaccia.
82. l’aspettar del male è mal peggiore,
forse, che non parrebbe il mal presente;
pende ad ogn’aura incerta di romore
ogni orecchia sospesa ed ogni mente;
e un confuso bisbiglio entro e di fore
trascorre i campi e la città dolente.
Ma il vecchio re ne’ già vicin perigli
volge nel dubbio con feri consigli.
83. Aladin detto è il re, che, di quel regno
novo signor, vive in continua cura:
uom già crudel, ma ’l suo feroce ingegno
pur mitigato avea l’età matura.
Egli, che de’ Latini udí il disegno
c’han d’assalir di sua città le mura,
giunge al vecchio timor novi sospetti,
e de’ nemici pave e de’ soggetti.
84. Però che dentro a una città commisto
popolo alberga di contraria fede:
la debil parte e la minore in Cristo,
la grande e forte in Macometto crede.
Ma quando il re fe’ di Sion l’acquisto,
e vi cercò di stabilir la sede,
scemò i publici pesi a’ suoi pagani,
ma piú gravonne i miseri cristiani.
85. Questo pensier la ferità nativa,
che da gli anni sopita e fredda langue,
irritando inasprisce, e la ravviva
sí ch’assetata è piú che mai di sangue.
Tal fero torna a la stagione estiva
quel che parve nel gel piacevol angue,
cosí leon domestico riprende
l’innato suo furor, s’altri l’offende.
86. « Veggio — dicea — de la letizia nova
veraci segni in questa turba infida;
il danno universal solo a lei giova,
sol nel pianto comun par ch’ella rida;
e forse insidie e tradimenti or cova,
rivolgendo fra sé come m’uccida,
o come al mio nemico, e suo consorte
popolo, occultamente apra le porte.
87. Ma no ’l farà: prevenirò questi empi
disegni loro, e sfogherommi a pieno.
Gli ucciderò, faronne acerbi scempi,
svenerò i figli a le lor madri in seno,
arderò loro alberghi e insieme i tèmpi,
questi i debiti roghi a i morti fièno;
e su quel lor sepolcro in mezzo a i voti
vittime pria farò de’ sacerdoti ».
88. Cosí l’iniquo fra suo cor ragiona,
pur non segue pensier si mal concetto;
ma s’a quegli innocenti egli perdona,
è di viltà, non di pietade effetto,
ché s’un timor a incrudelir lo sprona,
il ritien piú potente altro sospetto:
troncar le vie d’accordo, e de’ nemici
troppo teme irritar l’arme vittrici.
89. Tempra dunque il fellon la rabbia insana
anzi altrove pur cerca ove la sfoghi;
i rustici edifici abbatte e spiana
e dà in preda a le fiamme i culti luoghi;
parte alcuna non lascia integra o sana
ove il Franco si pasca, ove s’alloghi
turba le fonti e i rivi, e le pure onde
di veneni mortiferi confonde.
90. Spietatamente è cauto, e non oblia
di rinforzar Gierusalem fra tanto
Da tre lati fortissima era pria,
sol verso Borea è men secura alquanto;
ma da’ primi sospetti ei le munia
d’alti ripari il suo men forte canto,
e v’accogliea gran quantitade in fretta
di gente mercenaria e di soggetta.
LIBRO DODICESIMO
1 Era la notte, e non prendean ristoro
co ’l sonno ancor le faticose genti:
ma qui vegghiando nel fabril lavoro
stavano i Franchi a la custodia intenti,
e là i pagani le difese loro
gian rinforzando tremule e cadenti
e reintegrando le già rotte mura,
e de’ feriti era comun la cura.
2 Curate al fin le piaghe, e già fornita
de l’opere notturne era qualcuna;
e rallentando l’altre, al sonno invita
l’ombra omai fatta piú tacita e bruna.
Pur non accheta la guerriera ardita
l’alma d’onor famelica e digiuna,
e sollecita l’opre ove altri cessa.
Va seco Argante, e dice ella a se stessa:
3 « Ben oggi il re de’ Turchi e ’l buon Argante
fèr meraviglie inusitate e strane
ché soli uscír fra tante schiere e tante
e vi spezzàr le machine cristiane.
Io (questo è il sommo pregio onde mi vante)
d’alto rinchiusa oprai l’arme lontane,
saggittaria, no ’l nego, assai felice.
Dunque sol tanto a donna e piú non lice?
4 Quanto me’ fòra in monte od in foresta
a le fère aventar dardi e quadrella
ch’ove il maschio valor si manifesta
mostrarmi qui tra cavalier donzella!
Ché non riprendo la feminea vesta,
S’io ne son degna e non mi chiudo in cella? »
Cosí parla tra sé; pensa e risolve
al fin gran cose ed al guerrier si volve:
5 — Buona pezza è, signor, che in sé raggira
un non so che d’insolito e d’audace
la mia mente inquieta: o Dio l’inspira
o l’uom del suo voler suo Dio si face.
Fuor del vallo nemico accesi mira
i lumi; io là n’andrò con ferro e face
e la torre arderò: vogl’io che questo
effetto segua, il Ciel poi curi il resto.
6 Ma s’egli averrà pur che mia ventura
nel mio ritorno mi rinchiuda il passo,
d’uom che ’n amor m’è padre a te la cura
e de le care mie donzelle io lasso.
Tu ne l’Egitto rimandar procura
le donne sconsolate e ’l vecchio lasso
Fallo per Dio, signor, ché di pietate
ben è degno quel sesso e quella etate. —
7 Stupisce Argante, e ripercosso il petto
da stimoli di gloria acuti sente.
— Tu là n’andrai, — rispose — e me negletto
qui lascierai tra la vulgare gente?
E da secura parte avrò diletto
mirar il fumo e la favilla ardente?
No, no; se fui ne l’arme a te consorte,
esser vo’ ne la gloria e ne la morte
8 Ho core anch’io che morte sprezza e crede
che ben si cambi con l’onor la vita.
— Ben ne fèsti — diss’ella — eterna fede
con quella tua sí generosa uscita.
Pure io femina sono, e nulla riede
mia morte in danno a la città smarrita;
ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augúri),
or chi sarà che piú difenda i muri? —
9 Replicò il cavaliero: — Indarno adduci
al mio fermo voler fallaci scuse.
Seguirò l’orme tue, se mi conduci;
ma le precorrerò, se mi ricuse. —
Concordi al re ne vanno, il qual fra i duci
e fra i piú saggi suoi gli accolse e chiuse.
Incominciò Clorinda: — O sire, attendi
a ciò che dir voglianti, e in grado il prendi.
10 Argante qui (né sarà vano il vanto)
quella machina eccelsa arder promette.
Io sarò seco, ed aspettiam sol tanto
che stanchezza maggiore il sonno allette. —
Sollevò il re le palme, e un lieto pianto
giú per le crespe guancie a lui cadette;
e: — Lodato sia tu, — disse — che a i servi
tuoi volgi gli occhi e ’l regno anco mi servi.
11 Né già sí tosto caderà, se tali
animi forti in sua difesa or sono.
Ma qual poss’io, coppia onorata, eguali
dar a i meriti vostri o laude o dono?
Laudi la fama voi con immortali
voci di gloria, e ’l mondo empia del suono.
Premio v’è l’opra stessa, e premio in parte
vi fia del regno mio non poca parte. —
12 Sí parla il re canuto, e si ristringe
or questa or quel teneramente al seno.
Il Soldan, ch’è presente e non infinge
la generosa invidia onde egli è pieno,
disse: — Né questa spada in van si cinge;
verravvi a paro o poco dietro almeno.
— Ah! — rispose Clorinda — andremo a questa
impresa tutti? e se tu vien, chi resta? —
13 Cosí gli disse, e con rifiuto altero
già s’apprestava a ricusarlo Argante;
ma ’l re il prevenne, e ragionò primiero
a Soliman con placido sembiante:
— Ben sempre tu, magnanimo guerriero,
ne ti mostrasti a te stesso sembiante,
cui nulla faccia di periglio unquanco
sgomentò, né mai fosti in guerra stanco.
14 E so che fuora andando opre faresti
degne di te; ma sconvenevol parmi
che tutti usciate, e dentro alcun non resti
di voi che séte i piú famosi in armi
Né men consentirei ch’andasser questi
(ché degno è il sangue lor che si risparmi),
s’o men util tal opra o mi paresse
che fornita per altri esser potesse.
15 Ma poi che la gran torre in sua difesa
d’ogni intorno le guardie ha cosí folte
che da poche mie genti esser offesa
non pote, e inopportuno è uscir con molte,
la coppia che s’offerse a l’alta impresa,
e ’n simil rischio si trovò piú volte,
vada felice pur, ch’ella è ben tale
che sola piú che mille insieme vale.
16 Tu, come al regio onor piú si conviene,
con gli altri, prego, in su le porte attendi;
e quando poi (ché n’ho secura spene)
ritornino essi e desti abbian gli incendi,
se stuol nemico seguitando viene,
lui risospingi e lor salva e difendi. —
Cosí l’un re diceva, e l’altro cheto
rimaneva al suo dir, ma non già lieto.
17 Soggiunse allora Ismeno: — Attender piaccia
a voi, ch’uscir dovete, ora piú tarda,
sin che di varie tempre un misto i’ faccia
ch’a la machina ostil s’appigli e l’arda.
Forse allora averrà che parte giaccia
di quello stuol che la circonda e guarda. —
Ciò fu concluso, e in sua magion ciascuno
aspetta il tempo al gran fatto opportuno.
18 Depon Clorinda le sue spoglie inteste
d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere,
e senza piuma o fregio altre ne veste
(infausto annunzio!) ruginose e nere,
però che stima agevolmente in queste
occulta andar fra le nemiche schiere.
E quivi Arsete eunuco, il qual fanciulla
la nudrí da le fasce e da la culla,
19 e per l’orme di lei l’antico fianco
d’ogni intorno traendo, or la seguia.
Vede costui l’arme cangiate, ed anco
del gran rischio s’accorge ove ella gía,
e se n’affligge, e per lo crin che bianco
in lei servendo ha fatto e per la pia
memoria de’ suo’ uffici instando prega
che da l’impresa cessi; ed ella il nega.
20 Onde ei le disse alfin: — Poi che ritrosa
sí la tua mente nel suo mal s’indura
che né la stanca età, né la pietosa
voglia, né i preghi miei, né il pianto cura,
ti spiegherò piú oltre, e saprai cosa
di tua condizion che t’era oscura
poi tuo desir ti guidi o mio consiglio. —
Ei segue, ed ella inalza attenta il ciglio.
21 — Resse già l’Etiopia, e forse regge
Senapo ancor con fortunato impero,
il qual del figlio di Maria la legge
osserva, e l’osserva anco il popol nero.
Quivi io pagan fui servo e fui tra gregge
d’ancelle avolto in feminil mestiero,
ministro fatto de la regia moglie
che bruna è sí, ma il bruno il bel non toglie.
22 N’arde il marito, e de l’amore al foco
ben de la gelosia s’agguaglia il gelo.
Si va in guisa avanzando a poco a poco
nel tormentoso petto il folle zelo
che da ogn’uom la nasconde, e in chiuso loco
vorria celarla a i tanti occhi del cielo.
Ella, saggia ed umil, di ciò che piace
al suo signor fa suo diletto e pace.
23 D’una pietosa istoria e di devote
figure la sua stanza era dipinta.
Vergine, bianca il bel volto e le gote
vermiglia, è quivi presso un drago avinta.
Con l’asta il mostro un cavalier percote:
giace la fèra nel suo sangue estinta.
Quivi sovente ella s’atterra, e spiega
le sue tacite colpe e piange e prega.
24 Ingravida fra tanto, ed espon fuori
(e tu fosti colei) candida figlia.
Si turba; e de gli insoliti colori,
quasi d’un novo mostro, ha meraviglia.
Ma perché il re conosce e i suoi furori,
celargli il parto alfin si riconsiglia,
ch’egli avria dal candor che in te si vede
argomentato in lei non bianca fede.
25 Ed in tua vece una fanciulla nera
pensa mostrargli, poco inanzi nata.
E perché fu la torre, ove chius’era,
da le donne e da me solo abitata,
a me, che le fui servo e con sincera
mente l’amai, ti diè non battezzata;
né già poteva allor battesmo darti,
ché l’uso no ’l sostien di quelle parti.
26 Piangendo a me ti porse, e mi commise
ch’io lontana a nudrir ti conducessi.
Chi può dire il suo affanno, e in quante guise
lagnossi e raddoppiò gli ultimi amplessi?
Bagnò i baci di pianto, e fur divise
le sue querele da i singulti spessi.
Levò alfin gli occhi, e disse: « O Dio, che scerni
l’opre piú occulte, e nel mio cor t’interni,
27 s’immaculato è questo cor, s’intatte
son queste membra e ’l marital mio letto,
per me non prego, che mille altre ho fatte
malvagità: son vile al tuo cospetto;
salva il parto innocente, al qual il latte
nega la madre del materno petto.
Viva, e sol d’onestate a me somigli;
l’essempio di fortuna altronde pigli.
28 Tu, celeste guerrier, che la donzella
togliesti del serpente a gli empi morsi,
s’accesi ne’ tuo’ altari umil facella,
s’auro o incenso odorato unqua ti porsi
tu per lei prega, sí che fida ancella
possa in ogni fortuna a te raccòrsi ».
Qui tacque; e ’l cor le si rinchiuse e strinse
e di pallida morte si dipinse.
29 Io piangendo ti presi, e in breve cesta
fuor ti portai, tra fiori e frondi ascosa
ti celai da ciascun, che né di questa
diedi sospizion né d’altra cosa.
Me n’andai sconosciuto; e per foresta
caminando di piante orride ombrosa,
vidi una tigre, che minaccie ed ire
avea ne gli occhi, incontr’a me venire.
30 Sovra un arbore i’ salsi e te su l’erba
lasciai, tanta paura il cor mi prese.
Giunse l’orribil fèra, e la superba
testa volgendo, in te lo sguardo intese.
Mansuefece e raddolcio l’acerba
vista con atto placido e cortese;
lenta poi s’avicina e ti fa vezzi
con la lingua, e tu ridi e l’accarezzi;
31 ed ischerzando seco, al fero muso
la pargoletta man secura stendi.
Ti porge ella le mamme e, come è l’uso
di nutrice, s’adatta, e tu le prendi.
Intanto io miro timido e confuso,
come uom faria novi prodigi orrendi.
Poi che sazia ti vede omai la belva
del suo latte, ella parte e si rinselva;
32 ed io giú scendo e ti ricolgo, e torno
là ’ve prima fur vòlti i passi miei,
e preso in picciol borgo alfin soggiorno,
celatamente ivi nutrir ti fei.
Vi stetti in sin che ’l sol correndo intorno
portò a i mortali e diece mesi e sei.
Tu con lingua di latte anco snodavi
voci indistinte, e incerte orme segnavi.
33 Ma sendo io colà giunto ove dechina
l’etate omai cadente a la vecchiezza,
ricco e sazio de l’or che la regina
nel partir diemmi con regale ampiezza,
da quella vita errante e peregrina
ne la patria ridurmi ebbi vaghezza,
e tra gli antichi amici in caro loco
viver, temprando il verno al proprio foco.
34 Partomi, e vèr l’Egitto onde son nato,
te conducendo meco, il corso invio,
e giungo ad un torrente, e riserrato
quinci da i ladri son, quindi dal rio.
Che debbo far? te, dolce peso amato,
lasciar non voglio, e di campar desio.
Mi gitto a nuoto, ed una man ne viene
rompendo l’onda e te l’altra sostiene.
35 Rapidissimo è il corso, e in mezzo l’onda
in se medesma si ripiega e gira;
ma, giunto ove piú volge e si profonda,
in cerchio ella mi torce e giú mi tira.
Ti lascio allor, ma t’alza e ti seconda
l’acqua, e secondo a l’acqua il vento spira,
e t’espon salva in su la molle arena;
stanco, anelando, io poi vi giungo a pena.
36 Lieto ti prendo; e poi la notte, quando
tutte in alto silenzio eran le cose,
vidi in sogno un guerrier che minacciando
a me su ’l volto il ferro ignudo pose.
Imperioso disse: « Io ti comando
ciò che la madre sua primier t’impose:
che battezzi l’infante; ella è diletta
del Cielo, e la sua cura a me s’aspetta.
37 Io la guardo e difendo, io spirto diedi
di pietate a le fère e mente a l’acque.
Misero te s’al sogno tuo non credi,
ch’è del Ciel messaggiero ». E qui si tacque.
Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi
come del giorno il primo raggio nacque;
ma perché mia fé vera e l’ombre false
stimai, di tuo battesmo non mi calse,
38 né de i preghi materni; onde nudrita
pagana fosti, e ’l vero a te celai.
Crescesti, e in arme valorosa e ardita
vincesti il sesso e la natura assai:
fama e terre acquistasti, e qual tua vita
sia stata poscia tu medesma il sai;
e sai non men che servo insieme e padre
io t’ho seguita fra guerriere squadre.
39 Ier poi su l’alba, a la mia mente oppressa
d’alta quiete e simile a la morte,
nel sonno s’offerí l’imago stessa,
ma in piú turbata vista e in suon piú forte:
« Ecco, — dicea — fellon, l’ora s’appressa
che dée cangiar Clorinda e vita e sorte:
mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo ».
Ciò disse, e poi n’andò per l’aria a volo.
40 Or odi dunque tu che ’l Ciel minaccia
a te, diletta mia, strani accidenti.
Io non so; forse a lui vien che dispiaccia
ch’altri impugni la fé de’ suoi parenti.
Forse è la vera fede. Ah! giú ti piaccia
depor quest’arme e questi spirti ardenti. —
Qui tace e piagne; ed ella pensa e teme,
ch’un altro simil sogno il cor le preme.
la turba, e li rincalza e con lor poggia.
41 Rasserenando il volto, al fin gli dice:
— Quella fé seguirò che vera or parmi,
che tu co ’l latte già de la nutrice
sugger mi fèsti e che vuoi dubbia or farmi;
né per temenza lascierò, né lice
a magnanimo cor, l’impresa e l’armi,
non se la morte nel piú fer sembiante
che sgomenti i mortali avessi inante. —
42 Poscia il consola; e perché il tempo giunge
ch’ella deve ad effetto il vanto porre,
parte e con quel guerrier si ricongiunge
che si vuol seco al gran periglio esporre.
Con lor s’aduna Ismeno, e instiga e punge
quella virtú che per se stessa corre
e lor porge di zolfo e di bitumi
due palle, e ’n cavo rame ascosi lumi.
43 Escon notturni e piani, e per lo colle
uniti vanno a passo lungo e spesso,
tanto che a quella parte ove s’estolle
la machina nemica omai son presso.
Lor s’infiamman gli spirti, e ’l cor ne bolle
né può tutto capir dentro a se stesso:
gli invita al foco, al sangue, un fero sdegno.
Grida la guardia, e lor dimanda il segno.
44 Essi van cheti inanzi, onde la guarda
— A l’arme! a l’arme! — in alto suon raddoppia;
ma piú non si nasconde e non è tarda
al corso allor la generosa coppia.
In quel modo che fulmine o bombarda
co ’l lampeggiar tuona in un punto e scoppia,
movere ed arrivar, ferir lo stuolo,
aprirlo e penetrar, fu un punto solo.
45 E forza è pur che fra mill’arme e mille
percosse il lor disegno al fin riesca.
Scopriro i chiusi lumi, e le faville
s’appreser tosto a l’accensibil esca,
ch’a i legni poi l’avolse e compartille.
Chi può dir come serpa e come cresca
già da piú lati il foco? e come folto
turbi il fumo a le stelle il puro volto?
46 Vedi globi di fiamme oscure e miste
fra le rote del fumo in ciel girarsi.
Il vento soffia, e vigor fa ch’acquiste
l’incendio e in un raccolga i fochi sparsi.
Fère il gran lume con terror le viste
de’ Franchi, e tutti son presti ad armarsi.
La mole immensa, e sí temuta in guerra,
cade, e breve ora opre sí lunghe atterra.
47 Due squadre de’ cristiani intanto al loco
dove sorge l’incendio accorron pronte.
Minaccia Argante: — Io spegnerò quel foco
co ’l vostro sangue —, e volge lor la fronte.
Pur ristretto a Clorinda, a poco a poco
cede, e raccoglie i passi a sommo il monte.
Cresce piú che torrente a lunga pioggia
48 Aperta è l’Aurea porta, e quivi tratto
è il re, ch’armato il popol suo circonda,
per raccòrre i guerrier da sí gran fatto,
quando al tornar fortuna abbian seconda.
Saltano i due su ’l limitare, e ratto
diretro ad essi il franco stuol v’inonda,
ma l’urta e scaccia Solimano; e chiusa
è poi la porta, e sol Clorinda esclusa.
49 Sola esclusa ne fu perché in quell’ora
ch’altri serrò le porte ella si mosse,
e corse ardente e incrudelita fora
a punir Arimon che la percosse.
Punillo; e ’l fero Argante avisto ancora
non s’era ch’ella sí trascorsa fosse,
ché la pugna e la calca e l’aer denso
a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso.
50 Ma poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da’ nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
nov’arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti
cheta s’avolge; e non è chi la noti.
51 Poi, come lupo tacito s’imbosca
dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ’n gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
52 Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: — O tu, che porte,
che corri sí? — Risponde: — E guerra e morte.
53 — Guerra e morte avrai; — disse — io non rifiuto
darlati, se la cerchi —, e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.
54 Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sí memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,
piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.
55 Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
56 L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
57 Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
58 L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!
59 Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:
60 — Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore. —
61 Risponde la feroce: — Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese. —
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: — In mal punto il dicesti; — indi riprese
— il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta. —
62 Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
63 Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.
64 Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
65 Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
66 — Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. —
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
67 Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
68 Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: « S’apre il cielo; io vado in pace ».
69 D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
70 Come l’alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch’avea raccolto;
e l’imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.
Già simile a l’estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
71 E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco inanzi a lei spiegava l’ale;
ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,
cui trae bisogno d’acqua o d’altro tale,
e con la donna il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch’è morta.
72 Però che ’l duce loro ancor discosto
conosce a l’ arme il principe cristiano,
onde v’accorre, e poi ravisa tosto
la vaga estinta, e duolsi al caso strano.
E già lasciar non volle a i lupi esposto
il bel corpo che stima ancor pagano,
ma sovra l’altrui braccia ambi li pone,
e ne vien di Tancredi al padiglione.
73 A fatto ancor nel piano e lento moto
non si risente il cavalier ferito;
pur fievolmente geme, e quinci è noto
che ’l suo corso vital non è fornito.
Ma l’altro corpo tacito ed immoto
dimostra ben che n’è lo spirto uscito.
Cosí portati, è l’uno e l’altro appresso;
ma in differente stanza al fine è messo.
74 I pietosi scudier già sono intorno
con vari uffici al cavalier giacente,
e già se ’n riede a i languidi occhi il giorno,
e le mediche mani e i detti ei sente
ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno,
non s’assecura attonita la mente.
Stupido intorno ei guarda, e i servi e ’l loco
al fin conosce; e dice afflitto e fioco:
75 — Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
rai miro ancor di questo infausto die?
Dí testimon de’ miei misfatti ascosi,
che rimprovera a me le colpe mie!
Ahi! man timida e lenta, or ché non osi,
tu che sai tutte del ferir le vie, ,
tu, ministra di morte empia ed infame,
di questa vita rea troncar lo stame?
76 Passa pur questo petto, e feri scempi
co ’l ferro tuo crudel fa’ del mio core;
ma forse, usata a’ fatti atroci ed empi,
stimi pietà dar morte al mio dolore.
Dunque i’ vivrò tra memorandi essempi
misero mostro d’infelice amore:
misero mostro, a cui sol pena è degna
de l’immensa impietà la vita indegna.
77 Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure
mie giuste furie, forsennato, errante;
paventarò l’ombre solinghe e scure
che ’l primo error mi recheranno inante,
e del sol che scoprí le mie sventure,
a schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo; e da me stesso
sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.
78 Ma dove, oh lasso me!, dove restaro
le reliquie del corpo e bello e casto?
Ciò ch’in lui sano i miei furor lasciaro,
dal furor de le fère è forse guasto.
Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro
troppo e pur troppo prezioso pasto!
ahi sfortunato! in cui l’ombre e le selve
irritaron me prima e poi le belve.
79 Io pur verrò là dove sète; e voi
meco avrò, s’anco sète, amate spoglie.
Ma s’egli avien che i vaghi membri suoi
stati sian cibo di ferine voglie,
vuo’ che la bocca stessa anco me ingoi,
e ’l ventre chiuda me che lor raccoglie:
onorata per me tomba e felice,
ovunque sia, s’esser con lor mi lice. —
80 Cosí parla quel misero, e gli è detto
ch’ivi quel corpo avean per cui si dole:
rischiarar parve il tenebroso aspetto,
qual le nube un balen che passe e vóle;
e da i riposi sollevò del letto
l’inferma de le membra e tarda mole;
e traendo a gran pena il fianco lasso,
colà rivolse vacillando il passo.
81 Ma come giunse, e vide in quel bel seno,
opera di sua man, l’empia ferita,
e quasi un ciel notturno anco sereno
senza splendor la faccia scolorita,
tremò cosí che ne cadea, se meno
era vicina la fedele aita.
Poi disse: — Oh viso che puoi far la morte
dolce, ma raddolcir non puoi mia sorte!
82 Oh bella destra che ’l soave pegno
d’amicizia e di pace a me porgesti!
quali or, lasso!, vi trovo? e qual ne vegno?
E voi leggiadre membra, or non son questi
del mio ferino e scelerato sdegno
vestigi miserabili e funesti?
Oh di par con la man luci spietate:
essa le piaghe fe’, voi le mirate.
83 Asciutte le mirate? or corra, dove
nega d’andare il pianto, il sangue mio. —
Qui tronca le parole, e come il move
suo disperato di morir desio,
squarcia le fasce e le ferite, e piove
da le sue piaghe essacerbate un rio;
e s’uccidea, ma quella doglia acerba,
co ’l trarlo di se stesso, in vita il serba.
84 Posto su ’l letto, e l’anima fugace
fu richiamata a gli odiosi uffici
Ma la garrula fama omai non tace
l’aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.
Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
turba v’accorre de’ piú degni amici.
Ma né grave ammonir, né pregar dolce
l’ostinato de l’alma affanno molce.
85 Qual in membro gentil piaga mortale
tocca s’inaspra e in lei cresce il dolore,
tal da i dolci conforti in sí gran male
piú inacerbisce medicato il core.
Ma il venerabil Piero, a cui ne cale
come d’agnella inferma al buon pastore,
con parole gravissime ripiglia
il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia:
86 — O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
troppo diverso e da i princípi tuoi,
chi sí t’assorda? e qual nuvol sí spesso
di cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo è un messo;
non vedi lui? non odi i detti suoi?
che ti sgrida, e richiama a la smarrita
strada che pria segnasti e te l’addita?
87 A gli atti del primiero ufficio degno
di cavalier di Cristo ei ti rappella,
che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)
drudo d’una fanciulla a Dio rubella.
Seconda aversità, pietoso sdegno
con leve sferza di là su flagella
tua folle colpa, e fa di tua salute
te medesmo ministro; e tu ’l rifiute?
88 Rifiuti dunque, ahi sconoscente!, il dono
del Ciel salubre e ’ncontra lui t’adiri?
Misero, dove corri in abbandono
a i tuoi sfrenati e rapidi martíri?
Sei giunto, e pendi già cadente e prono
su ’l precipizio eterno; e tu no ’l miri?
Miralo, prego, e te raccogli, e frena
quel dolor ch’a morir doppio ti mena. —
89 Tace, e in colui de l’un morir la tema
poté de l’altro intepidir la voglia.
Nel cor dà loco a que’ conforti, e scema
l’impeto interno de l’interna doglia,
ma non cosí che ad or ad or non gema
e che la lingua a lamentar non scioglia,
ora seco parlando, or con la sciolta
anima che dal Ciel forse l’ascolta.
90 Lei nel partir, lei nel tornar del sole
chiama con voce stanca, e prega e plora,
come usignuol cui ’l villan duro invole
dal nido i figli non pennuti ancora,
che in miserabil canto afflitte e sole
piange le notti, e n’empie i boschi e l’òra.
Al fin co ’l novo dí rinchiude alquanto
i lumi, e ’l sonno in lor serpe fra ’l pianto.
91 Ed ecco in sogno di stellata veste
cinta gli appar la sospirata amica:
bella assai piú, ma lo splendor celeste
orna e non toglie la notizia antica;
e con dolce atto di pietà le meste
luci par che gli asciughi, e cosí dica:
« Mira come son bella e come lieta,
fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta.
92 Tale i’ son, tua mercé: tu me da i vivi
del mortal mondo, per error, togliesti;
tu in grembo a Dio fra gli immortali e divi,
per pietà, di salir degna mi fèsti.
Quivi io beata amando godo, e quivi
spero che per te loco anco s’appresti,
ove al gran Sole e ne l’eterno die
vagheggiarai le sue bellezze e mie.
93 Se tu medesmo non t’invidii il Cielo
e non travii co ’l vaneggiar de’ sensi,
vivi e sappi ch’io t’amo, e non te ’l celo,
quanto piú creatura amar conviensi ».
Cosí dicendo, fiammeggiò di zelo
per gli occhi, fuor del mortal uso accensi
poi nel profondo de’ suoi rai si chiuse
e sparve, e novo in lui conforto infuse.
94 Consolato ei si desta e si rimette
de’ medicanti a la discreta aita,
e intanto sepellir fa le dilette
membra ch’informò già la nobil vita.
E se non fu di ricche pietre elette
la tomba e da man dedala scolpita,
fu scelto almeno il sasso, e chi gli diede
figura, quanto il tempo ivi concede.
95 Quivi da faci in lungo ordine accese
con nobil pompa accompagnar la feo,
e le sue arme, a un nudo pin sospese,
vi spiegò sovra in forma di trofeo.
Ma come prima alzar le membra offese
nel dí seguente il cavalier poteo.
di riverenza pieno e di pietate
visitò le sepolte ossa onorate.
96 Giunto a la tomba, ove al suo spirto vivo
dolorosa prigione il Ciel prescrisse,
pallido, freddo, muto, e quasi privo
di movimento, al marmo gli occhi affisse.
Al fin, sgorgando un lagrimoso rivo,
in un languido: — oimè! — proruppe, e disse:
— O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto,
97 non di morte sei tu, ma di vivaci
ceneri albergo, ove è riposto Amore;
e ben sento io da te l’usate faci,
men dolci sí, ma non men calde al core.
Deh! prendi i miei sospiri, e questi baci
prendi ch’io bagno di doglioso umore;
e dalli tu, poi ch’io non posso, almeno
a le amate reliquie c’hai nel seno.
98 Dalli lor tu, ché se mai gli occhi gira
l’anima bella a le sue belle spoglie,
tua pietate e mio ardir non avrà in ira,
ch’odio o sdegno là su non si raccoglie.
Perdona ella il mio fallo, e sol respira
in questa speme il cor fra tante doglie.
Sa ch’empia è sol la mano; e non l’è noia
che, s’amando lei vissi, amando moia.
99 Ed amando morrò: felice giorno,
quando che sia; ma piú felice molto,
se come errando or vado a te d’intorno,
allor sarò dentro al tuo grembo accolto.
Faccian l’anime amiche in Ciel soggiorno,
sia l’un cenere e l’altro in un sepolto;
ciò che ’l viver non ebbe, abbia la morte.
Oh se sperar ciò lice, altera sorte! —
100 Confusamente si bisbiglia intanto
del caso reo ne la rinchiusa terra.
Poi s’accerta e divulga, e in ogni canto
de la città smarrita il romor erra
misto di gridi e di femineo pianto;
non altramente che se presa in guerra
tutta ruini, e ’l foco e i nemici empi
volino per le case e per li tèmpi.
101 Ma tutti gli occhi Arsete in sé rivolve,
miserabil di gemito e d’aspetto.
Ei come gli altri in lagrime non solve
il duol, ché troppo è d’indurato affetto;
ma i bianchi crini suoi d’immonda polve
si sparge e brutta, e fiede il volto e ’l petto.
Or mentre in lui vòlte le turbe sono,
va in mezzo Argante e parla in cotal suono:
102 — Ben volev’io, quando primier m’accorsi
che fuor si rimanea la donna forte,
seguirla immantinente; e ratto corsi
per correr seco una medesma sorte.
Che non feci o non dissi? o quai non porsi
preghiere al re che fèsse aprir le porte?
Ei me pregante, e contendente invano,
con l’imperio affrenò c’ha qui soprano.
103 Ahi! che s’io allora usciva, o dal periglio
qui ricondotta la guerriera avrei,
o chiusi, ov’ella il terren fe’ vermiglio,
con memorabil fine i giorni miei.
Ma che potevo io piú? parve al consiglio
de gli uomini altramente e de gli dèi:
ella morí di fatal morte, ed io
quant’or conviensi a me già non oblio.
104 Odi, Gierusalem, ciò che prometta
Argante; odi ’l tu, Cielo; e se in ciò manco,
fulmina su ’l mio capo: io la vendetta
giuro di far ne l’omicida franco,
che per la costei morte a me s’aspetta,
né questa spada mai depor dal fianco
insin ch’ella a Tancredi il cor non passi
e ’l cadavero infame a i corvi lassi. —
105 Cosí disse egli, e l’aure popolari
con applauso seguir le voci estreme;
e imaginando sol, temprò gli amari
l’aspettata vendetta in quel che geme.
Oh vani giuramenti! ecco contrari
seguir tosto gli effetti a l’alta speme,
e cader questi in tenzon pari estinto
sotto colui ch’ei fa già preso e vinto.
GIORDANO BRUNO
Composta nel 1576 e pubblicata a Parigi nel 1582, la commedia di Giordano
Bruno, Il Candelaio, è posta qui ad emblema della parabola discendente percorsa
dal personaggio del Pedante: siamo, se non al più basso, certamente allo scalino
tra i bassi che il personaggio poteva toccare. Qui non solo vanità pedentasca,
inutilità delle lettere, miseria e goffaggine trovano tutt’insieme in Mamfurio una
sintesi paradigmatica; ma in lui, non la follia come voleva Erasmo, celebra il suo
trionfo la stupidità: che è un’ottusità determinata dalla chiusura totale e definitiva
nella torre della grammatica e della retorica, dalla non è possibile nessun dialogo
con il mondo esterno. Mamfurio crede di essere nella società, dalla quale si
aspetta il riconoscimento del prestigio della sua cultura, col quale pensa, non
di dominarla, ma almeno di far parte di diritto della classe egemone; in realtà
egli è vittima, come sono vittime tutti coloro che non capiscono il meccanismo
sociale e si imbozzolano delle loro idee. La commedia è la rappresentazione di
una realtà (Napoli è lo spaccato del mondo intero) in cui «a chi manca il danaio,
non solo mancano pietre, erbe e parole, ma l’aria, la terra, l’acqua, il fuoco e la
vita istessa», e per procurarsi o conservare il denaro alcuni impiegano l’alchimia
la magia e la vendita di erudizione grammaticale e di parole rimate. Questi mezzi
si ammantano del nome della dottrina; e chi se ne avvale è talmente pieno di
presunzione che non s’accorge che nella realtà sono la furbizia la truffa il furto che
detengono il primato ed il potere: amore scienza e lettere sono nomi vuoti, pura
follia: vedrete, dice il Proprologo «ociosi principii, debili orditure, vani pensieri,
frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presupposti,
alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia,
smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti,
somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia».
Per la rappresentazione di questo mondo capovolto Bruno si avvale di tre
vicende che sostanzialmente restano distinte: il filo che le unice una una banda
di furfanti che spilla denaro a tutti, e che nelle vesti di guardie e di ispettori
fa a suo modo giustizia. Giustizia della follia dei protagonisti, naturalmente.
La prima vicenda è quella di Bonifacio che spasima d’amore per Vittoria, una
cortigiana; la seconda è di un avido alchimista, Bartolomeo, che pofonde tutte
le forze per trasformare i metalli di poco prezzo in oro. La terza vicenda è di
Manfurio, il pedante che si bea delle parole, delle sue parole dei suoi poemi.
Diremo brevemente dell’amore di Bonifacio.
Poiché il candelaio non riesce a farsi corrispondere – potrebbe pagare l’amore di
Vittoria, ma è avaro –, decide di ricorrere all’arte di Scaramuré che si professa mago.
Fattosi dare degli scudi, questi invece ordisce un tranello ai danni di Bonifacio: in
seguito ad una fascinazione Vittoria l’attenderebbe smaniosa quella sera stessa,
ma egli si travesta da Gioan Bernardo, un giovane pittore. All’appuntamento
Bonifacio troverà la moglie Carbunina nelle vesti dell’amata Vittoria, che l’ha
resa complice. Carubina decide di vendicarsi del marito, castigandolo proprio
a letto, dove egli aspettava gioia e diletto. L’alterco con Carubina e con Gioan
Bernardo – che sospetta egli abbia commesso qualche ribalderia con la sua
identità – richiama l’attenzione di Sanguino vestito da capitano della guardi e dei
suoi tre complici, i quali alla fine fingeranno d’arrestare il travestito Bonifacio, e
lasceranno campo libero a Gioan Bernardo di corteggiare Carubina. Sarà ancora
Scaramuré a spiegargli come e perché la fascinazione non è andata secondo i
desideri di Bonifacio – che avrebbe dato i capelli della moglie e non quelli di
Vittoria –; ed ancora Saramuré lo libererà, dietro esborso di altri scudi, dai ceppi
in cui lo teneva Sanguino travestito da capo degli sbirri; ed in fine lo riconcilierà
con la moglie Carubina e con Gioan Bernardo.
Se la vicenda di Bonifacio è tradizionale storia di innamoramenti travestimenti
ed inganni, semmai conclusa non col tradizionale matrimonio, quella di Bartolomeo
è la traduzione teatrale di una considerazione etica sull’alchimia. Bartolomeo
dopo avere speso gran parte del suo patrimonio per procurarsi l’attrezzatura di
fornaci, alambicchi e così via, ha acquistato per non pochi, ultimi, scudi da Cencio
il segreto della pulvis Christi. Naturalmente Cencio è poi scomparso e Bartolomeo
se la prende col farmacista presso il quale Cencio avrebbe depositato la sua
polvere capace di produrre l’oro.
Bartolomeo, come l’innamorato Bonifacio, e come poi anche Mamfurio, non è
affatto uno sciocco né uno sprovveduto, ché non solo egli si applica con tutta serietà
al suo lavoro, ma è esperto della materia, è insomma una scienziato, come a suo
modo scienziato è Mamfurio, e come prudentemente fiducioso delle possibilità
della magia Bonifacio – che dà credito, questa volta eccessivo, alla magia solo
quando gli si dice del mutamento improvviso di Vittoria e della necessità di costei
di vederlo in serata –. La satira di Bruno è volta, dunque, alle scienze: a quelle
scienze, che vogliono ancora conservare autorevolezza e prestigio mentre non
sono che nomi vuoti ed inutili. Insomma, sono travestimenti di scienze, di fatto
ne sono la contraddizione, con meno di come Sanguino è la contraddizione della
giustizia: salvo che il mariolo alla fin fine una giustizia la fa.
Di tutte le scienze la più ridicola è quella professata di Mamfurio, che nella
commedia ha la vicenda meno intricata, e del quale, perciò, più scoperta è la satira
alla tipologia del personaggio. Il Proprologo traccia i ritratti del personaggi della
commedia: il più dettagliato, il più denso di ironia è quello dedicato a Mamfurio,
che ha, poi, in effetti parte meno estesa: qui l’attacco aperto ed impietoso è alla
pretesa d’essere benefattori dell’umanità, e quindi d’aver diritto all’immortalità
ed ad una «profonda reverenza»:
Vedrete ancor la prosopopeia e maestà d’un omo masculini generis (di genere
maschile): un che vi porta certi suavioli da far sdegnar un stomaco di porco o di
gallina, un instaurator di quel Lazio antiquo, un emulator demostenico, un che ti
suscita Tullio dal piú profondo e tenebroso centro, concinitor di gesti de gli eroi.
Eccovi presente un’acutezza da far lacrimar gli occhi, gricciar i capelli, stuppefar i
denti, petar, rizzar, tussir e starnutare. Eccovi un di compositor di libri bene meriti
di republica, postillatori, glosatori, construttori, metodici, additori, scoliatori,
traduttori, interpreti, compendiarii, dialetticarii novelli, apparitori con una
grammatica nova, un dizzionario novo, un lexicon, una varia lectio (testo che si presenta
scritto diversamente), un approvator d’autori, un approvato autentico, con epigrammi
greci, ebrei, latini, italiani, spagnoli, francesi, posti in fronte libri (sul frontespizio del
libro). […] Voi vedrete un di questi che mastica dottrina, olface opinioni, sputa
sentenze, minge autoritadi, eructa arcani, exuda chiari e lunatici inchiostri, semina
ambrosia e nectar di giudicii, da farne la credenza a Ganimede e poi un brindes al
fulgorante Giove.
Mamfurio esordisce sulla scena esibendosi in un sonetto che sottopone
all’attenzione di Ottavio. Non è il primo sonetto della commedia nella quale
larga è la presenza delle belle lettere, da Bonifacio ai furfanti travestiti da sbirri.
Ciò, naturalmente, non vuol dire che quello letterario sia il registro preferito da
Giordano Bruno e che quindi cacciata dalla porta la letteratura rientri dalla finestra:
l’autore con altrettanta perizia ricorre al registro popolare o addirittura a quello
triviale. Tuttavia non si può omettere una considerazione: e cioè che utlizzatori
e fruitori della letteratura più o meno costanti, più o preparati risultano tanto
Mamfurio quanto Sanguino, quanto Lucia, la servetta di Vittoria, quanto Ottavio. Il
quadro complessivo è quello di una larga diffusione della cultura, almeno quella
elementare. Nell’atto i, 6 Lucia legge il sonetto d’amore che Bonifacio ha inviato
a Vittoria: i versi sono ipermetropi, e tutti i quattordici versi rimano in -ore. Lucia
commenta: «io, per me, di rima non m’intendo; pure, s’io posso farne giudicio,
dico due cose: l’una, ch’i versi son piú grandi che gli ordinarii; l’altra, che son
fatti a suon di campana e canto asinino, li quali, sempre toccano alla medesima
consonanza». Poco più in avanti vedremo che Bonifacio, l’autore, considererà la
monorima una manifestazione di ingegno poetico. Ora poco conta che Bonifacio,
il candelaio innamorato, faccia dei versi brutti, che egli come autore non può non
considerare belli, conta che egli abbia coscienza dell’originalità della sua trovata:
«leggi il Petrarca tutto intiero, discorri tutto l’Ariosto, non trovarai un simile». È
chiaro che la polemica del Bruno è contro l’esibizione del letterario, contro la
pretesa di farne merce di scambio, sia pure per ottenere il riconoscimento di
una qualche superiorità o autorità: allora la dottrina retorica manifesta tutta la
sua incosistente illogicità. È la prima scena dell’atto i: qui Mamfurio è avvicinato
da Ottaviano. L’incontro è teatralmente banale: Ottaviano gli chiede il nome e
la professione. La prima battuta di Mamfurio sollecita l’ironia dell’interlocutore:
gli ha chiesto la professione ed ecco Mamfurio esibirsi in una serie di sinonimie
lessicali e perifrastiche per indicare i fanciulli. Ottaviano finge di assecondarlo;
Mamfurio prende sul serio la professione di sconfinata ammirazione e non esita a
salire più in alto nella vanità; tal che quando Ottaviano lo prega di tacere perché
non riesce a sopportare più la dolcezza del suo eloquio, lo asseconderà perché
non accada quel che accadde alla fanciulla di cui parla Ovidio nelle Metamorfosi, la
quale morì dopo aver visto il folgorante Giove. Tuttavia Ottaviano insiste, adesso
vuole sentire una composizione poetica del maestro; e Mamfurio l’accontenta non
senza aver prima indicato il suo precendente, ancora Ovidio, ad imitazione del
quale egli ha scritto versi in cui descrive il porco domestico:
O porco sporco, vil, vita disutile,
ch’altro non hai che quel gruito fatuo,
col quale il cibo tu ti pensi acquirere;
gola quadruplicata da l’axungia
dall’anteposto absorpta brodulario
che ti prepara il sozzo coquinario
per canal emissario;
per pinguefarti piú, vase d’ingluvie,
in cotesto porcil t’intromettesti,
u’ ad altro obiecto non guardi ch’al pascolo,
e privo d’exercizio,
per inopia e penuria
di meglior letto e di meglior cubiculo,
Altro non fai ch’al sterco e fango involverti.
Ottaviano si profonde in lodi: il componimento è «bellissimo e sottil concetto»,
non ostante che sia stato composto di getto senza alcuna rimeditazione o labor limae,
come ammette l’autore. È che il suo ingegno è grande. Tralasceremo la scenetta
seguente, nella quale Ottavia, fattesi suggerire l’affermazione e la negazione
che fossero gradite al Maestro, gli contesta la composizione, accendendo così
la sua mortale inimicizia. La vicenda di Mamfurio è tutta qui: egli scriverà un
poemetto contro Ottaviano che dirà: «d’ogni lum privo, d’ignoranza figlio, povero
d’argumento e di consiglio». Mamfurio ha modo di esacerbare con l’enfasi retorica
chiunque incontri, che lo porta ad interrompere ogni discorso, suo ed altrui, per
inserivi una citazione dotta. È il caso di Gioan Bernardo, che rivolgendogli una
domanda, aveva pronunciato, rivolto a Mamfurio, la parola «magister» e egli aveva
chiosato «Hoc est magis ter: tre volte maggiore»: Gioan Bernardo allora chiederà il
significato della parola «pedante». Bruno approfitta per esibire un altro aspetto
della vanità dei maestri di lettere:
Mamfurio Lubentissime voglio dirvelo, insegnarvelo, declararvelo, exporvelo, propalarvelo, palam
farvelo, insinuarvelo, et, (particula coniunctiva in ultima dictione apposita [particella congiuntiva aggiunta
all’ultima parola]) enuclearvelo; sicut, ut, velut, veluti, quemadmodum nucem ovidianam meis coram discipulis,
- quo melius nucleum eius edere possint, - enucleavi [così come, così, come, quale, qualmente ho spiegato la radice
ovidiana dinanzi ai miei discepoli – affinché potessero megli sussumere il significato del tema –]. «Pedante» vuol
dire quasi pede ante: utpote quia [piedi avanti: perché] have lo incesso prosequitivo, col quale fa andare
avanti gli erudiendi puberi; vel per strictiorem arctioremque aethymologiam [o attraverso un’etimologia più
limitata e stretta]: pe, «perfectos»; dan «dans»; te, «thesauros». Or che dite de le ambeduei ?
Gioan Bernardo Son buone; ma a me non piace né l’una né l’altra, né mi par a proposito.
Mamfurio Codesto vi è a dirlo lecito, alia meliore in medium prolata, idest quando arrete apportatane
un’altra vie piú degna.
Gioan Bernardo Eccovela: pe «pecorone»; dan, «da nulla»; te, «testa d’asino».
Andrebbero qui sottolineate la serie, inutile del tutto, dei sinonimi di «sicut»,
e la connessa digressione sulla spiegazione ai discepoli, e le due etimologie
alla maniera medievale senz’alcun riferimento al latino, o al greco, come ci si
sarebbe aspettato da chi ad ogni pié sospinto cita in latino: la filologia classica
dell’Umanesimo e del Rinascimento non l’ha minimamente sfiorato. Benché sia
rimasto alle nozioni elementari pretende di erudire i ragazzi, ai quali darebbe
«tesori perfetti». Facile dimostrare l’inconsistenza della sua dottrina: ecco Gioan
Bernardo proporre, adottando lo stesso metodo di Mamfurio, un’altra etimologia.
Il Pedante sdegnato si allontana.
Se nelle due scene precedenti erano state messe alla prova le competenze
poetiche e lessicali di Mamfurio, quelle che seguono ed in cui è protagonista
rilevano l’incongruità della sua dottrina con la società contemporanea. Corcovizzo
della banda di Sanguino, mostrandogli riverenza ed ammirazione, gli si rivolge
chiedendogli di cambiargli delle monete. Appena il Pedante tira fuori la sua borsa
il mariolo gli porta via. Alle grida del derubato accorrono Barra e Barca, altri due
amici di Sanguino. La scena che segue è tra le più divertenti della commedia:
Mamfurio infatti utilizza il suo linguaggo latineggiante e, a suo dire, lessicalmente
corretto per richiamare l’attenzione dei passanti e farsi aiutare a fermare il ladro.
Ma le sue invocazioni d’aiuto, con sinonimie e perifrasi, non sono comprese:
Mamfurio Olà, olà, cqua cqua, aggiuto, agiuto! Tenetelo, tenetelo! Al involatore, al surreptore, al
fure, amputator di marsupii et incisor di crumene! Tenetelo, ché ne porta via gli miei aurei solari
con gli argentei!
Barra Che cosa, che cosa v’ha egli fatto?
Mamfurio Perché lo avete lasciato andare?
Barra Diceva il poverello: « Mi vuol battere il mio padrone, a me, povero innocente! » Però
l’abbiam lasciato, acciò che vi facciate passar la colera prima, perché poi lo potrete castigar a
bell’agio, in casa.
Marca Signor sì, bisogna perdonar qualche volta a’ servitori e non usar sempre de rigore.
Mamfurio Oh, che non è punto mio servo né familiare, ma un ladro che mi ha rubbati diece scudi
di mano!
Barra Può far l’Intemerata… E voi perché non cridavate: «il mariolo, al mariolo ?» che non so
che diavolo de linguaggio avete usato.
Mamfurio Questo vocabulo che voi dite, non è latino né etrusco; e però non lo proferiscono di
miei pari.
Barra Perché non cridavate: «al ladro»?
Mamfurio «Latro» è sassinator di strada, in qua, vel ad quam latet. «Fur» qui furtim et subdole [Ladro è
deliquente di strada nella quale o presso la quale si nasconde. Fure è colui che furtivamente e subdolamente], come
costui mi ha fatto: qui et subreptor dicitur a subtus rapiendo, vel quasi rependo [], perché, sotto specimine di
uomo da bene, mi ha decepto, i miei scudi.
Barra Or, vedete che avanzate co le vostre lettere, a non voler parlar per volgare: ma, col vostro
latrino e trusco, credevamo che parlassivo con esso lui piú che con noi.
Mamfurio O fure, degna pastura d’avoltori!
Marca Dite, perché non correvate appresso lui?
Mamfurio Volete voi ch’un grave moderator di ludo literario, e togato, avesse per publica platea
accelerato il gresso ? a miei pari convien quel adagio, (si proprie adagium licet dicere): «Festina lente»;
item et illud « Gradatim, paulatim, pedetentim »[se si può dire con proprietà adagio: «Accelera lentamente»; o l’altro
«A grado a grado, a poco a poco, passo dopo passo»].
Barra Avete raggione, signor dottore, d’aver sempre risguardo al vostro onore, et alla maestà
del vostro andare.
Mamfurio O fure le cui ossa vorrei vedere sovra una ruota attrite ! Oimè, forse che non me gli
ha tutti involati ? Or che dirà il mio Mecena ? Io gli risponderò, con l’autorità del prencipe di
Peripatetici, Aristotele, secundo Physicorum, vel Periacroaseos: «Casus est eorum quae eveniunt in minori parte,
et praeter intentionem»[nel secondo della Fisica, o Periacroaseos: «Il caso riguarda ciò che avviene raramente, e senza
intenzionalità»].
La fedeltà di Mamfurio ai proprio principi, alla dignità del maestro, e
all’apparenza dignitosa è adamantina, non arretra dinanzi a nessun ostacolo: egli
è deciso a non venire a patti mai con la realtà: tal che basta che qualcuno lo chiami
«domine Magister» che egli pensi d’averne ottenuto il rispetto, e la devozione
e la riconoscenza. Solo che a proferire «domine Magister» è Sanguino, il capo
della banda di furfanti che sino ad ora lo hanno derubato e frenato nella denuncia
sia pure solo gridata e verbale. Sanguino assicura di conoscere il ladro, basterà
non farsi riconoscere immediatamente: Mamfurio dia il suo mantello, «la toga
magistral» gli fa da divisa e individua la sua autorità di maestro, ed i suo cappello,
affinché Sanguino possa sorprendere Corcovizzo. In realtà è lo stratagemma per
portargli via anche gli indumenti. Mamfurio si sente costretto a nascondersi perché
non vuole essere sorpreso da nessuno in quelle vesti indecentissime. Sanguino e
i suoi compari ritornano travestiti da sbirri , e lo accusano d’aver lui rubata la toga
che indossa. Vane le proteste del Maestro, vane le esibizioni di dottrina lettaria
e di latino: «Non ci ingannarrai, poltrone, con queste parole latine imparate per il
bisogno. Tu sei qualche ignorante: si fussi dotto, non sarreste mariolo». A maggior
ragione i sospetti aumentano allorché, richiestone, riferisce quella che dovrebbe
essere la prima lezione ai fanciulli; tal che è costretto a riconoscere che le parole
questa volta non gli sono d’aiuto: «O me miserum ! verba nihil prosunt» (iv, 16).
S’è visto cone la banda di Sanguino, nel ruolo di sbirri, aveva portato pace,
ricavandone un bel po’ di scudi ovviamente, tra le coppie di litiganti, Bonifacio e
Carubina, Bartolomeo ed il Farmacista. Nelle loro mani è rimasto il solo Mamfurio,
al quale pure vengono richiesti gli scudi rimanenti. Il Maestro mente per amor del
denaroed afferma di non essere più padrone di nulla; i finti giustizieri allora gli
offrono una scelta di punizioni corporali, di quelle che i maestri impartivano ai loro
discepoli: o dieci colpi sulle palme con un ferro di cinghi, o cinquanta staffilate
a brache abbassate. Le palme delle mani sone le prime ad essere sottoposte al
supplizio; il dolore gli è insopportabile, che gli diano le staffilate. Deve contarle;
ad una ad una, e quando i lamenti gli impediscono di pronunciare il numero,
allora bisogna ricominciare daccapo. Ma non è arrivato a dieci che ecco ricorda
d’aver da qualche parte, nascosti tra gli abiti alcuni scudi. Sanguino abbandonerà
il dolente Pedante, ormai privato degli ultimi scudi.
La commedia volge al termine. Ascanio inviterà il maestro a guardare bene
attorno: non vede una platea di spettatori ? non ha l’impressione d’essere in una
commedia ? Mamfurio ne è certo. Allora bisognerà concluderla, a lui il privilegio
di farlo. Mamfurio non ha imparato nulla, e a suo modo porgerà uno dei più belli,
ed ambigui, congedi al pubblico:
Hilari efficiam animo, forma quae sequitur[Lo farò con animo leggero, nella forma che segue]. Sì come
i marinai, benché abbin l’arbor tronco, persa la vela, rotte le sarte e smarrito il temone per la
turbida tempesta, soglion, nulla di meno, per esser gionti al porto, plaudere [applaudirono]; et iuxta la
Maroniana sentenza:
Votaque servati solvent in littore nautae
Glauco, et Panopeae, et Inoo Melicertae;
[i marinai giunti in salvo, scioglieranno sul lido i voti a Glauco, a Panope, a Malicerta di Ino]parimente, Ego
Mamphurius, graecarum, latinarum vulgariumque literarum, non inquam regius, nec gregius, sed egregius, – quod
est per aethimologiam e grege assumptus, – professor; nec non philosophiae, medicinae, et iuris utriusque, et theologiae
doctor, si voluissem [così io Mamfurio, professore, non dico regio, né banale, ma egregio – che etimologicamente deriva
da e grege, fuori dal gregge, di lettere greche, latine e volgari; ed altresì dottore di filosofia e anche di medicina e
del diritto civile e canonico, e di teologia, se solo avessi voluto]; per esser gionto al porto di miei erumnosi e
calamitosi successi, post hac vota soluturus, plaudo [sul punto di sciogliere i voti, applado]. Proinde dico a voi,
nobilissimi spectatori (quorum omnium ora, atque oculos in me video esse coniectos [dei quali tutti io vedo rivolti
a me bocche ed occhi]), sì come io per ritrovarmi al fine del mio esser tragico supposito, sì non co le
mani, giornea e vesti, corde, tamen, et animo plaudo [applaudo a voi con tutto il cuore]; cossì, e megliormente
voi, meliori hactenus acti fortuna [spinti da migliore sorte], che di nostri fastidiosi et importuni casi siete
stati gioiosi e lieti spectatori, Valete et Plaudite.
IL LIBRO
A gli abbeverati nel Fonte Caballino.
Voi che tettate di muse da mamma,
E che natate su lor grassa broda
Col musso, l’eccellenza vostra m’oda,
Si fed’e caritad’ il cuor v’infiamma.
Piango, chiedo, mendico un epigramma,
Un sonetto, un encomio, un inno, un’oda
Che mi sii posta in poppa over in proda,
Per farmene gir lieto a tata e mamma
Eimè ch’in van d’andar vestito bramo,
Oimè ch’i’ men vo nudo com’un Bia,
E peggio: converrà forse a me gramo
Monstrar scuoperto alla Signora mia
Il zero e menchia, com’il padre Adamo,
Quand’era buono dentro sua badia.
Una pezzentaria
Di braghe mentre chiedo, da le valli
Veggio montar gran furia di cavalli.
SUA SIG[NORA] S[EMPRE] O[NORANDA]
Ed io a chi dedicarrò il mio Candelaio? a chi, o gran
destino, ti piace ch’io intitoli il mio bel paranimfo,
il mio bon corifeo ? a chi inviarrò quel che dal sirio
influsso celeste, in questi piú cuocenti giorni, et ore
piú lambiccanti, che dicon caniculari, mi han fatto
piovere nel cervello le stelle fisse, le vaghe luccio­
le del firmamento mi han crivellato sopra, il decano
de’ dudici segni m’ha balestrato in capo, e ne l’orec­
chie interne m’han soffiato i sette lumi erranti?. A chi
s’è voltato, - dico io? - a chi riguarda, a chi prende
la mira? A Sua Santità? no. A Sua Maestà Cesarea?
no. A Sua Serenità? no. A Sua Altezza, Signoria illu­
strissima e reverendissima? non, no. Per mia fé, non
è prencipe o cardinale, re, imperadore o papa che
mi levarrà questa candela di mano, in questo sollen­
nissimo offertorio. A voi tocca, a voi si dona; e voi
o l’attaccarrete al vostro cabinetto o la ficcarrete al
vostro candeliero, in superlativo dotta, saggia, bel­
la e generosa mia s[ignora] Morgana: voi, coltivatri­
ce del campo dell’animo mio, che, dopo aver attrite
le glebe della sua durezza e assottigliatogl’ il stile,
- acciò che la polverosa nebbia sullevata dal vento
della leggerezza non offendesse gli occhi di questo
e quello, - con acqua divina, che dal fonte del vostro
spirto deriva, m’abbeveraste l’intelleto. Però, a tem­
po che ne posseamo toccar la mano, per la prima vi
indrizzai: Gli pensier gai; apresso: Il tronco d’acqua
viva. Adesso che, tra voi che godete al seno d’Abraa­
mo, e me che, senza aspettar quel tuo soccorso che
solea rifrigerarmi la lingua, desperatamente ardo e
sfavillo, intermezza un gran caos, pur tropp’ invidioso
del mio bene, per farvi vedere che non può far quel
medesmo caos, che il mio amore, con qualche pro­
prio ostaggio e material presente, non passe al suo
marcio dispetto, eccovi la candela che vi vien porgiu­
ta per questo Candelaio che da me si parte, la qual
in questo paese, ove mi trovo, potrà chiarir alquanto
certe Ombre dell’idee le quali in vero spaventano le
bestie, e come fussero diavoli danteschi, fan rima­
ner gli asini lungi a dietro; et in cotesta patria, ove
voi siete, potrà far contemplar l’animo mio a molti,
e fargli vedere che non è al tutto smesso. Salutate
da mia parte quell’altro Candelaio di carne et ossa,
delle quali è detto che «Regnum Dei non posside­
bunt»; e ditegli che non goda tanto che costì si dica la
mia memoria esser stata strapazzata a forza di piè di
porci e calci d’asini: perché a quest’ora a gli asini son
mozze l’orecchie, et i porci qualche decembre me la
pagarranno. E che non goda tanto con quel suo detto:
«Abiit in regionem longinquam»; perché, si avverrà
giamai ch’i cieli mi concedano ch’io effettualmente
possi dire: «Surgam et ibo», cotesto vitello saginato
senza dubbio sarrà parte della nostra festa. Tra tanto,
viva e si governe, et attenda a farsi piú grasso che
non è; perché, dall’altro canto, io spero di ricovrare il
lardo, dove ho persa l’erba, si non sott’un mantello,
sotto un altro, si non in una, in un’altra vita. Ricorda­
tevi, Signora, di quel che credo che non bisogna inse­
gnarvi: - Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si
muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutar­
si, un solo è eterno, e può perseverare eternamente
uno, simile e medesmo. - Con questa filosofia l’animo
mi s’aggrandisse, e me si magnifica l’intelletto. Però,
qualumque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si
la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto
il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la not­
te: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o
adesso o poi, o presto o tardi. Godete, dunque, e, si
possete, state sana, et amate chi v’ama.
ARGUMENTO ET ORDINE
DELLA COMEDIA
Son tre materie principali intessute insieme ne la
presente comedia: l’amor di Bonifa[cio], l’alchimia di
Bartolomeo e la pedantaria di Mamfurio. Però, per la
cognizion distinta de’ suggetti, raggion dell’ordine et
evidenza dell’artificiosa testura, rapportiamo prima,
da per lui, l’insipido amante, secondo il sordido ava­
ro, terzo il goffo pedante: de’ quali l’insipido non è
senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimente
insipido e goffo, et il goffo non è men sordido et in­
sipido che goffo.
BONIFACIO, dumque,
nell’atto primo, scena prima, inamorato della signora
Vittoria, et accorgendosi che non possea reciprocarsi
l’amore (del che era la caggione che quella er’amica,
come si dice, di fiori di barbe e frutti di borse, e lui
non era giovane né liberale), pone la sua speranza ne
la vanità de le magiche superstizioni, per venire a gli
amorosi effetti; e per questo manda il suo servitore
a trovar Scaramuré che gli era stato descritto efficace
mago. .II. scena Avendo inviato Ascanio, discorre tra
se medesmo, riducendosi a mente il valor di quel­
l’arte. .III. scena.
Gli sopragionge Bartolomeo che con certo mezzo ar­
tificio gli fa vomitare il suo secreto, e mostra la diffe­
renza dell’ogetto dell’amor suo. .IV. scena. Sanguino,
padre e pastor di marioli, et un scolare, che studiava
sotto Mamfurio, che da parte aveano uditi questi rag­
gionamenti, discorreno sopra quel fatto; e Sanguino
particularmente comincia a prender il capo per ordir
qualche tela verso di Bonifacio. .VI. scena. Compa­
re Lucia ruffiana con un presentuccio che Bonifacio
mandava, e ne fa notomia, e si dispone a prenderne
la decima, e poco mancò che non vi fusse sopragiunta
da lui. .VII. scena. Bonifacio se ne viene tutto glorioso
per certo suo poema di nova cola in onor e gloria de
a sua dama: nella qual festa (.VIII. scena.) fu ritrovato
da Gioan Bernardo pittore, al quale arrebbe disco­
perto il suo nuovo poetico furore, ma lo distrasse il
pensier del ritratto, et il pensier sopra un dubbio che
gli lasciò Gioan Bernardo nella mente. E (.IX. scena.)
rimane perplesso su l’enigma; perché o piú o meno
intende il termino candelaio, ma non molto può ca­
pir che voglia dir orefice. Mentre dimora in questo
pensiero, ecco (.x. scena.) riviene Ascanio col mago,
il quale, dopo avergli fatte capir alcune pappolate, lo
lascia in speranza d’accapar il tutto.
Nell’atto secondo, .II. scena, si monstrano la signora
Vittoria e Lucia entrate in speranza di premer vino
da questa pumice e cavar oglio da questo subere:
e sperano, col seminar speranze nell’orto di Bonifa­
cio, di tirar messe di scudi nel proprio magazzino; ma
s’ingannavano le meschine, pensando che l’amor gli
avesse tanto tolto l’intelletto, che non avesse sem­
pre avanti gli occhi della mente il proverbio che gli
udirrete dire nel principio della sesta scena nell’at­
to quarto. .III. scena: rimasta la signora Vittoria sola,
fa di bei castelli in aria, presupponendo che questa
fiamma d’amor facesse colar e fonder metalli, e che
questo martello di Cupido co l’incudine del cuor di
Bonifacio stampar potesse almen tanta moneta, che,
fallendo col tempo l’arte sua, non gli fusse necessa­
rio d’incantar quella di Lucia iuxta illud: «Et iam facta
vetus, fit rofiana Venus». Mentre dumque si pasce
di que’ venticelli che gonfiano la panza e non nu­
triscono, (.Iv. scena) sopraviene Sanguino, che, per
quel ch’avea udito dalla propria bocca di Bonifacio,
comincia a tramar qualche bella impresa, e si retira
con lei per discorrere come si dovessero governar col
fatto suo.
Nell’atto terzo, .II. scena, viene Bonifacio con Lucia,
che lo contrista, tentandolo di pacienza per la borsa:
or, mentre masticava come avesse in bocca il pan­
ferlich, gli cascò il lasagno dentr’al formaggio, idest
ebbe occasion di levarsela d’avanti per quella volta,
per dover trattar cose importanti con dui che sopra­
giunsero. III scena. Questi erano Scaramuré et Asca­
nio, co i quali si tratta come si dovesse governare ne’
magichi cerimoni; dona parte del suo conto al mago
e se ne va. IV scena: rimane, beffandosi de la smania
di costui, Scaramuré; e (.v. scena) ritorna Lucia che
pensava che Bonifacio l’aspettasse, e costui la rende
certa che la speranza era vana e la fatica persa; e con
ciò vanno alla signora Vittoria per chiarirla del tut­
to: il che fece costui, a fin che, col fingere di quella,
potesse graffar qualch’altra somma da Bonifacio. IX.
scena: compaiono Sanguino e Scaramuré, come quei
ch’aveano appuntato qualche cosa con la signora Vit­
toria e messer Gioan Bernardo: e questi dui con dui
altri venturieri sotto la bandiera di Sanguino trattano
di negociare alcuni fatti con stravestirsi da capitano
e birri: del qual partito (nella .x. scena) si contentano
molto.
Nell’atto quarto, .I. scena, la signora Vittoria vien fuo­
ri fastidita per molto aspettare; discorre sopra l’avaro
amor di Bonifacio e sua vana speranza; mostra d’esser
inanimata a fargli qualch’insapore, insieme col finto
capitano, birri e Gioan Bernardo. Tra tanto venne Lu­
cia (.II. scena) che mostra di non aver perso il tempo,
e [non esser stata] vana la fatica: espone come abbia
informata et instrutta Carubina, moglie di Bonifacio;
e (scena .III.) sopragionte da Bartolomeo, sdegnate si
parteno. .IV. scena: rimane Bartolomeo, discorrendo
sopra la sua materia; et ecco (.v. scena) gli occorre
Bonifacio, e raggionano un pezzo insieme, burlando­
si l’un de l’altro. Tra tanto Lucia che non dormeva so­
pra il fatto suo, (.VI. scena) trova messer Bonifacio, il
quale, disciolto da Bartolomeo, vien ad esser molto
persuaso dall’estreme novelle che quella gli disse:
cioè che per il meno la signora Vittoria gli arrebbe
donato tutt’il suo, con questo che la andasse a chia­
var per quella sera, ch’altrimente moreva: il che, per
le cose che erano passate della magica fattura, non fu
difficile a donarglielo ad intendere: prese ordine di
stravestirsi lui come Gioan Bernardo. Lucia si parte
co le vesti di Vittoria a mascherar Carubina. .VII. sce­
na: rimane Bonifacio, facendo tra se medesmo festa
dell’effetto che vede del suo incantesimo; apresso,
(.VIII. scena) si berteggia insieme con Marta, moglie
di Bartolomeo, per un pezzo, e poi è verisimile ch’an­
dasse subbito al mascheraro per accomodarsi come
S. Cresconio. .XII. scena Ecco Carubina, stravestita et
istrutta da Lucia: fa intendere i belli allisciamenti e
vezzi che questa sofistica Vittoria dovea far al suo al­
chimico inamorato; e prende il camin verso la stanza
di Vittoria. E (.XIII. scena) rimane Lucia con determi­
nazione d’andar a trovar Gioan Bernardo; ma ecco
che (XIV SC.) colui viene a tempo, perché non ve­
gliava meno sopra il proprio negocio, che Lucia sopra
l’altrui. Cqua si determina de le occasione che do­
vean prendere, come le persone si doveano disporre
al loco e tempo: e poi Lucia va a trovar Bonifacio e
Gioan Bernardo a dar ordine all’altre cose.
Nell’atto quinto, scena .I., eccoti Bonifacio, in abito
di Gioan Bernardo, che spirava amor dal culo e tutti
gli altri buchi della persona; e con Lucia, dopo aver
discorso un poco, sen va alla bramata stanza. Tra
tanto, Gioan Bernardo teneva il baston dritto, pen­
sando a Carubina, et aspettò un gran pezzo, facendo
la sentinella, mentre Sanguino mariolava e Bonifa­
cio prendeva i suoi disgusti; sin tanto che (.IX. sce­
na) venendo fuori Bonifacio confusissimo con l’an­
cor sdegnatissima Carubina, a l’impensata de l’uno
e l’altra trovorno un altro osso da rodere e gruppo
da scardare, cioè si trovorno rincontrati con Gioan
Bernardo. Quindi nacquero molti dibatti di paroli, et
essendono prossimi a toccarsi co le mani, (.x. scena)
sopravien Sanguino stravestito da capitan Palma con
sui compagni stravestiti da birri; e per ordinario della
corte et instanza di Gioan Bernardo menorno Bonifa­
cio in una stanza vicina, fingendo intenzione di con­
durlo dopo spediti altri negocii in Vicaria. Con que­
sto, (.XI. scena) Carubina rimane nelle griffe di Gioan
Bernardo, il quale (com’è costume di que’ che arden­
temente amano) con tutte sottigliezze d’epicuraica
filosofia (Amor fiacca il timor d’omini e numi) cerca
di troncare il legame del scrupolo che Carubina, in­
solita a mangiar piú d’una minestra, avesse possuto
avere. Della quale è pur da pensare che desiderasse
piú d’esser vinta che di vencere; però gli piacque di
andar a disputar in luoco piú remoto. Tra tanto che
passavano questi negocii, Scaramuré ch’avea l’orlog­
gio nel stomaco e nel cervello, andò [(XIV scena)] con
specie di sovvenire a Bonifacio; e (xv scena) trova
Sanguino co i compagni et impetra licenza di parlar
a Bonifacio; e, avendola impetrata con certe mario­
lesche circostanze (.XVI. scena), viene (.XVII. scena)
a persuadere a Bonifacio, che l’incanto avea, per fal­
lo di esso Bonifacio, avuto confuso effetto; e dice di
voler negociar, per il presente, la sua libertà. Il che
facendo, (.XVIII. scena) con offrire qualche sottoma­
no al Capitano, riceve, da quel che non era novizio
nell’arte sua, una asprissima risoluzione, la quale da
dovero mosse Bonifacio, e Scaramuré, in quel modo
che posseva, a ingenocchiarsi in terra e chieder gra­
zia e mercè: sin tanto ch’impetrorno da lui che si con­
tentasse di farli grazia. La qual gli fu concessa con
questa condizione, che Scaramuré facesse di modo
che venessero la moglie Carubina e Gioan Bernardo
a rimettergli l’offesa. Cossì, questo accordo si venne
a trattar con molte apparenti difficultà (.XXI. e .XXII.
scena); sin tanto che, (.XXIII. scena) dopo aver chie­
sa perdonanza in ginocchioni a Gioan Bernardo e la
moglie, e ringraziato Sanguino e Scaramuré, et onta
la mano del Capitano e birri, fu liberato per grazia
del signor Dio e della Madonna: dopo la cui partita,
(.XXIV. scena) Sanguino et Ascanio fanno un poco di
considerazione sopra il fatto suo. Considerate, du­
mque, come il suo inamorarsi della signora Vittoria
l’inclinò a posser esser cornuto, e, quando si pensò
di fruirsi di quella, dovenne a fatto cornuto: figurato
veramente per Atteone, il quale, andando a caccia,
cercava le sue corne, e, all’or che pensò gioir de sua
Diana, dovenne cervo. Però, non è maraviglia si è
sbranato e stracciato costui da questi cani marioli.
BARTOLOMEO compare
nell’atto I, .III. scena, dove si beffa dell’amor di Bo­
nifacio: concludendo che l’inamoramento de l’oro e
de l’argento, e perseguire altre due dame, è piú a
proposito; et è verisimile che, quindi partito, fusse
andato a far l’alchimia nella quale studiava sotto la
dottrina di Cencio: il quale Cencio nella .XI. scena si
discuopre barro, secondo il giudizio di Gioan Bernar­
do; e poi nella .XII. scena egli medesmo si mostra
a fatto truffatore. Viene Marta, sua moglie nella .XIII.
scena e discorre sopra l’opra del marito; e (nella .XIV.
SC.) è sopragionta da Sanguino che si burlava di lui
e lei.
Nell’atto secondo, V scena, raggionando Barro con
Lucia, mostra parte del profitto che facea Bartolo­
meo: cioè che, mentre lui attendeva ad una alchimia,
la moglie Marta facea la bucata et insaponava i drap­
pi.
Nell’atto terzo, .I. scena, Bartolomeo discorre sopra
la nobilità della sua nuova professione: e mostra con
sue raggioni che non v’è meglior studio e dottrina de
quello de minerabilibus, e con questo, ricordato del
suo esercizio, si parte.
Nell’atto quarto, .III. scena, va Bartolomeo aspettan­
do il servitore ch’avea inviato per il pulvis Christi, e
(IV SC.) discorre sopra quel detto: «Onus leve», as­
somigliando l’oro alle piume. VIII sc. La sua moglie
dimostra quanto fusse onesta matrona nel raggionar
che fa con messer Bonifacio: mostra quanto lei fusse
piú esperta nell’arte del giostrare ch’il suo marito in
far alchimia; e (nella IX SC.) dona ad intendere ciò
non esser maraviglia, perché a quella disciplina fu
introdotta nella età di dodici anni; e, donando piú
vivi segnali della sua dottrina da cavalcare, fa una la­
mentevole e pia digressione circa quel studio di suo
marito, che l’avea distratto da sue occupazioni me­
gliori; mostra anco la diligenza che teneva in sollicitar
gli suo’ Dei, a fin che gli restituissero il suo marito
nel grado di prima. Con questo (x sc.) comincia a ve­
der effetto di sue orazioni, per essere l’alchimia tutta
andata in chiasso S’ per un certo pulvis Christi, che
non si trovava altrimente, che facendolo Bartolomeo
medesmo: il quale de cinque talenti gli arrebbe reso
talenti cinque. L’uomo, per informarsi meglio, va col
suo Mochione a ritrovar Consalvo
Nell’atto quinto, .II. scena, vengono Consalvo e Bar­
tolomeo che si lamentava di lui, come consapevole e
complice della burla fattagli da Cencio; e cossì, dalle
paroli venuti a’ pugni, (.III. scena) furno sopragionti
da Sanguino e compagni in guisa di capitano e birri:
li quali, sotto specie di volerle menare in priggione,
le legarono co le mani a dietro, e, avendole menati a
parte piú remota, gionsero le mani dell’uno alle mani
dell’altro, a schena a schena: e cossì gli levorno le
borse e vestimenti, come si vede nel discorso delle
.IV., .V., .VI., .VII., .VIII. scene; e poi nella .XII. scena
avendono caminato, per fianco e fianco, per incon­
trarsi con alcuno che le slegasse, giunsero al fine do­
v’era Gioan Bernardo e Carubina che andavano oltre:
i quali volendo arrivare, Consalvo con affrettar troppo
il passo, fe’ cascar Bartolomeo che si tirò lui appres­
so; e rimasero cossì, sin che (.XIII. scena) sopravenne
Scaramuré e le sciolse, e le mandò per diversi camini
a proprie case.
MAMFURIO
nell’atto primo, .v. scena comincia ad altitonare; e
viene ad esser conosciuto da Sanguino per pecora
da pastura: cioè ch’i marioli cominciorno a formar dis­
segno sopra il fatto suo.
Nell’atto secondo, prima scena, vien burlato dal si­
gnor Ottaviano, che prima monstrava maravigliarsi di
sui bei discorsi, appresso de far poco conto di suoi
poemi, per conoscere come si portava quando era
lodato, e come quando era o meno o piú biasimato.
E partitosi il signor Ottaviano, porge Mamfurio una
lettera amatoria al suo Pollula, inviandola a messer
Bonifacio, per il cui servizio l’avea composta: la quale
epistola poi nella .VII. scena viene ad essere letta e
considerata da Sanguino e Pollula.
Nell’atto terzo, sguaina un poema contra il signor Ot­
taviano, in vendetta della poca stima che fece di sui
versi, sopra i quali mentre discorre con il suo Pollula,
sopraviene messer Gioan Bernardo (scena .VII.), col
qual discorse sin tanto che gli cascò la pazienza. Ri­
torna nella XI scena, appare con
Corcovizzo, che fe’ di modo che gli tols’ i scudi de
mano. Or, mentre di ciò (.XII. scena) si lagna e fa
strepito, gli occorreno Barra e Marca e (.XIII. scena)
Sanguino: i quali, ponendolo in speranza di ritrovar
il furbo e ricovrare il furto, li ferno cangiar le vesti e
lo menorno via.
Nell’atto quarto, .XI. scena, riviene cossì mal vesti­
to com’era, lamentandosi che gli secondi marioli gli
aveano tolte le vestimenta talari e pileo prezioso,
facendolo rimaner solo, nel passar di certa stanza; e
con questo avea vergogna di ritornar a casa: aspetta
il piú tardi, retirandosi in un cantoncello, sin tanto
che nella .xv. scena si fa in mezzo, spasseggiando e
discorrendo circa quel che ivi avea udito e visto. Tra
tanto, (.XVI. scena) viene Sanguino, Marca et altri in
forma di birri, e volendosi Mamfurio ritirar in secreto,
con quella et altre specie lo presero priggione e lo
depositorno nella prossima stanza.
Nell’atto quinto, penultima scena, gli vien proposto
che faccia elezione de una di tre cose per non andar
priggione, o di pagar la bona strena a gli birri e capi­
tano, o di aver diece spalmate, o ver cinquanta staffi­
late a brache calate. Lui arrebbe accettata ogni altra
cosa piú tosto che andar con quel modo priggione:
però delle tre elegge le diece spalmate; ma, quan­
do fu alla terza, disse: «Piú tosto cinquanta staffilate
alle natiche». De quali avendone molte ricevute, e
confondendosi il numero or per una or per un’altra
causa, avvenne che ebbe spalmate, stafiilate, e pagò
quanti scudi gli erano rimasti alla giornea: e vi lasciò
il mantello che non era suo. E fatto tutto questo, po­
sto in arnese come don Paulino, nella scena ultima fa
e dona il plaudite.
ANTIPROLOGO.
Messer sì: ben considerato; bene appuntato; bene
ordinato. Forse che non ho profetato che questa co­
media non si sarrebbe fatta questa sera? Quella ba­
gassa che è ordinata per rapresentar Vittoria e Caru­
bina, have non so che mal di madre. Colui che ha da
rapresentar il Bonifacio, è imbriaco che non vede ciel
né terra da mezzodi in qua; e, come non avesse da
far nulla, non si vuol alzar di letto; dice: « Lasciatemi,
lasciatemi, ché in tre giorni e mezzo e sette sere, con
quattro o dui rimieri, sarrò tra parpaglioni e pipistre­
gli: sia, voga; voga, sia». A me è stato commesso il
prologo; e vi giuro ch’è tanto intricato et indiavola­
to, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra, e
dì e notte, che non bastan tutti trombetti e tambu­
rini delle Muse puttane d’Elicona a ficcarmene una
pagliusca dentro la memoria. Or, và fa il prologo: sii
battello di questo barconaccio dismesso, scasciato,
rotto, mal’impeciato; che par che, co crocchi, rampini
et arpagoni ’, sii stato per forza tirato dal profondo
abisso; da molti canti gli entra l’acqua dentro, non
è punto spalmato, e vuol uscire e vuol fars’in alto
mare? lasciar questo sicuro porto del Mantracchio?
far partita dal Molo del silenzio?. L’autore, si voi lo
conosceste, dirreste ch’have una fisionomia smarri­
ta: par che sempre sii in contemplazione delle pene
dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette
: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il piú,
lo vedrete fastidito, restio e bizzarro, non si contenta
di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fan­
tastico com’un cane ch’ha ricevute mille spelliccia­
te, pasciuto di cipolla. Al sangue, non voglio dir de
chi, lui e tuti quest’altri filosofi, poeti e pedanti la
piú gran nemica che abbino è la ricchezza e beni: de
quali mentre col lor cervello fanno notomia, per tema
di non essere da costoro da dovero sbranate, squar­
tate e dissipate, le fuggono come centomila diavoli,
e vanno a ritrovar quelli che le mantengono sane et
in conserva. Tanto che io, con servir simil canaglia,
ho tanta de la fame, tanta de la fame, che si me bi­
sognasse vomire, non potrei vomir altro ch’il spirto;
si me fusse forza di cacare, non potrei cacar altro che
l’anima, com’un appiccato. In conclusione, io voglio
andar a farmi frate; e chi vuol far il prologo, sel fac­
cia.
PROPROLOGO
Dove è ito quel furfante, schena da bastonate, che
deve far il prologo? Signori, la comedia sarà senza
prologo; e non importa, perché non è necessario
che vi sii: la materia, il suggetto, il modo et ordine
e circonstanze di quella, vi dico che vi si farran pre­
senti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi
per ordine: il che è molto meglio che si per ordine
vi fussero narrati: questa è una specie di tela, ch’ha
l’ordimento e tessitura insieme: chi la può capir, la
capisca; chi la vuol intendere, l’intenda. Ma non la­
scierò per questo di avertirvi che dovete pensare
di essere nella regalissima città di Napoli, vicino al
seggio di Nilo. Questa casa che vedete cqua formata,
per questa notte servirrà per certi barri, furbi e ma­
rioli (guardatevi, pur voi, che non vi faccian vedovi di
qualche cosa che portate adosso); cqua costoro sten­
derranno le sue rete: e zara a chi tocca. Da questa
parte, si va alla stanza del Candelaio, id est messer
Bonifacio, e Carubina moglie, et a quella di messer
Bartolomeo; da quest’altra, si va a quella della signo­
ra Vittoria, e di Gioan Bernardo pittore e Scaramuré
che fa del necromanto; per questi contorni, non so
per qual’occasioni, molto spesso si va rimenando un
sollennissimo pedante, detto Mamfurio. Io mi assicu­
ro che le vedrete tutti: e la ruffiana Lucia per le molte
facende bisogna che non poche volte vada e vegna;
vedrete Pollula col suo Magister per il piú: quest’è
un scolare da inchiostro nero e bianco; vedrete il
paggio di Bonifacio, Ascanio: un servitore da sole e
da candela. Mochione, garzone di Bartolomeo, non
è caldo né freddo, non odora né puzza; in Sanguino,
Barra, Marca e Corcovizzo contemplarrete in parte la
destrezza della mariolesca disciplina; conoscerrete
la forma dell’alchimici barrarie in Cencio. E per un
passatempo vi si farrà presente Consalvo speciale,
Marta, moglie di Bartolomeo, et il facetissimo signor
Ottaviano. Considerate chi va chi viene, che si fa che
si dice, come s’intende come si può intendere: ché
certo, contemplando quest’azioni e discorsi umani
col senso d’Eraclito o di Democrito, arrete occasion
di molto o ridere o piangere.
Eccovi avanti gli occhii ociosi principii, debili orditu­
re, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di
petto, scoverture di corde, falsi presupposti, aliena­
zion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi,
turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intel­
letto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti, so­
menze intempestive e gloriosi frutti di pazzia.
Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchia­
menti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cuor rostito
nel fuoco d’amore; pensamenti, astrazzioni, colere,
maninconie, invidie, querele, e men sperar quel che
piú si desia. Qui trovarrete a l’animo ceppi, legami,
catene, cattività, priggioni, eterne ancor pene, martiri
e morte; alla ristretta del core, strali, dardi, saette,
fuochi, fiamme, ardori, gelosie, suspetti, dispetti, ri­
trosie, rabbie et oblii, piaghe, ferite, omei, folli, tena­
glie, incudini e martelli; l’archiero faretrato, cieco e
ignudo; l’oggetto poi del core, un cuor mio, mio bene,
mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nume, poggio,
riposo, speranza, fontana, spirto, tramontana stella,
et un bel sol ch’a l’alma mai trarnonta; et a l’incon­
tro ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra,
petto di diamante, e cruda man ch’ha chiavi del mio
cuore, e mia nemica, e mia dolce guerriera, versaglio
sol di tutti miei pensieri, e bei son gli amor miei non
quei d’altrui Vedrete in una di queste femine sguardi
celesti, suspiri infocati, acquosi pensamenti, terre­
stri desiri e aerei fottimenti: co riverenza de le ca­
ste orecchie, è una che sel prende con pezza bianca
e netta di bucata. La vedrete assalita da un amante
armato di voglia che scalda, desir che cuoce, carità
ch’accende, amor ch’infiamma, brama ch’avvampa, e
avidità ch’al cielo mica e sfavilla. Vedrete ancora (a
fin che non temiate diluvio universale) l’arco d’amo­
re, il quale è simile a l’arco del sole, che non è visto
da chi vi sta sotto, ma da chi n’è di fuori: perché de gli
amanti l’uno vede la pazzia dell’altro e nisciun vede
la sua. Vedrete un’altra di queste femine, priora delle
Repentite per l’ommissione di peccati che non fece a
tempo ch’era verde: adesso dolente come l’asino che
porta il vino; ma che? un’angela, un’ambasciadora,
secretaria, consigliera, referendaria, novellera, ven­
ditrice, tessitrice, fattrice, negociante e guida: mer­
cantessa di cuori e ragattiera che le compra e vende
a peso, misura e conto, quella ch’intrica e strica, fa
lieto e gramo, inpiaga e sana, sconforta e riconforta,
quando ti porta o buona nova o ria, quando porta de
polli magri o grassi: advocata, intercessora, mantello,
rimedio, speranza, mediatrice, via e porta, quella che
volta l’arco di Cupido, conduttrice del stral del dio
d’amore, nodo che lega, vischio ch’attacca, chiodo
ch’accoppia, orizonte che gionge gli emisferi. Il che
tutto viene a effettuare mediantibus finte bazzane,
grosse panzanate, suspiri a posta, lacrime a coman­
damento, pianti a piggione, singulti che si muoiono
di freddo, berte masculine, baie illuminate, lusinghe
affamate, scuse volpine’, accuse lupine, e giuramenti
che muion di fame, lodar presenti, biasmar assenti,
servir tutti, amar nisciuno: «t’aguza l’apetito e poi di­
giuni».
Vedrete ancor la prosopopeia e maestà d’un omo
masculini generis: un che vi porta certi suavioli da
far sdegnar un stomaco di porco o di gallina, un in­
staurator di quel Lazio antiquo, un emulator demo­
stenico, un che ti suscita Tullio dal piú profondo e
tenebroso centro, concinitor di gesti de gli eroi. Ec­
covi presente un’acutezza da far lacrimar gli occhi,
gricciar i capelli, stuppefar i denti, petar, rizzar, tussir
e starnutare. Eccovi un di compositor di libri bene
meriti di republica, postillatori, glosatori, construtto­
ri, metodici, additori, scoliatori, traduttori, interpreti,
compendiarii, dialetticarii novelli, apparitori con una
grammatica nova, un dizzionario novo, un lexicon,
una varia lectio, un approvator d’autori, un approvato
autentico, con epigrammi greci, ebrei, latini, italiani,
spagnoli, francesi, posti in fronte libri. Onde l’uno e
l’altro, e l’altro e l’uno vengono consecrati all’immor­
talità, come benefattori del presente seculo e futuri,
obligati per questo a dedicarli statue e colossi ne’
mediterranei mari e nell’oceano et altri luochi ina­
bitabili de la terra. La lux perpetua vien a fargli di
sberrettate, e con profonda riverenza se gl’inchina il
saecula saeculorum; ubligata la fama di farne sentir
le voci a l’uno e l’altro polo, e d’assordir co i cridi,
strepiti e schiassi il Borea e l’Austro, et il mar Indo e
Mauro. Quanto campeggia bene (mi par veder tante
perle e margarite in campo d’oro) un discorso latino
in mezzo l’italiano, un discorso greco [in] mezzo del
latino; e non lasciar passar un foglio di carta dove non
appaia al meno una dizzionetta, un versetto, un con­
cetto d’un peregrino carattere et idioma. Oimè che
mi danno la vita, quando, o a forza o a buona voglia, e
parlando e scrivendo, fanno venir a proposito un ver­
setto d’Omero, d’Esiodo, un stracciolin di Plato o De­
mosthenes greco. Quanto ben dimostrano che essi
son quelli soli a’ quai Saturno ha pisciato il giudizio
in testa, le nove damigelle di Pallade un cornucopia
di vocaboli gli han scarcato tra la pia e dura matre: e
però è ben conveniente che sen vadino con quella
sua prosopopeia, con quell’incesso gravigrado, bu­
sto ritto, testa salda et occhii in atto di una modesta
altiera circumspezione, , Vedrete un pubercola sino­
nimico, epitetico, appositorio, suppositorio: bidello
di Minerva, amostante di Pallade, tromba di Mercu­
rio, patriarca di Muse e dolfino del regno apollinesco
(poco mancò ch’io non dicesse polledresco).
Vedrete ancor in confuso tratti di marioli, stratagem­
me di barri, imprese di furfanti; oltre, dolci disgusti,
piaceri amari, determinazion folle, fede fallite, zoppe
speranze e caritadi scarse; giudicii grandi e gravi in
fatti altrui, poco sentimento ne’ proprii; femine virile,
effeminati maschii: «tante voci di testa e non di pet­
to»; chi piú di tutti crede, piú s’inganna; e di scudi
l’amor universale. Quindi procedeno febbre quar­
tane, cancheri spirituali, pensieri manchi di peso,
sciocchezze traboccanti, intoppi baccellieri granchia­
te maestre e sdrucciolate da fiaccars’ il collo; oltre, il
voler che spinge, il saper ch’appressa, il far che frut­
ta, e diligenza madre de gli effetti. In conclusione,
vedrete in tutto non esser cosa di sicuro, ma assai di
negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di
buono. — Mi par udir i personaggi; a dio.
BIDELLO
Prima ch’i’ parle, bisogna ch’i’ m’iscuse. Io credo che,
si non tutti, la maggior parte al meno mi dirranno:
«Cancaro vi mangie il naso! dove mai vedeste come­
dia uscir col bidello?» et io vi rispondo: Il mal’an che
Dio vi dia, prima che fussero comedie, dove mai fu­
rono viste comedie? e dove mai fuste visti, prima che
voi fuste? E pare a voi ch’un suggetto, come questo
che vi si fa presente questa sera, non deve venir fuori
e comparire con qualche privileggiata particularità?
Un eteroclito babbuino, un natural coglione, un moral
menchione, una bestia tropologica, un asino anagogi­
co come questo, vel farrò degno d’un connestable, si
non mel fate degno d’un bidello. Volete ch’io vi dica
chi è lui? voletelo sapere? desiderate ch’io vel faccia
intendere? Costui è (vel dirrò piano): il Candelaio.
Volete ch’io vel dimostri? desiderate vederlo? Ecco­
lo: fate piazza; date luoco; retiratevi dalle bande, si
non volete che quelle corna vi faccian male, che fan
fuggir le genti oltre gli monti.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Bonifacio, Ascanio
BONIFACIO Và lo ritrova adesso adesso, e forzati di
menarlo cqua. Và, fà, e vieni presto.
ASCANIO Mi forzarrò di far presto e bene. Meglio un
poco tardi, che un poco male: « Sat cito, si sat bene
».
BONIFACIO Lodato sii Idio: pensavo d’aver un ser­
vitore solamente, et ho servitore, mastro di casa,
satrapo, dottore e consigliero; e dicon poi ch’io son
povero gentil omo. Io ti dico, in nome della benedet­
ta coda de l’asino ch’adorano a Castello i Genoesi: fà
presto, tristo, e mal volentieri; e guardati di entrare
in casa, intendi tu? chiamalo che si faccia alla fene­
stra, e gli dirrai come ti ho detto: intendi tu?
ASCANIO Signor sì; io vo.
SCENA SECONDA
Bonifacio, solo
L’arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or,
poi ch’a la mal’ora non posso far che questa traditora
m’ame, o che al meno mi remiri con un simulato amo­
revole sguardo d’occhio, chi sa ? forse quella che non
han mossa le paroli di Bonifacio, l’amor di Bonifacio,
il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con
questa occolta filosofia. Si dice che l’arte magica è
di tanta importanza che contra natura fa ritornar gli
fiumi a dietro, fissar il mare, muggire i monti, into­
nar l’abisso, proibir il sole, despiccar la luna, sveller
le stelle, toglier il giorno e far fermar la notte: però
l’Academico di nulla Academia, in quell’odioso titolo
e poema smarrito, disse:
Don’a’ rapidi fiumi in su ritorno,
Smuove de l’alto ciel l’aurate stelle,
Fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.
E la luna da l’orbe proprio svelle
E gli cangia in sinistro il destro corno,
E del mar l’onde ingonfia e fissa quelle.
Terra, acqua, fuoco et aria despiuma,
et al voler uman fa cangiar piuma.
Di tutto si potrebbe dubitare; ma, circa quel ch’ulti­
mamente dice quanto all’effetto d’amore, ne veggia­
mo l’esperienza d’ogni giorno. Lascio che del magi­
stero di questo Scaramuré sento dir cose maraviglio­
se a fatto. Ecco: vedo un di quei che rubbano la vacca
e poi donano le corna per l’amor di Dio. Veggiamo
che porta di bel novo.
SCENA TERZA
Messer Bonifacio, Messer Bartolomeo raggionano;
Pollula e Sanguino, occolti, ascoltano
BARTOLOMEO Crudo amore, essendo tanto ingiusto
e tanto violento il regno tuo, che vol dir che perpe­
tua tanto? perché fai che mi fugga quella ch’io stimo
e adoro? perché non è lei a me, come io son cossì
strettissimamente a lei legato? si può imaginar que­
sto? et è pur vero. Che sorte di laccio è questa? di
dui fa l’un incatenato a l’altro, e l’altro piú che vento
libero e sciolto.
BONIFACIO Forse ch’io son solo? uh, uh, uh.
BARTOLOMEO Che cosa avete, messer Bonifacio
mio? piangete la mia pena ?
BONIFACIO et il mio martire ancora. Veggo ben che
sete percosso, vi veggio cangiato di colore, vi ho udi­
to adesso lamentare, intendo il vostro male, e, come
partecipe di medesma passione e forse peggior,
vi compatisco. Molti sono de’ giorni che ti ho visto
andar pensoso et astratto, attonito, smarrito (come
credo ch’altri mi veggano), scoppiar profondi suspir
dal petto, co gli occhi molli. «Diavolo!» dicevo io, «a
costui non è morto qualche propinquo, familiare e
benefattore; non ha lite in corte; ha tutto il suo biso­
gno, non se gli minaccia male, ogni cosa gli va bene;
io so che non fa troppo conto di soi peccati; et ecco
che piange e plora, il cervello par che gli stii in cim­
balis male sonantibus dumque è inamorato, dumque
qualche umore flemmatico o colerico o sanguigno o
melancolico (non so qual sii questo umor cupidine­
sco) gli è montato su la testa». Adesso ti sento pro­
ferir queste dolce parole: conchiudo piú fermamente
che di quel tossicoso mele abbi il stomaco ripieno.
BARTOLOMEO Oimè, ch’io son troppo crudamente
preso da’ suoi sguardi! Ma di voi mi maraviglio, mes­
ser Bonifacio, non di me che son di dui o tre anni piú
giovane, et ho per moglie una vecchia sgrignuta che
m’avanza di piú d’otto anni: voi avete una bellissi­
ma mogliera, giovane di venticinque anni, piú bella
della quale non è facile trovar in Napoli; e sete ina­
morato?
BONIFACIO Per le paroli che adesso voi avete detto,
credo che sappiate quanto sii imbrogliato e spropo­
sitato il regno d’amore. Si volete saper l’ordine, o di­
sordine, di miei amori, ascoltatemi, vi priego.
BARTOLOMEO Dite, messer Bonifacio, ché non sia­
mo come le bestie ch’hanno il coito servile solamen­
te per l’atto della generazione: però hanno determi­
nata legge del tempo e loco, come gli asini a i quali il
sole, particulare o principalemente il maggio, scalda
la schena, et in climi caldi e temperati generano: e
non in freddi, come nel settimo clima et altre parti
piú vicine al polo; - noi altri in ogni tempo e loco.
BONIFACIO Io ho vissuto da 42 anni al mondo tal­
mente, che con mulieribus non sum coinquinato;
gionto che fui a questa etade nella quale cominciavo
ad aver qualche pelo bianco in testa, e nella quale
per l’ordinario suol infreddarsi l’amore e cominciar a
venir meno...
BARTOLOMEO In altri cessa, in altri si cangia.
BONIFACIO... suol cominciar a venir meno, com’il
caldo al tempo de l’autunno, all’ora fui preso da
l’amor di Carubina. Questa mi parve tra tutte l’altre
belle bellissima; questa mi scaldò, questa m’acce­
se in fiamma talmente, che mi bruggiò di sorte, che
son dovenuto esca. Or, per la consuetudine et uso
continuo tra me e lei, quella prima fiamma essendo
estinta, il cuor mio è rimasto facile ad esser acceso
da nuovi fuochi…
BARTOLOMEO S’ il fuoco fusse stato di meglior tem­
pra, non t’arrebbe fatto esca ma cenere; e s’io fusse
stato in luoco di vostra moglie, arrei fatto cossì.
BONIFACIO Fate ch’io finisca il mio discorso, e poi
dite quel che vi piace.
BARTOLOMEO Seguite quella bella similitudine.
BONIFACIO Or, essendo nel mio cor cessata quella
fiamma che l’ha temprato in esca, facilmente fui que­
sto aprile da un’altra fiamma acceso…
BARTOLOMEO In questo tempo s’inamorò il Petrar­
ca, e gli asini, anch’essi, cominciano a rizzar la coda.
BONIFACIO Come avete detto?
BARTOLOMEO Ho detto che in questo tempo s’ina­
morò il Petrarca, e gli animi, anch’essi, si drizzano
alla contemplazione: perché i spirti ne l’inverno son
contratti per il freddo, ne l’estade per il caldo son
dispersi, la primavera sono in una mediocre e quieta
tempratura, onde l’animo è piú atto, per la tranquil­
lità della disposizion del corpo, che lo lascia libero
alle sue proprie operazioni.
BONIFACIO Lasciamo queste filastroccole, venemo a
proposizio. All’ora, essendo;o ito a spasso a Pusilipo,
da gli sguardi della signora Vittoria fui sì profonda­
mente saettato, e tanto arso da’ suoi lumi, e talmente
legato da sue catene, che, oimè...
BARTOLOMEO Questo animale che chiamano amore,
per il piú suole assalir colui ch’ha poco da pensare e
manco da fare: non eravate voi andato a spasso?
BONIFACIO Or voi fatemi intendere il versaglio del­
l’amor vostro, poi che m’avete donata occasion di di­
scuoprirvi il mio. Penso che voi ancora doviate pren­
dere non poco refrigerio, confabulando con quelli
che patiscono del medesmo male, si pur male si può
dir l’amare.
BARTOLOMEO Nominativo: la signora Argenteria
m’affligge, la signora Orelia m’accora.
BONIFACIO Il mal’an che Dio dia a te, e a lei et a lei.
BARTOLOMEO Genitivo: della signora Argenteria ho
cura, della signora Orelia tengo pensiero.
BONIFACIO Del cancaro che mange Bartolomeo, Au­
relia et Argentina.
BARTOLOMEO Dativo: alla signora Argenteria porto
amore, alla signora Orelia suspiro; alla signora Argen­
teria et Orelia comunmente mi raccomando.
BONIFACIO Vorrei saper che diavol ha preso costui.
BARTOLOMEO Vocativo: o signora Argenteria, per­
ché mi lasci? o signora Orelia, perché mi fuggi?
BONIFACIO Fuggir ti possano tanto, che non possi
aver mai bene! và col diavolo, tu sei venuto per bur­
larti di me!
BARTOLOMEO E tu resta con quel dio che t’ha tolto
il cervello, se pur è vero che n’avesti giamai. Io vo a
negociar per le mie padrone.
BONIFACIO Guarda, guarda con qual tiro, e con quan­
ta facilità, questo scelerato me si ha fatto dir quello
che meglio sarrebbe stato dirlo a cinquant’altri. Io
dubito con questo amore di aver sin ora raccolte le
primizie della pazzia. Or, alla mal’ora, voglio andar in
casa ad ispedir Lucia. Veggo certi furfanti che ridono:
suspico ch’arranno udito questo diavol de dialogo,
anch’essi. Amor et ira non si puot’ascondere.
SCENA QUARTA
[Sanguino, Pollula]
SANGUINO Ah, ah, ah, ah, oh, che gli sii donato il pan
co la balestra, buffalo d’India, asino di Terra d’Otran­
to, menchione d’Avella, pecora d’Arpaia: forse, che
ci ha bisognato molto per fargli confessare ogni cosa
senza corda? Ah, ah, ah, quell’altro fanfalucco, vedi
con qual proloquio l’ha saputo tirare a farsi dire che
è inamorato, e chi è la sua dea, e il mal an che Dio li
dia, e come e quando e dove.
POLLULA Vi prometto che costui, quando dice l’offi­
cio di Nostra Donna, non ha bisogno di pregar Dio col
dire: «Domine, labia mea aperies»
SANGUINO Che vuol dire: « Domino lampia mem pe­
riens»?
POLLULA «Signore, aprime la bocca, a fin ch’io possa
dire». Et io dico che quest’orazione non fa per quelli
che son pronti a dir i fatti suoi a chi le vuol sapere.
SANGUINO Sì: ma non vedi che al fine s’è repentito
d’aver detto? però non gli ne potrà succeder male,
perché dice la Scrittura in un certo loco: « Chi pecca
et emenda salvo este».
POLLULA Or, ecco il mastro: dimoraremo cqua tut­
t’oggi, in nome del diavolo che gli rompa il collo!
SCENA QUINTA
Mamfurio, Pollula, Sanguino
MAMFURIO Bene repperiaris bonae, melioris, opti­
maeque indolis, adolescentule: quomodo tecum agi­
tur? ut vales?.
POLLULA Bene.
MAMFURIO Gaudeo sane gratulorque satis, si vales
bene est, ego quidem valeo: marcitulliana eleganza
in quasi tutte le sue familiari missorie servata.
POLLULA Comandate altro, domine Magister? io vo
oltre per compir un negocio con Sanguino, e non pos­
so induggiar con voi.
MAMFURIO O buttati in darno i miei dictati, li quali
nel mio almo minervale gimnasio (excerpendoli dal­
l’acumine del mio Marte) ti ho fatti nelle candide pa­
gine, col calamo di negro attramento intincto exarare!
buttati dico, incassum cum sit, che a tempo e loco,
eorum servata ratione, servirtene non sai. Mentre il
tuo preceptore, con quel celeberrimo apud omnes
(etiam barbaras) nationes idioma lazio ti sciscita, tu,
etiam dum persistendo nel commercio bestiis simi­
litudinario del volgo ignaro, abdicaris a theatro lite­
rarum, dandomi responso composto di verbi, quali
dalla baila et obstetrice in incunabulis hai susceputi
vel (ut melius dicam) suscepti. Dimmi, sciocco, quan­
do vuoi dispuerascere ?
SANGUINO Mastro, con questo diavolo di parlare per
grammuffo, o catacumbaro, o delegante e latrinesco,
amorbate il cielo, e tutt’il mondo vi burla.
MAMFURIO Sì, se questo megalocosmo e machina
mundiale, o scelesto et inurbano, fusse di tuoi pari
referto et confarcito.
SANGUINO Che dite voi di cosmo celesto e de urba­
no ? parlatemi che io v’intenda, ché vi responderò.
MAMFURIO Vade ergo in infaustam nefastamque
crucem, sinistroque Hercule: si dedignano le Muse
di subire il porcile del contubernio vostro, vel ha­
ram colloquii vestri. — Che giudicio fai tu di que­
sto scelesto, o Pollula? Pollula, appositorie fructus
eruditionum mearum, receptaculo del mio dottrinal
seme, ne te moveant modo a nobis dicta, perché,
quia, namque, quandoquidem (particulae causae
redditivae) ho voluto farti partecipe di quella frase
con la quale lepidissime eloquentissimeque faccia­
mo le obiurgazioni, le quali voi posthac, deinceps (si
li celicoli vi elargiranno quel ch’hanno a noi conces­
so), all’inverso de vostri erudiendi descepoli, imitar
potrete.
POLLULA Bene: ma bisogna farle con proposito et
occasione.
MAMFURIO La causa della mia excandescentia è
stata il vostro dire: «Non posso induggiar con voi».
Debuisses dicere, vel elegantius (infinitivo antece­
dente subiunctivum) dicere debuisses: «Excellentia
tua, eruditione tua, non datur, non conceditur mihi
cum tuis dulcissimis musis ocium». Poscia quel dire:
«con voi», vel ethruscius: «vosco», nec bene dicitur
latine respectu unius, nec urbane inverso di togati e
gimnasiarchi.
SANGUINO Vedete, vedete come va el mondo: voi
siete accordati, et io rimagno fuori come catenaccio.
Di grazia, domine magister, siamo amici ancora noi,
perché, benché io non sii atto di essere soggetto alla
vostra verga, idest esservi discepolo, potrò forse ser­
virvi in altro.
MAMFURIO Nil mihi vobiscum.
SANGUINO Et con spiritu to
MAMFURIO Ah, ah, ah, come sei, Pollula, adiunto so­
cio a questo bruto?
SANGUINO Brutto o bello, al servizio di vostra Mae­
stà, onorabilissimo Signor mio.
MAMFURIO Questo mi par molto disciplinabile, e non
cossì inmorigerato, come da principio si monstrava,
perché mi dà epiteti molto urbani et appropriati.
POLLULA Sed a principio videbatur tibi homo ne­
quam.
MAMFURIO Togli via quel « nequam »: quantunque
sii assumpto nelle sacre pagine, non è però dictio
ciceroniana. « Tu vivendo bonos, scribendo sequare
peritos », disse il ninivita Gio. Dispauterio, seguito
dal mio preceptore Aloisio Antonio Sidecino Sar­
mento Salanos, successor di Lucio Gio. Scoppa, ex
voluntate heredis. Dicas igitur: «non aequum», pri­
ma dictionis litera diphtongata, ad differentiam della
quadrupede substantia animata sensitiva, quae di­
phtongum non admittit in principio ».
SANGUINO Dottissimo signor maester, è forza che vi
chiediamo licenza, perché ne bisogna al piú tosto es­
ser con messer Gioan Bernardo pittore. A dio.
MAMFURIO Itene, dumque, co i fausti volatili. Ma
chi è questa che con quel calatho in brachiis me si
fa obvia? è una muliercula, quod est per ethimolo­
giam « mollis Hercules », opposita iuxta se posita:
sexo molle, mobile, fragile et incostante, al contrario
di Ercole. O bella etimologia: è di mio proprio Mar­
te or ora deprompta. Or dumque, quindi propriam
versus domum movo il gresso, perché voglio notarla
maioribus literis nel mio propriarum elucubrationum
libro. Nulla dies sine linea.
SCENA SESTA
Lucia, sola
Oimè, son stanca, voglio riposarmi cqua; tutta questa
notte (non la voglio maldire) son stata a far la guarda
in piedi e pascermi di fumo di rosto et odor di pi­
gnata grassa; et io sono come il rognone, misera me,
magra in mezzo al sevo. Or, pensiamo ad altro, Lucia;
poiché sono in loco dove non mi vede alcuno, voglio
contemplar che cose son queste che messer Bonifa­
cio manda alla signora Vittoria: qua son de gravioli,
targhe di zuccaro, mustaccioli di S. Bastiano; vi son
piú basso piú sorte di confetture; vi è al fondo una
policia, e son versi, in fede mia. Per mia fé, costui è
doventato poeta. Or leggiamo.
Ferito m’hai, o gentil signora, il mio core,
e me hai impresso all’alma gran dolore,
e, si non mel credi, guarda al mio colore.
che si non fusse ch’io ti porto tanto amore,
quanto altri amanti mai, che sian d’onore,
hanno portato alle loro amate signore,
cose farrei assai di proposito fore:
però ho voluto essere della presente autore,
spento di tue bellezze dal gran splendore,
acciò comprendi per di questa il tenore,
che, si non soccorri al tuo Benefacio, more.
Di dormire, mangiar, bere non prende sapore,
non pensando ad altro ch’a te tutte l’ore,
smenticato di padre, madre, fratelli e sore.
O bella conclusione, belli propositi, a punto suttili
come lui: io, per me, di rima non m’intendo; pure, s’io
posso farne giudicio, dico due cose: l’una, ch’i versi
son piú grandi che gli ordinarii; l’altra, che son fatti
a suon di campana e canto asinino, li quali, sempre
toccano alla medesima consonanza. Ma voglio par­
tirmi di qua, per trovar piú comodo luoco, dove io
possa prender la decima di questo presente: ché, in
fine, bisogna ch’ancor io sia partecipe de’ frutti della
pazzia di costui.
SCENA SETTIMA
Bonifacio, solo
Grande è la virtú dell’amore. Da onde, o Muse, mi è
scorsa tanta vena et efficacia in far versi, senza che
maestro alcuno m’abbia insegnato? Dove mai è sta­
to composto un simile sonetto? tutti versi, dal primo
a l’ultimo, finiscono con desinenzia della medesma
voce: leggi il Petrarca tutto intiero, discorri tutto
l’Ariosto, non trovarai un simile. Traditora, traditora,
dolce mia nemica, credo ch’a quest’ora l’abbi letto
e penetrato; e si l’animo tuo non è piú alpestre che
d’una tigre, son certo che non farai oltre poco caso
del tuo Bonifacio. Oh! ecco Gioan Bernardo.
SCENA OTTAVA
Gioan Bernardo, Bonifacio
GIOAN BERNARDO Bondì e bon anno a voi, misser
Bonifacio. Avete fatta alcuna buona fazzione, oggi?
BONIFACIO Che dite voi? Oggi ho fatta cosa che gia­
mai feci in tutto tempo di mia vita.
GIOAN BERNARDO Voi dite di gran cose: è possibile
che quello che hai fatto oggi, abbi possuto far ieri o
altro giorno, o voi o altro che sii ? o che per tutto tem­
po di vostra vita possiate fare quel che una volta è
fatto? Cossì, quel che facesti ieri, non lo farai mai piú;
et io mai feci quel ritratto ch’ho fatto oggi, né manco
è possibile ch’io possa farlo piú: questo sì, che potrò
farne un altro.
BONIFACIO Or, lasciamo queste vostre sofisticarie;
mi avete fatto sovvenire del ritratto. Hai visto quel
che mi ho fatto fare?
GIOAN BERNARDO L’ho visto e revisto.
BONIFACIO Che ne giudicate?
GIOAN BERNARDO È buono: assomiglia assai piú a
voi che a me.
BONIFACIO Sii come si vuole, ne voglio un altro di
vostra mano.
GIOAN BERNARDO Che lo volete donare a qualche
vostra signora per memoria di voi?
BONIFACIO Basta: son altre cose che mi vanno per
la mente.
GIOAN BERNARDO È buon segno, quando le cose
vanno per la mente: guardati che la mente non vadi
essa per le cose, perché potrebbe rimaner attacca­
ta con qualche una di quelle, et il cervello, la sera,
indarno l’aspettarebbe a cena; e poi bisognasse far
come la matre di fameglia, ch’andava cercando lo in­
tellecto co la lanterna. — Quanto al ritratto, in ne farò
quanto prima.
BONIFACIO Sì, ma, per vita vostra, fatemi bello.
GIOAN BERNARDO Non comandate tanto, si volete
esser servito. Si desiderate che io vi faccia bello, è
una; si volete ch’io vi ritragga, è un’altra.
BONIFACIO Di grazia, lasciamo le burle: attendete a
far cosa buona, ché io, per questo, verrò a ritrovarvi
in casa.
GIOAN BERNARDO Venite pur quando vi piace, e
non dubitate di cosa buona, dal canto mio; attendete
pur voi a far bene, dal canto vostro, perché...
BONIFACIO Che vuol dir «per che»?
GIOAN BERNARDO... lasciate l’arte antica.
BONIFACIO Come? non v’intenderebbe il diavolo.
GIOAN BERNARDO Da candelaio volete doventar
orefice.
BONIFACIO Come orefice? come candelaio?
GIOAN BERNARDO Basta, me vi raccomando.
BONIFACIO Dio vi dia quel che desiderate.
GIOAN BERNARDO Et a voi quel che vi manca.
SCENA NONA
Bonifacio, solo
« Da candelaio volete doventar orefice »: è pur gran
cosa il fatto mio. Tutti, chi da cqua, chi da llà, mi mot­
teggiano: ecco, costui non so che diavolo voglia in­
tendere per l’orefice. Lo essere orefice non è male:
non ha egli altro di brutto che quel guazzarsi le mani
dentro l’urina, dove tal volta pone in infusione la ma­
teria dell’arte sua, oro, argento et altre cose precio­
se: pur queste parabole qualche dì, l’intenderemo.
- Ecco, mi par veder Ascanio con Scaramuré.
SCENA DECIMA
Scaramuré, Bonifacio, Ascanio
SCARAMURÉ Ben trovato, messer Bonifacio.
BONIFACIO Siate il molto ben venuto, signor Scara­
muré, speranza della mia vita appassionata.
SCARAMURÉ Signum affecti animi.
BONIFACIO Si vostra Signoria non rimedia al mio
male, io son morto.
SCARAMURÉ Sì come io vedo, voi sete inamorato.
BONIFACIO Cossì è: non bisogna ch io vi dica piú.
SCARAMURÉ Come mi fa conoscere la vostra fisio­
nomia, il computo di vostro nome, di vostri parenti
o progenitori, la signora della vostra natività fu Ve­
nus retrograda in signo masculino; et hoc fortasse in
Geminibus vigesimo septimo gradu che significa cer­
ta mutazione e conversione nell’età di quarantasei
anni, nella quale al presente vi ritrovate.
BONIFACIO A punto, io non mi ricordo quando nac­
qui; ma, per quello che da altri ho udito dire, mi tro­
vo da 45 anni in circa.
SCARAMURÉ Gli mesi, giorni et ore computarò ben
io piú distintamente, quando col compasso arò presa
la proporzione dalla latitudine dell’unghia maggiore
alla linea vitale, e distanza dalla summità dell’an­
nulare a quel termine del centro della mano, ove è
designato il spacio di Marte; ma basta per ora aver
fatto giudicio cossì universale et in communi. Ditemi,
quando fustivo punto dall’amor di colei per averla
guardato, a che sito ti stava ella? a destra o a sini­
stra?
BONIFACIO A sinistra.
SCARAMURÉ Arduo opere nanciscenda. Verso mez­
zogiorno o settentrione, oriente o occidente, o altri
luochi intra questi?
BONIFACIO Verso mezzogiorno.
SCARAMURÉ Oportet advocare septentrionales. - Ba­
sta, basta: cqui non bisogna altro; voglio effectuare il
tuo negocio con magia naturale, lasciando a maggior
opportunità le superstizioni d’arte piú profonda.
BONIFACIO Fate di sorte ch’io accape il negocio, e sii
come si voglia.
SCARAMURÉ Non vi date impaccio, lasciate la cura a
me. La cosa già fu per fascinazione?
BONIFACIO Come per fascinazione? io non intendo.
SCARAMURÉ Id est, per averla guardata, guardando
lei anco voi.
BONIFACIO Sì, signor sì, per fascinazione.
SCARAMURÉ Fascinazione si fa per la virtú di un
spirito lucido e sottile, dal calor del core generato
di sangue piú puro, il quale, a guisa di raggi, manda­
to fuor de gli occhi aperti, che, con forte imaginazion
guardando, vengono a ferir la cosa guardata, toccano
il core e sen vanno ad afficere l’altrui corpo e spirto: o
di affetto di amore, o di odio, o di invidia, o di manin­
conia, o altro simile geno di passibili qualità. L’esser
fascinato d’amore adviene, quando, con frequentis­
simo o ver (benché istantaneo) intenso sguardo, un
occhio con l’altro, e reciprocamente un raggio visual
con l’altro si rincontra, e lume con lume si accopula.
All’ora si gionge spirto a spirto; et il lume superio­
re, inculcando l’inferiore, vengono a scintillar per gli
occhi, correndo e penetrando al spirto interno che
sta radicato al cuore; e cossì commuoveno amatorio
incendio. Però, chi non vuol esser fascinato, deve
star massimamente cauto e far buona guardia negli
occhi, li quali, in atto d’amore, principalmente son
fenestre dell’anima: onde quel detto: « Averte, aver­
te oculos tuos ». — Questo, per il presente, basti; noi
ci revedremo a piú bell’aggio; provedendo alle cose
necessarie.
BONIFACIO Signor, si questa cosa farete venire al
butto, vi accorgerete di non aver fatto servizio a per­
sona ingrata.
SCARAMURÉ Misser Bonifacio, vi fo intender questo:
che voglio io prima esser grato a voi, e poi son certo,
si non mi sarete grato, mi doverete essere.
BONIFACIO Comandatemi, ché vi sono affezionatissi­
mo, et ho gran speranza nella prudenza vostra.
ASCANIO Orsú, a rivederci tutti. A dio.
BONIFACIO Andiamo, ch’io veggio venir l’uomo piú
molesto a me, ch’abbia possuto produrre la natura.
Non voglio aver occasion di parlargli. Verrò a voi, si­
gnor Scaramuré.
SCARAMURÉ Venite, ché vi aspetto. A dio.
SCENA UNDICESIMA
Cencio, Gioan Bernardo
CENCIO Cossì bisogna guidar quest’opra, per la
doctrina di Ermete e di Geber. La materia di tutti
metalli è Mercurio: a Saturno appartiene il piombo, a
Giove il stagno, a Marte il ferro, al Sole l’oro, a Venere
il bronzo, alla Luna l’argento. Lo argento vivo si attri­
buisce ad Mercurio particularmente, e si trova nella
sustanza di tutti gli altri metalli: però si dice nuncio di
Dei, maschio co maschii, e femina co femine. Di que­
sti metalli Mercurio Trimegisto chiamò il cielo padre,
e la terra madre; e disse che questa madre ora è im­
pregnata ne’ monti, or nelle valli, or nelle campagne,
or nel mare, or ne gli abissi et antri: il quale enigma ti
ho detto che cosa significa. Nel grembo de la terra la
materia di tutti metalli afferma esser questa insieme
col solfro il dottissimo Avicenna, nell’Epistola scritta
ad Hazez: alla quale opinione postpongo quella di
Ermete, che vuole la materia di metalli esserno gli
elementi tutti; et insieme con Alberto Magno chia­
mo ridicula la sentenza attribuita a Democrito da gli
alchimisti, che la calcina e lisciva (per la quale inten­
dono l’acqua forte) siino materia di metalli tutti. Né
tampoco posso approvar la sentenza di Gilgile, nel
suo libro De’ secreti, dove vuole « metall’orum ma­
teriam esse cinerem infusum », perché vedeva che «
cinis liquatur in vitrum et congelatur frigido » al quale
errore suttilmente va
obviando il prencipe Al­
berto…
GIOAN BERNARDO Queste diavolo de raggioni no mi
toccano punto l’intellecto. Io vorrei veder l’oro fatto e
voi meglior vestito che non andiate. Penso ben che,
si tu sapessi far oro, non venderesti la ricetta da far
oro, ma con essa lo faresti; e, mentre fai oro per un
altro, per fargli vedere la esperienza, lo faresti per te,
a fin di non aver bisogno di vendere il secreto.
CENCIO Voi mi avete interrotto il discorso. Pensate
voi solo di aver giudicio, e di aver apportato un gran­
dissimo argomento: per le cautele che have usate
meco messer Bartolomeo dimostra esser assai piú
cauto che voi non vi stimate d’essere. E sa lui che io
sono stato rubbato e sassinato al bosco di Cancello,
venendo da Airola…
GIOAN BERNARDO Credo ch’il sappia piú per vostro
che per mio dire.
CENCIO …e però io, non avendo il modo di comprar
gli semplici e minerali che si richiedono a tal opra, ho
fatto come sapete.
GIOAN BERNARDO Dovevi ponerti in pegno e secur­
tà, e dire: «Mess(ere), avanzarò oro per me e per
te; che certo tanto lui quanto altro ti arebbe niente­
manco soccorso; e quell’oro che cerchi dalle borse,
l’aresti con tua meglior riputazione et onore sfornato
dalla tua fornace.
CENCIO Mi ha piaciuto far cossì: quando io sarò mor­
to che mi fa che tutto il mondo sappia far oro? che mi
fa che tutto il mondo sii pieno d’oro?
GIOAN BERNARDO Io mi dubito che l’argento et il
stagno valerà piú caro oggimai, che l’oro.
CENCIO Dovete saper, per la prima, che messer Bar­
tolomeo, lui, ebbe tutta la ricetta in mano, dove si
contiene et il modo di operare e le cose che vi con­
correno; lui mandava al speciale, per le cose che bi­
sognano, il suo putto; lui è stato presente al tutto che
si faceva; lui faceva tutto; e da me non volea altro che
la dechiarazione, con dirgli: - Fa’ in questo modo, fa’
in quello, non far cossì, fa’ colà, or applica questo, or
togli quello: - di sorte ch’al fine con allegrezza grande
ha ritrovato l’oro purissimo e probatissimo al fondo
della vitrea cucurbita, risaldata luto sapientiae…
GIOAN BERNARDO Luto della polvere delle potte
sudate al viaggio di Piedigrotta.
CENCIO …e cossì, assicuratissimo, mi ha pagato sei­
cento scudi per il secreto che gli ho donato, secondo
le nostre convenzioni.
GIOAN BERNARDO Or, poi che avete fatta una cosa,
fatene un’altra: e sarà compito tutto il negocio a non
mancarvi nulla.
CENCIO Che volete che noi facciamo?
GIOAN BERNARDO Lui essendo nella miseria che
eravate voi, con aver seicento scudi meno, e voi es­
sendo nella comodità nella quale era lui, con aver
oltre seicento scudi: però, come avete cambiata
fortuna, cambiatevi ancora gli mantelli e le barette.
Ch’al fine non conviene ch’egli vada in quello abito,
e tu in questo.
CENCIO Oh! voi sempre burlate.
GIOAN BERNARDO Sì, sì, burlo: la prima volta che vi
vedrò insieme, dirò: - Ecco qui la tua cappa, Cencio;
ecco qui la tua cappa, Bartolomeo. - Ma dimmi da ga­
lant’omo (parliamo da dovero): non l’hai tu attacata a
costui come l’attaccò il Gigio al Perrotino ?
CENCIO E che fec’egli?
GIOAN BERNARDO Non sai quel che fece? io tel sa­
prò dire. — Costui cavò un pezzo di legno, vi inserrò
l’oro dentro, poi lo bruggiò fuori, facendolo a guisa
de gli altri carboni; et al suo tempo, con una bella
destrezza, sel tolse dalla saccoccia, e ponendo mani
a dui altri carboni ch’erano presso la fornace, fece ve­
nir a proposito di ponere quel carbone pregnante:
dove presto, per la forza del fuoco incinerito, stillò
l’oro impolverato per gli buchi a basso.
CENCIO Oh vagliame Dio! mai arei possuto imaginar­
mi una sì fatta gaglioffaria. Ingannar io? fars’ingannar
messer Bartolomeo? Or, credo che di questo tratto
lui ne sii stato informato. Egli non solo non ha voluto
ch’io toccasse cosa alcuna; ma anco mi ha fatto se­
der sei passi lungi dalla fornace, la prima volta che si
oprò in mia presenza, per la dechiarazion della prat­
tica della ricetta; e nella seconda volta, ha voluto es­
ser solo, con farmene essere al tutto absente, aven­
do solo la mia ricetta per guida. Di sorte che, dopo
che la esperienza è fatta due volte in poca materia e
pochissima spesa, or vi si è risoluto a tutta passata,
o, come vi ho detto, fa gran seminata per raccogliere
gran frutto.
GIOAN BERNARDO Come! have egli aumentate le
dose?
CENCIO Tanto, che in questa prima posata tirarà cin­
quecento scudi come cinquanta soldi.
GIOAN BERNARDO Credo piú presto come cinquan­
ta soldi che come cinquant’altri scudi. Ora sì che hai
profetato meglio ch’un Caifasso. Or aspettiamo il
parto, ché all’ora vedremo si l’è maschio o femina.
A dio.
CENCIO A dio, a dio: assai è che crediate gli articoli
di fede.
[SCENA XII]
Cencio, solo
In vero, si Bartolomeo avesse il cervello di costui, e
che tutti fussero cossì male avisati, indarno arei ste­
sa la rete in questa terra. Or facciamo di bon modo,
poi che l’ucello è dentro; ché non siamo come quello
che sel fe’ venire a la rete, e poi sel fe’ fuggir dal­
la mano. Mai mi stimarò possessor di questi scudi,
né le chiamerò miei, sin tanto che non sarò fuor del
Regno. Ho dato ordine alla posta, et or ora vo a mon­
tarvi su; non mi fia mistiero d’andar a prendere altre
bagaglie: quando l’oste aprirà la balice che ha nelle
mani, la trovarà piena di sassi, e che vale piú quel
che è di fuori che quel che è di dentro. Credo che
non dimorarà troppo a veder il conto suo, anche lui.
Non bisogna ch’io mi fermi cqui sino al tempo che
potrà essere che Bartolomeo manda per trovare il
pulvis Christi. Mi par veder la moglie: non voglio che
mi veda cossì imbottato.
[SCENA XIII]
Marta, sola
Credo che Sautanasso, Barsabucco e tutti quegli che
squagliano, sel prenderanno per compagno; perché
saprà egli attizzar il fuoco dell’inferno, per suffriggere
e rostire l’anime dannate. La faccia di mio marito as­
somiglia ad uno il quale è stato trent’anni a far carbo­
ni alla montagna di Scarvaita, che sta da là del monte
de Cicala. Non sta cossì volentieri pesce in acqua,
come lui presso que’ carboni vivi a fumegarse tutto il
giorno (non voglio maldirlo) poi mi viene avanti con
quelli occhi rossi et arsi, di sorte che rassomiglia a
Luciferre. In fine, non è fatica tanto grave, che l’amore
non faccia non solamente lieve, ma piacevole. Ecco
costui, per essergli ficcato nel cervello la speranza di
far la pietra filosofale, è dovenuto a tale, che il suo fa­
stidio è il mangiare, la sua inquietitudine è il trovarsi
a letto, la notte sempre gli par lunga come a putti che
hanno qualche abito nuovo da vestirsi. Ogni cosa gli
dà noia, ogni altro tempo gli è amaro, e solo il suo
paradiso è la fornace. Le sue gemme e pietre pre­
ciose son gli carboni, gli angeli son le bozzole che
sono attaccate in ordinanza ne’ fornelli con que’ nasi
di vetro da cqua, e da llà tanti lambicchi di ferro, e
de piú grandi e de piú piccoli e di mezzani. E che
salta, e che balla, e che canta quel sciagurato, che mi
fa sovvenire dell’asino. Poco fa, per veder che cosa
facess’egli, ho posto l’occhio ad una rima de la porta,
e l’ho veduto assiso sopra la sedia, a modo di cate­
drante, con una gamba distesa da cqua et un’altra
distesa da llà, guardando gli travi della intempiatura
della camera; a’ quali, dopo aver cennato tre volte co
la testa, disse: «Voi, voi impiastrarò di stelle fatte di
oro massiccio ». Poi, non so che si borbottasse guar­
dando le casce e voltando il viso a’ scrigni. « Mia fé
», dissi io « penso che questi presto saranno pieni di
doppioni». — Oh, ecco Sanguino.
[SCENA XIV]
Sanguino, Marta
SANGUINO (cantando) Chi vooo spazzacamin? chi
vol conciare stagni, candelier, conche, caldare ?
MARTA Che buon’ora è, Sanguino ? è egli cosa nuova
che tu sei pazzo ? che canti per mezzo le strade ?
quale delle due è l’arte tua?
SANGUINO Non so: o l’una o l’altra. E voi non sape­
te?
MARTA Se non me dite, non so altro.
SANGUINO Son servitor, discepolo e compagno di
vostro marito, il quale o è un spazzacamino, o ver ri­
pezza stagni, tacconeggia padelle o risalda frissore.
Si non mel credi, guardagli il viso e miragli le mani.
Che diavolo fa egli? tenetelo forse appeso al fumo
come le salciche, e come mesesca di botracone in
Puglia ?
MARTA Ahi me lassa: per lui sarò mostrata a dito,
ogni poltrone me darrà la baia. Intendi, Sanguino?
questo va dirlo a lui e non a me.
SANGUINO Se dice che Nostro Signore sanò tutte al­
tre sorte de infirmità, ma che giamai volse accostarsi
a pazzi.
MARTA E però và via, ch’io non voglio accostarmi a
te, pazzacone.
SANGUINO Và pure, accostati a lui, madonna cara; e
guardati di porgerli la lingua, ché la minestra ti saprà
di fumo.
Fine dell’atto I.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Messer Ottaviano, Mamfurio, Pollula
OTTAVIANO Maestro, che nome è il vostro?
MAMFURIO Mamphurius.
OTTAVIANO Quale è vostra professione?
MAMFURIO Magister artium, moderator di pueruli,
di teneri unguicoli, lenium malarum, puberum, ado­
lescentulorum: eorum qui adhuc in virga in omnem
valent erigi, flecti, atque duci partem, primae vocis,
apti al soprano, irrisorum denticulorum, succiplenu­
larum carnium, recentis naturae, nullius rugae, lactei
halitus, roseorum labellulorum, lingulae blandulae,
mellitae simplicitatis, in flore, non in semine degen­
tium, claros habentium ocellos, puellis adiaphoron.
OTTAVIANO Oh! Maestro gentile, attillato, eloquen­
tissimo, galantissimo architriclino e pincerna delle
Muse,...
MAMFURIO O bella apposizione.
OTTAVIANO... patriarca del coro apollinesco,...
MAMFURIO Melius diceretur «apollineo».
OTTAVIANO... tromba di Febo, lascia ch’io te dia un
bacio ne la guancia sinestra, ché non mi reputo de­
gno di baciar quella dolcissima bocca:...
MAMFURIO “Ch’ambrosia e nectar non invidio a Gio­
ve”.
OTTAVIANO...quella bocca, dico, che spira sì varie e
bellissime sentenze et inaudite frase.
MAMFURIO Addam et plura: in ipso aetatis limine,
ipsis in vitae primordiis, in ipsis negociorum huius
mundialis seu cosmicae architecturae rudimentis, ex
ipso vestibulo, in ipso aetatis vere, ut qui adnuptu­
riant, ne in apiis quidem.
OTTAVIANO O Maestro, fonte caballino, di grazia,
non mi fate morir di dolcezza, prima ch’io dichi la mia
colpa; non parlate piú, vi priego, perché mi fate spa­
simare.
MAMFURIO Silebo igitur, quia opprimitur a gloria
maiestatis, come accadde a quella meschina di cui
Ovidio nella Metamorfosi fa menzione: a cui le Par­
che avare troncorno il filo, vedendo, lei, nella propria
maiestade il folgorante Giove.
OTTAVIANO Di grazia, vi supplico per quel dio Mer­
curio che vi ha indiluviato di eloquenzia,...
MAMFURIO Cogor morem gerere.
OTTAVIANO... abbiate pietà di me, e non mi lanciate
piú cotesti dardi che mi fanno andar fuor di me.
MAMFURIO In ecstasim profunda trahit ipsum admi­
ratio. Tacebo igitur de iis hactenus, nil addam, muti
pisces, tantum effatus, vox faucibus haesit.
OTTAVIANO Misser Mamfurio, amenissimo fiume di
eloquenza, serenissimo mare di dottrina,...
MAMFURIO Tranquillitas maris, serenitas aeris.
OTTAVIANO... avete qualche bella vostra di compo­
sizione? perché ho gran desiderio aver copia di vo­
stre doctissime carte.
MAMFURIO Credo, Signor, che in toto vitae curriculo
e discorso di diverse e varie pagine non ve siino oc­
corsi carmini di calisimetria, idest cossì bene adapta­
ti, come questi che al presente io son per dimostrar­
vi, cqui, exarati.
OTTAVIANO Che è la materia di vostri versi?
MANFURIO Litterae, syllabae, dictio et oratio, partes
propinquae et remotae.
OTTAVIANO Io dico: quale è il suggetto et il propo­
sito?
MAMFURIO Volete dire: de quo agitur? materia de
qua? circa quam?. E la gola, ingluvie e gastrimargia
di quel lurcone Sanguino, - viva effigie di Filoxeno,
qui collum gruis exoptabat, - con altri suoi pari, socii,
aderenti, simili e collaterali.
OTTAVIANO Piacciavi di farmeli udire.
MAMFURIO Lubentissime. Eruditis non sunt ope­
rienda arcana: ecco, io explico papirum propriis ela­
boratum et lineatum digitis. Ma voglio che prenotiate
che il sulmonense Ovidio («Sulmo mihi patria est »)
nel suo libro Methamorphoseon octavo, con molti
epiteti l’apro calidonio descrisse, alla cui imitazione
io questo domestico porco vo delineando.
OTTAVIANO Di grazia, leggetele presto.
MAMFURIO Fiat. Qui cito dat, bis dat. Exordium ab
admirantis affectu.
O porco sporco, vil, vita disutile,
ch’altro non hai che quel gruito fatuo,
col quale il cibo tu ti pensi acquirere;
gola quadruplicata da l’axungia
dall’anteposto absorpta brodulario
che ti prepara il sozzo coquinario
per canal emissario;
per pinguefarti piú, vase d’ingluvie,
in cotesto porcil t’intromettesti,
u’ ad altro obiecto non guardi ch’al pascolo,
e privo d’exercizio,
per inopia e penuria
di meglior letto e di meglior cubiculo,
Altro non fai ch’al sterco e fango involverti.
Post haec:
A nullo sozzo volutabro inabile,
di gola e luxo infirmità incurabile,
ventre che sembra di Pleiade il puteo,
abitator di fango, incola luteo;
fauce indefessa, assai vorante gutture;
ingordissima arpia, di Tizio vulture,
terra mai sazia, fuoco e vulva cupida;
orficio protenso, nare putida;
nemico al cielo, speculator terreo,
mano e piè infermo, bocca e dente ferreo,
l’anima ti fu data sol per sale,
a fin che non putissi: dico male?
Che vi par di questi versi? che ne comprendete con
di vostro ingegno il metro?
OTTAVIANO Certo, per esser cosa d’uno della profes­
sion vostra, non sono senza bella considerazione.
MAMFURIO Sine conditione et absolute denno esser
giudicati di profonda perscrutazion degni questi frut­
ti raccolti dalle meglior piante che mai producesse
l’eliconio monte, irrigate ancor dal parnasio fonte,
temprate dal biondo Apolline e dalle sacrate Muse
coltivato. E che ti par di questo bel discorso? non vi
admirate adesso come pria già?
OTTAVIANO Bellissimo e sottil concetto. Ma ditemi,
vi priego, avete speso molto tempo in ordinar questi
versi?
MAMFURIO Non.
OTTAVIANO Sietevi affatigato in farli?
MAMFURIO Minime.
OTTAVIANO Avetevi speso gran cura e pensiero?
MAMFURIO Nequaquam.
OTTAVIANO Avetele fatti e rifatti?
MAMFURIO Haudquaquam.
OTTAVIANO Avetele corretti?
MAMFURIO Minime gentium: non opus erat.
OTTAVIANO Avetene destramente presi, per non dir
mariolati, a qualche autore?
MAMFURIO Neutiquam, absit verbo invidia, Dii aver­
tant, ne faxint ista superi. Voi troppo volete veder di
mia erudizione: credetemi che non ho poco io del
fonte caballino absorpto, né poco liquor mi have in­
fuso la de cerebro nata Iovis: dico la casta Minerva,
alla quale è attribuita la sapienza. Credete ch’io non
sarei minus foeliciter risoluto, quando fusse stato
provocato ad explicandas notas affirmantis vel as­
serentis. Non hanno destituita la mia memoria: Sic,
ita, etiam, sane, profecto, palam, verum, certe, pro­
cul dubio, maxime, cui dubium?, utique, quidni?,
mehercle, aedepol, medius~dius, et caetera.
OTTAVIANO Di grazia, in luoco di quell’et caetera,
ditemi un’altra negazione.
MAMFURIO Questo cacocephaton, idest prava elocu­
zione, non farò io, perché factae enumerationis clau­
sulae non est adponenda unitas.
OTTAVIANO Di tutte queste particule affirmative
quale vi piace piú de l’altre?
MAMFURIO Quell’«utique» assai mi cale, eleganza in
lingua aethrusca vel tuscia, meaeque inhaeret menti:
eleganza di piú profondo idioma.
OTTAVIANO Delle negative qual vi piace piú?
MAMFURIO Quel «nequaquam» est mihi cordi e mi
sodisfa.
OTTAVIANO Or dimandatemi voi adesso.
MAMFURIO Or dimandatemi voi, adesso. Ditemi, si­
gnor Ottaviano, piacenvi gli nostri versi?
OTTAVIANO Nequaquam.
MAMFURIO Come nequaquam? non sono elli opti­
mi?
OTTAVIANO Nequaquam.
MAMFURIO Duae negationes affirmant: volete dir
dumque che son buoni.
OTTAVIANO Nequaquam.
MAMFURIO Burlate ?
OTTAVIANO Nequaquam.
MAMFURIO Sì che dite da senno ?
OTTAVIANO Utique.
MAMFURIO Dunque, poca stima fate di mio Marte e
di mia Minerva ?
OTTAVIANO Utique.
MAMFURIO Voi mi siete nemico e mi portate invidia:
da principio, vi admiravate della nostra dicendi co­
pia, adesso, ipso lectionis progressu, la admirazione
è metomorfita in invidia?
OTTAVIANO Nequaquam: come invidia? come nemi­
co? non mi avete detto che queste dizioni vi piace­
no?
MAMFURIO Voi, dumque, burlate, e dite exercitatio­
nis gratta ?
OTTAVIANO Nequaquam.
MAMFURIO Dicas igitur, sine simulatione et fuco:
hanno enormità, crassizie e rudità gli miei numeri ?
OTTAVIANO Utique.
MAMFURIO Cossì credete a punto?
OTTAVIANO Utique, sane, certe, equidem, utique,
utique.
MAMFURIO Non voglio piú parlar con voi.
OTTAVIANO Si non volete resistere a udir quel che
dite che vi piace, che sarrebbe s’io vi dicesse cosa
che vi dispiace? A dio.
SCENA SECONDA
Mamfurio, Pollula
MAMFURIO Vade, vade. Adesdum, Pollula: hai consi­
derata la proprietà di questo uomo, il quale, or ora, è
da noi absentato ?
POLLULA Costui, da principio, si burlava di voi di
una sorte; al fine, vi dava la baia d’un’altra sorte.
MAMFURIO Non pensi tutto ciò esser per invidia che
gli inepti portano a noi altri (melius diceretur «alii»,
differentia faciente «aliud») eruditi?
POLLULA Tutto vi credo, essendo voi mio maestro, e
per farvi piacere.
MAMFURIO De iis hactenus, missa faciamus haec. Or
ora, voglio gire a ispedir le muse contra questo Otta­
viano; e, come gli ho fatti udire, in proposito di altro,
gli porcini epiteti, posthac in suo proposito, voglio
che odi quelli di uno inepto giudicator della doctrina
altrui. Ecco, vi porgo una epistola amatoria fatta ad
istanzia di messer Bonifacio, il quale, per gratificare
alla sua amasia, mi ha richiesto che gli componesse
questa lectera incentiva. Andate; e gli la darrete se­
cretamente da mia parte in mano, dicendogli che io
sono implicito in altri negocii circa il mio ludo litera­
rio. Ego quoque hinc pedem referam, perché veggio
due femine appropiare, de quibus illud: « Longe fac
a me!».
POLLULA Salve, domine praeceptor.
MAMFURIO Faustum iter dicitur «vale».
SCENA TERZA
Signora Vittoria, Lucia
VITTORIA La gran pecoragine che io scorgo in lui mi
fa inamorar di quest’uomo; la bestialità sua mi fa ar­
gumentare che non perderemo per averlo per aman­
te; e, per essere un Bonifacio, come vedete, non ne
potrà far altro che bene.
LUCIA Costui non è di que’ matti ch’han troppo secco
il cervello, ma di quei che l’han tropp’umido: però è
necessario che dii di botto al troppo grosso e dolce
umore piú che al troppo suttile, fastidioso, colerico
e bizzarro.
VITTORIA Or, andiate e ringraziatelo da mia parte; e
ditegli ch’io non posso vedermi sazia di leggere la
sua carta, e che in poco tempo, che siate stata presso
di me, diece volte me l’avete veduta cacciar e rimet­
tere nel petto: dategli quante panzanate voi possete,
per fargl’intendere ch’io li porto grand’amore.
LUCIA Lascia la cura a me (disse Gradasso). Cossì
potesse io guidar il Re o l’Imperadore, come potrò
maneggiar costui. Rimanete sana.
VITTORIA Andate. Fate come vi dettarà la prudenza
vostra, Lucia mia.
SCENA QUARTA
Signora Vittoria, sola
L’amore si depinge giovane e putto per due cause:
l’una, perché par che non stia bene a’ vecchi, l’altra,
perché fa l’uomo di leggiero e men grave sentimento,
come fanciulli. Né per l’una né per l’altra via è entrato
amor in costui. Non dico perché gli stesse bene, atte­
so che non paiono buone a lui simili giostre; né per­
ché gli avesse a togliere l’intelletto, perché nisciuno
può essere privato di quel che non ha. — Ma non ho
tanto da guardar a lui, quanto debbo aver pensiero
de’ fatti miei. Considero che, come di vergini altre
son dette sciocche, altre prudenti; cossì, anche de
noi altre che gustiamo de meglior frutti che produce
il mondo, pazze son quelle ch’amano sol per fine di
quel piacer che passa, e non pensano alla vecchiaia
che si accosta ratto, senza ch’altri la vegga o senta,
insieme insieme facendo discostar gli amici. Mentre
quella increspa la faccia, questi chiudono le borse;
quella consuma l’umor di dentro e [questi scemano]
l’amor di fuori, quella percuote da vicino, e questi
salutano da lontano. Però fa di mestiero di ben ri­
solversi a tempo. Chi tempo aspetta, tempo perde.
S’io aspetto il tempo, il tempo non aspettarà me. Bi­
sogna che ci serviamo di fatti altrui, mentre par che
quelli abbian bisogno di noi. Piglia la caccia mentre
ti siegue, e non aspettar che ella ti fugga. Mal potrà
prendere l’ucel che vola, chi non sa mantener quello
ch’ha in gabbia. Ben che costui abbia poco cervello e
mala schena, ha però la buona borsa: del primo suo
danno; del secondo mal non m’accade, del terzo se
ne de’ far conto. I savi vivono per i pazzi, et i paz­
zi per i savii. Si tutti fussero signori, non sarebbono
signori: cossì, se tutti saggi, non sarebbono saggi,
e se tutti pazzi, non sarebbono pazzi. Il mondo sta
bene come sta. — Or, torniamo a proposito, Porzia:
conviene, a chi è bella per la gioventú, che sii saggia
per la vecchiaia. Altro n’abbiamo l’inverno che quel
che raccolsemo l’estade. Or, facciamo di modo che
quest’ucello con sue piume oltre non passa. Ecco
Sanguino.
SCENA QUINTA
Sanguino, signora Vittoria
SANGUINO Basovi quelle bellissime ginocchia e pie­
di, signora Porzia mia dolcissima, saporitissima piú
che zucchero, cannella e senzeverata. O ben mio, si
non fussemo in piazza, non mi terrebono le catene
di santo Leonardo ch’io non ti piantasse un bacio a
quelle labbra che mi fan morire.
VITTORIA Che portate di novo, Sanguino?
SANGUINO Messer Bonifacio ve si raccomanda; et io
vel raccomando cossì, come i buoni padri raccoman­
dano i lor putti a’ maestri: idest che, se egli non è
saggio, lo castigate ben bene, e, se volete uno che
sappia e possa tenerlo a cavallo, servitevi di me.
VITTORIA Ah ah ah, che volete dir per questo?
SANGUINO Non l’intendete? non sapete quel ch’io
voglio dire? siete tanto semplicetta voi?
VITTORIA Io non ho queste malizie che voi avete.
SANGUINO Se non avete di queste malizie, avete di
quelle e di quelle e di quell’altre; e se non sete fina,
come posso esser io, sete come può essere un altro.
Or, lasciamo queste parole da vento: vengamo al fat­
to nostro. — Era un tempo che il leone e l’asino era­
no compagni; et andando insieme in peregrinaggio,
convennero che, al passar de’ fiumi, si tranassero a
vicenna com’è dire, che una volta l’asino portasse so­
pra il leone, et un’altra volta il leone portasse l’asino.
Avendono, dumque, ad andar a Roma, e, non essen­
do a lor serviggio né scafa né ponte, gionti al fiume
Garigliano, l’asino si tolse il leone sopra: il quale na­
tando verso l’altra riva, il leon, per tema di cascare,
sempre piú e piú gli piantava l’unghie ne la pelle, di
sorte che a quel povero animale gli penetrorno in sin
all’ossa. Et il miserello, come quel che fa professione
di pazienza, passò al meglio che poté, senza far mot­
to Se non che, gionti a salvamento fuor de l’acqua,
si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o
quattro volte per l’arena calda, e passoron oltre. Otto
giorni dopo, al ritornare che fecero, era il dovero che
il leone portasse l’asino. Il quale, essendogli sopra,
per non cascar ne l’acqua co i denti afferrò la cervi­
ce del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli
cacciò il suo strumento, (o, come vogliam dire, il tum’intendi], per parlar onestamente, al vacuo, sotto
la coda, dove manca la pelle: di maniera ch’il leone
sentì maggior angoscia che sentir possa donna che
sia nelle pene del parto, gridando: «Olà, olà, oi, oi
oi, oimè! olà, traditore! » A cui rispose l’asino, in vol­
to severo e grave tuono: « Pazienza, fratel mio: vedi
ch’io non ho altr’unghia che questa d’attaccarmi ». E
cossì fu necessario ch’il leone suffrisse et indurasse,
sin che fusse passato il fiume. A proposito: « Omnio
rero vecissitudo este»’; e nisciuno è tanto grosso asi­
no, che qualche volta, venendogli a proposito, non
si serva de l’occasione. Alcuni giorni fa, messer Bo­
nifacio rimase contristato di certo tratto ch’io gli feci;
oggi, all’ora ch’io credevo che si fusse desmenticato,
me l’ha fatta peggio che non la fece l’asino al lione;
ma io non voglio che la cosa rimagna cqua.
VITTORIA Che vi ha egli fatto? che volete voi fargli?
SANGUINO Ve dirò. Oh, veggio compagni che vengo­
no: retiriamoci e parleremo a bell’aggio.
VITTORIA Voi dite bene: andiamo in nostra casa, ché
voglio saper de cose da voi.
SANGUINO Andiamo, andiamo.
SCENA SESTA
Lucia, Barra
LUCIA Starnuti di cornacchia, piè d’ostreca et ova di
liompardo.
BARRA Ah ah ah, il suo marito era dentro ad attizzar
la fornace, a lavorar piú dentro; et io lavoravo co lei a
la prima camera.
LUCIA Che lavor è il vostro.
BARRA Il giuoco de zingani: e che l’è fuori e che l’è
dentro; e se volete intendere il successo per ordine,
credo che riderete.
LUCIA Di grazia, fatemi ridere, ch’io n’ho gran voglia.
BARRA Questa vecchiazza barba di cocchiara, richie­
sta da me si me voleva fare quel piacere, mi rispose:
« No, no no no... »
LUCIA O gaglioffo, dumque tu vai subvertendo le po­
vere donnecciole e svergognando i parentadi?
BARRA Tu hai il diavolo in testa: chi ti parla di que­
sto? è forse una sorte di piacere che possono far le
donne a gli uomini?
LUCIA Or sequita.
BARRA Si lei avesse detto una volta: no, io non arrei
piú parlato, facendo rimaner la cosa cossì, llì; ma per­
ché disse piú de dodici volte: «No, no no, non non,
non, none, none, none, nani, nani, none»: «Cazzo,»
dissi intra di me, «costei ne vuole; al sangue de su­
beri di pianelle vecchissime, che in questo viaggio
passeremo qualche fiume». Poi, riprendo, idest ripi­
glio il sermone, facendomegli udire in questa foggia:
«O faccia di oro fino et occhii di diamante, tu vuoi
farmi morire, an?»
LUCIA E poi dice la bestia che non intendeva di
quella facenda.
BARRA Tu, Lucia, mi vuoi far rinegare! non ti puoi
imaginare piú di una sorte, con la quale le donne
possono far morire gli uomini?
LUCIA Passa oltre. Ella che rispose a questo?
BARRA et ella rispose: «Và via, và via, via, via, via, via,
via, via, via, mal uomo ». Si lei avesse detto, una volta
«và via» forse io arei smaltito di quella sicurtà che gli
tanti: non, non, mi aveano data. Ma perché, ripiglian­
do due volte il fiato, disse piú di quindeci volte «via
via», et io ho udito dire da mastro Mamfurio che le
due negazione affermano, e molto piú le tre, come
veggiamo per isperienza: «Dumque» dissi io intra me
stesso, «costei vuol dansare a tre piè; e forsi che io gli
piantarò un’altra gamba tra le due, acciò possa ancor
meglio correre».
LUCIA Or, adesso ti ho.
BARRA Hai il mal-an-che-Dio-ti-dia! (perdonami, si
t’offendo): s’io te dico che non vuoi pigliar si non a
mala parte quel che ti dico!
LUCIA Ah ah ah, sequita, ch’io voglio tacere sin a l’ul­
tima conclusione. E tu che gli dicesti?
BARRA All’or io, con una bocca piccolina, me gli feci
udire in questo tenore: «Dunque, cor mio, tu vuoi
ch’io mora? e perché vuoi ch’io mora, perché ti amo?
che farai, dumque, ad un che t’odia, o vita mia? ecco­
ti il coltello: uccidemi con tua mano, ché certo certo
morirò contento».
LUCIA Ah oh ah, e lei?
BARRA « Gaglioffo, disonesto, ricercatore, cubicula­
rio: dirò al padre mio spirituale, che tu mi hai fascina­
ta. Ma tu, con tutte le tue paroli, non bastarai giamai
di farmeti consentire; né, con tutte tue forze, giamai
verrai a quell’effetto che ti pensi: e s’il provassi, tel
farei vedere certissimo. Credi tu, per esser maschio,
di aver piú forza di me? Cagnazzo traditore, s’io aves­
se un pugnale, adesso ti ucciderei, che non vi è testi­
monio alcuno, né persona che ci vegga ». S’io avesse
avuta la testa piú grossa di quella di san Sparagorio,
o s’io fusse stato il piú gran tamburro del mondo, la
dovevo intendere: il tamburro pure, quando è toc­
cato, suona.
LUCIA Or, dumque, che suono facesti tu?
BARRA Andiamo dentro, che tel farò vedere.
LUCIA Dite, dite pure, perché dentro non si vede.
BARRA Andiamo, andiamo, che batteremo tanto il
fucile, che allumaremo questa candela che sempre
porto dentro le brache per le occorrenze.
LUCIA Allumar la possa il fuoco di santo Antonio.
BARRA È da temer piú di deluvio d’acqua che di fuo­
co!
LUCIA Lasciamo questi propositi. Ella che si mon­
strava tanto ritrosa e tanto gagliarda, che fece? come
ve ha resistito?
BARRA Oimè, ch’a la poverina tutta la forza gli andò
a dietrovia. Parsemi veder la mula d’Alcionio che,
s’ell’avesse avuto al cul la briglia, arebbe fatto il gior­
no cento miglia. Il conto di costei mi par simile a quel
d’un’altra che spunzonava don Nicola: alla quale don
Nicola disse: «Si tu mi spontoneggi un’altra volta, tel
farò»; et ella: «Ecco, ti spontoneggio un’altra volta, or
che potrai far tu? che pensi di far adesso, don Nicola?
chi è uomo da nulla piú di te? Ecco, ti spontoneggio
un’altra volta, or che mi farai tu? O caro don Nicola,
non potrai muovere un sassolino s’io non voglio ». Or
dimmi, Lucia, che dovea far quei povero don Nicola
che molti giorni fa non avea celebrato’? Il buon omo
di don Nicola dovenne a tale, che non so che vena
se gli ruppe.
LUCIA Ah ah, voi siete fino. Lasciatemi andar a ren­
dere certa risposta a misser Bonifacio, ché son pur
troppo dimorata a sentir le tue ciancie.
BARRA Andate via, ch’io ancor ho da parlar con que­
sto giovane che viene.
SCENA SETTIMA
Pollula, Barra
POLLULA A dio, messer Barra.
BARRA Ben venuto, cor mio, onde venite, dov’anda­
te?
POLLULA Vo cercando messer Bonifacio, per donar­
gli questa carta.
BARRA Che cosa l’è, si può vedere?
POLLULA Non è cosa ch’io possa tener ascosta a voi.
È una epistola amatoria, la quale maestro Mamfurio
gli ha composta, che lui vuole inviare non so a chi sua
inamorata.
BARRA Ah ah ah, alla signora Vittoria! Veggiamo che
cosa contiene.
POLLULA Leggete voi, toh.
BARRA «Bonifacius Luccus D. Vittoriae Blancae S. P.
D. Quando il rutilante Febo scuote dall’oriente il ra­
diante capo, non sì bello in questo superno emisfero
appare, come alla mia concupiscibile il tuo exilarante
volto, tra tutte l’altre belle pulcherrima signora Vitto­
ria...» — Che ti ho detto io? non ho io divinato?
POLLULA Leggete pur oltre.
BARRA «...laonde maraviglia non fia, né sii anco veru­
no che, inarcando le ciglia, la rugosa fronte increspi,
- nemo scilicet miretur, nemini dubium sit... » — Che
diavolo di modo di parlar a donne è questo? lei non
intende parlare per gramatico, ah ah...
POLLULA Eh, di grazia, sequite.
BARRA «... nemini dubium sit, si l’arcifero puerulo
con quell’arco medesmo, la di cui piaga ha sentito lo
in varie forme cangiato gran monarca Giove, divum
pater atque hominum rex, hammi negli precordii pe­
netrato con del suo quadrello la punta, il vostro gen­
tilissimo nome indelebilmente con quella sculpen­
dovi. Però per le onde stigie, (giuramento a i Celicoli
inviolando)... » , - Vada in bordello questo becco
pedante, con le sue cifre; e questo grosso modorro
che potrà donar ad intendere con questa lettera? Bo­
nifacio vuol far del dotto; e lei non crederà che sii
cosa sua. Oltre che, mi par una dotta coglioneria quel
che cqui si contiene. Toh, io ne ho letto pur troppo,
non ne voglio veder piú. Si costui non have altro bat­
ti-porta che questa pistola, non ce l’attacca questa
settimana.
POLLULA Cossì credo io: le donne voglion lettere
rotonde.
BARRA Ideste de gli carlini, e vogliono il ritratto de lo
re. Andiamo avanti, ché voglio dirti un poco a lungo;
e questo negocio lo farai dopoi.
POLLULA Andiamo.
Fine dell’atto II.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Bartolomeo, solo
Chi è stato quel gran bestia-da-campana, che si tira
a presso un armento cossì grande? Mentre comun­
mente si va considerando dove consista la virtú delle
cose, fanno quella divisione «in verbis, in herbis et in
lapidibus». Oh, che gli vada il mal di S. Lazaro, e tut­
to quello che non vorrei per me! Perché, prima che
dichino queste tre cosaccie, non dicono «i metalli»?
Li metalli, come oro et argento, sono il fonte de ogni
cosa: questi, questi apportano parole, erbe, pietre,
lino, lana, seta, frutti, frumento, vino, oglio; et ogni
cosa sopra la terra desiderabile da questi si cava:
questi dico talmente necessarii, che, senza essi, cosa
nisciuna di quelle si accapa o si possede. Però l’oro è
detto materia del sole, e l’argento la luna: perché, to­
gli questi dui pianeti dal cielo, dove è la generazione
delle cose? dove è il lume dell’universo? Togli questi
dui de la terra, dove è la participazione, possessio­
ne e fruizione di quelle? Però quanto arebbe meglio
fatto, quel primo animale, di porre in bocca al volgo
quell’un solo soggetto di virtú, che tutti quelli altri
tre senza quest’uno; se per ciò non è stato introdutto,
a fin che non tutti intendano e possedano quel che
io intendo e possedo. Erbe, parole e pietre son ma­
teria di virtú a presso certi filosofi matti et insensati,
li quali, odiati da Dio, dalla natura e dalla fortuna,
si vedono morir di fame, lagnarsi senza un poverello
quattrino in borsa; per temprar il tossico dell’invidia
ch’hanno verso pecuniosi, biasmano l’oro, argento e
possessori di quello. Poi quando mi accorgo, ecco
che tutti questi vanno come cagnoli per le tavole de’
ricchi: veramente cani che non sanno con altro che col
baiare acquistars’il pane. Dove ? a tavole di ricchi, di
que’ stolti, dico, che per quattro paroli a sproposito
da quelli dette con certe ciglia irsute, occhi attoniti
et atto di maraviglia, si fanno cavar il pan di cascia e
danari dalle borse; e gli fanno conchiudere con ve­
rità che « in verbis sunt virtutes». Ma starebon ben
freschi, si dal canto mio aspectassero effetto de le
lor ciancie; atteso che non so ripascere d’altro che di
quelle medesme, chi mi pasce di parole. Or facciano
conto di erbe le bestie, di pietre gli matti e di paroli
gli salta-in-banco, ch’io per me non fo conto d’altro
che di quello per cui si fa conto d’ogni cosa Il danaio
contiene tutte l’altre quattro: a chi manca il danaio,
non solo mancano pietre, erbe e parole, ma l’aria, la
terra, l’acqua, il fuoco e la vita istessa. Questo dà la
vita temporale e la eterna ancora, sapendosene ser­
vire, con farne limosina; la quale pure si deve far con
gran discrezzione, e, non senza saper il conto tuo,
devi privar la borsa dell’anima sua: però dice il sag­
gio: «Si bene feceris, vide cui ». Ma in questa teorica
non vi è guadagno. - Ho inteso che è ordine nel Re­
gno che gli carlini di vint’uno non vagliano piú di vinti
tornesi; io voglio andar prima che si publichi l’editto
a cambiar i tre che mi trovo: interim, il mio garzone
tornarà da prendere il pulvis Christi.
SCENA SECONDA
Messer Bonifacio, messer Bartolomeo, Lucia
BONIFACIO Olà, messer Bartolomeo, ascolta due pa­
roli: dove in fretta? mi fuggi, ah?
BARTOLOMEO A dio, a dio, Messer poco-pensiero:
ho assai meglio da far, che di cianciar co gli vostri
amori.
BONIFACIO Ah ah, ah, andate, dumque, procuriate
per quell’altra vostra..., che vi fa morire.
LUCIA Che motteggiamenti son questi vostri? sa egli
che siete inamorato?
BONIFACIO Sa il mal-an-che-Dio-li-dia! è perché mi
vede conversar con voi. Or, al fatto nostro: che cosa
dice la mia dolcissima signora Vittoria?
LUCIA La povera Signora, per necessità nella quale
si trova, have impegnato un diamante e quel suo bel
smeraldo.
BONIFACIO O diavolo, o che fortuna!
LUCIA Credo che li sarebbe cosa gratissima, si gli le
facessivo ricuperare. Non stanno per piú che per die­
ce scudi.
BONIFACIO Basta, basta: farò, farò.
LUCIA Il presto è il meglio.
BONIFACIO Oh, oh, perdonami, Lucia, a rivederci:
non posso darvi risoluzione alcuna, adesso. Ecco un
mio amico col quale ho da negociar cose d’importan­
za. A dio, a dio.
LUCIA A dio.
SCENA TERZA
Ascanio, Scaramuré, Bonifacio
ASCANIO Oh, ecco messer Bonifacio mio padrone.
Misser, siamo cqui con il Signor eccellentissimo e
dottissimo, il signor Scaramuré.
BONIFACIO Ben venuti. Avete dato ordine alla cosa?
è tempo di far nulla?
SCARAMURÉ Come nulla? ecco cqui la imagine di
cera vergine, fatta in suo nome; ecco cqui le cinque
aguglie che gli devi piantar in cinque parti della per­
sona. Questa particulare, piú grande che le altre, li
pungerà la sinistra mammella: guarda di profondare
troppo dentro, perché fareste morir la paziente.
BONIFACIO Me ne guardarò bene.
SCARAMURÉ Ecco, ve la dono in mano; non fate che
da ora avanti la tenga altro che voi. Voi, Ascanio, sia­
te secreto; non fate che altra persona sappia questi
negocii.
BONIFACIO Io non dubito di lui: tra noi passano ne­
gocii piú secreti di questo.
SCARAMURÉ Sta bene. Farete, dumque, far il fuoco
ad Ascanio di legne di pigna, o di oliva, o di lauro, si
non possete farlo di tutte tre materie insieme. Poi
arrete d’incenso alcunamente esorcizato o incanta­
to, co la destra mano lo gettarete al fuoco; direte tre
volte: «Aurum thus »; e cossì verrete ad incensare e
fumigare la presente imagine, la qual prendendo in
mano direte tre volte: «Sine quo nihil»; oscitarete tre
volte co gli occhii chiusi, e poi, a poco a poco, svol­
tando verso il caldo del fuoco la presente imagine
(guarda che non si liquefaccia, perché morrebbe la
paziente)...
BONIFACIO Me ne guardarò bene.
SCARAMURÉ ...la farrete tornare al medesimo lato tre
volte, insieme insieme tre volte dicendo: «Zalarath
Zhalaphar nectere vincula: Caphure, Mirion, sarcha
Vittoriae», come sta notato in questa cartolina. Poi,
mettendovi al contrario sito del fuoco verso l’occi­
dente, svoltando la imagine con la medesma forma,
quale è detta, dirrete pian piano: «Felapthon disamis
festino barocco daraphti. Celantes dabitis fapesmo
frises omorum », Il che tutto avendo fatto e detto,
lasciate ch’il fuoco si estingua da per lui; e locarrete
la figura in luoco secreto, e che non sii sordido, ma
onorevole et odorifero.
BONIFACIO Farrò cossì a punto.
SCARAMURÉ Sì, ma bisogna ricordarsi ch’ho spesi
cinque scudi alle cose che concorreno al far della
imagine.
BONIFACIO Oh, ecco, li sborso. Avete speso troppo.
SCARAMURÉ E bisogna ricordarvi di me.
BONIFACIO Eccovi questo per ora; e poi farò di van­
taggio assai, si questa cosa verrà a perfezione.
SCARAMURÉ Pazienza! Avertite, messer Bonifacio,
che, si voi non la spalmarete bene, la barca correrà
malamente.
BONIFACIO Non intendo.
SCARAMURÉ Vuol dire che bisogna onger ben bene
la mano: non sapete?
BONIFACIO In nome del diavolo, io procedo per via
d’incanti, per non aver occasione di pagar troppo! In­
canti e contanti…
SCARAMURÉ Non induggiate. Andate presto a far
quel che vi è ordinato, perché Venere è circa l’ultimo
grado di Pesci; fate che non scorra mezza ora, ché son
trenta minuti di Ariete.
BONIFACIO A dio, dumque. Andiamo, Ascanio. Can­
caro a Venere, e...
SCARAMURÉ Presto, a la buon’ora, caldamente!
[SCENA QUARTA]
Scaramuré, solo
Assai è di aver cavati sette scudi da le mani di que­
sta piattola. Sempre si deve da simil gente cavar il
conto suo col pretesto della spesa che concorre nella
confezzione del secreto. Ecco che, per mia fatica, non
m’arrebbe dato piú d’un par di scudi, per adesso; a
complir poi del resto, nel giorno di S. Maria delle Ca­
tenelle la quale sarà l’ottava del giorno del Giudizio.
SCENA QUINTA
Lucia, Scaramuré
LUCIA Dove malviaggio è andato costui? mi castro­
neggia un castrone: aspettavo da lui una certa riso­
luzione.
SCARAMURÉ O adio, Lucia dove, dove?
LUCIA Cerco messer Bonifacio che ora ho lasciato con
voi: credevo che mi aspettasse cqua.
SCARAMURÉ Che volete da lui?
LUCIA Per dirvela come ad un amico, la signora Vitto­
ria gli manda a chieder di danari.
SCARAMURÉ Ah ah, io so, io so. Adesso la scaldarà e
gli darrà de l’incenso: de danari ne ha dati a me, per
non aver occasione di darne a lei.
LUCIA Come diavolo può esser questo?
SCARAMURÉ La signora Vittoria dimanda troppo, e
lui, con mezza duzena di scudi, se la vuole attaccare
a chiave et a catene.
LUCIA Ditemi, come passa la cosa?
SCARAMURÉ Andiamo insieme a trovar la signora Vit­
toria; e raggionaremo con lei et ordinaremo qualche
bella matassa, a fin che io rimanghi col credito con
questo babuino: e facciamo qualche bella comedia.
LUCIA Voi dite bene, massime che non è bene di rag­
gionar cqui. Veggo venir di gente.
SCARAMURÉ Ecco il Magister: leviamoci da cqua.
SCENA SESTA
Mamfurio, Scaramuré, Pollula
MAMFURIO Adesdum, paucìs te volo, domine Sca­
ramuree.
SCARAMURÉ Dictum puta: a rivederci un’altra volta,
quando arrò poche facende.
MAMFURIO O bel responso! Or, mio Pollula, ut eo
redeat unde egressa est oratio, ti stupirrai, uhi!
POLLULA Volete che le legga io ?
MAMFURIO Minime, perché non facendo il punto
secondo la raggione de’ periodi, e non proferendoli
con quella energia che requireno, verrete a digradirli
dalla sua maestà e grandezza: per il che disse il pren­
cipe di greci oratori, Demostene: « la precipua parte
dell’oratore essere la pronunciazione». Or, odi: arrige
aures, Pamphile,
Uomo di rude e di crassa Minerva,
mente offuscata, ignoranza proterva,
di nulla leczion, di nulla fruge,
in cui Pallad’ed ogni Musa lugge;
lusco intellecto et obcecato ingegno,
bacellone di cinque, uomo di legno,
tronco discorso, industria tenebrosa,
volatile nocturna, a tutti exosa:
perché non vait’a ascondere,
o della terra madre inutil pondere ?
Giudizio inepto, perturbato senso,
tenebra obscura e lusca, Erebo denso,
asello auriculato, indocto al tutto,
in nullo ludo litterario instructo;
di fave cocchiaron, gran maccarone
ch’a l’oglio fusti posto a infusione;
cogitato disperso, astimo losco,
absorpto fium leteo, Averno fosco:
tu di tenelli unguicoli e incunabili
l’inezia hai protacta insin al senio.
Inmaturo pensier, fantasia perdita,
intender vacillante, attenzion sperdita;
illiterato et indisciplinato,
in cecità educato
privo di proprio Marte, inerudito,
di crassizie imbibito,
senza veder, di nulla apprensione,
bestia irrazional, grosso mandrone,
d’ogni lum privo, d’ignoranza figlio,
povero d’argumento e di consiglio.
Vedeste simili decade’ giamai? Altri fan di quattri­
ni, altri di sextine, altri di octave; mio è il numero
perfecto, idest, videlicet, scilicet, nempe, utpote, ut
puta, denario: authore Pythagora, atque Platone. Ma
chi è cotesto vel cotello properante ver noi?
POLLULA Gioan Bernardo pittore.
SCENA SETTIMA
Mamfurio, Gioan Bernardo, Pollula
MAMFURIO Bene veniat ille a cui non men convien
nomenclatura della ribombante fama dalla tromba,
che a Zeusi, Apelle, Fidia, Timagora e Polignoto.
GIOAN BERNARDO Di quanto avete proferito, non
intendo altro che quel «pignato» ch’avete detto al
fine. Credo che questo insieme col bocale vi fa parlar
di varie lingue. S’io avesse cenato, ti risponderei.
MAMFURIO Il vino exilara et il pane confirma.
Bacchus et alma Ceres, vestro si munere tellus
Chaoniam pingui glandem mutavit arista,
disse Publio Virgilio Marone, poeta mantuano, nel
suo libro della Georgica primo, verso il principio, fa­
cendo, more poetico la invocazione: dove imita Exio­
do, attico poeta e vate.
GIOAN BERNARDO Sapete, domine Magister...?
MAMFURIO Hoc est «magis ter», tre volte maggiore :
Pauci, quos aequus amavit
Iuppiter, aut ardens evexit in aethera virtus .
GIOAN BERNARDO Quello che voglio dir è questo:
vorrei sapere da voi che vuol dir: pedante.
MAMFURIO Lubentissime voglio dirvelo, insegnar­
velo, declararvelo, exporvelo, propalarvelo, palam
farvelo, insinuarvelo, et, (particula coniunctiva in ul­
tima dictione ap.posita) enuclearvelo; sicut, ut, ve­
lut, veluti, quemadmodum nucem ovidianam meis
coram discipulis, - quo melius nucleum eius edere
possint, - enucleavi. «Pedante» vuol dire quasi pede
ante: utpote quia have lo incesso prosequitivo, col
quale fa andare avanti gli erudiendi puberi; vel per
strictiorem arctioremque aethymologiam: pe, «per­
fectos»; dan «dans»; te, «thesauros». Or che dite de
le ambeduei ?
GIOAN BERNARDO Son buone; ma a me non piace
né l’una né l’altra, né mi par a proposito.
MAMFURIO Codesto vi è a dirlo lecito, alia meliore
in medium prolata, idest quando arrete apportatane
un’altra vie piú degna.
GIOAN BERNARDO Eccovela: pe «pecorone»; dan,
«da nulla»; te, «testa d’asino».
MAMFURIO Disse Catone seniore: «Nil mentire, et
nihil temere credideris »
GIOAN BERNARDO Hoc est, id est, chi dice il contra­
rio, ne mente per la gola.
MAMFURIO Vade, vade:
Contra verbosos, verbis contendere noli.
Verbosos contra, noli contendere verbis.
Verbis verbosos noli contendere contra.
GIOAN BERNARDO Io dono al diavolo quanti pedan­
ti sono! — Resta con cento mila di quelli angeli de la
faccia cotta.
MAMFURIO Menateli pur, come socii vostri, vosco
! — U’ siete voi, Pollula? Pollula, che dite? vedete
che nefando, abominando, turbulento e portentoso
seculo?
Questo secol noioso in cui mi trovo
Voto è d’ogni valor, pien d’ogni orgoglio,
Ma properiamo verso il domicilio, poscia che voglio
oltre exercitarvi in que’ adverbii locali, motu de loco,
ad locum et per locum: Ad, apud, ante, adversum vel
adversus, cis, citra, contra, erga, infra, in retro, ante,
coram, a tetrgo, intus et extra.
POLLULA Io le so tutti, e li tegno ne la mente.
MAMFURIO Questa leczione bisogna saepius reite­
rarla et in memoriam revocarla: lectio repetita pla­
cebit:
« Gutta cavat lapidem non bis, sed saepe cadendo:
Sic homo fit sapiens bis non, sed saepe legendo »,
POLLULA Vostra Excellenzia vada avanti, ch’io vi se­
guirrò a presso.
MAMFURIO Cossì si fa in foro et in platea: quando
siamo in privatis aedibus, queste urbanità, obser­
vanze e cerimonie non bisognano.
SCENA OTTAVA
Barra, Marca
MARCA O vedi il mastro Mamfurio che sen va?
BARRA Lascialo col diavolo! Seguita il proposito in­
cominciato: fermamoci cqua.
MARCA Or dumque, ier sera, all’osteria del Cerriglio,
dopo che ebbemo benissimo mangiato, sin tanto che
non avendo lo tavernaio del bisogno, lo mandaimo
a procacciare altrove per fusticelli, cocozzate, cotu­
gnate et altre bagattelle da passar il tempo. Dopo
che non sapevamo che piú dimandare, un di nostri
compagni finse non so che debilità; e l’oste essendo
corso con l’aceto, io dissi: « Non ti vergogni, uomo
da poco! camina, prendi dell’acqua namfa, di fiori di
cetrangoli, e porta della malvasia di Candia». All’ora
il tavernaio non so che si rinegasse egli, e poi comin­
cia a cridare, dicendo: « In nome del diavolo, sete
voi marchesi o duchi? sete voi persone di aver spe­
so quel che avete speso? Non so come la farremo al
far del conto. Questo che dimandate, non è cosa da
osteria ». « Furfante, ladro, mariolo », dissi io, «pensi
ad aver a far con pari tuoi? tu sei un becco cornuto,
svergognato» «Hai mentito per cento canne »: disse
lui. All’ora, tutti insieme, per nostro onore, ci alzaimo
di tavola, et acciaffaimo, ciascuno, un spedo di que’
piú grandi, lunghi da diece palmi...
BARRA Buon principio, messere.
MARCA... li quali ancor aveano la provisione infilza­
ta; et il tavernaio corre a prendere un partesanone; e
dui di suoi servitori due spadi rugginenti. Noi, ben­
ché fussimo sei con sei spedi piú grandi che non era
la partesana, presimo delle caldaia, per servirne per
scudi e rotelle...
BARRA Saviamente.
MARCA... Alcuni si puosero certi lavezzi di bronzo in
testa per elmetto over celata...
BARRA Questa fu certo qualche costellazione che
puose in esaltazione i lavezzi, padelle e le caldaie.
MARCA... E cossì bene armati, reculando, ne andava­
mo defendendo e retirandoci per le scale in giú, ver­
so la porta, benché facessimo finta di farci avanti...
BARRA « Bel combattere: un passo avanti e dui a die­
tro, un passo avanti e dui a dietro » (disse il signor
Cesare da Siena).
MARCA... Il tavernaio, quando ci vedde molto piú for­
ti, e timidi piú del dovero, in loco di gloriarsi, come
quel che si portava valentemente, entrò in non so
che suspizione:...
BARRA Ci sarebbe entrato Scazzolla.
MARCA... per il che, buttata la partesana in terra, co­
mandò a sua servitori che si retirassero, ché non vo­
lea di noi vendetta alcuna...
BARRA Buon’anima da canonizzare.
MARCA E voltato a noi disse: « Signori gentil’omini,
perdonatime, io non voglio offendervi da dovero! di
grazia, pagatemi et andiate con Dio! »
BARRA All’or sarrebbe stata bene qualche penitenza
con l’assoluzione.
MARCA «Tu ci voi uccidere, traditore»: dissi io, e con
questo puosemo i piedi fuor de la porta. All’ora l’oste
desperato, accorgendosi che non accettavamo la sua
cortesia e devozione, riprese il partesanone, chia­
mando aggiuto di servi, figli e moglie. Bel sentire:
l’oste cridava: «Pagatemi, pagatemi»; gli altri stride­
vano: «A’ marioli, a’ marioli; ah, ladri traditori! » Con
tutto ciò, nisciun fu tanto pazzo che ne corresse a die­
tro, perché l’oscurità della notte fauriva piú noi che
altro. Noi, dumque, temendo il sdegno ostile, idest
de l’oste, fuggivimo ad una stanza apresso li Carmini,
dove, per conto fatto, abbiamo ancor da farne le spe­
se per tre giorni
BARRA Far burla ad osti è far sacrificio a Nostro Si­
gnore; rubbare un tavernaio è far una limosina; in
batterlo bene consiste il merito di cavar un’anima di
purgatorio! - Dimmi, avete saputo poi quel che se­
guitò nell’ostaria?
MARCA Concorsero molti, de quali altri pigliandosi
spasso altri attristandosi, altri piangendo altri riden­
do, questi consigliando quelli sperando, altri facen­
do un viso altri un altro, altri questo linguaggio et altri
quello: era veder insieme comedia e tragedia, e chi
sonava a gloria e chi a mortoro. Di sorte che, chi vo­
lesse vedere come sta fatto il mondo, derebbe desi­
derare d’esservi stato presente.
BARRA Veramente la fu buona. - Ma io che non so
tanto di rettorica, solo soletto, senza compagnia, l’al­
tr’ieri venendo da Nola per Pumigliano, dopoi ch’eb­
bi mangiato, non avendo tropo buona fantasia di pa­
gare, dissi al tavernaio: «Messer osto, vorrei giocare».
«A qual gioco», disse lui, «volemo giocare? cqua ho
de tarocchi». Risposi: «A questo maldetto gioco non
posso vencere, perché ho una pessima memoria».
Disse lui: «Ho di carte ordinarie». Risposi: «Saranno
forse segnate, che voi le conoscerete. Avetele che
non siino state ancor adoperate? » Lui rispose de
non. «Dunque, pensiamo ad altro gioco ». « Ho le ta­
vole, sai? » « Di queste non so nulla ». « Ho de scac­
chi, sai? » « Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo ».
All’ora, gli venne il senapo in testa: «A qual, dumque,
diavolo di gioco vorrai giocar tu? proponi» Mco io:
«A stracquare a pall’e maglio». Disse egli: « Come, a
pall’e maglio? vedi tu cqua tali ordegni? vedi luoco
da posservi giocare?» Dissi: «A la mirella?» «Questo
è gioco da fachini, bifolchi e guardaporci ». « A cin­
que dadi? », « Che diavolo di cinque dadi? mai udivi
di tal gioco. Si vuoi, giocamo a tre dadi ». Io gli dissi,
che a tre dadi non posso aver sorte. « Al nome di
cinquantamila diavoli », disse lui, « si vuoi giocare,
proponi un gioco che possiamo farlo e voi et io». Gli
dissi: «Giocamo a spaccastrommola», « Và », disse
lui, « ché tu mi dai la baia: questo è gioco da putti,
non ti vergogni? » «Or su, dumque», dissi, «giocamo
a correre». «Or, questa è falsa »: disse lui; et io sog­
gionsi: « Al sangue dell’Intemerata, che giocarai! » «
Vuoi far bene », disse, « pagami; e si non vuoi andar
con Dio, và col prior de’ diavoli! » Io dissi: « Al san­
gue delle scrofole, che giocarai! » «E che non gioco !
» diceva. «E che giochi ! » dicevo. « E che mai mai vi
giocai ! » « E che vi giocarrai adesso ! » « E che non
voglio ! » « E che vorrai ! » In conclusione, comincio
io a pagarlo co le calcagne, ideste a correre; et ecco,
quel porco che poco fa diceva che non volea giocare,
e giurò che non volea giocare, e giurò che non volea
giocare, e giocò lui, e giocorno dui altri suoi guattari:
di sorte che, per un pezzo correndomi a presso, mi
arrivorno e giunsero... co le voci. Poi, ti giuro, per la
tremenda piaga di S. Rocco, che né io l’ho piú uditi,
né essi mi hanno piú visto.
MARCA Veggio venir Sanguino e messer Scaramuré.
SCENA NONA
Sanguino, Barra, Marca, Scaramuré.
SANGUINO A punto voi io andavo cercando. Siamo
per fare di bei tratti questa sera, e non saranno senza
qualche nostro profitto, o spasso almeno. Io mi vo­
glio vestire da capitan Palma: voi, insieme con Cor­
covizzo, mostrarete di esser birri; staremo alla posta,
cqui vicino, ché spero che questa sera attraparemo’
messer Bonifacio, all’uscita o entrata che farà dalla
stanza della signora Vittoria, e faremo piacere alla Si­
gnora et utile a noi.
BARRA E ci prenderemo mille spassi.
MARCA Sì, alla fé, e può essere che ci possano occor­
rere altre belle occasioni.
BARRA Facende non ci mancaranno.
SCARAMURÉ Quanto al fatto di messer Bonifacio,
sarrò io che verrò, come a caso, ad accomodarlo, con
far che vi doni qualche cortesia, a fin che lo lasciate,
e non menarlo in Vicaria priggione.
SANGUINO Questo pensiero non è de’ peggiori del
mondo. Venete, dumque, quanto prima, perché da­
remo una volta; e vi aspettaremo in casa della signo­
ra Vittoria.
BARRA Andate in buon’ora.
SCENA DECIMA
Barra, Marca
BARRA Al sangue de mi..., che non è poca comodità
di venir a qualche dissegno il mostrar di essere birri
di notte: saremo tre o quattro, portaremo la insegna
della birraria, ideste le verghette in mano, e, quando
vedremo la nostra, farremo.
MARCA Ah, per san Quintino! ecco a punto Corcoviz­
zo che viene.
BARRA Ma chi è quel che va con lui?
MARCA Mi par mastro Mamfurio.
BARRA Egli è desso. Presto, discostiamoci un po’ da
cqui, ché Corcovizzo ne fa segno: credo che stia in
procinto di fargli qualche burla.
MARCA Andiamo qui dietro, ché non siam veduti.
SCENA UNDICESIMA
Corcovizzo, Mamfurio
CORCOVIZZO Voi lo sapete ben che egli è inamora­
to?
MAMFURIO O benissimo! Il suo amor passa per le
mie mani: gli ho composta una epistola amatoria,
della quale come sua si debba servire, per essere
dalla sua amasia admirato e piú istimato.
CORCOVIZZO Or egli, ieri, come fusse un giovane di
25 anni, andò a proponere a mastro Luca che per oggi
gli avesse fatto un par di stivaletti di marrocchino di
Spagna, buoni a passeggiar per la città: il che avendo
udito il mariolo, è stato oggi a la mira, quando mes­
ser Bonifacio veneva a calzarsi. Or, veggendolo spun­
tar da Nilo verso la bottega, pian piano se gli accostò
senza mantello, sin che con esso lui si fece dentro la
bottega. Il quale, per essere venuto gionto a messer
Bonifacio, fu stimato servitor suo dal mastro, e per­
ché era senza mantello, mezzo sbracciato, fu stimato
da messer Bonifacio lavorante di bottega. Per il che,
avendosi da calzar, quel povero messere senza dub­
bito alcuno si lasciò prendere la cappa, fasciata di
veluto et inbottonata d’oro, da colui. Il quale, aven­
dosela posta su le due braccia, o come buon valetto
di camera, o com’ un de’ lavoranti a cui appartenga la
strena, mentre mastro Luca era occupato ad assesta­
re l’opra sua, e messer Bonifacio curvo su le gambe a
farsi ben servire, costui con una bella continenza, or
guardando i travi della bottega, or chi passava chi an­
dava chi veneva, or dava una volta e giravasi, sin tan­
to che, vedendo la sua, puose un piè fuor de la porta.
In conclusione: «cappa» cuius generis ? ablativi.
MAMFURIO Ah ah ah, dativus a dando, ablativus ab
auferendo: si voi avessivo studiato e non fussivo
idiota , arestivo un bell’ingenio: credo che avevate
Minerva in ascendente.
CORCOVIZZO Per tornare al proposito, accomodato
che fu messer Bonifacio, et avendoli menato la sco­
petta per il dorso mastro Luca, scuotendosi le mani,
dimanda la cappa. Risponde mastro Luca: « Il vostro
servitor la tiene... Olà, dove sei tu?... S’è fatto fuori
per badare... » «Non ho bisogno di cotesti onori e
castella»: disse messer Bonifacio; « dite pur che è vo­
stro lavorante ». « Per Santa Maria del Carmelo, che
mai lo viddi! ? » disse mastro Luca. E che è cossì,
e che è colà: considerate che bel vedere è stato di
messer Bonifacio, co i stivaletti nuovi, che s’ha fatto
rubbar la bella cappa. Or mai, non si può piú vivere
per tanti poltroni, marioli, tagliaborse.
MAMFURIO Gran miseria et infelice condizione sotto
questo campano clima, il cui celeste periodo subest
Mercurio; il qual è detto nume e dio de furi. Però,
amico mio, sta’ in cervello per la borsa.
CORCOVIZZO Io, per me, porto i danari cqui, sotto
l’ascella, vedete.
MAMFURIO Et io la mia giornea non la porto a la
schena né al fianco, ma sopra l’inguine o ver sotto il
pectine, poscia cossì si fa in terra di ladri.
CORCOVIZZO Domino Magister, ben veggio che sie­
te sapientissimo, e non senza gran profitto avete stu­
diato.
MAMFURIO Hoc non latet il mio Mecenate di cui li
pueruli ego erudio, idest extra ruditatem facio, vel e
ruditate eruo. M’ha egli imposto ch’io vadi a decer­
nere del preggio della materia e della structura de gli
indumenti di quelli, e liberar la elargienda pecunia:
la quale, come buono economico (Oeconomia est
domestica gubernatio) in questa coriacea e velluta­
cea giornea riserbo,
CORCOVIZZO O lodato sia Dio, signor eccellente
Maestro! ho imparato da voi belli consegli e modi di
vivere. Fatemi, di grazia, un altro favore d’agiutarmi,
ch’io non abbia pensiero di andar a cambiar sei dop­
pioni’ sino a’ Banchi: si voi avete scudi o altra mone­
ta, io ve li lasciarò. Io sparmiarò la fatica del camino,
e voi guadagnarete sei grani.
MAMFURIO Io non il fo lucri causa, iuxta illud: « Nihil
inde sperando », sed, ma, ex humanitate, et officio,
mitto quod eziamdio ego minus oneratus abibo;
Ecco, li numero: tre, dui son cinque; sette e quattro
fanno undeci, cinque e quattro son nove, fan vinti
carlini; tre, tre, sei, e dui, son otto cianfroni, fan sei
ducati; cinque aurei di Francia. Ne bisogna suttrarre
alquanto.
SCENA DODICESIMA
Mamfurio, Barra, Marca
MAMFURIO Olà, olà, cqua cqua, aggiuto, agiuto! Te­
netelo, tenetelo! Al involatore, al surreptore, al fure,
amputator di marsupii et incisor di crumene! Tene­
telo, ché ne porta via gli miei aurei solari con gli ar­
gentei!
BARRA Che cosa, che cosa v’ha egli fatto?
MAMFURIO Perché lo avete lasciato andare?
BARRA Diceva il poverello: « Mi vuol battere il mio
padrone, a me, povero innocente! » Però l’abbiam
lasciato, acciò che vi facciate passar la colera prima,
perché poi lo potrete castigar a bell’agio, in casa.
MARCA Signor sì, bisogna perdonar qualche volta a’
servitori e non usar sempre de rigore.
MAMFURIO Oh, che non è punto mio servo né fami­
liare, ma un ladro che mi ha rubbati diece scudi di
mano!
BARRA Può far l’Intemerata… E voi perché non crida­
vate: «il mariolo, al mariolo ?» che non so che diavolo
de linguaggio avete usato.
MAMFURIO Questo vocabulo che voi dite, non è la­
tino né etrusco; e però non lo proferiscono di miei
pari.
BARRA Perché non cridavate: «al ladro»?
MAMFURIO «Latro» è sassinator di strada, in qua, vel
ad quam latet. «Fur» qui furtim et subdole, come co­
stui mi ha fatto: qui et subreptor dicitur a subtus ra­
piendo, vel quasi rependo, perché, sotto specimine
di uomo da bene, mi ha decepto, i miei scudi.
BARRA Or, vedete che avanzate co le vostre lettere,
a non voler parlar per volgare: ma, col vostro latrino
e trusco, credevamo che parlassivo con esso lui piú
che con noi.
MAMFURIO O fure, degna pastura d’avoltori!
MARCA Dite, perché non correvate appresso lui?
MAMFURIO Volete voi ch’un grave moderator di ludo
literario, e togato, avesse per publica platea accele­
rato il gresso ? a miei pari convien quel adagio, (si
proprie adagium licet dicere): «Festina lente»; item
et illud « Gradatim, paulatim, pedetentim »
BARRA Avete raggione, signor dottore, d’aver sem­
pre risguardo al vostro onore, et alla maestà del vo­
stro andare.
MAMFURIO O fure le cui ossa vorrei vedere sovra una
ruota attrite ! Oimè, forse che non me gli ha tutti in­
volati ? Or che dirà il mio Mecena ? Io gli risponderò,
con l’autorità del prencipe di Peripatetici, Aristotele,
secundo Physicorum, vel Periacroaseos: «Casus est
eorum quae eveniunt in minori parte, et praeter in­
tentionem »
BARRA Io credo che si contenterà.
MAMFURIO O ingiusti moderatori di giustizia, si voi
facessivo il vostro debito, non sarebbe tanta copia di
malfattori! Forse che non l’ha tutti presi? Oh, scele­
ratissimo!
SCENA TREDICESIMA
Sanguino, Barra, Mamfurio, Marca
SANGUINO Olà, uomini da bene, perché è fuggito co­
lui? che ha egli fatto, quel ribaldo?
BARRA Siate ben venuto, messer mio. Noi siamo ne
la maggior angoscia del mondo: abbiamo avuto quel
ladro (o non so come vuol che si chiama il signor Ma­
gister) intra le mani; e, perché non sappiamo di let­
tera, è scappato al diavolo.
SANGUINO Non so che raggioni son queste vostre: io
ve dimando per che è fuggito?
MAMFURIO Mi ha involati diece scudi.
SANGUINO Come diavolo han volato diece scudi ?
MARCA Ben si vede che mai andaste a scola.
SANGUINO Subito ch’io ebbi imparata la B A, BA,
mio padre me diè per ragazzo al capitan Mancino
MAMFURIO Veniamus ad rem: mi ha egli rubbati die­
ce scudi.
SANGUINO Rubbato? rubbato? a voi, Domine ? a
voi, domine magister ? basovi le mani, non mi co­
noscete ?
MAMFURIO Io vi ho visto alcune ore fa, quando era­
vate con il mio discepolo Pollula.
SANGUINO Io son quello, signor domino magister.
Sappiate ch’io vi son servitor, et ho gran voglia di far­
vi piacere; e per ora sappiate che vostri scudi son
recuperati.
MAMFURIO Dii velint, faxint ista Superi, o utinam!
BARRA Oh, si farete tanto bene a questo gentil omo,
mai facestivo meglior e piú degna opra; et egli non vi
sarà ingrato et io, da parte mia, vi donarò un scudo.
SANGUINO Son ricuperati, dico.
MAMFURIO L’avete voi ?
SANGUINO Non, ma cossì come l’avesse nelle mani
il signor magister.
BARRA Conoscete voi colui?
SANGUINO Conosco.
BARRA Sapete dove dimora ?
SANGUINO So.
MAMFURIO O superi, o celicoli, diique, deaeque om­
nes !
MARCA Noi siamo a cavallo.
BARRA Bisogna soccorrere al negocio di questo mon­
signore, per amor et obligo ch’abbiamo alle lettere
et a’ letterati
MAMFURIO Me vobis commendo: mi raccomando
alle vostre cortisie.
MARCA Non dubitate, Signore.
SANGUINO Andiamo tutti insieme, perché lo trova­
remo. Io so certissimo il loco dove va ad annidarsi
costui: di averlo in mano non è dubbio alcuno. Non
potrà negar il furto, per che benché lui non mi abbia
visto, io ho veduto lui fuggire.
MARCA E noi l’abbiamo veduto fuggire dalle mani
del signor maestro.
MAMFURIO Vos fidelissimi testes.
SANGUINO Non bisogna rompersi la testa: o ne darà
gli scudi o lo daremo in mano della giustizia.
MAMFURIO Ita, ita, nil melius, voi dite benissimo.
SANGUINO Signor magister, bisogna che voi siate
presente.
MAMFURIO Optime. «Urget praesentia Turni».
SANGUINO Però, andando noi tutti quattro insieme,
al batter che faremo de la porta, potrà essere che
quella puttana, con la quale egli dimora, consape­
vole del negocio, o perché lui per qualche rima ne
vegga, non venghino a concederne l’entrata, o che
quell’uomo fugga o si asconda ad altra parte; ma,
non essendo voi conosciuto, son certo che lo tirarò
a raggionar meco per ogni modo, sotto certe specie
di cose che passano. Però sarà bene, anzi necessario,
che cangiate vestimenta, mostrandovi di robba corta.
Voi altro, messer, quale è vostro nome, si ve piace
dirlo ?
BARRA Coppino, al servizio vostro.
SANGUINO Voi, messer Coppino, farete questo pia­
cere a me et al signor magister, il quale vi potrà far
di favori assai.
MAMFURIO Me tibi offero.
SANGUINO Imprestategli lo vostro mantello, e voi vi
coprirete di sua toga, ché, per esser voi piú corto di
persona, parrete un altro. E per meglio compartire,
date, signor magister, il cappello a questo altro com­
pagno, e voi prendete la sua baretta; et andiamo.
MAMFURIO Nisi urgente necessitate, nefas esset ha­
bitum proprium dimittere; tamen, nihilominus, nulla
di meno, quia ita videtur, ad imitazion di Patroclo
che co le vesti cangiate si finse Achille, e di Corebo
che apparve in abito di Androgeo, e del gran Giove,
(poetarum testimonio) per suoi dissegni in tante for­
me cangiato, deponendo talvolta la piú sublime for­
ma, non mi dedignarrò deporre la mia toga literaria,
optimo mihi proposito fine, di animadvertere contra
questo criminoso abominando.
BARRA Ma ricordatevi, signor Mastro, di riconoscere
la cortesia di questi galant’omini, ché per me non ve
dimando nulla.
MAMFURIO A voi in communi destino la terza parte
de gli ricovrati scudi.
SANGUINO Gran mercè alla vostra liberalità.
BARRA Or su andiamo andiamo.
MAMFURIO Eamus dextro Hercule.
SANGUINO, MARCA Andiamo.
Fine dell’atto III.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Signora Vittoria, sola
Aspettare e non venire è cosa da morire. Si se farà
troppo tardi, non si potrà far nulla per questa volta, e
non so si se potrà di bel nuovo offrirsi tale occasione,
come si presenta questa sera, di far che questa peco­
raccia raccoglia i frutti degni del suo amore. Quando
mi credevo di guadagnar una dote co l’amor di co­
stui, sento dir che cerca d’affatturarmi, con l’avermisi
formata in cera. E potrebbe giamai l’unita forza, fatta
del profondo inferno, gionta alla efficacia che si trova
ne’ spirti de l’aria e l’acqui, far ch’io possa amar un
che non è soggetto amoroso? Si fusse il dio d’amore
istesso, bello quanto si voglia, si sarà egli povero o
ver, (che tutto viene ad uno) avaro, ecco lui morto di
freddo; e tutto il mondo agghiacciato per lui Certo,
quel dir povero, over avaro, è un miserabile e svergo­
gnatissimo epiteto, che fa parer brutti i belli, ignobili
i nobili, ignoranti i savii, et impotenti i forti. Tra noi
che si può dir piú che reggi, monarchi et imperadori ?
questi pure, si non arran de quibus, si non farran cor­
rere gli de quibus saran come statue vecchie d’altari
sparati, a’ quali non è chi faccia riverenza.
Non possiamo non far differenza tra il culto divino e
quello di mortali. Adoriamo le sculture e le imagini,
et onoriamo il nome divino scritto, drizzando l’inten­
zione a quel che vive. Adoramo et onoramo questi al­
tri dei che pisciano e cacano drizzando la intenzione
e supplice devozione alle lor imagini e sculture, per­
ché, mediante queste, premiino i virtuosi, inalzino i
degni, defendano gli oppressi, dilatino i lor confini,
conservino i suoi, e si faccino temere dall’aversarie
forze: il re, dumque, et imperator di carne et ossa,
si non corre sculpito, non val nulla. Or, che dumque
sarà di Bonifacio, che, come non si trovassero uomini
al mondo, pensa d’essere amato per gli belli occhii
suoi? Vedete quanto può la pazzia! Questa sera in­
tenderà che possan far contanti; questa sera spero
che vedrà l’effetto della sua incantazione. - Ma que­
sta faccia di strega, che fa tanto che non viene? Oh,
la veggo in fine!
SCENA SECONDA
Lucia, signora Vittoria
LUCIA Voi siete cqua, Signora ?
VITTORIA Non possevo resister dentro col tanto as­
pectarti: vedi che passarà la comodità, che questa
sera abbiamo per questi uomini? Avete parlato a la
moglie di Bonifacio ?
LUCIA Io gli ho tutta la verità narrata, et oltre di gran
punti d’avantaggio: di sorte che ella tutta s’infiamma
et arde di convencere suo marito, in questo fatto.
Anzi, lei ha pensato un’altra cosa che molto mi piace,
ciò è che gl’improntiate vostra gonnella e manto, per
due serviggi: et a fin che non sii conosciuta al venir
et all’entrar et uscir di casa vostra, et anco perché,
negli abbracciari che gli faremo far al buio, venghi a
conoscerla per signora Vittoria in tutte l’altre parte,
fuor ch’il volto, il qual per il camino portarà amantato,
secondo la vostra consuetudine, e poi dentro la ca­
mera per un pezzo gli faremo aspettar il lume, tanto
che possan far per una volta.
VITTORIA Sì, ma bisognarà pure che lei lo risaluti e
gli risponda qualche parola; e sarà difficile che non la
venghi a conoscere nella voce.
LUCIA Oh, provedere a questo è la piú facil cosa del
mondo! Io gli dirò che parli piano e sotto voce, per­
ché, gionte a muro a muro, son de vicine che odono
tutto quel che si dice llì dentro.
VITTORIA Voi dite assai bene: lei farà finta de temer
d’essere udita da gli altri di casa e da vicini. - Chi è
che viene?
LUCIA Messer Bartolomeo.
SCENA TERZA
Signora Vittoria, messer Bartolomeo, Lucia
VITTORIA Dove va messer Bartolomeo ?
BARTOLOMEO Vo al diavolo !
LUCIA Piú presto trovarai costui che l’angelo Gabriel­
lio.
BARTOLOMEO Madonna portanovelle, accordaliuto,
per ché gli angeli non sono cossì affabili come dia­
voli, lo mondo vien provisto di te e di tue pari per
scusar quelli.
VITTORIA Forse, che ci va troppo per farti montar il
senapo? Il molto frequentar e prossimarti al fuoco
t’ha disseccato, tanto che facilmente la rabbia ti pre­
domina, dai dentro a l’ingiurie senz’esser provocato.
BARTOLOMEO Non dico a voi, signora Vittoria, che vi
porto ogni rispetto et onore.
VITTORIA Come non dite a me? vi par che questa in­
giuria che dite a lei, non resulti criminalmente in mia
persona? Andiamone, Lucia.
BARTOLOMEO Non cossì in furia, Signora. Io burlo
con Lucia che piú mi tenta, si piú mi vede fastidito.
LUCIA Sì, sì, messer sì, in tutto Napoli non è peggio
lingua che la tua, che ti sii mozza, lingua da risse e
da discordia!
BARTOLOMEO Al contrario di cotesta tua, di concor­
dia, pace et unione.
SCENA QUARTA
Bartolomeo, solo
Cancaro se mangi quante ruffiane e puttane sono al
mondo! Starebbono fresche le potte, s’aspettassero
la nostra rendita, idest l’entrata: per me tanto, sicura­
mente l’aragne vi potran far la tela. Di metalli dicono
che il piú grave è l’oro: e tuttavia nulla cosa fa andar
l’uomo piú sciolto, leggiero e isnello che questo. Non
ogni peso et ogni cosa che ne s’aggionge, ne aggrava;
ma se ne trova una tale, che è tanto lieve che, quanto
è piú grande, fa piú ispedito e destro. L’uomo, sen­
za l’argento et oro, è come ucello senza piume, ché
chi lo vuol prendere, sel prende, chi sel vuol man­
giar, sel mangia: il qual però, s’ha quelle, vola, e se
n’ha tante piú, tanto piú vola, e piú s’appiglia ad alto.
Messer Bonifacio, quando s’arrà scrollata la borsa e la
schena, si sentirà piú grave, al dispetto di tutti suoi
nemici. Ma ecco, a tempo, quel bel paranimfo inamo­
rato. Non porta piú la bella cappa: bendette siino le
mani a quel mariolo! Adesso corre all’odore.
SCENA QUINTA
Messer Bartolomeo, messer Bonifacio
BARTOLOMEO Affrettati, affretta un po’ piú, messer
Bonifacio: poco fa ho veduto passar il tuo core, la tua
anima per cqua. Ti giuro che, adesso veggendola, mi
son ricordato di tuoi amori; e perciò, considerandola
un poco piú attentamente, mi ha parsa cossì bella,
che mi s’è tanto gonfiata la vena maestra, che non
posso piú dimorar dentro le brache.
BONIFACIO Basta: mi doni la baia messer Bartolo­
meo. Io sono inamorato, io sono incatenato. Voi fate
per li nominativi et io per li aggettivi, voi co la vostra
al chimia et io co la mia, voi al vostro fuoco et io al
mio.
BARTOLOMEO Io al fuoco di Vulcano e voi a quel di
Cupido.
BONIFACIO Vedremo chi di noi farà meglior riuscita.
BARTOLOMEO Vulcano è un uomo raggionevole, di­
screto e da bene; quest’altro è un putto senza rag­
gion, bardascio sfondato: il quale a chi non fa disono­
re, fa danno, et a chi non fa l’uno, fa l’uno e l’altro.
BONIFACIO Beato voi, s’arete cossì buona riuscita,
come avete buon conseglio!
BARTOLOMEO Sfortunato voi, si la madre di pazzi
non vi aggiuta!
BONIFACIO Volete dir la sorte. Ve dirrò, messer Bar­
tolomeo, alle buone riuscite ogn’un sa trovar quella
raggione che giamai vi fu: ancor ch’io maneggi miei
affari con furia di porco salvatico, e mi succedon
bene, ogn’un dirà: «Costui ha bel discorso, ha saputo
prender il capo del negocio cossì e cossì, et ha ben
fatto». Per il contrario, dopo’ ch’io arrò compassato i
miei negocii con quante filosofie giamai abbiano avu­
to que’ barbiferi mascalzon di Grecia e de l’Egitto, si,
per disgrazia, la cosa non accade a proposito, ogn’ un
mi chiamarà balordo. Si la cosa passa bene: «Chi l’ha
fatto, chi l’ha fatto? Il gran consiglio pariggino»; si la
va male: «Chi l’ha fatto, chi l’ha fatto? La furia france­
sa». Oltre, «Per che questo, per che ?» «Per conseglio
di Spagn»; «Perché, perché ?» Per l’alta e lunga spa­
gnola «Chi ha guadagnato e mantiene tanti bei pae­
si ne l’Istria, Dalmazia, Grecia, ne l’Adriatico mare e
Gallia Cisalpina? chi orna Italia, l’Europa et il mondo
tutto di una tanta Republica a nisciun tempo et a ni­
sciun modo serva?»: «Il maturo conseglio vineziano»;
«Chi ha perso Cipri, chi l’ha perso?» La coglioneria di
que’ magnifici, la avarizia di que’ messer Pantaloni»
All’ora dumque si fa conto del giudizio et è lodato,
quando la sorte et il successo è buono.
BARTOLOMEO Tanto che volete dir a nostro propo­
sito: «Ventura dio, niente senno basta». — Veggio
venir Lucia: io ve la lascio. Ho inviato alla botteca
di Consalvo il mio garzone per certa polvere; e non
vede ora di venire: bisogna ch’io vi vadi.
BONIFACIO Andate, ch’io ho da raggionar con costei
per altri affari che per quei che voi credete.
SCENA SESTA
Bonifacio, Lucia
BONIFACIO (Costei per la prima mi chiederà de da­
nari: son certo che sarà questo il proemio; e la mia ri­
soluzione sarà: cazzo in potta, e danari in mano; ch’a
la fine non voglio che femine sappiano piú di me).
- Ben venga Lucia. Che mi porti di nuovo?
LUCIA Oh, misser Bonifacio dolce, io non ho tempo
di salutarti, perché vi bisogna parlar di soccorrer pre­
sto al fatto di questa signora infelicissima.
BONIFACIO Fate buone premisse, se volete buona
conclusione. Il mal de la borsa
LUCIA La si muore...
BONIFACIO «Quando sarà morta, la faremo sepeli­
re»: disse un Santo Padre.
LUCIA Io dico che la nostra signora Vittoria si muore
per voi, crudele. Questa è la vita che possete donar­
gli, e che gli promettete? voi menate passatempi, e
quella povera gentil donna si risolve tutta in suspiri
e lacrime, che, si voi la vedrete, non la conoscerete
piú, non vi parrà forse bella come vi solea parere.
Non so si in voi potrà tanto l’amore quanto la com­
passion di lei.
BONIFACIO Che? ha bisogno di danari?
LUCIA Che vol dir danari? che vuol dir danari? va­
dano in mal’ora quanti ne sono al mondo: Si voi ne
volete da lei, la ve ne darrà.
BONIFACIO Or questo non..., ah ah ah, questo non
crederò io, ah ah ah ah.
LUCIA Dunque, non lo credete, crudelaccio, senza
pietà? Uh, uh, uh, uh.
BONIFACIO Voi piangete?
LUCIA Piango la crudeltà vostra, e la infelicità di
quella signora: uh uh, misera me, meschina me, che
mal’ora t’ha presa, adesso? Mai viddi né udivi’ amor
posser tanto in petto di femina. Sin al giorno d’oggi
la vi amava certo, uh uh uh, da alcune ore in cqua,
non so che fantasia l’abbia presa, che non ha altro in
bocca che: «Messer Bonifacio mio, cor mio, viscere
dell’anima mia, mio fuoco, mio amore, mia fiamma,
mio ardore!» Vi giuro che, - son quindici anni ch’io la
conosco, tanto piccolina, - sempre l’ho veduta d’un
medesmo volto, nell’amor freddissima; adesso, si voi
verrete, la trovarrete poggiata sopra il letto, col viso
in giú sopra un coscino che tiene abbracciato con
ambe le braccia, e dire, - che me ne vien rossore e
pietà: - «Ahi, messer Bonifacio mio, chi me ti toglie?
Ahi, mia cruda fortuna, quando m’ha egli voluta, me
gli hai negata; son certa, adesso che io lo bramo e
per lui mi consumo, che me lo negarai. Ahi, cuor mio
impiagato! »
BONIFACIO È possibile? può esser che lei dica que­
sto? possono essere tante cose?
LUCIA Voi, voi, Bonifacio, mi farete far cosa, che gia­
mai feci in vita mia: voi mi farete rinegare... Uh uh uh
uh uh, povera signora Vittoria mia, che pessima sorte
tua! in mano di chi sei incappata, uh uh uh! Ora, ora,
adesso m’accorgo che voi mai la amastivo; e che in
tutto Napoli non è uomo piú finto di te... Uh uh uh uh
uh, oimè, desolata me! che rimedio potrò porgerti,
poverina?
BONIFACIO Uh uh, ti credo, ti credo, Lucia mia, non
piú piangere! Non è ch’io non credesse quel che voi
dite ma mi maravigliavo. Che influenza nova del cielo
può esser questa che mi voglia faurir tanto, che quel­
la mia signora la qual, mercè del mio intenso amore,
sempre me si ha mostrata non manco cruda che bel­
la, quel pet to di diamante sii cangiato?
LUCIA Cangiata ? cangiata ? S’io non l’avesse repri­
muta, volea venire a ritrovarvi in casa vostra. Io li dis­
si: « Folla che voi siete, voi gli farete dispiacere. Che
dirà sua moglie ? che dirà tutto il mondo che vi vedrà
? Ogn’un dirà: - Che novità è questa ? è impazzata
costei ? - Non sapete voi ch’egli vi ama ? avete voi
persa la memoria de suoi trattamenti insin al giorno
d’oggi ? Siete ben cieca e forsennata, se non credete
ch’egli si stimarà beatissimo, quando me si udirà dire
che voi desiderate ch’egli venga a voi... »
BONIFACIO E chi ne dubita? avete detto l’evange­
lio.
LUCIA ... All’ora, quell’afflitt’alma, - come dismenti­
cata di tanti segni d’amore che voi gli avete mostrati,
et io gli ho donati ad intendere, - disse: «È possibile,
o cielo, cielo a me sola crudele, che possa lui venir
a me, quel bene, che non fai che mi sia lecito di cer­
carlo? »
BONIFACIO Uh, uh, uh, dubita, dumque, la vita mia
dell’amor mio?
LUCIA Voi sapete che, dove troppo cresce il desio,
suole altre tanto indebolirsi la speranza; e, forse, an­
cora la gran novità e mutazione che vede in se mede­
sma, gli fa per il simile suspettar mutazion dal canto
vostro. Chi vede un miracolo, facilmente ne crede un
altro.
BONIFACIO Piú presto persequitaranno i lepri le
balene, i diavoli se farann’ il segno della santa Cro­
ce, sarrà piú presto un Bresciano uomo cortese, piú
presto Satanasso dirrà un Pater et Ave Maria per le
anime che sono in purgatorio, che io esser possa gia­
mai senza l’amor della mia tanto amata e desiderata
signora. - Or dumque, senza piú parole, dove andiate
cossì cargata voi?
LUCIA Ad una vicina per restituirgli questi drappi
co i quali, facendo io una via e dui serviggi, venevo
per ritrovarvi in vostra casa; ma la buona fortuna me
vi ha fatto rincontrar qua. Che risoluzione vogliam
prendere? Bisogna, spedito ch’arrò questa facendo­
la, ritornar presto, subito subito, a solaggiar quella
meschina, dicendogli che vi ho visto e parlato, e che
sarrete tosto a lei.
BONIFACIO Promettetegli di certo, e ditegli che que­
sto è il piú felice giorno ch’io abbia veduto in tutta
mia vita: che mi vien concesso di baciar quel bellissi­
mo volto ch’io tanto adoro, che tien le chiavi di que­
sto afflitto core.
LUCIA Afflitto core è il suo. Bisogna non mancar que­
sta sera; atteso che lei non è per mangiare né per
dormire né per riposare alcunamente, piú tosto per
morire, si non ve si vede a presso. Non la fate piú
lagnar, vi priego (si pietà giamai avesti al core), che la
veggio consumar com’una candela ardente.
BONIFACIO Adesso adesso, vo ad ispedir un negocio;
e poi o veramente mi verrete, o vi verrò a ritrovare.
LUCIA Sapete quale è il negocio che dovete fare?
per suo e vostro onore, bisogna riparare alla suspi­
zion delle persone del mondo, si fusti veduto uscire
o entrare in sua casa. Voi sapete che le vicine, sino
a mezza notte, son sempre alle fenestre: e chi va e
chi viene. E dumque necessario stravestirvi, con ac­
comodarvi di una biscappa simile a quella di messer
Gioan Bernardo, il qual senza suspizione alcuna suo­
le entrar in questa casa; e non sarà fuor di proposito,
si per sorte fussivo guardato da presso, di portar una
barba negra posticcia, simile alla sua, perché a tal
guisa potremo andar insieme, et io v’introdurrò den­
tro la stanza. Cossì farrete la cosa con piú satisfazione
della Signora, che con questo si persuaderà che voi
amate ancora il suo onore.
BONIFACIO Voi avete benissimo pensato. Io ho la
persona né piú né meno grande di quella di messer
Gioan Bernardo: una biscappa simile alla sua non bi­
sogna ch’io la vadi cercando, perché penso averne
una intra le mani. Adesso, con questo medesmo pas­
so, me ne vo a Pellegrino mascheraro: e mi farò acco­
modare una barba posticcia che sii a proposito.
LUCIA Andate, dumque, vi priego, e speditevi pre­
sto. A dio, che vo a levarmi questa soma da le spalli.
BONIFACIO Và in buona ora!
SCENA SETTIMA
Bonifacio, solo
Per quel che costei me dice, io credo di aver appros­
simata la imagine tanto presso al fuoco, che quasi si
sarebbe liquefatta: penso d’averla troppo scaldata.
Guarda come la povera donna viene tormentata dal­
l’amore: per mia fé, che non ho possuto contener le
lacrime. Si messer Scaramuré (che Dio li dia il bon
giorno e la buona sera, ché adesso conosco per pro­
pria esperienza che è un galantissimo uomo) non mi
avesse avertito con dirmi: - Guarda che non si lique­
faccia; - io certamente arrei fatta qualche pazzia ch’io
non ardisco tra me stesso dirla. Or, và numera l’arte
maggica tra le scienze vane!
SCENA OTTAVA
Marta, Bonifacio
MARTA Ecco cqua quel pezzo d’asino, il quale voles­
se Dio che fusse un asino intiero, ché potrebbe servi­
re a qualche cosa. Bona sera, messer Buon-in-faccia.
BONIFACIO Ben venga la cara madonna Marta. Vo­
stro marito è filosofo, bisogna che voi siate filosofes­
sa: però non è maraviglia se fate notomia de vocabo­
li. Che cosa intendete per quel Buon-in-faccia ? non
credete ch’io ve sia amico alle spalli, et in assenzia
come in presenzia ? avete torto a darmi la berta.
MARTA Come vi sta la borsa?
BONIFACIO Come il cervello di vostro Martino (volsi
dir marito) quando la non ha carlini dentro.
MARTA Io dico di quella di sotto.
BONIFACIO Gran mercè a vostra cortesia! Voi andate
cercando il male come i medici. Si voi vi potessivo
remediare, vi farei intendere il come e quale. Si vole­
te della broda, andate a Santa Maria della Nova.
MARTA Volete dir ch’io son cosa da frati, ser coglio­
ne?
BONIFACIO Io ve dirrò d’avantaggio: voi siete cosa
da cemiterio, perché una femina che passa trentacin­
que anni, deve andar in pace, ideste in purgatorio a
pregar Dio per i vivi.
MARTA Questo niente manco doviamo dir noi femine
di voi altri mariti.
BONIFACIO Dominedio non ha cossì ordinato: per­
ché ha fatto le femine per gli omini e non gli uomini
per le femine: e son state fatte per quel servizio, e,
quando non son buone a quello, faccisen presente
al povero diavolo, perché il mondo non le vuole. Ad
altare scarrupato non s’accende candela: a scrigno
sgangherato non si scrolla sacco.
MARTA Non è vergogna ad un uomo attempato, qual
voi siete, di farsi sentir parlare in questa foggia? A i
giovanetti le giovanette, a giovani le giovane, e piú
vecchi si denno contentar delle piú stantive.
BONIFACIO E si non, và le apicchi al fumo e falle sta­
sonar dentro un camino. Non è questa la ricetta che
ferono i medici al patriarca Davitte, e, poco fa, ad un
certo Padre Santo, il qual morse dicendo: « Mene,
mene: non piú baser... »; ma costui scaldò troppo, e
lui doveva esser tettato e tettava, e però non è ma­
raviglia, se...
MARTA E perché puose troppo pepe al cardo.
BONIFACIO In conclusione, madonna cara: a gatto
vecchio sorece tenerello.
MARTA Questo, come intendete per i vecchii, perché
non intendete per le vecchie ?
BONIFACIO Perché le donne son per gli uomini, no
gli omini per le donne.
MARTA Pur llà il mal’è, perché voi uomini siete giodi­
ci e parte; ma pazze son de noi altre quelle che...
BONIFACIO Quelle che si lasciano patire.
MARTA Non voglio dir questo io, ma qualche vostro
degno castigo e contra cambio.
BONIFACIO Ideste, essi ad altre, et esse ad altri.
MARTA Ih, ih, ih, ih.
BONIFACIO Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah.
MARTA Come trattate la vostra moglie? credo che la
lasciate morir di sete. E pur lei giovane e bella, ma
che? sii buona la vianda quanto si voglia, l’appetito
si sdegna, si non si varia, ancor che si dia di botto a
cose peggiori: non è vero?
BONIFACIO Non è vero, voi ? voi non sapete quel
che volete dire ? parlate per udir dire, voi ? Or la­
sciamo le burle, madonna Marta mia. Io so che voi
sapete di molti secreti: vorrei che m’agiutassi a farmi
vittorioso. Io gioco con mia moglie questa notte di
qualche cosa, che farrò piú di quattro poste. Insegna­
temi, di grazia, qualche droga o pozione, perché mi
mantenga dritto sul destriero.
MARTA Recipe acqua di rene, oglio di schene, cola­
tura di verga e manna di coglioni; ad quantom suf­
frica, mesceta et fiat potum; e poi vi governarete in
questa foggia, videlicet, statevi su le staffe, a fin che,
galoppando galoppando, l’arcione de la sella non vi
rompa il culo.
BONIFACIO Per S. Fregonio, voi siete una matricolata
maestra! Son costretto a lasciarvi per alcun necessa­
rio affare. A dio, m’avete satisfatto.
MARTA A dio. Si vedete quell’affumato di mio mari­
to, ditegli ch’io l’ho mandato a cercare, e che il cerco,
per cosa che importa.
SCENA NONA
Marta, sola
«Nez couppé n’ha faute de lunettes»: solea dir quel
buon compagno Gianni di Brettagna (benedetta sia
l’anima sua che mi puose la lingua francesa in bocca,
ch’ancora non avevo dodieci anni e mezzo) - Voleva
egli inferire a proposito, che quanto lui era piú po­
vero ch’il Re di Francia, tanto il Re di Francia è piú
bisognoso di lui. Chi piú ha, piú pensa, piú richie­
de, e manco gode. Il Prencipe di Conca mantiene
il suo principato con riceverne un scudo e mezzo il
giorno; il Re di Francia a pena può mantener il suo
regno con spenderne tal volta diecemilia il giorno.
Pensa, dumque, chi di questi dui è piú ricco, e chi
deve essere piú contento: quello che ha un poco da
ricevere, o quello che ha molto da dare? Quando
fu la rotta di Pavia, udivi dire, al Re di Francia biso­
gnarno piú di otto conti d’oro; il Prencipe di Conca
quando mai ebbe bisogno piú che de venti o ven­
ticinque scudi ? quando mai sarà possibile, che gli
ne bisognano d’avantaggio ? Or, vedi, chi di questi
dui prencipi è manco bisognoso ? - Meschina me! io
lo dico, io lo so, io l’esperimento. Ero piú contenta,
quando questo zarrabuino di mio marito non avea
tanto da spendere, che non potrei essere al dì d’og­
gi. All’ora giocavamo a gamba a collo, alla strettola
a infilare, a spaccafico, al sorecillo, alla zoppa, alla
sciancata, a retoncunno, a spacciansieme, a quattro
spinte, quattro botte, tre pertosa et un buchetto. Con
queste et altre devozioni passavamo la notte e parte
del giorno. Adesso, perché ha scudi di vantaggio per
la eredità di Pucciolo (che gli sii maledetta l’anima,
anco si fusse in seno di Abramma) ecco lui posto in
pensiero, angosce, travagli, tema di fallire, suspi­
cion d’esser rubbato ansia di non essere ingannato
da questo, assassinato da quell’altro; e va e viene,
e trotta e discorre, e sbozza et imbozza, e macina e
cola, e soffia vintiquattro ore del giorno. Tra tanto,
oggi, gran mercé a Barra, che, se lui non fusse, potrei
giurare, che piú di sette mesi sono, che non me ci ha
piovuto. Ieri, feci dir la messa di Sant’Elia contro la
siccità, questa mattina, ho speso cinque altre grana
de limosina per far celebrar quella di S. Gioachino et
Anna, la quale è miracolosissima a riunir il marito co
la moglie... Si non è difetto di devozione dal canto
del prete, io spero di ricevere la grazia, benché ne
veggo mala vegilia: ché, in loco di lasciar la fornace
e venirme in camera, oggi è uscito, piú del dover, di
casa, che mi bisogna a questa ora di andarlo cercan­
do. Pure, quando men la persona si pensa, le gracie
si adempiscono. Oh, mi pare udirlo!
SCENA DECIMA
Messer Bartolomeo, Marta, Mochione.
BARTOLOMEO Oh misero, sfortunato e desolato
me!
MARTA Ahi lassa, che lamenti son questi?
BARTOLOMEO Oimè, sì, questo è cossì: io ho perso
peggio che l’oglio et il sonno! Dimmi, poltroncello,
t’ha egli detto cossì, a punto? guarda bene.
MOCHIONE Signor sì; dice «Alla fine io non ho di
questa polvere, e non so si se ne ritrova», e che la li
fu data da messer Cencio, e dice che lui non sa che
cosa sii il pulvis Christi.
BARTOLOMEO O sconfitto Bartolomeo!
MARTA Iesus, Santa Maria di Piedigrotta, Vergine Ma­
ria del Rosario, nostra Donna di Monte, Santa Maria
Apparetal, Advocata nostra di Scafata ! Alleluia, alle­
luia, ogni male fuia. Per San Cosmo e Giuliano, ogni
male fia lontano. Male male, sfiglia sfiglia, và lontano
mille miglia. - Che cosa avete, Bartolomeo mio?
BARTOLOMEO E tu sei cqua, a questa ora, alla
mal’ora? và col tuo diavolo in casa, ch’io voglio an­
dar a risolvermi, si me debbo venir ad apiccar o non!
Andiamo, Mochione, a ritrovar costui: lo hai lasciato
in bottega?
MOCHIONE Signor sì. Il camin piú piú corto è que­
sto.
MARTA Amara me! voglio tornar in casa ad aspettar
la nova. Temo di esser stata esaudita, mal per me! io
non ho core di dire quel che penso. Salve, Regina,
guardane da ruina. Giesu auto et transi per medio
milloro mibatte. - Costui che mi vien dietro, cossì
pian piano, certo deve essere qualche spia di mario­
li: è bene ch’io m’affretti.
SCENA UNDICESIMA
Mamfurio, solo
Ne gli adagiani Erasmi, dico ne gli Erasmi adagiani
(io sono allucinato) voglio dire ne gli erasmiani Ada­
gii, ve n’è uno, tra gli altri, il qual dice: «A toga ad
pallium». Questo, adimpiendosi in me ipso, mi fa che
questo giorno sii nigro signandus lapillo. O caelum,
o terras, o maria Neptuni! Dopo essermi stati tolti
di mano i danai da un vilissimo fure, sotto pretesto
di volermi essere ufficiosi tre altri me si sono offer­
ti e presentati; li quai, non inquam dexteritate sed
sinisteritate quadam, lasciandomi sovr’il dorso un
depilato palliolo, proque capitis operculo un capi­
ziolo vetusto (che, versus centrum et in medio, prae
nimii sudoris densitudine appare incerato vel inpi­
ceato vel coriceato vol coriaceo seu di cuoio) con il
mio pileo, la mia toga magisterial han toltami. Proh
deûm atque hominum fidem, eccome delapso a pa­
tella ad prunas. Mi han persuaso con il dire: «Venite
nosco, ché vi farrem trovare il fure». Sono con essi
loro bona fide andato, sin quando gionti a di certe,
- ut facile crediderim, meretricule il domicilio, dove,
entrati, mi fecero rimaner nell’atrio inferior, dicendo­
mi: «E ben che noi prima entriamo a prevenirlo, a
fin che non paia che ex abrupto con la tua presenza
vogliamo confonderlo: però aspettate cqui, che tosto
da alcun di noi sarrete chiamato per decernere, co la
minor excandescentia che si potrà, quod ad restitu­
tionem attinet» Or, avendo io per un grand’intervallo
di tempo aspettato deambulando, pensando a gli
argumenti coi quali io dovevo confonder costui, tan­
dem, non essendo verun che mi chiamasse, per certe
scale asceso in alto, toccai del primo cubiculo porta:
dove mi fu risposto che andasse oltre, perché ivi non
era, né vi era stato, altro che que’ domestici presen­
ti Aliquantolum progressus, batto l’uscio di un altro
abitaculo, il qual era nella medesma stanza: dove mi
fu parimente risposto da una vetula, dicendomi, s’io
volevo far ivi ingresso, che altro non v’era che cer­
te minime contemnendae iuvenculae; a cui dicendo
che di altro fantasma avevo ingonbrato il cerebro, ul­
terius progressus mi ritrovo fuor della casa che avea
l’altra uscita in un’altra platea. All’or de necessitate
consequentiae ioconclusi: «Ergo forte sono eziamdio
da costoro deceputo, conciossia cosa che domus ista
duplici constat exitu et ingressu». E di bel nuovo ri­
tornato dentro, percunctatus sum, si ivi dentro fusse
altro receptaculo in cui quei potessero esser congre­
gati; mi fu in forma conclusionis detto: «Amico mio, si
sono entrati per quella porta, son usciti per questa; si
son entrati per questa, sono usciti per quella». Tunc
statim, temendo qualch’altro soccorso o consiglio
simile a i preteriti, mi sono indi absentato, e (iuxta
del pitagorico simbolo la sentenza) le vie populari
fuggendo e per i diverticoli andando, aspetto il tem­
po da tornar in casa; quandoquidem, adesso, per de
gli eunti e redeunti la frequenza, temo (con di mia
reputazione il preiducio) incidere in qualcun che mi
conosca, in questo indecentissimo abito; expedit
che in istum angulum mi retiri, in questo mentre, che
veggio, approperar un paio di muliercule.
SCENA DODICESIMA
Carubina, Lucia
CARUBINA Al nome sia di Santa Raccasella!
LUCIA Advocata nostra.
CARUBINA Vi par che ne’ gesti e la persona vi rapre­
senti la signora Vittoria?
LUCIA Vi giuro per i quindici misterii del rosario (che
ho finiti de dire adesso) che io medesima, al presen­
te, mi penso essere con essa lei. Sin alla voce e le
paroli vi sono accomodatissime. Pur farrete bene a
parlargli sempre basso, sotto voce, con essortarlo
al simile, fingendo tema di essere udita da vicine, e
dall’altre genti di casa che son gionte a muro e muro.
Quanto al toccarvi de la faccia, voi l’avete cossì ver­
de, morbida e piena, come la signora Vittoria, si non
alquanto megliore.
CARUBINA Voi farrete che lume non venghi in came­
ra, sin tanto che da me non vi si farrà segno, perché
voglio convencere costui d’intenzione e fatto.
LUCIA Oltre che sarrà bene di dar qualche sollazzo
alla povera bestia, prima che tormentarla. Fate che
scarghe al meno una volta la bisaccia, per veder con
quanta devozione si maneggi.
CARUBINA Oh, quanto a questo, voglio ch il spasso
sii piú vostro che suo! Io me gli mostrarrò tutta in­
fiammata d’amore: e con questo gli piantarrò de baci
di orso, lo morsicarrò su le guance, e gli strengerrò le
labbra co’ denti, di sorte che sii forzato a farvi udir le
strida e gustar de la comedia. All’ora dirrò: « Cor mio,
vita mia, non cridate, ché sarremo uditi! Perdonami,
cor mio, ché questo è per troppo amore!...
LUCIA Il crederrà per la virtú e forza de l’incanto.
CARUBINA «...Io mi liquefaccio tanto, che ti sorbirrei
tutto in sin a l’ossa! »
LUCIA Amor di vipera.
CARUBINA Oh, questo non basta. Poi farrò di modo
che mi porga la lingua; e quella voglio premere tanto
forte co gli denti, che non la potrà ritrare a suo bel
piacere, e non la voglio lasciar, sin tanto che non ab­
bia gittati tre o quattro strida.
LUCIA Ah, ah, ah, ih, ih, ih, ah. Dirrò alla signora Vit­
toria: «Questa è la lingua ». Potrà egli ben cridare, ma
parlar non: questa è alquanto troppo dura, e da fargli
uscir l’amor dal culo.
CARUBINA All’or dirrò: «Cor mio bello, mia dolce pia­
ga, anima del mio core, comportami, ti priego, que­
sto eccesso! il mio troppo amare, il mio esser troppo
scaldata n’è caggione, questo mi fa freneticare! »
LUCIA Per Santa Pollonia, ch’avete di bei tiri! Dirrà
egli tra sé: «Che canino amor è di costei? »
CARUBINA Fatto questo secondo atto, mostrarrò di
volergli concedere l’entrata maestra per una volta,
prima che ci colchiamo al letto. M’acconciarrò in atto
da chiavare; e tosto che lui arrà cacciato il suo cotale,
farrò bene che venghi all’attolite porta, ma prima che
gionga all’introibi re gloria, voglio apprendergli i te­
sticoli e la verga con due mani, e dirgli: «O ben mio,
mio tanto desiderato, o speranza di quest’anima in­
fiammata, prima mi sarran le mani tolte, che tu mi
sii tolto da le mani»; e con questo le voglio premere
tanto forte, e torcergli come torcesse drappi bagnati
di bucata. Son certa che le sue mani, in questo caso,
non gli serveranno per defendersi.
LUCIA Ih, ih, ih, ah, ah. Certo quel dolore farrebbe
perdere la forza ad Erculessos: oltre che, è certo che
in ogni modo voi sete piú forte che lui.
CARUBINA All’ora siate certa che cridarrà tanto, che
le strida si sentiranno a nostra casa; e peggio per lui
si non cridarrà bene, perché tanto piú fortemente
sarrà strento e torciuto. Quando saranno queste piú
solenne terze strida, correrete voi di casa con i lumi:
e cossì, tutti insieme, ne conosceremo alla luce, con
la grazia di Santa Lucia. De l’altro che sarrà appresso,
vederremo.
LUCIA Tutto è bene appuntato. Andate, dumque, in
casa della Signora: caminate come sapete: mantene­
tevi il viso coperto con il manto. Si l’incontrate per il
camino, lui non vi parlarà, perché non è onesto per
le strade: fategli una profonda riverenza, e, quando
sarrete un po’ oltre, fatevi cascar un focoso suspiro, e
prendete il camino verso la nostra porta che trovare­
te aperta. Tra tanto io darrò una volta per certo altro
affare; e poi cercarrò lui e lo menarrò in casa. Gover­
natevi bene. A dio.
CARUBINA A dio, a rivederci presto.
SCENA TREDICESIMA
Lucia, sola
Dice bene il proverbio: « Chi vuole che la quatragesi­
ma gli paia corta, si faccia debito per pagare a Pasca».
Tutto oggi non mi ha parso un’ora per il pensiero
ch’ho avuto, di far schiudere queste uova in questa
sera. Ogni cosa va bene. Resta sol ch’io faccia avisato
messer Gioan Bernardo, che si trovi a tempo, e faccia
che gli altri si trovino a tempo. Bisogna martellare a
misura, quando son piú che uno a battere un ferro. A
fé di Santa Temporina ~ che mi par lui costui.
SCENA QUATTORDICESIMA
Lucia, messer Gioan Bernardo
LUCIA A punto, siete venuto a proposito.
GIOAN BERNARDO Che hai fatto, Lucia mia?
LUCIA Tutto. Messer Bonefacio è andato a stravestir­
si, ed accomodarsi una barba simile alla vostra. Sua
moglie adesso, in abito della signora Vittoria, se n’è
entrata. Sanguino, vestito da capitan Palma, in barba
lunga e bianca. Marca, Floro, Barra, Corcovizzo sono
accomodati da birri.
GIOAN BERNARDO Io le ho veduti or ora, ho parlato
con essi. Le ho lasciati cqui vicino, in bottega di un
cimatore. Io starrò in cervello, che non mi farrò scap­
pare questo morsello di bocca. Hai parlato del fatto
mio a madonna Carubina?
LUCIA Liberamus domino, Credete ch’io sii tanto
poco accorta?
GIOAN BERNARDO Hai fatto saggiamente: voglio
darti per beveraggio un bacio; ’bà.
LUCIA Gran mercè! io ho bisogno d’altro che di que­
sto.
GIOAN BERNARDO Questo è sol un pegno, Lucia
mia. E impossibile di trovar una donna da maneggi
simile a voi.
LUCIA Si voi sapeste quanto mi ha bisognato di spir­
to, per far capire a messer Bonifacio l’amor novello
della signora Vittoria, e persuadergli che si stravesta
cossì, et anco per ridurre madonna Carubina a quel
ch’è ridutta: vi maravigliareste assai.
GIOAN BERNARDO Son certo che sapete cacciar le
mani da cose vie piú importanti che questa. Or è
bene ch’io mi parti da cqua, ché non è piú tempo di
consegli. Si venisse ora, e ne vedesse messer Bonifa­
cio, guastarebbe la minestra il troppo sale. A dio.
LUCIA Andate, accomodatevi voi altri, perché lui lo
accomodarrò io.
SCENA QUINDICESIMA
Mamfurio, solo
Poi che costoro sono absentati, voglio rimenarmi un
poco per questo piccolo deambulatorio. Ho veduto
due muliercule raggionar insieme, e poi una di quel­
le è rimasta a confabular con quel pictore. La giovane
deve esser qualche lupa, unde derivatur lupanar; la
vetula, senza dubio, è una lena. Quel modo di col­
loquio habet lenocinii specimen. Io istimo questo
pictore aliquantolum fornicario, Ergo, sequitur con­
clusio. - Veggo una caterva che appropera: voglio ite­
rum retirarmi.
SCENA SEDICESIMA
[Mamfurio,] Sanguino, stravestito da capitan Palma;
Marca, Barra, Corcovizzo, da birri
SANGUINO Senza dubio, costui che fugge e si ascon­
de, è qualche povera anima da menarla in purgatorio:
per certo, è qualche lesa conscienzia; prendetelo.
BARRA Alto, la corte! Chi è llà ?
MAMFURIO Mamphurius artium magister. Non sum
malfactore, non fur, non moechus, non testis iniquus:
alterius nuptam, nec rem cupiens alienam.
SANGUINO Che ore son queste che voi dite, compie­
ta o matutino ?
MARCA Settenzalmo o offcio defontoro ?
SANGUINO Che ufficio è il vostro? Costui per certo
vorrà far del clerico.
MAMFURIO Sum gymnasiarcha.
SANGUINO Che vuol dir «asinarca» ? Legatelo pre­
sto, che si meni priggione.
CORCOVIZZO Toccatemi la mano, Messer pecora
smarrita. Venete, che vi vogliamo donar allogiamento
questa sera: dimorarrete in casa reggia.
MAMFURIO Domini, io sono un maestro di scola, a
cui, in queste ore prossime, son stati da certi furbi
rubbati i scudi et involate le vesti.
SANGUINO Perché dumque fuggi la corte ? Tu sei un
ladro, nemico de la giustizia; (zò, zò, zò).
MAMFURIO Quaeso non mi verberate, perché io fug­
giva di esser veduto in questo abito, il quale non è
mio proprio.
SANGUINO Olà, famegli: non vi accorgete di questo
mariolo? non vedete questo mantello che porta, è
stato rubbato a Tiburolo nella Dogana.
CORCOVIZZO Perdonatime, signor Capitano, Vostra
Signoria se inganna: perché quel mantello aveva
passamani gialli nel collaio.
SANGUINO E non le vedi? sei cieco? Non son passa­
mani questi? non son gialli?
CORCOVIZZO Pò S