Smith, Marx, Walras, Keynes

Transcript

Smith, Marx, Walras, Keynes
Corrado Bevilacqua
Smith, Marx, Walras, Keynes
Rivoluzioni e controrivoluzioni nella teoria economica
I quaderni di
http://www.laprimaradice.myblog.it
Modelli e paradigmi. La conoscenza economica si
basa su dei modelli. I modelli non sono la realtà; non sono una
copia della realtà, oppure, una sua imitazione; essi la
rappresentano. Volendo usare una celebre espressione di Lord
Nicholas Kaldor, potremmo definirli dei “fatti stilizzati”. [N.
Kaldor Un modello di sviluppo economico, in Id. Saggi sulla
stabilità economica e lo sviluppo, Einaudi]
La validità dei modelli dipende dalla validità della stilizzazione,
cioè, dalla validità della scelta da noi operata degli elementi
costitutivi di un certo fenomeno economico e delle relazioni che
li legano [W. Baumol Modelli economici, in Economisti
moderni, a cura di Federico Caffè, Laterza]
Pensiamo alla celebre curva di Phillips che lega andamento dei
salari ed andamento della disoccupazione. Logica vorrebbe che,
ad aumenti della disoccupazione, corrispondessero riduzioni
salariali. Ciò poteva essere vero prima che fossero creati i
sindacati dei lavoratori. Non è più vero oggi. E' difficile che i
sindacati accettino delle riduzioni dei salari monetari. [F.
Momigliano Sindacati inflazione, programmazione economica,
Einaudi]
Il modo più semplice di ottenere il medesimo risultato è quello di
usare lo strumento dell'inflazione. Ciò è agevolato dalla prassi
seguita dalle imprese di calcolare i prezzi delle merci da porre in
vendita sulla base del principio del costo pieno. In base a tale
tecnica il prezzo viene calcolato aggiungendo un margine di
profitto comprensivo della quota delle spese generali al costo
primo di produzione. [P. Sylos Labini Oligopolio e progresso
tecnico, Einaudi]
Ciò ha mutato il nostro modo di considerare l'inflazione e ha
portato alcuni economisti a distinguere fra inflazione da
domanda, inflazione da costi e inflazione da profitti [G. Ackley
Macroeconomia, Einaudi].
Un'analoga osservazione può essere fatta per quello che riguarda
la conoscenza storica. Secondo il grande storico svizzero Jacob
Burckhardt, tre sono le potenze della storia: stato, cultura,
religione. Burckhardt non teneva in alcuna considerazione
l'economia che, per Karl Marx, costituiva l'anatomia della società
civile. [J. Burckardt Riflessioni sulla storia universale, Sansoni]
In realtà, l'economia svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo
della società, ma la sua azione va contestualizzata; in altre parole,
se vogliamo capire un'epoca storica non possiamo prescindere
dall'economia, ma non possiamo nemmeno prescindere dalla
cultura, dalla religione, dalla politica che caratterizzano quella
determinata epoca storica. [P. Vilar Sviluppo economico e analisi
marxista, Laterza]
Paradigmi sono quegli insiemi di conoscenze, di principi e di
tecniche investigative che caratterizzano una determinata teoria
scientifica. Tali paradigmi durano finché non interviene qualcosa
che li mette in crisi e li sostituisce con altri. In tal caso, si parla di
rivoluzioni scientifiche. Tali rivoluzioni sono state spesso
contrastate dalle autorità religiose. [T. Kuhn La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi]
Famoso fu il caso di Nicolò Copernico, il quale, temendo la
reazione negativa della Chiesa, attese d'essere in punto di morte
per pubblicare il suo libro sul movimento dei corpi celesti. [T.
Kuhn La rivoluzione copernicana, Einaudi]
Charles Darwin, pensando che l'opinione pubblica non fosse
preparata ad accogliere positivamente la sua opera, dilazionò per
anni la pubblicazione di Origine delle specie. Si decise a
pubblicarla solo dopo aver ricevuto una lettera di Wallace che gli
fece capire che egli era giunto alle sue stesse conclusioni. La
prima edizione di Origine delle specie venne esaurita in due
giorni. [S. J. Gould Questa idea della vita. La sfida di Charles
Darwin, Editori Riuniti]
Dopo la morte di Darwin nella sua biblioteca venne trovata una
copia intonsa del celebre libro di Mendel sull'ereditarietà che
all'epoca rappresentava un'autentica rivoluzione scientifica. Ora,
è chiaro che non siamo in grado si immaginare quello che
sarebbe successo se Darwin avesse letto il libro di Mendel; ma
non possiamo nemmeno escludere che esso avrebbe fornito a
Darwin lo strumento per rivoluzionare la sua stessa teoria
dell'evoluzione delle specie viventi. [E. Montalenti Evoluzione,
Einaudi]
Era il 1859. Nel medesimo anno, Marx pubblicò Per la critica
dell'economia politica nella quale esponeva la formulazione
definitiva della concezione materialistica della storia che
rivoluzionò il nostro modo di vedere la storia.
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini
entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla
loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a
un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base
reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e
politica e alla quale corrispondono forme determinate della
coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale
condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che
determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere
sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del
loro sviluppo, le forze produttive materiali della società
entrano in contraddizione con i rapporti di produzione
esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto
l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi
s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle
forze produttive, si convertono in loro catene. E allora
subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento
della base economica si sconvolge più o meno rapidamente
tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili
sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo
sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della
produzione, che può essere constatato con la precisione delle
scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose,
artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che
permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di
combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea
che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile
epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se
stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le
contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente
fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.
Una formazione sociale non perisce finché non si siano
sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso;
nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai,
prima che siano maturate in seno alla vecchia società le
condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché
l'umanità non si propone se non quei problemi che può
risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova
sempre che il problema sorge solo quando le condizioni
materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in
formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati
come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società. I rapporti di produzione borghese
sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione
sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo
individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni
di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si
sviluppano nel seno della società borghese creano in pari
tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo
antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude
dunque la preistoria della società umana.”
Tale concezione costò a Marx una serie innumerevole di critiche,
prima fra tutte quella di economicismo [B. Croce Materialismo
storico ed economia marxistica. Laterza]. In realtà, Marx fece un
errore analogo a quello commesso da Burckardt. [J. Burckardt La
civiltà italiana del Rinascimento, Sansoni. E. Cassirer Individuo e
cosmo nella filosofia del Rinascimento, Sansoni. P. Burke La
renaissance en Italie, Hazan] Come Burckardt sottovalutò il ruolo
dell'economia nell'analizzare la civiltà italiana del Rinascimento,
così Marx relegò nella sovrastruttura le tre potenze di Burckardt.
Rivoluzione e controrivoluzione nella
teoria economica di Adam Smith. Quando si
parla di rivoluzione scientifica si intende, secondo la famosa
espressione di Thomas Kuhn, un “cambiamento di paradigma”.
Tale cambiamento si rende necessario perché la vecchia teoria
non funziona più. [T. Kuhn La struttura delle rivoluzioni
scientifiche, Einaudi].
Adam Smith operò tale cambiamento di paradigma. L'economia
occidentale si era evoluta; la teoria mercantilistica non
funzionava più, come non funzionava la teoria fisiocratica. [I
fisiocratici, Laterza. La chiave di volta fu la teoria del valorelavoro [C. Napoleoni Smith, Ricardo, Marx. Boringhieri. Id
Valore, Isedi]
La teoria classica del valore-lavoro aveva le sue radici nel
cosiddetto individualismo possessivo e mirava a delegittimare
tutte le forme di proprietà che non fossero frutto del lavoro
umano. [G.B. Mcpherson Individuo e proprietà alle origini del
pensiero borghese, Isedi]
Famosa è, a questo riguardo, la affermazione di John Locke,
contenuta nel Secondo trattato sul governo, secondo il quale, un
uomo era proprietario di tanta terra quanta egli era capace di
coltivare da solo. [J. Locke Secondo trattato sul governo,
Rizzoli]
As much land as a man tills, plants, improves, cultivates, and
can use the product of, so much is his property.
In altre parole, la teoria del valore-lavoro ebbe, all'origine un
significato eversivo dell'ordine assolutistico esistente sostenuto
dai Fisiocrati in nome dell'ordre naturel delle cose [I Fisiocratici,
cura di B. Miglio, Laterza] e Adam Smith può essere visto a
giusto titolo come il rappresentate delle istanze rivoluzionarie
della borghesia in ascesa [R. Meek Studi sulla teoria del valore
lavoro, Feltrinelli]
Secondo Adam Smith, la legge del valore-lavoro valeva, però,
come legge regolatrice degli scambi, solo nello stadio rude e
rozzo della società quando non esistevano ancora dei “possessori
di fondi”. L'avvento dei possessori di fondi cambiava l'assetto
sociale dell'economia e rendeva i possessori di fondi partecipi del
processo di accumulazione di capitale. [A. Smith Ricchezza delle
nazioni, Newton Kompton]
Per tale via, Smith introduceva quella che sarebbe poi diventata
la teoria dei fattori della produzione [K. Marx Teorie sul
plusvalore, Editori Riuniti] e introduceva il concetto di prezzo
basato sulla somma di salari, profitti e rendite, cioè quella che
Marx chiamò “formula trinitaria” che venne successivamente
rielaborata dagli economisti appartenenti a quella che Marx
aveva chiamato “economia volgare” che dominò la scena nel
periodo che seguì la morte di David Ricardo nel 1823.
Per Smith, la ricchezza di una nazione comunque era il suo fondo
accumulato di lavoro, o, per dirla in altre parole, essa consisteva
nella capacità dei possessori di fondi di mettere in moto lavoro,
ovvero, diremmo oggi, di creare occupazione, attraverso la
diffusione della divisione del lavoro. [G. Pietranera La teoria del
valore e dello sviluppo in Adam Smith, Feltrinelli]
Per Smith, infatti, ciò che caratterizzava le nazioni più sviluppate
rispetto quelle meno sviluppate era il maggior sviluppo della
divisione del lavoro che permetteva di produrre più merci ad un
costo più basso di quello dei paesi dove la divisione del lavoro
era meno sviluppata. [A. Smith Abbozzo della Ricchezza delle
nazioni, Editori Riuniti]
Fondamentale era, in questo contesto, la distinzione fra lavoro
produttivo e lavoro improduttivo, ovvero, per dirla con Marx, la
distinzione fra lavoro che si scambia con reddito e lavoro che si
scambia con capitale. [P. Garbero, a cura di, Lavoro produttivo
lavoro improduttivo, Loescher]
Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica,
scrisse Marx nelle Teorie sul plusvalore, è il lavoro salariato
che, nello scambio con la parte variabile del capitale (la parte
del capitale spesa in salario), non solo riproduce questa parte
del capitale (o il valore della propria capacità lavorativa), ma
oltre a ciò produce plusvalore per il capitalista. Solo per
questa via la merce, o il denaro, è trasformata in capitale, è
prodotta come capitale. È produttivo solo il lavoro salariato
che produce capitale. (Ciò significa che esso riproduce,
accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso,
ossia che restituisce più lavoro di quanto ne riceva sotto
forma di salario. Dunque è produttiva solo la capacità
lavorativa la cui valorizzazione è maggiore del suo valore.)
La mere existence di una classe di capitalisti, quindi del
capitale, dipende dalla produttività del lavoro, ma non dalla
sua produttività assoluta, bensì dalla sua produttività relativa.
Per esempio: se una giornata lavorativa fosse solo sufficiente
a mantenere l’operaio in vita, cioè a riprodurre la sua capacità
lavorativa, in senso assoluto il lavoro sarebbe produttivo,
perché sarebbe riproduttivo, cioè sostituirebbe costantemente
i valori che ha consumato (uguali al valore della sua propria
capacità lavorativa). Ma non sarebbe produttivo nel senso
capitalistico, perché non produrrebbe nessun plusvalore.
Questa produttività dipende dalla produttività relativa, dal
fatto che l’operaio non solo sostituisce un vecchio valore, ma
che ne crea uno nuovo; dal fatto che egli oggettiva nel suo
prodotto un tempo di lavoro maggiore di quello oggettivato
nel prodotto da cui è mantenuto in vita come operaio. È su
questa specie di lavoro salariato produttivo che si fonda il
capitale, la sua esistenza.
Da qui la polemica di Smith contro alcuni dei più rispettabili
ordini della società che vivevano del lavoro altrui come preti,
frati, comici e saltimbanchi. [C. Napoleoni Simth, Ricardo,
Marx, Boringhieri]
Diversamente da Smith, David Ricardo si mantenne fedele alla
teoria del lavoro contenuto e cercò di risolvere per tutta la sua
vita il problema della misura invariabile del valore. [C.
Napoleoni Simth, Ricardo, Marx, Boringhieri]. David Ricardo
può essere considerato il fondatore dell'Economica, ovvero, può
essere considerato colui che fondò epistemologicamente la nuova
scienza [J. Schumpeter Storia dell'analisi economica,
Boringhieri]
La rivoluzione di Marx. A un primo sguardo la
ricchezza borghese appare come una enorme raccolta di merci e
la singola merce come sua esistenza elementare. Ma ogni merce
si presenta sotto il duplice punto di vista di valore d'uso e
di valore di scambio, scrisse Marx in Per la critica.
La merce è in primo luogo, nel linguaggio degli economisti
inglesi, "qualsiasi cosa necessaria, utile o gradevole alla vita",
oggetto di bisogni umani, mezzo di sussistenza nel senso più
ampio della parola. Questo esistere della merce come valore
d'uso e la sua esistenza naturale tangibile coincidono. Il grano
ad esempio è un valore d'uso particolare, differente dai valori
d'uso cotone, vetro, carta, ecc. Il valore d'uso ha valore solo
per l'uso e si attua soltanto nel processo del consumo. Un
medesimo valore d'uso può essere sfruttato in modo diverso.
La somma delle sue possibili utilizzazioni si trova però
racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate
qualità. Questo valore d'uso, inoltre, è determinato non solo
qualitativamente, bensì anche quantitativamente. Valori d'uso
differenti hanno misure differenti secondo le loro naturali
peculiarità, ad esempio un moggio di grano, una libbra di
carta, un braccio di tela, ecc.
Qualunque sia la forma della ricchezza, i valori d'uso
costituiscono sempre il suo contenuto, che in un primo tempo
è indifferente nei confronti di questa forma. Gustando del
grano, non si sente chi l'ha coltivato, se un servo della gleba
russo, un contadino particellare francese o un capitalista
inglese. Sebbene sia oggetto di bisogni sociali e quindi si
trovi in un nesso sociale, il valore d'uso non esprime tuttavia
un rapporto di produzione sociale. Questa merce come valore
d'uso sia ad esempio un diamante. Guardando il diamante,
non si avverte che è merce. Là dove serve come valore d'uso,
esteticamente o meccanicamente, al seno di una ragazza
allegra o in mano a chi mola i vetri, è diamante e non merce.
L'essere valore d'uso sembra presupposto necessario per la
merce, ma l'essere merce sembra pel valore d'uso una
definizione indifferente. Il valore d'uso in questa sua
indifferenza verso la definizione della forma economica,
ossia il valore d'uso quale valore d'uso, esula dal campo
d'osservazione dell'economia politica. Vi rientra solo là dove
è esso medesimo definizione formale. In modo immediato, il
valore d'uso è la base materiale in cui si presenta un
determinato rapporto economico, il valore di scambio.
Il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto
quantitativo, entro il quale valori d'uso sono intercambiabili.
Entro questo rapporto essi costituiscono la medesima grandezza
di scambio. Così, un volume di Properzio e 8 once di tabacco da
fiuto possono essere un medesimo valore di scambio, nonostante
la disparità dei valori d'uso tabacco ed elegia. Come valore di
scambio, un valore d'uso vale esattamente quanto l'altro, purchè
sia presente nella dovuta proporzione. Il valore di scambio di un
palazzo può essere espresso in un determinato numero di scatole
di lucido da scarpe. Viceversa, i fabbricanti di lucido londinesi
hanno espresso in palazzi il valore di scambio delle scatole
sempre più numerose del loro prodotto. Astraendo quindi del
tutto dal loro modo d'esistenza naturale e senza tener conto della
natura specifica del bisogno per il quale sono valori d'uso, le
merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le
une alle altre nello scambio, sono considerate equivalenti e in tal
modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro
variopinta apparenza.
I valori d'uso sono direttamente mezzi di sussistenza. Ma
viceversa questi mezzi di sussistenza sono essi stessi prodotti
della vita sociale, sono risultato di forza umana spesa,
sono lavoro oggettivato. In quanto materializzazione del lavoro
sociale, tutte le merci sono cristallizzazioni di una medesima
unità. Quello che ora dobbiamo considerare è il carattere
determinato di questa unità, ossia del lavoro che si esprime nel
valore di scambio.
Un'oncia d'oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e
venti braccia di seta siano, poniamo, valori di scambio uguali. In
quanto sono tali equivalenti, in cui è cancellata la differenza
qualitativa dei loro valori d'uso, essi rappresentano un volume
uguale di uno stesso lavoro. Il lavoro che in essi uniformemente
si oggettiva dev'essere esso stesso lavoro semplice, uniforme,
indifferenziato, per il quale sia indifferente apparire nell'oro, nel
ferro, nel grano, nella seta, allo stesso modo che è indifferente
per l'ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro, nell'atmosfera, nel
succo dell'uva o nel sangue dell'uomo. Ma scavare oro, portar
alla luce ferro, coltivare grano e tessere seta, sono tipi di lavoro
che differiscono qualitativamente l'uno dall'altro. Infatti, ciò che
oggettivamente appare come diversità dei valori d'uso, appare nel
corso del processo come diversità dell'attività che produce i
valori d'uso. Perciò, il lavoro che crea valore di scambio, in
quanto è indifferente nei riguardi della particolare materia dei
valori d'uso, lo è anche nei confronti della forma particolare del
lavoro stesso. I differenti valori d'uso sono inoltre prodotti
dell'attività di individui differenti, sono dunque il risultato di
lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio
rappresentano un lavoro uguale, indifferenziato, ossia lavoro in
cui è cancellata l'individualità di chi lavora. Il lavoro che crea
valore di scambio è quindi lavoro astrattamente generale.
Se un'oncia d'oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e
venti braccia di seta sono valori di scambio di uguale grandezza,
ossia equivalenti, un'oncia d'oro, mezza tonnellata di ferro,
tre bushel di grano e cinque braccia di seta saranno valori di
scambio di grandezza del tutto differente, e questa differenza
quantitativa è l'unica differenza di cui siano in genere suscettibili
in quanto valori di scambio. Come valori di scambio di
grandezza differente rappresentano un più o un meno, un
quantitativo maggiore o minore di quel lavoro semplice,
uniforme, astrattamente generale, il quale costituisce la sostanza
del valore di scambio. Si tratta di vedere come misurare questi
quantitativi. O piuttosto si tratta di vedere quale sia la esistenza
quantitativa di quel lavoro stesso, poichè le differenze di
grandezza delle merci come valori di scambio non sono che
differenze di grandezza del lavoro in esse oggettivato. Allo stesso
modo che il tempo è l'esistenza quantitativa del movimento,
iltempo di lavoro è l'esistenza quantitativa del lavoro. La
diversità della propria durata è l'unica differenza di cui sia
suscettibile il lavoro, presupposta come data la sua qualità. Come
tempo di lavoro esso ottiene la propria scala di misura nelle
naturali misure del tempo, ora, giornata, settimana, ecc. Il tempo
di lavoro è l'esistenza vivente del lavoro, indipendentemente
dalla sua forma, dal suo contenuto, dalla sua individualità; ne è
l'esistenza vivente come esistenza quantitativa, e insieme è la
misura immanente di questa esistenza. Il tempo di lavoro
oggettivato nei valori d'uso delle merci è la sostanza che fa dei
valori d'uso valori di scambio e quindi merci, allo stesso modo
che ne misura la determinata grandezza di valore. I quantitativi
correlativi di valori d'uso differenti nei quali si oggettiva un
medesimo tempo di lavoro, sono degli equivalenti, ossia tutti i
valori d'uso sono degli equivalenti nelle proporzioni in cui
contengono il medesimo tempo di lavoro consumato oggettivato.
Come valori di scambio tutte le merci non sono che misure
di tempo di lavoro coagulato.
Per comprendere la determinazione del valore di scambio in base
al tempo di lavoro occorrerà tener fermi i seguenti punti di
partenza principali: la riduzione del lavoro a lavoro semplice, per
così dire privo di qualità; il modo specifico in cui il lavoro, che
crea valore di scambio e quindi produce merci, è lavoro sociale;
infine, la differenza che si ha fra il lavoro che ha per risultato
valori d'uso e il lavoro che ha per risultato valori di scambio.
Per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di
lavoro in esse contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi
essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme, in
breve al lavoro che qualitativamente è sempre uguale e si
differenzia solo quantitativamente.
Questa riduzione sembra un'astrazione, ma è un'astrazione
che nel processo sociale della produzione si compie ogni
giorno. La riduzione di tutte le merci a tempo di lavoro è
un'astrazione non maggiore, ma allo stesso tempo non meno
reale, della riduzione di tutti i corpi organici in aria. Il lavoro,
così misurato mediante il tempo, non appare infatti come
lavoro di soggetti differenti, bensì i differenti individui che
lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro.
Ossia il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio,
potrebbe essere espresso come lavoro generalmente umano.
Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel
lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una
data società, è un determinato dispendio produttivo di
muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E' lavoro semplice al
quale ogni individuo medio può essere addestrato e che esso
deve compiere in una forma o nell'altra. Il carattere di questo
lavoro medio varia esso stesso in paesi differenti e in epoche
di civiltà differenti, ma si presenta come dato in una società
esistente. Il lavoro semplice costituisce la massa di gran
lunga maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come
ci si potrà convincere da tutte le statistiche. Che A durante 6
ore produca ferro e durante 6 ore tela, e che B allo stesso
modo produca durante 6 ore ferro e durante 6 ore tela, o che
A produca durante 12 ore ferro e B durante 12 ore tela, è
evidente che si tratta semplicemente di un uso differente di
un medesimo tempo di lavoro. Ma come si fa per il lavoro
complesso che si eleva al di sopra del livello medio in quanto
lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico?
Questo tipo di lavoro si riduce a lavoro semplice messo
insieme, a lavoro semplice a potenza più elevata, cosicchè ad
esempio una giornata di lavoro complesso sarà uguale a tre
giornate di lavoro semplice. Non è questo ancora il luogo di
trattare delle leggi che regolano questa riduzione. Ma è chiaro
che questa riduzione ha luogo: infatti, come valore di
scambio, il prodotto del lavoro più complesso è in una
determinata proporzione equivalente del prodotto del lavoro
medio semplice, e quindi pari a un determinato quantitativo
di questo lavoro semplice.
La determinazione del valore di scambio mediante il tempo di
lavoro presuppone inoltre che in una determinata merce, ad
esempio in una tonnellata di ferro, sia oggettivato lo stesso
quantitativo di lavoro, non importa che sia il lavoro di A o di B o
che individui differenti impieghino, per la produzione di uno
stesso valore d'uso determinato qualitativamente e
quantitativamente, un tempo di lavoro di uguale durata. In altre
parole, si presuppone che il tempo di lavoro contenuto in una
merce sia il tempo di lavoro necessario per la sua produzione,
vale a dire il tempo di lavoro richiesto per produrre in date
condizioni generali di produzione un nuovo esemplare di quella
stessa merce.
Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come
risultano dall'analisi del valore di scambio, sono determinazioni
sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma
non sono sociali senz'altro, lo sono in un modo particolare. Si
tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la
semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di
individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l'uno
all'altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione
di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni
individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo
carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di
scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri
individui come a lavoro uguale.
Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo
individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro
generale, e questo carattere generale del lavoro individuale si
presenta come carattere sociale di quest'ultimo. Il tempo di
lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del
singolo, ma del singolo indifferenziato dall'altro singolo, da tutti i
singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di
lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il
tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la
produzione di quella stessa merce. E' il tempo di lavoro del
singolo, il suotempo di lavoro, ma solo come tempo di lavoro
comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo
individuo esso sia il tempo di lavoro. Come tempo di lavoro
generale, esso si esprime in un prodotto generale, in un
equivalente generale, in un determinato quantitativo di tempo di
lavoro oggettivato; e quest'ultimo, astraendo dalla forma
determinata del valore d'uso in cui appare immediatamente come
prodotto dell'uno, è traducibile a piacere in qualsiasi altra forma
di valore d'uso in cui si esprima come prodotto di qualsiasi altro.
E' grandezza sociale soltanto in quanto è una tale
grandezza generale. Per risultare valore di scambio, il lavoro del
singolo deve risultare equivalente generale, ossia
rappresentazione del tempo di lavoro del singolo come tempo di
lavoro generale o, ancora, rappresentazione del tempo di lavoro
generale come tempo di lavoro del singolo. E' come se i diversi
individui avessero messo insieme i loro tempi di lavoro e
avessero espresso in valori d'uso diversi quantitativi diversi del
tempo di lavoro a loro comune disposizione. Infatti, il tempo di
lavoro del singolo è in tal modo il tempo di lavoro di cui la
società ha bisogno per la espressione di un determinato valore
d'uso, ossia per il soddisfacimento di un determinato bisogno. Ma
qui si tratta soltanto della forma specifica in cui il lavoro
acquisisce carattere sociale. Poniamo che un determinato tempo
di lavoro del filatore si oggettivi per esempio in cento libbre di
filato di lino; e che cento braccia di tela di lino, prodotte dal
tessitore, rappresentino un quantitativo uguale di tempo di
lavoro. In quanto questi due prodotti rappresentano un
quantitativo uguale di tempo di lavoro generale e sono quindi
equivalenti per ogni valore d'uso che contenga un tempo di
lavoro di uguale durata, essi sono equivalenti l'uno dell'altro.
Solo per il fatto che il tempo di lavoro del filatore e il tempo di
lavoro del tessitore si presentano come tempo di lavoro generale
e i loro prodotti si presentano quindi come equivalenti generali, il
lavoro del tessitore diventa qui per il filatore e il lavoro del
filatore per il tessitore il lavoro dell'uno per il lavoro dell'altro,
vale a dire per entrambi l'esistenza sociale dei loro lavori.
Nell'industria contadina patriarcale invece, in cui filatore e
tessitore abitavano sotto lo stesso tetto, in cui la parte femminile
della famiglia filava e quella maschile tesseva, diciamo per il
solo fabbisogno della famiglia, filato e tela erano prodotti sociali,
filatura e tessitura erano lavori sociali entro i limiti della
famiglia. Ma il loro carattere sociale non consisteva nel fatto che
il filato si scambiava come equivalente generale con la tela come
equivalente generale o entrambi reciprocamente come
espressioni indifferenti ed equivalenti di uno stesso tempo di
lavoro generale. Il nesso familiare, anzi, con la sua naturale e
spontanea divisione del lavoro, imprimeva al prodotto del lavoro
il suo peculiare timbro speciale. Oppure, prendiamo i servizi in
natura e le prestazioni in natura del Medioevo. I determinati
lavori dei singoli nella loro forma naturale, la particolarità, non la
generalità del lavoro costituiscono qui il legame sociale. Oppure
prendiamo infine il lavoro in comune nella sua forma naturale
spontanea, come lo troviamo alle soglie della storia di tutti i
popoli civili. Qui il carattere sociale del lavoro evidentemente
non è dato dal fatto che il lavoro del singolo assume la forma
astratta della generalità o che il suo prodotto assume la forma di
equivalente generale. E' la comunità, il presupposto della
produzione, ad impedire che il lavoro del singolo individuo sia il
lavoro privato e il suo prodotto privato a far apparire invece il
lavoro singolo direttamente come funzione di un membro
dell'organismo sociale. Il lavoro che si esprime nel valore di
scambio è presupposto come lavoro del singolo preso
singolarmente: diventa sociale assumendo la forma del suo
diretto opposto, la forma dell'astratta generalità.
Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il
rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire
rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in
quanto un valore d'uso si riferisce all'altro quale valore di
scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l'uno all'altro
come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il
valore di scambio è un rapporto fra persone, bisogna tuttavia
aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose. Allo stesso
modo che una libbra di ferro e una libbra d'oro rappresentano lo
stesso quantitativo di peso malgrado le loro qualità fisiche e
chimiche diverse, due valori d'uso di merci, in cui sia contenuto
lo stesso tempo di lavoro, rappresentano lo stesso valore di
scambio. Il valore di scambio appare in tal modo come
determinazione naturale sociale dei valori d'uso, come
determinazione che spetta a questo in quanto cose, e a causa della
quale nel processo di scambio essi si sostituiscono a vicenda
secondo determinati rapporti quantitativi, costituiscono
equivalenti, allo stesso modo che le sostanze chimiche semplici
si combinano secondo determinati rapporti quantitativi,
costituendo equivalenti chimici. E' soltanto l'abitudine della vita
quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia
che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un
oggetto, cosicchè il rapporto fra le persone nel loro lavoro si
presenti piuttosto come un rapporto reciproco fra cose e fra cose
e persone. Nella merce questa mistificazione è ancor molto
semplice. Tutti più o meno capiscono vagamente che il rapporto
delle merci quali valori di scambio è piuttosto un rapporto fra le
persone e la loro reciproca attività produttiva. Nei rapporti di
produzione di più alto livello questa parvenza di semplicità si
dilegua. Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal
fatto che dall'aspetto del denaro non si capisce che esso
rappresenta un rapporto di produzione sociale, se pure nella
forma di una cosa naturale di determinate qualità. Presso gli
economisti moderni i quali sdegnano sghignazzando le illusioni
del sistema monetario, fa capolino questa medesima illusione,
non appena essi maneggino categorie economiche superiori, ad
esempio il capitale. Essa irrompe nella confessione di ingenuo
stupore quando ora appare come rapporto sociale ciò che essi
goffamente ritenevano di fissare come cosa, e ora li stuzzica di
nuovo come cosa ciò che avevano appena finito di fissare come
rapporto sociale.
Il valore di scambio delle merci, essendo infatti null'altro che il
rapporto reciproco fra i lavori dei singoli individui come lavori
uguali e generali, null'altro che l'espressione oggettuale di una
forma specificamente sociale del lavoro, è una tautologia dire che
il lavoro è l'unica fonte del valore di scambio e quindi della
ricchezza in quanto consiste di valori di scambio. E la stessa
tautologia è dire che la materia naturale come tale non contiene
valore di scambio perchè non contiene lavoro e che il valore di
scambio come tale non contiene materia naturale. Ma quando
William Petty chiama "il lavoro il padre e la terra la madre della
ricchezza", oppure quando il vescovo Berkeley domanda "se i
quattro elementi e il lavoro dell'uomo applicato ad essi non siano
la vera fonte della ricchezza", o quando l'americano Th. Cooper
spiega volgarizzando: "Togli da una pagnotta il lavoro
applicatovi, il lavoro del fornaio, mugnaio, affittuario, ecc., e che
cosa rimane? Alcuni granelli di erbe che crescono allo stato
selvatico, inservibili ad ogni uso umano", allora, in tutte queste
vedute, non si tratta del lavoro astratto come fonte del valore di
scambio, bensì del lavoro concreto come fonte di ricchezza
materiale, in breve del lavoro in quanto produce valori d'uso. Pel
fatto che il valore d'uso della merce sia presupposto, è
presupposta la particolare utilità, la determinata finalità del
lavoro consumato in essa, ma con ciò, dal punto di vista della
merce, è allo stesso tempo esaurita ogni considerazione del
lavoro come lavoro utile. Nel pane, come valore d'uso, ci
interessano le sue qualità come mezzo alimentare, non ci
interessano affatto i lavori dell'affittuario, del mugnaio, del
fornaio. Qualora per mezzo di qualche invenzione i 19/20 di
questi lavori venissero meno, la pagnotta farebbe lo stesso
servizio di prima. Qualora cadesse bell'e pronta dal cielo, non
perderebbe un atomo del suo valore d'uso. Mentre il lavoro che
crea valore di scambio si attua nell'uguaglianza delle merci come
equivalenti generali, il lavoro, come attività produttiva conforme
al fine, si attua nell'infinita varietà dei suoi valori d'uso. Mentre il
lavoro che crea valore di scambio è lavoro astrattamente
generale e uguale, il lavoro che crea valore d'uso è lavoro
concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro
infinitamente vari a seconda della forma e della materia.
E' sbagliato dire che il lavoro, in quanto produce valori d'uso, sia
l'unica fonte della ricchezza da esso prodotta, ossia della
ricchezza materiale. Siccome il lavoro è l'attività svolta per
adattare il materiale a questo o a quello scopo, il lavoro ha
bisogno della materia come presupposto. In valori d'uso differenti
la proporzione fra lavoro e materia naturale è molto differente,
pure il valore d'uso contiene un sostrato naturale. Come attività
conforme allo scopo di adattare l'elemento naturale in una forma
o nell'altra, il lavoro è condizione naturale dell'esistenza umana, è
una condizione del ricambio organico fra uomo e natura. Il
lavoro che crea valore di scambio è per contro una forma
specificamente sociale del lavoro. Il lavoro del sarto ad esempio,
nella sua proprietà materiale di particolare attività produttiva,
produce l'abito, ma non il valore di scambio dell'abito.
Quest'ultimo lo produce non in quanto lavoro di sarto, bensì in
quanto lavoro astrattamente umano, e questo rientra in un nesso
sociale che non è stato infilato dal sarto. In questo modo,
nell'antica industria domestica le donne producevano l'abito,
senza produrre il valore di scambio dell'abito. Il lavoro come
fonte di ricchezza materiale era noto tanto a Mosè legislatore
quanto all'impiegato di dogana Adam Smith.
La grandezza di valore di una merce non risente del fatto che
all'infuori di essa esistano poche o molte merci di altra specie.
Ma che la serie delle equazioni in cui il suo valore di scambio si
attua, sia maggiore o minore, dipende dalla maggiore o minore
varietà di altre merci. La serie delle equazioni in cui si esprime
per esempio il valore del caffè esprime la sfera della sua
scambiabilità, i limiti entro i quali funziona da valore di scambio.
Al valore di scambio di una merce in quanto oggettivazione del
tempo di lavoro generale sociale corrisponde l'espressione
dell'equivalenza della merce in valori d'uso infinitamente
differenti.
Abbiamo visto che il valore di scambio di una merce varia
con il variare della quantità del tempo di lavoro contenuto in
essa. Il suo valore realizzato, ossia espresso nei valori d'uso
di altre merci, deve a sua volta dipendere dalla proporzione in
cui varia il tempo di lavoro impiegato nella produzione di
tutte le altre merci. Se ad esempio rimanesse uguale il tempo
di lavoro necessario alla produzione di un moggio di grano,
mentre il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte
le altre merci raddoppiasse, il valore di scambio del moggio
di grano, espresso nei suoi equivalenti, sarebbe diminuito
della metà. Praticamente il risultato sarebbe uguale a quello
che si avrebbe se il tempo di lavoro necessario alla
produzione del moggio di grano fosse diminuito della metà e
il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre
merci fosse rimasto invariato. Il valore delle merci è
determinato dalla proporzione in cui possono essere prodotte
entro il medesimo tempo di lavoro. Per vedere a quali
possibili variazioni sia esposta questa proporzione, poniamo
il caso di due merci, A e B. Primo: supponiamo che il tempo
di lavoro richiesto per la produzione di B rimanga invariato.
In questo caso il valore di scambio di A, espresso in B,
diminuisce o aumenta nella stessa proporzione in cui
diminuisce o aumenta il tempo di lavoro necessario per la
produzione di A. Secondo: Il tempo di lavoro richiesto per la
produzione di A rimanga invariato. Il valore di scambio di A,
espresso in B, diminuisce o aumenta nella proporzione
inversa della diminuzione o dell'aumento del tempo di lavoro
richiesto per la produzione di B.Terzo: Il tempo di lavoro
richiesto per la produzione di A e B diminuisca o aumenti
nella medesima proporzione. In tal caso l'espressione di
equivalenza di A in B rimarrà invariata. Se a causa di una
circostanza qualsiasi la forza produttiva di tutti i lavori
diminuisse nella stessa misura, di modo che tutte le merci
richiedessero in ugual proporzione un aumento del tempo di
lavoro necessario alla loro produzione, sarebbe salito il valore
di tutte le merci, l'espressione reale del loro valore di scambio
sarebbe rimasta invariata, e la ricchezza reale della società
sarebbe diminuita, poichè quest'ultima avrebbe bisogno di un
tempo di lavoro maggiore per creare la medesima massa di
valori d'uso. Quarto: Il tempo di lavoro richiesto per la
produzione di A e B aumenti o diminuisca per entrambi, ma
in grado disuguale, oppure aumenti il tempo di lavoro
necessario per A mentre diminuisca quello per B, o viceversa.
Tutti questi casi possono essere ridotti semplicemente al fatto
che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una
merce rimane invariato, mentre quello delle altre aumenta o
diminuisce.
Il valore di scambio di ogni merce si esprime nel valore d'uso
di ogni altra merce, sia in unità di questo valore o in sue
frazioni. In quanto valore di scambio, ogni merce è altrettanto
divisibile quanto lo stesso tempo di lavoro che in essa è
oggettivato. L'equivalenza delle merci è indipendente dalla
loro divisibilità come valori d'uso, allo stesso modo che per
l'addizione dei valori di scambio delle merci non ha
importanza quale reale mutamento di forma subiscano i
valori d'uso di queste merci nella loro rifusione in una
sola merce nuova.
Finora la merce è stata considerata da un duplice punto di
vista, come valore d'uso e come valore di scambio, entrambe
le volte unilateralmente. Ma come merce essa è
immediatamente unità di valore d'uso e di valore di scambio;
allo stesso tempo è merce soltanto in relazione alle altre
merci. L'effettiva relazione reciproca delle merci è il
loro processo di scambio. E' questo un processo sociale che
gli individui stabiliscono indipendentemente l'uno dall'altro,
ma lo stabiliscono soltanto come possessori di merci; la loro
vicendevole esistenza dell'uno per l'altro è l'esistenza delle
loro merci, e perciò in realtà non si presentano che come
titolari consapevoli del processo di scambio.
La merce è valore d'uso, grano, tela, diamante, macchina,
ecc., ma come merce allo stesso tempo non è valore d'uso. Se
pel suo possessore fosse valore d'uso, ossia mezzo immediato
per il soddisfacimento dei suoi bisogni, non sarebbe merce.
Per lui la merce è invece non valore d'uso, cioè
semplicemente depositario materiale del valore di scambio
ossia semplice mezzo di scambio; come depositario attivo del
valore di scambio, il valore d'uso diventa mezzo di scambio.
Per il possessore la merce, è ormai valore d'uso soltanto in
quanto valore di scambio [12] . Valore d'uso essa deve quindi
cominciar a divenire, in primo luogo per altri. Siccome non è
valore per il suo possessore, è valore d'uso per i possessori di
altre merci. Se non lo è, il lavoro del possessore è stato
inutile, il suo risultato quindi non è merce. D'altra parte, deve
diventare valore d'uso per lui stesso, poichè al di fuori di
essa, nei valori d'uso di merci altrui, esistono i suoi mezzi di
sussistenza. Per diventare valore d'uso la merce deve trovarsi
di fronte quel particolare bisogno pel quale essa è oggetto di
soddisfacimento. I valori d'uso delle merci diventano quindi
valori d'uso cambiando posto in tutte le direzioni, passando
dalla mano in cui sono mezzi di scambio alla mano in cui
sono oggetti d'uso. Solo mediante questa
generale alienazione delle merci, il lavoro in esse contenuto
diventa lavoro utile. In questo progressivo riferirsi delle
merci l'una all'altra in quanto valori d'uso, esse non
acquisiscono alcuna nuova determinazione di forma
economica. Scompare, anzi, la determinazione formale che le
caratterizzava come merci. Il pane, ad esempio, passando
dalla mano del fornaio in quella del consumatore, non muta la
propria esistenza come pane. Viceversa, il consumatore è il
primo che vi si riferisca come a valore d'uso, come a quel
determinato mezzo alimentare, mentre nella mano del fornaio
il pane era l'espressione di un rapporto economico, una cosa
sensibilmente extrasensibile. L'unico mutamento formale, che
le merci subiscono nel loro divenire come valori d'uso, è
dunque l'abolizione della loro esistenza formale, in cui erano
non valore d'uso per il loro possessore, valore d'uso per il loro
non-possessore. Il divenire delle merci come valori d'uso
presuppone la loro generale alienazione, il loro entrare nel
processo di scambio, ma la loro esistenza per lo scambio è la
loro esistenza come valori di scambio. Per attuarsi quindi
come valori d'uso, devono attuarsi come valori di scambio.
Se, dal punto di vista del valore d'uso, la singola merce in
origine ci appariva come cosa autonoma, come valore di
scambio era invece considerata fin da principio in relazione a
tutte le altre merci. Questa relazione era però solo una
relazione teorica, ideale. Solo nel processo di scambio essa si
attua. D'altra parte, la merce è bensì valore di scambio in
quanto in essa è consumata una determinata quantità di tempo
di lavoro ed in quanto essa è quindi tempo di lavoro
oggettivato. Ma, in modo immediato, è soltanto tempo di
lavoro oggettivato individuale, di contenuto particolare, non è
tempo di lavoro generale. Perciò non è valore di scambio in
modo immediato, bensì deve divenire tale. In un primo tempo
non può essere che oggettivazione del tempo di lavoro
generale, alla maniera in cui esprime il tempo di lavoro in
una determinata applicazione utile, dunque in un valore d'uso.
Era questa la condizione materiale alla quale soltanto il
tempo di lavoro contenuto nelle merci era presupposto come
tempo di lavoro generale, sociale. Se dunque la merce può
divenire, come valore d'uso, soltanto attuandosi come valore
di scambio, d'altra parte può attuarsi come valore di scambio
soltanto affermandosi come valore d'uso al momento della
sua alienazione. Una merce può essere ceduta come valore
d'uso solo a colui pel quale essa è valore d'uso, ossia oggetto
di un particolare bisogno. D'altra parte la merce viene ceduta
solo in cambio di un'altra merce, ossia, ponendoci dalla parte
del possessore dell'altra merce, anche costui può alienare la
sua merce, realizzata, soltanto mettendola in contatto con il
particolare bisogno di cui essa sia l'oggetto. Nell'alienazione
generale delle merci come valori d'uso, esse vengono riferite
l'una all'altra a seconda della loro disparità materiale, in
quanto cose particolari, le quali in virtù delle loro qualità
specifiche soddisfano particolari bisogni. Ma in quanto tali
semplici valori d'uso, le merci sono esistenze indifferenti
l'una per l'altra, sono anzi prive di reciproche relazioni. In
quanto valori d'uso possono essere scambiate soltanto in
relazione a particolari bisogni. Ma sono scambiabili solo
come equivalenti, e sono equivalenti solo come uguali
quantitativi di tempo di lavoro oggettivato, cosicchè ogni
considerazione delle loro qualità naturali come valori d'uso, e
quindi del rapporto delle merci con particolari bisogni, è
cancellata. Come valore di scambio una merce funziona
invece sostituendo come equivalente una quantità comunque
determinata di qualsiasi altra merce, non importa se pel
possessore dell'altra merce essa sia valore d'uso o no. Ma per
il possessore dell'altra merce essa diventa merce solo in
quanto per lui è valore d'uso, e per il proprio possessore
diventa valore di scambio solo in quanto è merce per l'altro.
Questa relazione sarà quindi relazione delle merci in quanto
grandezze essenzialmente uguali, differenti solo
quantitativamente, sarà la loro equiparazione come
materializzazione del tempo di lavoro generale e sarà allo
stesso tempo la loro relazione come cose differenti
qualitativamente, come valori d'uso particolari per bisogni
particolari, in breve sarà la relazione che le differenzia come
reali valori d'uso. Ma questa equiparazione e differenziazione
si escludono a vicenda. Così appare non soltanto un circolo
vizioso di problemi, presupponendo la soluzione dell'uno la
soluzione dell'altro, bensì una somma di esigenze
contraddittorie, essendo l'adempimento di una condizione
vincolato immediatamente all'adempimento della condizione
opposta.
Il processo di scambio delle merci deve essere sia lo
svolgimento sia la soluzione di queste contraddizioni che in
esso non possono tuttavia essere espresse in questo modo
semplice. Abbiamo solo osservato come le merci stesse sono
riferite reciprocamente l'una all'altra come valori d'uso, cioè
come le merci entro il processo di scambio si presentano
come valori d'uso. Il valore di scambio invece, come lo
abbiamo considerato sin qui, era presente nella nostra
astrazione soltanto, o, se si vuole, nell'astrazione del singolo
possessore di merce che ha in magazzino la merce come
valore d'uso e l'ha sulla coscienza come valore di scambio.
Ma le merci stesse entro il processo di scambio devono
esistere l'una per l'altra non soltanto come valori d'uso, bensì
come valori di scambio, e questa loro esistenza apparirà come
la loro propria relazione reciproca. La difficoltà in cui subito
abbiamo inciampato era questa: per potersi esprimere come
valore d'uso, come lavoro oggettivato, la merce deve prima
essere alienata come valore d'uso, dev'essere spacciata a
qualcuno, mentre la sua alienazione come valore d'uso
presuppone viceversa la sua esistenza come valore di
scambio. Ma poniamo che questa difficoltà sia risolta.
Poniamo che la merce si sia disfatta del proprio particolare
valore d'uso e alienandolo abbia adempiuto la condizione
materiale di essere lavoro socialmente utile invece che lavoro
particolare di un uomo singolo per se stesso. Così dovrà poi,
nel processo di scambio, come valore di scambio diventare
equivalente generale, tempo di lavoro generale oggettivato,
per le altre merci ed in tal modo acquisire non più soltanto
l'effetto limitato di un particolare valore d'uso, bensì
l'immediata capacità di essere espressa in tutti i valori d'uso
quali suoi equivalenti. Ma ogni merce è la merce che in
questo modo, mediante l'alienazione del proprio particolare
valore d'uso, deve presentarsi come materializzazione diretta
del tempo di lavoro generale. Ma d'altra parte nel processo di
scambio si trovano di fronte soltanto merci particolari, lavori
di individui privati, incarnati in particolari valori d'uso. Lo
stesso tempo di lavoro generale è un'astrazione che come tale
non esiste per le merci.
Le qualità fisiche necessarie della merce particolare, nella
quale deve cristallizzarsi l'essere denaro di tutte le merci, per
quanto derivino direttamente dalla natura del valore di
scambio, sono la divisibilità a piacere, l'uniformità delle parti
e la identicità in tutti gli esemplari di questa merce. Come
materializzazione del tempo di lavoro generale, questa merce
deve essere materializzazione uniforme e capace di esprimere
differenze puramente quantitative. L'altra qualità necessaria è
la durevolezza del suo valore d'uso poichè la merce deve
durare entro il processo di scambio. I metalli nobili
posseggono queste qualità in misura eminente. Siccome il
denaro non è un prodotto di una riflessione o di un accordo,
ma è formato quasi istintivamente nel processo di scambio,
merci differenti più o meno inadatte, si sono alternate nella
funzione di denaro. La necessità subentrante a un determinato
grado dello sviluppo del processo di scambio, di distribuire
polarmente sulle merci le determinazioni di valore di scambio
e di valore d'uso in modo che una merce ad esempio figuri
come mezzo di scambio, mentre l'altra è alienata come valore
d'uso, comporta che dappertutto la merce o anche più merci
del più generale valore d'uso abbiano in un primo momento
per caso la funzione di denaro. Qualora non siano oggetto di
un bisogno esistente direttamente, la loro esistenza come
componente più importante della ricchezza dal punto di vista
materiale, assicura ad esse un carattere più generale di quel
che abbiano gli altri valori d'uso.
Il commercio di scambio immediato, forma spontanea del
processo di scambio, rappresenta piuttosto l'iniziale
trasformazione dei valori d'uso in merci che non quella delle
merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera,
è bensì ancora vincolato direttamente al valore d'uso. Questo
risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua
costruzione è diretta al valore d'uso, non al valore di scambio, ed
è quindi soltanto per l'eccedenza sulla misura in cui i valori d'uso
sono richiesti per il consumo, che essi cessano qui di essere
valori d'uso e diventano mezzi di scambio, merce. D'altra parte,
diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d'uso
diretto, sia pure distribuito polarmente, cosicchè le merci da
scambiarsi dai possessori devono essere per entrambi valori
d'uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d'uso per il suo nonpossessore. In realtà, il processo di scambio delle merci in
origine non si presenta in seno alle comunità naturali e
spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei
pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui ha
inizio il commercio di scambio e da qui si ripercuote sull'interno
della comunità, con un'azione disgregatrice. I particolari valori
d'uso che nel commercio di scambio fra le diverse comunità
diventano merci, come lo schiavo, il bestiame, i metalli,
costituiscono quindi per lo più il primo denaro in seno alle
comunità stesse. Abbiamo visto come il valore di scambio di una
merce si esprima come valore di scambio in un grado tanto più
elevato quanto più lunga è la serie dei suoi equivalenti o
quanto maggiore è la sfera dello scambio per quella merce. La
graduale estensione del commercio di scambio, l'aumento degli
scambi e la moltiplicazione delle merci entranti nel commercio di
scambio, evolvono quindi la merce in quanto valore di scambio,
sollecitano la formazione del denaro e esplicano con ciò
un'azione dissolvitrice sul commercio di scambio diretto. Gli
economisti sono soliti derivare il denaro dalle difficoltà esterne in
cui si imbatte il commercio di scambio ampliatosi, ma così
facendo dimenticano che queste difficoltà derivano dallo
sviluppo del valore di scambio e quindi risalgono al lavoro
sociale quale lavoro generale. Per esempio: le merci, in qualità di
valori d'uso, non sono divisibili a piacere, come devono esserlo
in qualità di valori di scambio. Oppure, la merce di A può essere
valore d'uso per B, mentre la merce di B non è valore d'uso per
A. Oppure, i possessori delle merci possono aver bisogno delle
loro merci indivisibili, da scambiarsi a vicenda, in proporzioni di
valore ineguali. In altre parole, con il pretesto di considerare il
commercio di scambio semplice, gli economisti si rendono conto
di certi lati della contraddizione avvolta nell'esistenza della
merce come unità immediata di valore d'uso e valore di scambio.
D'altra parte tengono fermo, coerentemente, al commercio di
scambio come forma adeguata del processo di scambio delle
merci, il quale sarebbe semplicemente legato a certi disagi tecnici
pei quali il denaro sarebbe una via d'uscita intelligentemente
escogitata. Da questo punto di vista, del tutto superficiale, un
intelligente economista inglese ha quindi sostenuto giustamente
che il denaro è uno strumento puramente materiale, come una
nave o una macchina a vapore, ma non è l'espressione di un
rapporto di produzione sociale e quindi non è una categoria
economica. Soltanto abusivamente è trattato quindi nella
economia politica, la quale infatti non ha nulla in comune con la
tecnologia.
Nel mondo delle merci è presupposta una sviluppata divisione
del lavoro, ossia quest'ultima si esprime, piuttosto, direttamente
nella molteplicità dei valori d'uso che si stanno dinanzi come
merci particolari e nei quali sono incorporati modi di lavoro
altrettanto molteplici. La divisione del lavoro, in quanto totalità
di tutti i modi particolari dell'occupazione produttiva, è la figura
complessiva del lavoro solidale considerato nel suo lato
materiale, considerato come lavoro che produce valori d'uso. Ma
come tale la divisione del lavoro esiste, dal punto di vista delle
merci e entro il processo di scambio, soltanto nel suo risultato,
nella particolarizzazione delle merci stesse.
Lo scambio delle merci è il processo entro il quale il ricambio
sociale, ossia lo scambio dei particolari prodotti di individui
privati, è allo stesso tempo creazione di determinati rapporti della
produzione sociale, nei quali gli individui entrano in questo
ricambio. Le relazioni progressive fra le merci nei confronti
dell'una con l'altra si cristallizzano come determinazioni
differenziate dell'equivalente generale, e in tal modo il processo
di scambio è allo stesso tempo processo di formazione del
denaro. L'insieme di questo processo, che appare come il decorso
di processi differenti, è la circolazione.
Tale analisi venne ripresa da Marx nel Capitale. A prima vista,
una merce sembra una cosa triviale, ovvia, scrisse nel Capitale.
Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena
di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore
d'uso, non c'è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri
dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani,
sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro
umano. E' chiaro come la luce del sole che l'uomo con la sua
attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali
naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene
trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa
sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il
tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non
solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si
mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli
molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.
Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore
d'uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di
valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano
essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica
ch'essi sono funzioni dell'organismo umano, e che tutte tali
funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono
essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi
sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla
base della determinazione della grandezza di valore, cioè la
durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro:
la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera
addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che
costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non gli
uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari
gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una
qualsiasi maniera l'uno per l'altro, il loro lavoro riceve anche una
forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del
prodotto di lavoro appena assume forma di merce?
Evidentemente, proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori
umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei
prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro
umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di
grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti
fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali
dei loro lavori, ricevono la forma d'un rapporto sociale dei
prodotti del lavoro. L'arcano della forma di merce consiste
dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli
uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio
lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel
lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi
rispecchia anche il rapporto sociale fra . Ci si ricorda che la Cina
e i tavolini cominciarono a ballare quando tutto il resto del
mondo sembrava fermo – pour encourager les autres. .
Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano
merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali.
Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico
non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso,
ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma
nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da
una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un
rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il
rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta
non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e
con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano.
Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di
un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra
gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo
involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i
prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di
vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con
gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della
mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai
prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che
quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Come l'analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere
feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale
peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d'uso
diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di
lavori privati, eseguiti indipendentemente l'uno dall'altro. Il
complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale
complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale
soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i
caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono
soltanto all'interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati
effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro
complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio
pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i
produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro
lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come
rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori,
ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra
le cose.
Solo all'interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro
ricevono un'oggettività di valore socialmente eguale, separata
dalla loro oggettività d'uso, materialmente differente. Questa
scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si
effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato
estensione e importanza sufficienti affinchè cose utili vengano
prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa
produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose.
Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono
di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili
determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale,
e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro
complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione
sociale del lavoro; dall'altro lato, essi soddisfano soltanto i
molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro
privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere
utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L'eguaglianza di
lavori differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla
loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi
posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro
astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia
a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati,
nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio
dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei
loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve
essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale
dell'eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del
carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti
che sono i prodotti del lavoro.
Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro i prodotti del loro
lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino
per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano
omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l'un con l'altro i
loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con
l'altro, come valori, nello scambio, i prodotti eterogenei. Non
sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in
fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto del
lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di
decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano
del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli
oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il
linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro,
in quanto son valori, sono soltanto espressioni materiali del
lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia
dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza
oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido
soltanto per questa particolare forma di produzione, la
produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente
sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro consiste
nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del
carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva,
tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono
impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva
come il fatto che la scomposizione scientifica dell'aria nei suoi
elementi ha lasciato sussistere nella fisica l'atmosfera come
forma corporea.”
Implicazioni teoriche e politiche. Come
emerge dalle parole di Marx, ciò che distingue in modo radicale
il pensiero di Marx da quello dei neoclassici, compreso il nostro
attuale presidente del consiglio, è che mentre per gli economisti
neoclassici il capitale è un insieme di mezzi di produzione
oppure una somma di denaro, per Marx il capitale è prima di
tutto un rapporto sociale. Ne deriva che non è possibile al cuna
riforma dall'interno del capitalismo finché non sarà abolita la
proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio.
La controrivoluzione marginalista. La teoria
marginalista abbandonava in via definitiva il concetto classico di
valore-lavoro e introduceva il concetto di utilità, che diventerà
poi con Pareto ofelimità; abbandonava il tema dello sviluppo
economico caro agli economisti classici come Smith, Ricardo.
Malthus, Torrens e introduceva il concetto di equilibrio
economico generale. Introduceva il concetto di produttività
marginale dei fattori della produzione come fondamento della
teoria della distribuzione del reddito. Infine, avviava una
progressiva matematizzazione della teoria economica che portò
allo sviluppo di una particolare disciplina chiamata matematica
per economisti. [M. Blaug Storia e critica della teoria economica,
Boringhieri. P. Pettenati, M. Crivellini L'economia politica in una
prospettiva storica, Il mulino. M. Dobb Storia del pensiero
economico, Editori Riuniti. E. Roll Storia del pensiero
economico, Boringhieri. J. Schumpeter Storia dell'analisi
economica, Boringhieri. H. Denis Storia del pensiero economico,
Il saggiatore. J. Robinson Ideologie e scienza economica,
Sansoni].
Tale teoria trovò la sua sistemazione epistemologica nel 1932,
quando, per opera di Lionel Robbins, insignito successivamente
del titolo di Lord, essa venne definita come la scienza che studia
il comportamento umano come relazione fra risorse scarse che
hanno usi alternativi. [L. Robbins Sulla natura e sull'imprtanza
della scienza economica, Utet].
Dalla definizione di Robbins, scrisse Napoleoni, discendevano
delle importanti conseguenze. La prima si riferisce al carattere
essenzialmente deduttivo della scienza economica. Tale carattere,
già teorizzato da Stuart Mill un secolo prima [J. S. Mill Alcune
questioni irrisolte dell'economia politica, Isedi], venne
riconosciuto successivamente ad essa dal Jevons.[W. S. Jevons
Teoria dell'economia politica, Utet ] La seconda conseguenza
riguarda la neutralità della scienza economica che trasforma la
stessa in una sorta di tecnica delle decisioni. La terza è connessa
con la determinazione del punto di ottimo, inteso come ottimo
paretiano di cui parleremo più avanti. [C. Napoleoni Il pensiero
economico del 900, Einaudi]
La teoria economica dell'equilibrio economico generale fu
oggetto di elaborazioni di varia natura. Qui, merita ricordare il
contributo di Leontiev e quello di Hicks. Leontief, in gioventù
aveva, partecipato al dibattito sull'industrializzazione sovietica
[N. Spulber a cura di, Il dibattito sovietico
sull'industrializzazione, Einaudi] e che ispirandosi alla teoria
walrasiana dell'equilibrio generale elaborò la sua teoria delle
interdipendenze settoriali. [W. Leontief La teoria delle
interdipendenze settoriali, Etas Kompas]
Hicks, invece, mirò nel suo capolavoro del 1938 intitolato Valore
e capitale, a dinamizzare la teoria dell'equilibrio economico
generale introducendo il concetto di equilibrio temporaneo.
Come scrisse infatti Hicks,
Ora, la ragione della sterilità del sistema walrasiano
io credo che sia dovuta al fatto che egli non ci
fornisce le leggi del cambiamento del suo sistema di
equilibro generale. Egli poté dire quali condizioni
devono essere soddisfatte dai prezzi stabiliti con date
quantità e date preferenze, ma egli non spiegò che
cosa accadrebbe se i gusti o le quantità disponibili
mutassero.
Hicks s'è guadagnato un posto nella storia del pensiero
economico contribuendo inoltre in modo fondamentale alla
creazione della cosiddetta sintesi neoclassica che aveva
trasformato la teoria keynesiana in un caso particolare della
teoria ortodossa.[J. Hicks Mr Keynes ed i classici, in R.G.
Mueller Problemi di macroeconomia, vol. III, Etas Kompass. ]
Per dirla in parole povere, la teoria economica ortodossa
funziona in condizioni di concorrenza perfetta, dove le curve di
domanda e offerta sono perfettamente elastiche per quanto
piccoli siano i movimenti dei prezzi e delle quantità. Non
funziona se si formano delle rigidità che impediscono di
realizzare l'equilibrio sui singoli mercati: in breve, mercato del
lavoro, mercato dei capitali, mercato dei beni di consumo,
mercato dei beni di investimento. Ora, se le cose stavano così, il
problema delle crisi poteva essere risolto garantendo l'elasticità
delle curve di domanda e offerta sui diversi mercati, primo fra
tutti quello dei capitali, essendo evidente che era inutile ingolfare
il mercato di capitali se le prospettive di profitto erano negative.
In tal caso, era necessario un intervento autonomo dello stato per
creare domanda aggiuntiva. [F. Caffè Politica economica,
Boringhieri]
Il modello walrasiano-paretiano. Quella che è
nota agli storici del pensiero economico come rivoluzione
marginalista si realizzò quasi 140 anni fa, quando, con una
singolare coincidenza di date, nel 1871 apparvero in Gran
Bretagna The Theory of Political Economy di William Stanley
Jevons e in Austria i Grundsätze der Volkswirtschaftslehre di
Carl Menger; tre anni più tardi, nel 1874, furono pubblicati in
Francia gli Eléments d’économie politique pure di Leon Walras.
Queste coincidenze hanno ovviamente suggerito che esistessero,
e fosse possibile rintracciare, origini storiche in qualche modo
comuni alla base della rivoluzione marginalista (filosofiche,
politiche o economiche). Il dibattito al riguardo non sembra però
aver sinora condotto ad una conclusione condivisa.
Ma in cosa consiste la rivoluzione marginalista? Detto
semplicemente, ha spiegato il professor Enrico Saltari della
Sapienza di Roma, essa consiste nella comparsa di una nuova
teoria del valore di scambio ossia di una nuova spiegazione
dei prezzi relativi, del valore di un bene in termini di un altro.
Con la teoria dei classici (i cui rappresentanti più autorevoli
furono Smith, Ricardo e successivamente Marx) il valore di
scambio di un bene veniva ricondotto al costo di produzione
espresso dal lavoro necessario a produrlo. Ora, con la
rivoluzione marginalista, l’origine del valore di un bene viene
rintracciata nella scarsità del bene medesimo ovvero nel fatto
che il bene è “utile e disponibile in quantità limitata“, per
usare la definizione di Walras. Il passo teorico decisi vo
compiuto da Jevons, Menger e Walras fu di individuare
nell’utilità marginale lo strumento analitico in grado di
misurare la scarsità e di farne con ciò stesso il fondamento
del valore, anche se, come vedremo in seguito, il solo Walras
riuscì a dedurre dall’utilità marginale una rigorosa teoria
della determinazione dei prezzi. Interpretata in questi termini,
la rivoluzione marginalista è assai meno rivoluzionaria di
quanto l’etichetta lasci trasparire. L’utilità e la scarsità
avevano già fatto la loro comparsa ben prima del 1870 come
fondamenti del valore di scambio nelle opere di molti altri
economisti. Per fare un solo accenno che ci tornerà comodo
più avanti, Auguste Walras (il padre di Leon) aveva sostenuto
più di quaranta anni prima che all’origine del valore si
trovava non il lavoro ma la rareté, con un’espressione che il
figlio riprenderà letteralmente nei suoi Elementi. Quella che
si verificò nei primi anni del 1870 con le opere di Jevons,
Menger e Walras non fu dunque affatto una trasformazione
radicale e improvvisa, come dovrebbe essere una rivoluzione.
Al contrario, la sua gestazione durò assai a lungo e impiegò
poi più di un decennio per affermarsi. Per parafrasare una
celebre definizione, se l’etichetta di rivoluzione marginalista
è appropriata, lo è assai più per l’aggettivo che non per il
sostantivo. Il motivo è che con la rivoluzione marginalista, e
l’economia marginalista che ne derivò, fece per la prima
volta la sua apparizione sulla scena della teoria economica il
calcolo differenziale per via della determinazione delle
posizioni di ottimo il cui ruolo è cruciale nella nuova teoria
del valore. Insomma, nacque il connubio oggi noto come
Economia matematica. Al centro della nuova concezione
dell’Economia si trova il consumo, colto soprattutto sul
terreno individuale, vale a dire inteso essenzialmente come
soddisfazione dei bisogni del singolo. Ne discende che un
bene in tanto ha valore ed è utile − è un bene economico −
soltanto in quanto può provvedere direttamente o
indirettamente alla soddisfazione dei bisogni. Il problema
dell’individuo è di conseguenza di ripartire le risorse a sua
disposizione tra i vari beni in modo tale che la soddisfazione
dei bisogni, e quindi l’utilità che ne ritrae, sia massima.
Guardando agli incrementi di utilità che quantità addizionali
dei diversi beni danno – l’utilità marginale appunto –
l’individuo è in grado di risolvere questo problema di
massimo, determinando così le quantità “ottime” da destinare
al consumo, tali cioè da massimizzare l’utilità. Supponiamo
per semplicità che l’individuo sia in possesso di un solo bene.
Secondo l’economia marginalista, questo bene verrà
dapprima destinato a soddisfare i bisogni più urgenti perché è
in questi impieghi che, per definizione, si ha l’utilità
maggiore. Ma a mano a mano che si utilizzano dosi
successive del bene a soddisfare questi bisogni, l’utilità che
se ne ottiene è via via minore. L’utilità marginale è cioè
decrescente. Questa è l’ipotesi cardine del marginalismo
perché implica, dal punto di vista economico e formale,
l’esistenza di una posizione di massimo. Proprio perché
l’utilità marginale è decrescente, può verificarsi che divenga
a un certo punto più conveniente destinare dosi ulteriori del
bene ad altri bisogni, magari meno impellenti in assoluto ma
che ora presentano un’utilità marginale più elevata. L’utilità
totale sarà massima quando l’allocazione del bene tra i
diversi bisogni sarà tale da renderne uguale in tutti gli
impieghi l’utilità marginale. Se così non fosse, l’individuo
non starebbe massimizzando la propria utilità: sarebbe infatti
conveniente spostare l’impiego del bene dal bisogno dove
l’utilità marginale è minore a quello in cui è maggiore,
aumentando in questo modo l’utilità totale.
Tale risultato teorico e che è alla base della nuova teoria del
valore, denominato da Walras teorema dell’utilità massima, non
fu affatto facile e scontato da raggiungere per i tre fondatori del
marginalismo. Al contrario, venne ottenuto seguendo percorsi
teorici spesso lunghi e tortuosi e soprattutto assai diversi tra loro.
Questa diversità è rilevante. Mentre Jevons e Menger partirono
dall’utilità marginale per arrivare, anche se non sempre in modo
chiaro e rigoroso, alla spiegazione del valore di scambio, Walras
seguì esattamente il percorso opposto: per Walras l’utilità
marginale fu soltanto lo strumento concettuale che dava
fondamento teorico alla teoria dello scambio e dei prezzi.
Soltanto Walras riuscì a incastonare l’utilità marginale all’interno
di quell’edificio mirabile di interrelazioni tra mercati noto oggi
come teoria dell’equilibrio economico generale. Più
precisamente, solo Walras riuscì a ricavare dal teorema
dell’utilità massima le curve individuali di domanda e offerta e a
determinare poi per aggregazione i prezzi di equilibrio.
Ripercorrere sinteticamente le tappe principali della strada
seguita da Walras per ottenere quei due risultati ci permetterà di
apprezzare qual è stato il contributo specifico della Matematica
(e dei matematici) all’Economia e quanto dell’armamentario da
lui impiegato faccia ancora parte della cassetta degli strumenti
dell’economista d’oggi.
Walras eredita dunque dal padre il concetto di rareté come
spiegazione e causa del valore di scambio. In realtà, l’eredità
che Auguste Walras lascia al figlio è assai più consistente. Per
avere un’idea di questa influenza, basti ricordare perché per
Auguste Walras il concetto di scarsità era così importante. In
un’opera pubblicata nel 1831 (De la nature de la richesse et
de l’origine de la valeur) afferma che, indagando nelle sue
ricerche filosofiche sull’origine e la natura della proprietà
privata, si era imbattuto nello studio del-l’Economia politica
e che da questo studio aveva tratto la conclusione che tra
l’Economia politica e la teoria della proprietà sussistono
rapporti assai stretti. La prima si occupa di tutti quei beni che
hanno un valore di scambio e che per ciò stesso costituiscono
la ricchezza sociale, come egli ama definirla; la seconda di
tutto ciò di cui ha senso appropriarsi, cioè di tutti i beni
“coercibili”. Ma all’origine di queste due qualità dei beni, il
valore e l’essere oggetto di appropriazione, vi è un’unica
causa, la rareté. Soltanto i beni utili ma disponibili in quantità
limitata hanno, per Auguste Walras, valore di scambio; d’altra
parte, soltanto di questi beni ha senso appropriarsi. Tuttavia,
per Auguste Walras esiste una priorità logica. Si deve iniziare
dallo studio del fenomeno del valore di scambio, per poi
considerare quello dell’appropriazione, perché è il valore a
motivare l’appropriazione, e non viceversa. Gli Elementi di
Leon Walras, a partire dalla seconda edizione (1889), recano
un sottotitolo assai meno noto che recita Teoria della
ricchezza sociale e la succinta descrizione delle
caratteristiche e dell’origine della ricchezza che abbiamo
appena dato si trova quasi negli stessi termini all’inizio degli
Elementi. Leon Walras definiva l’Economia politica come la
catallattica, ossia come la teoria del valore di scambio che
peraltro identificava esplicitamente con la teoria della
ricchezza sociale. Ciò detto, rimane il problema della
misurabilità della scarsità. Qui sta naturalmente la differenza
più rilevante tra Auguste e Leon Walras. Per il primo, la
scarsità di un bene è definita dal rapporto tra la quantità
esistente e la quantità totale desiderata dagli individui (“la
somme des besoins“). Auguste Walras ritiene che il rapporto
così costruito sia misurabile e che quindi l’Economia politica
sia una “scienza matematica”. Ma è proprio questo che non è
possibile visto che, come lo stesso Auguste Walras
riconoscerà trent’anni dopo in una lettera al figlio, non è
chiaro come possa essere misurata la somma dei bisogni non
esistendo un’unità di misura del bisogno. La ragione
immediata ed evidente dell’impossibilità di definire questa
unità è che non possiamo effettuare confronti interpersonali.
Non possiamo cioè sommare bisogni individuali per loro
natura eterogenei, perché espressi da soggetti tra loro diversi.
Per dirla in altro modo, la definizione di scarsità di Auguste
Walras non funziona perché in¬terpreta la scarsità dal punto
di vista sociale.
Questa è anche la strada intrapresa, almeno all’inizio, da Leon
Walras e su cui continua a lavorare per ben dodici anni (dal 1860
al 1872) senza riuscire a trovare una via d’uscita. W. Jaffé ha
suggerito che l’incontro “fatale” tra Economia e Matematica
avvenne nel 1872. Proprio in quell’anno Walras ha modo di
sottoporre un problema formale di cui non riesce a venire a capo
a Paul Piccard, suo collega presso l’Università di Losanna dove
insegnava Meccanica industriale e dove Walras stesso era
professore di Economia politica dal 1870.
Come si deduce da una lettera allo stesso Piccard del 1873,
Walras ha compiuto notevoli progressi nel corso di quei
dodici anni. Da un lato, ha elaborato una teoria generale dei
prezzi: nel caso dello scambio afferma che, date le curve di
domanda e le quantità esistenti dei beni, i prezzi vengono
determinati attraverso l’equilibrio di domanda e offerta.
Dall’altro, è arrivato a supporre che vi sia un’unità di misura
dell’intensità dei bisogni riferita però – questo punto è
decisivo – al singolo individuo e non all’insieme dei soggetti
che desiderano un dato bene. Insomma, Walras ipotizza che
esista una funzione di utilità individuale. Il problema cruciale
che Walras non riesce a risolvere e che sottopone a Piccard è
come si possa dedurre la funzione di domanda di un bene
dalla funzione di utilità. La risposta formale si trova in una
nota redatta dallo stesso Piccard e riprodotta nel primo dei
volumi che raccolgono la corrispondenza di Walras. Ciò che
colpisce in questa soluzione, scrisse Saltari, poi adottata da
Walras, è non solo e non tanto l’approccio analitico quanto
piuttosto che in essa si trova implicitamente la definizione
formale di scarsità, ovvero l’utilità marginale. La soluzione di
Piccard è assai semplice e si compone di una parte grafica e
una più propriamente analitica. Nella pagina linkata ne
riproponiamo una versione aggiornata.
La breve nota di Piccard contiene la soluzione al problema (posto
da Walras) di ricavare la funzione di domanda dalla funzione di
utilità: se pensiamo al prezzo p come a una costante parametrica,
la condizione del primo ordine per il problema di
massimizzazione dell’utilità permette infatti di determinare
quella che il più noto e rigoroso manuale di Microeconomia
attualmente in circolazione denomina funzione walrasiana di
domanda: possiamo cioè scrivere x = x(p) (trascurando
l’influenza della quantità posseduta dell’altro bene y). È peraltro
facile verificare che, se valgono le ipotesi walrasiane che le
utilità dei beni siano indipendenti e che la condizione del
secondo ordine sia soddisfatta, questa funzione di domanda è
decrescente rispetto al prezzo così come ipotizzava Walras.
Inoltre, consente di dare precisione formale al concetto di rareté
attraverso l’impiego del calcolo differenziale, di dare cioè un
contenuto alla definizione di rareté come “l’intensité du dernier
besoin satisfait“ che si trova negli Elementi.
Quanto di questa impostazione sopravvive ancora oggi? Per
rimanere sul terreno dei rapporti tra Economia e Matematica, ci
concentreremo sul problema della misurabilità dell’utilità, un
tema cui Walras era particolarmente sensibile e su cui decise di
sentire l’opinione di quello che era il matematico più importante
e noto dell’epoca, Henri Poincaré. Per affrontarlo, partiamo da
quella che appare come l’ipotesi meno realistica
dell’impostazione walrasiana: l’utilità di un bene non dipende da
quella dell’altro ossia i due beni sono tra loro indipendenti. A
pensarci bene, è più difficile immaginare beni indipendenti
piuttosto che beni dipendenti (complementari o succedanei che
siano). In termini formali, questa estensione implica che l’utilità
non è più separabile e che dobbiamo scrivere l’utilità totale U =
U(x,y) senza poter separare le singole utilità dei due beni. In
questo caso le utilità marginali, che indicheremo sinteticamente
con Ux e Uy, saranno delle derivate parziali in cui l’utilità
marginale del singolo bene dipende anche dalla quantità
dell’altro bene. Questa estensione tuttavia non modifica di molto
la condizione del primo ordine che ora diviene:
Ux / Uy = p.
Cambia naturalmente anche la condizione del secondo ordine
che deve tener conto dell’interdipendenza tra beni attraverso la
derivata parziale mista. Questa estensione al caso di beni
dipendenti fu effettivamente perseguita da Pareto all’inizio del
secolo scorso. La sua generalizzazione condusse tuttavia a
qualcosa di più importante: l’abbandono della misurabilità
dell’utilità e dell’ipotesi dell’utilità marginale decrescente.
Quando introduciamo l’interdipendenza tra beni, abbiamo a che
fare con tre variabili, l’utilità totale e le quantità dei due beni.
Per rappresentare il comportamento del consumatore in un
grafico a due dimensioni, Pareto suppone costante l’utilità. Si
individuano in tal modo delle curve di indifferenza, convesse
verso l’origine degli assi, che rappresentano l’insieme delle
combinazioni delle quantità dei due beni (x,y) per cui l’utilità
non varia e rispetto alle quali il consumatore è appunto
indifferente.
Si può mostrare che la posizione di ottimo del consumatore, e
quindi le quantità scelte dei due beni, è caratterizzata dalla
tangenza tra una data curva di indifferenza e il vincolo di
bilancio. Ragionando in questo modo, tuttavia, ai fini della
determinazione della posizione di ottimo non abbiamo più la
necessità di conoscere il livello dell’utilità raggiunto ma soltanto
che una combinazione di beni – (x*, y*) – è preferita alle altre.
Siamo passati da una rappresentazione cardinale dell’utilità ad
una ordinale. Con la prima, l’utilità è misurabile nel senso che è
possibile stabilire un’unità di misura della soddisfazione anche
se in senso solo soggettivo e quindi misurare l’utilità totale in
base a questa scala (come avviene per il peso, la distanza o la
temperatura). Si noti che l’unità di misura, e quindi l’utilità, è
unica a meno di una trasformazione lineare (come per chilometri
e miglia). Con la seconda, i valori assegnati all’utilità servono
soltanto a ordinare le combinazioni di beni in base alle
preferenze; l’utilità perde ogni significato quantitativo. Purché
l’ordinamento rimanga inalterato, i valori assegnati possono
cambiare: la funzione di utilità è unica a meno di una
trasformazione monotona crescente. Per cogliere questo punto,
vediamo come è possibile ricavare la condizione di ottimo prima
vista utilizzando però l’apparato delle curve di indifferenza. La
pendenza delle curve di indifferenza rappresenta il saggio di
sostituzione di y con x ed è misurata, in valore assoluto, dal
rapporto tra le utilità marginali. D’altra parte,la pendenza del
vincolo di bilancio è, sempre in valore assoluto e nel piano (x,y),
uguale al prezzo relativo p: per definizione, sul mercato
possiamo sostituire y con x pagando p. Poiché l’utilità aumenta
procedendo verso l’alto e a destra nel grafico, la posizione di
ottimo si avrà quando curva di indifferenza e vincolo di bilancio
sono tangenti. Nel punto di tangenza le due pendenze saranno
uguali e dovrà perciò valere di nuovo la condizione di ottimo, in
cui il saggio di sostituzione è uguale al prezzo. Per caratterizzare
la posizione di ottimo, l’utilità marginale (come pure l’ipotesi
che sia decrescente) non conta. Ciò che conta ai fini della
massimizzazione dell’utilità è il rapporto tra le utilità marginali,
cioè la scarsità relativa, e quindi il saggio di sostituzione tra i
due beni. Per stabilire qual è il suo paniere preferito, il
consumatore confronta quanto è disposto a “pagare” in termini
di utilità rinunciando ad un dato bene con il prezzo di mercato.
Quando la valutazione soggettiva della sostituibilità coincide
con quella oggettiva del mercato, la posizione raggiunta non è
ulteriormente migliorabile. Si noti un’altra significativa
modifica rispetto all’apparato walrasiano. Affinché la posizione
di ottimo così determinata sia effettivamente un massimo, non
abbiamo più bisogno di ipotizzare (come fece Walras) che
l’utilità marginale sia decrescente ma soltanto che le curve di
indifferenza siano convesse ovvero che il saggio di sostituzione
sia decrescente. È un’ulteriore prova del fatto che l’utilità è
misurabile ma solo in senso ordinale e non cardinale: per
determinare la posizione di ottimo, basta sapere che un paniere è
preferito ad un altro ma non di quanto.
La necessità di rinunciare all’utilità cardinale e di passare a
quella ordinale era stata anticipata da Poincaré a Walras nella
lettera dell’ottobre del 1901 riportata nel box, che afferma
esplicitamente come la funzione di utilità che rappresenta le
preferenze sia unica a meno di una trasformazione monotona
crescente. Qualunque trasformazione della funzione di utilità
che lasci invariato l’ordine delle preferenze del consumatore può
essere considerata una valida funzione di utilità. L’osservazione
di Poincaré sulla non unicità della funzione di utilità lascia
peraltro intravvedere che dietro l’utilità vi è un oggetto più
primitivo: le preferenze del consumatore, formalmente
specificate da una relazione binaria definita sull’insieme delle
alternative come (x, y) e su cui vengono imposti degli assiomi
che si ritiene definiscano il comportamento del consumatore.
L’esempio più rilevante di questi assiomi è che il consumatore
sia razionale, il che significa che è sempre in grado di scegliere
tra due alternative e che non si contraddice nelle sue scelte.
L’idea di fondo dell’approccio assiomatico del comportamento
del consumatore, quello che oggi ha finito con l’affermarsi, è
che la funzione di utilità rappresenti le preferenze specificate
dagli assiomi nel senso che dire che preferiamo una
combinazione di beni a un’altra equivale a dire che l’utilità della
prima è maggiore di quella della seconda.
Non ci dilungheremo oltre su questo punto. Aggiungiamo solo
che, se partiamo dalle preferenze e intendiamo da queste dedurre
la funzione di utilità, l’assioma di razionalità non è di per sé
sufficiente. Se vogliamo ottenere le curve di indifferenza del
grafico, occorre imporre altri assiomi sulle preferenze come la
monotonicità, la convessità, la continuità. Per Walras la questione
della misurabilità dell’utilità rimase fino alla fine una questione
cruciale. Nell’ultimo scritto pubblicato un anno prima di morire
(Économie et Mécanique, 1909) Walras sostenne l’esistenza di
una stretta analogia tra l’Economia e le “scienze fisicomatematiche”. Il principio di minimizzazione permeava tutta la
Fisica del-l’epoca. Anche se nessuno si sognerebbe di dire che le
particelle stanno consapevolmente minimizzando qualcosa, si
dice che esse hanno un comportamento che può essere descritto
come se esse agissero in modo minimizzante. Viene inoltre
introdotta la nozione di energia potenziale come un’entità non
osservabile che può essere inferita soltanto dai suoi legami teorici
con altre variabili. Qui per Walras si apre un importante parallelo
con la sua costruzione teorica. Egli sostiene che le utilità
marginali, e cioè le derivate parziali della funzione di utilità (che
non sono osservabili), sono uguali a meno di una costante di
proporzionalità ai prezzi (che sono invece osservabili). Così
come le derivate parziali della non osservabile energia potenziale
sono uguali alle componenti del vettore di forza.
In conclusione , notò Saltari, si possono citare le parole di
Poincaré: “Quando dunque ho parlato dei ‘giusti limiti’, non
era assolutamente quello che intendessi dire. Ho pensato che
all’inizio di ogni speculazione matematica ci sono delle
ipotesi e che, perché questa speculazione sia fruttuosa,
occorre, come del resto nelle applicazioni della Fisica, che ci
si renda conto di queste ipotesi. È se si dimenticasse questa
condizione che si supererebbero i giusti limiti. Per esempio,
in Meccanica si trascura spesso l’attrito e si guarda ai corpi
come infinitamente lisci. Lei guarda agli uomini come
infinitamente egoisti ed infinitamente perspicaci. La prima
ipotesi può essere accettata come prima approssimazione, ma
la seconda necessiterebbe forse di qualche cautela.” Non è
del tutto chiaro cosa intenda Poincaré quando critica l’ipotesi
di Walras che gli uomini siano “infiniment clairvoyants“. Con
ogni probabilità, si riferisce all’ipotesi che gli uomini siano
sempre in grado di calcolare la loro posizione di ottimo in
qualunque situazione per quanto complessa e quindi che
siano perfettamente razionali. È in ogni caso del tutto
evidente che, qualunque sia l’interpretazione, Poincaré
solleva un problema di realismo delle ipotesi alla base della
teoria walrasiana. Il problema nasce proprio dal tentativo di
Walras (e più in generale del marginalismo) di
“matematizzare” l’Economia inducendolo a fare ipotesi,
come quella della perfetta razionalità, al fine di ottenere
risultati formali. Sarebbe fin troppo facile concludere con
questa accusa a Walras, di degenerazione nell’uso della
Matematica e di scarso realismo, notando che a tutt’oggi
pochi progressi sono stati fatti su questo terreno. Le critiche
alla scarsità di realismo sono oggi amplificate dalla crisi
finanziaria che ha riacceso il dibattito sulle (in)capacità
previsive dell’Economia attribuite all’uso “eccessivo” dei
modelli matematici.
Critica del modello walrasiano. Walras non si
occupò solo di economia matematica, ma si occupò anche di
scienze sociali. Famosa è la sua tripartizione operata da Walras
della materia economica in: lo studio delle leggi naturali del
valore di scambio ovvero la teoria della ricchezza sociale; lo
studio dell'economia applicata; lo studio dell'economia sociale.
[L. Walras Teoria generale della società, Archivio Rizzi, Firenze]
Tale distinzione, introdotta da Ricardo nei Principi con la sua
definizione di economia come la scienza che si occupa della
distribuzione del reddito nazionale, venne rielaborata da Stuart
Mill nei Principi di economia. Per Stuart Mill, mentre era
impossibile modificare le leggi della produzione che dovevano
essere considerate alla stregua di leggi naturali, si poteva agire a
livello sociale al fine di migliorare le condizioni delle classi
subalterne. [L. Robbins La teoria della politica economica nella
economia politica classica inglese, Utet] Tant'è che lo stesso
Walras amava definirsi liberale in economia e socialista in
politica.
La teoria dell'equilibrio economico generale considera il lavoro
alla stregua d'un normale fattore della produzione e per tale via
esso deve essere retribuito allo stesso modo degli altri fattori
della produzione, cioè, sulla base della produttività marginale.
[K. Wicksell La produttività marginale come fondamento della
distribuzione in economia, in G. Lunghini, a cura di, Valore,
prezzi, equilibrio economico generale, il Mulino].
Il modello può essere così sintetizzato. Il salario si forma sul
mercato del lavoro in base al gioco della domanda ed offerta, a
dire, più alti sono i salari, maggiore è l'offerta di lavoro; minori
sono i salari, minore è l'offerta di lavoro. La domanda di lavoro
dipende dall'andamento del mercato dei beni ai quali è destinata
la produzione.
La domanda dei beni è determinata dal grado di soddisfazione
dei bisogni che determina il livello raggiunto dall'utilità
marginale. In condizioni di equilibrio, il rapporto fra le utilità
marginali dei beni consumati è uguale al rapporto fra i prezzi dei
beni sul mercato.
Ora il problema è che il lavoratore non è un operatore economico
qualsiasi, egli è costretto a lavorare perché non ha altre fonti di
reddito e non può prendersi il lusso di seguire i principi della
psicologia economica del marginalismo. [R. Solow Il mercato del
lavoro come istituzione sociale, Il mulino]
Analoga osservazione può essere fatta per quello che riguarda la
teoria neoclassica della distribuzione del reddito. Se più d'un
fattore partecipa alla produzione, la loro produttività marginale è
l'unico criterio oggettivamente possibile per determinare la
distribuzione del reddito. [E. Screpanti Teorie della distribuzione,
Etas Kompas]
In realtà, come scrisse Marx in Teorie del plusvalore, il capitale
altro non è che lavoro accumulato, lavoro morto che sfrutta
lavoro vivo, potenza della produzione che si erge contro il
produttore, l'operaio che con il suo lavoro produce il plusvalore
che serve a valorizzare il capitale che lo lega al proprio lavoro. In
altre parole, per Marx, parlare di produttività del capitale è un
non-senso, fa parte del gioco degli specchi creato dall'alienazione
capitalistica che trasforma il creatore del valore, l'operaio, in
servitore del capitale che egli, con il suo lavoro ha contribuito a
creare. Come Marx scrisse in Teorie del plusvalore,
La produttività del capitale consiste nella costrizione a fornire
plus-lavoro, a lavorare in misura superiore alle necessità
immediate, una costrizione che il modo di produzione
capitalistico ha in comune con i modi di produzione precedenti,
ma che esso esercita, realizza in maniera più favorevole alla
produzione.
Fondamentale, in questo processo è l'uso delle macchine alle
quali è affidato il compito di aumentare la produzione di
plusvalore relativo. Come Marx scrisse in Il capitale:
Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione
prende come punto di partenza la forza-lavoro scrisse Marx
nel Capitale; nella grande industria, il mezzo di lavoro.
Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il
mezzo di lavoro viene trasformato da strumento in macchina,
oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento
del lavoro artigiano. Qui si tratta soltanto di grandi tratti
caratteristici generali, poiché né le epoche della geologia né
quelle della storia della Società possono esser divise da linee
divisorie astrattamente rigorose.
I matematici e i meccanici — e qua e là qualche economista
inglese ripete la cosa — dichiarano che lo strumento di
lavoro è una macchina semplice e che la macchina è uno
strumento composto: in ciò non vedono nessuna differenza
sostanziale, e chiamano macchine perfino le potenze
meccaniche elementari, come la leva, il piano inclinato, la
vite, il cuneo, ecc Di fatto tutte le macchine consistono di
quelle potenze elementari, qual ne sia il travestimento e la
combinazione. Tuttavia dal punto di vista economico la
spiegazione non vale niente, perché vi manca l’elemento
storico. Da un’altra parte, la distinzione fra strumento e
macchina viene cercata nel fatto che nello strumento la forza
motrice è l’uomo, nella macchina una forza naturale
differente dall’uomo: ad esempio, animali, acqua, vento, ecc.
Da questo punto di vista, l’aratro tirato dai buoi, che
appartiene alle più differenti epoche della produzione,
sarebbe una macchina, e il circular loom (Telaio circolare)
del Claussen, che, mosso dalla mano di un solo operaio,
esegue novanta- seimila maglie al minuto, sarebbe un
semplice strumento. Anzi lo stesso loom sarebbe strumento,
se mosso a mano, e macchina, se mosso a vapore. Poichè
l’uso della forza animale è una delle più antiche invenzioni
dell’umanità, la produzione a macchina precederebbe di fatto
quella artigianale. Quando John Wyatt nel 1735 annunciò la
sua macchina per filare, e con essa la rivoluzione industriale
del secolo XVIII, non accennò neppure con una parola che la
macchina non fosse mossa da un uomo ma da un asino;
tuttavia questa parte toccò all’asino. Il programma del Wyatt
suonava: una macchina « per filare senza dita».
Ogni macchinario sviluppato consiste di tre parti
sostanzialmente differenti, macchina motrice, meccanismo di
trasmissione, e infine macchina utensile o macchina
operatrice. La macchina motrice opera come forza motrice di
tutto il meccanismo. Essa o genera la propria forza motrice,
come la macchina a vapore, la macchina ad aria calda, la
macchina elettromagnetica, ecc., oppure riceve l’impulso da
una forza naturale esterna, già esistente, come la ruota ad
acqua dalla caduta d’acqua, l’ala d’un mulino a vento dal
vento, ecc. Il meccanismo di trasmissione composto di
volanti, alberi di trasmissione, ruote dentate, pulegge, assi,
corde, cinghie, congegni e apparecchi di ogni genere, regola
il movimento, ne cambia, quand’è necessario, la forma, per
esempio, da perpendicolare in circolare, lo distribuisce e lo
trasmette alle macchine utensili. Queste due parti del
meccanismo esistono solo allo scopo di comunicare alla
macchina utensile il moto per il quale essa afferra e trasforma
come richiesto l’oggetto del lavoro. Da questa parte del
macchinario, dalla macchina utensile, prende le mosse la
rivoluzione industriale del secolo XVIII; ed essa costituisce
ancora sempre di nuovo il punto di partenza tutte le volte che
una industria artigianale o manifatturiera trapassa in industria
meccanica.
Se ora consideriamo più da vicino la macchina utensile o
macchina operatrice vera e propria, vediamo ripresentarsi,
tutto sommato, se pure spesso in forma assai modificata, gli
apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l’artigiano e
l’operaio manifatturiero; ora però non più come strumenti
dell’uomo, ma come strumenti d’un meccanismo o strumenti
meccanici. O è tutta la macchina che si riduce a una edizione
meccanica, più o meno modificata, del vecchio strumento del
mestiere artigiano, come nel telaio meccanico; oppure gli
organi operanti applicati allo scheletro della macchina
operatrice sono vecchie conoscenze, come i fusi nella filatrice
meccanica, come gli aghi nel telaio del calzettaio, le lame
dentate nella segheria meccanica, i coltelli nella triturazione
meccanica, ecc. La differenza fra questi strumenti e il corpo
della macchina operatrice in senso proprio risale alla loro
nascita. Infatti essi vengono ancor oggi prodotti per la
maggior parte da lavoro di tipo artigiano o manifatturiero, e
solo in seguito vengono fissati al corpo della macchina
operatrice, che è prodotto a macchina. la macchina utensile è
un meccanismo il quale, dopo che gli sia stato comunicato il
moto corrispondente, compie con i suoi strumenti le stesse
operazioni che prima erano eseguite con analoghi strumenti
dall’operaio. Ora, la sostanza della cosa non cambia, sia che
la forza motrice provenga dall’uomo, sia che provenga
anch’essa a sua volta da una macchina. Dopo che lo
strumento in senso proprio è stato trasmesso dall’uomo ad un
meccanismo, al puro e semplice strumento subentra una
macchina. Anche se l’uomo stesso rimane ancora primo
motore, la differenza balza subito agli occhi. Il numero di
strumenti di lavoro coi quali l’uomo può operare
contemporaneamente è limitato dal numero dei suoi strumenti
naturali di produzione, cioè dei suoi organi corporei. In
Germania s’era provato, prima a far muovere due filatrici a
ruota da un solo filatore, cioè di farlo lavorare
contemporaneamente con le due mani e i due piedi: ciò era
troppo faticoso; poi s’inventò una filatrice a pedale con due
fusi, ma i virtuosi della filatura che riuscissero a filare due fili
allo stesso tempo erano rari quasi quanto gli uomini con due
teste. Invece la jenny filato fin da principio con dodici fino a
diciotto fusi, il telaio da calzettaio ammaglia con molte
migliaia di aghi per volta, ecc. Da bel principio il numero
degli strumenti coi quali la stessa macchina utensile lavora
simultaneamente è emancipato dal limite organico che
restringe l’uso dello strumento artigiano da parte
dell’operaio.
La distinzione fra l’uomo come pura e semplice forza motrice
e l’uomo come operaio che manovra il vero e proprio
operatore, possiede una esistenza tangibilmente particolare in
molti strumenti artigiani. Per esempio, nel filatoio a mulinello
il piede opera soltanto come forza motrice, mentre la mano
che lavora al fuso, trae e torce, compie la vera e propria
operazione della filatura. La rivoluzione industriale
s’impadronisce per prima proprio di quest’ultima parte dello
strumento artigiano lasciando all’uomo, oltre al nuovo lavoro
consistente nel sorvegliare con l’occhio la macchina e nel
correggerne con la mano gli errori, ancora in un primo
momento, la funzione puramente meccanica di forza motrice.
Invece gli strumenti pei quali l’uomo agisce fin da principio
soltanto come semplice forza motrice, come per esempio nel
girare il manubrio d’una macina nel pompare, nell’alzare ed
abbassare le braccia d’un mantice, nel pestare in un mortaio,
provocano certo per primi l’uso di animali, dell’acqua e del
vento come forze che danno movimento. In parte entro il
periodo manifatturiero, e sporadicamente già molto prima di
esso, questi strumenti si stirano fino a diventare macchine,
ma non rivoluzionano il modo di produzione. Nel periodo
della grande industria si vede che anche nella loro forma di
tipo artigianale essi sono già macchine. Per esempio le
pompe, con le quali gli olandesi prosciugarono nel 1836-37 il
lago di Hariem, erano costruite secondo il principio delle
pompe comuni; solo che, invece di braccia umane, erano
ciclopiche macchine a vapore a muovere i pistoni. In
Inghilterra il mantice comune e molto imperfetto del
magnano viene ancora a volte trasformato in pompa
pneumatica meccanica per mezzo del semplice collegamento
del suo braccio con una macchina a vapore. La stessa
macchina a vapore, come è stata inventata alla fine del secolo
XVII durante il periodo della mani fattura e come ha
continuato ad esistere fino al principio del decennio 17801790, non, ha provocato nessuna rivoluzione industriale. È
stato piuttosto il fenomeno inverso, la creazione delle
macchine utensili, che ha reso necessario rivoluzionare la
macchina a vapore. Appena l’uomo agisce ormai soltanto
come forza motrice di una macchina utensile invece di agire
con il suo strumento sull’oggetto del lavoro, il travestimento
della forza motrice in muscoli umani diventa un fatto casuale,
e al suo posto può subentrare il vento, l’acqua, il vapore, ecc.
Ciò non esclude naturalmente che tale cambiamento non
richieda spesso grandi modificazioni tecniche del
meccanismo originariamente costruito per la sola forza
motrice umana. Oggi tutte le macchine che debbono ancora
cominciare a farsi strada, come le macchine per cucire, le
macchine per impastare il pane, ecc., vengono costruite
contemporaneamente per forza motrice umana e per forza
motrice puramente meccanica quando non escludano fin da
principio, per la loro stessa destinazione, d’esser costruite su
piccola scala.
La macchina, dalla quale prende le mosse la rivoluzione
industriale, sostituisce l’operaio che maneggia un singolo
strumento con un meccanismo che opera in un sol tratto con una
massa degli stessi strumenti o di strumenti analoghi, e che viene
mosso da una forza motrice unica, qualsiasi possa esserne la
forma. Ecco la macchina, ma per il momento solo come
elemento semplice della produzione di tipo meccanico.
L’ampliamento del volume della macchina operatrice e del
numero dei suoi strumenti che operano contemporaneamente,
richiede una macchina motrice più massiccia, e questa
richiede a sua volta, per vincere la propria resistenza, una
forza motrice più potente di quella umana, astraendo dal fatto
che l’uomo è un imperfettissimo strumento di produzione di
moto uniforme e continuo. Presupponendo che l’uomo agisca
ormai soltanto come semplice forza motrice, e che quindi al
posto del suo strumento sia subentrata una macchina utensile,
ci sono forze naturali che lo possono sostituire anche come
forza motrice. Di tutte le grandi forze motrici tramandate dal
periodo della manifattura la peggiore era quella del cavallo,
in parte perché il cavallo ha la testa, a modo suo, in parte
perché è caro e può essere usato nelle fabbriche solo in
misura limitata. Tuttavia il cavallo è stato spesso usato
durante l’infanzia della grande industria, come ci attesta già,
oltre le lamentele degli agronomi di quell’epoca, l’uso
tramandato fino a noi di esprimere la forza meccanica in «
cavalli ». Il vento era troppo incostante e incontrollabile;
inoltre l’applicazione della forza idraulica predominava già
durante il periodo della manifattura in Inghilterra, paese di
nascita della grande industria.
La rivoluzione tayloristica. La trasformazione del
macchinismo industriale dalle macchine utensili ai robot
industriali, ha comportato un mutamento nell'organizzazione del
lavoro dalle prime forme rudimentali di divisione del lavoro alla
catena di montaggio, dalla catena di montaggio alle “isole” , dal
fordismo al toyotismo al post-fordismo, che hanno visto, da un
lato un aumento della produttività del lavoro; dall'altro lato, ha
visto aumentare lo sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori,
ovvero, ha visto inasprirsi il processo di estrazione del plusvalore
relativo. [F. Pollock Automazione, Einaudi. H. Braverman lavoro
e capitale monopolistico, Einaudi, A. Negri Il lavoro nel
Novecento, Mondadori]
In questo quadro si colloca il fordismo il quale, per Gramsci,
come l'americanismo, risultavano
dalla necessità di giungere all'organizzazione di una
economia programmata
Il fordismo, a sua volta non avrebbe mai potuto affermarsi senza
l'opera di Frederik Taylor. Fu infatti Taylor a razionalizzare il
processo di estrazione del plusvalore attraverso l'introduzione di
un genere di organizzazione del lavoro basata su una rigida
fissazione dei tempi e dei metodi effettuata con precisione
cronometrica. [B. Coirat La fabbrica e l'orologio, Feltrinelli].
These new duties are grouped under four heads, scrisse Taylor.
First. They develop a science for each element of a man’s work,
which replaces the old rule-of” thumb method.Second. They
scientifically select and then train, teach, and develop the
workman, whereas in the past he chose his own work and trained
himself as best he could.Third. They heartily cooperate with the
men so as to insure all of the work being done in accordance
with the principles of the science which has been developed.
Fourth. There is an almost equal division of the work and the
responsibility between the management and the workmen. The
management take over all work for which they are better fitted
than the workmen, while in the past almost all of the work and
the greater part of the responsibility were thrown upon the men.
It is this combination of the initiative of the workmen, coupled
with the new types of work done by the management, that makes
scientific management so much more efficient than the old plan.
Three of these elements exist in many cases under the so-called
management of “initiative and incentive,” in a small and
rudimentary way, but they are, under this management, of minor
importance, whereas under scientific management they form the
very essence of the whole system.
The fourth of these elements, “an almost equal division of the
responsibility between the management and the workmen,”
requires further explanation. The philosophy of the management
of “initiative and incentive” makes it necessary for each
workman to bear almost the entire responsibility for the general
plan as well as for each detail of his work, and in many cases for
his implements as well. In addition to this he must do all of the
actual physical labor. The development of a science, on the other
hand, involves the establishment of many rules, laws, and
formulae which replace the judgment of the individual workman
and which can be effectively used only after having been
systematically recorded, indexed, etc. The practical use of
scientific data also calls for a room in which to keep the books,
records, and a desk for the planner to work at. Thus all of the
planning which under the old system was done by the workman,
as a result of his personal experience, must of necessity under
the new system be done by the management in accordance with
the laws of the science; because even if the workman was well
suited to the development and use of scientific data, it would be
physically impossible for him to work at his machine and at a
desk at the same time. It is also clear that in most cases one type
of man is needed to plan ahead and an entirely different type to
execute the work.
The man in the planning room, whose specialty under scientific
management is planning ahead, invariably finds that the work
can be done better and more economically by a subdivision of
the labor; each act of each mechanic, for example, should be
preceded by various preparatory acts done by other men. And all
of this involves, as we have said, “an almost equal division of
the responsibility and the work between the management and the
workman.”
To summarize: Under the management of “initiative and
incentive” practically the whole problem is “up to the workman,”
while under scientific management fully one-half of the problem
is “up to the management.”
Perhaps the most prominent single element in modern scientific
management is the task idea. The work of every workman is fully
planned out by the management at least one day in advance, and
each man receives in most cases complete written instructions,
describing in detail the task which he is to accomplish, as well as
the means to be used in doing the work. And the work planned in
advance in this way constitutes a task which is to be solved, as
explained above, not by the workman alone, but in almost all
cases by the joint effort of the workman and the management.
This task specifies not only what is to be done but how it is to be
done and the exact time allowed for doing it. And whenever the
workman succeeds in doing his task right, and within the time
limit specified, he receives an addition of from 30 per cent. to
100 per cent. to his ordinary wages. These tasks are carefully
planned, so that both good and careful work are called for in their
performance, but it should be distinctly understood that in no
case is the workman called upon to work at a pace which would
be injurious to his health. The task is always so regulated that the
man who is well suited to his job will thrive while working at this
rate during a long term of years and grow happier and more
prosperous, instead of being overworked. Scientific management
consists very largely in preparing for and carrying out these
tasks.
The writer is fully aware that to perhaps most of the readers of
this paper the four elements which differentiate the new
management from the old will at first appear to be merely highsounding phrases; and he would again repeat that he has no idea
of convincing the reader of their value merely through
announcing their existence. His hope of carrying conviction rests
upon demonstrating the tremendous force and effect of these four
elements through a series of practical illustrations. It will be
shown, first, that they can be applied absolutely to all classes of
work, from the most elementary to the most intricate; and
second, that when they are applied, the results must of necessity
be overwhelmingly greater than those which it is possible to
attain under the management of initiative and incentive.
The first illustration is that of handling pig iron, and this work is
chosen because it is typical of perhaps the crudest and most
elementary form of labor which is performed by man. This work
is done by men with no other implements than their hands. The
pig-iron handler stoops down, picks up a pig weighing about 92
pounds, walks for a few feet or yards and then drops it on to the
ground or upon a pile. This work is so crude and elementary in its
nature that the writer firmly believes that it would be possible to
train an intelligent-gorilla so as to become a more efficient pigiron handler than any man can be. Yet it will be shown that the
science of handling pig iron is so great and amounts to so much
that it is impossible for the man who is best suited to this type of
work to understand the principles of this science, or even to work
in accordance with these principles without the aid of a man
better educated than he is. And the further illustrations to be
given will make it clear that in almost all of the mechanic arts the
science which underlies each workman’s act is so great and
amounts to so much that the workman who is best suited actually
to do the work is incapable (either through lack of education or
through insufficient mental capacity) of understanding this
science. This is announced as a general principle, the truth of
which will become apparent as one illustration after another is
given. After showing these four elements in the handling of pig
iron, several illustrations will be given of their application to
different kinds of work in the field of the mechanic arts, at
intervals in a rising scale, beginning with the simplest and ending
with the more intricate forms of labor.
One of the first pieces of work undertaken by us, when the writer
started to introduce scientific management into the Bethlehem
Steel Company, was to handle pig iron on task work. The
opening of the Spanish War found some 80,000 tons of pig iron
placed in small piles in an open field adjoining the works. Prices
for pig iron had been so low that it could not be sold at a profit,
and it therefore had been stored. With the opening of the Spanish
War the price of pig iron rose, and this large accumulation of iron
was sold. This gave us a good opportunity to show the workmen,
as well as the owners and managers of the works, on a fairly
large scale the advantages of task work over the old-fashioned
day work and piece work, in doing a very elementary class of
work.
L'ottimo paretiano. Vilfredo Pareto introdusse, come
abbiamo visto, il concetto di ofelimità, l'uso delle curve di
indifferenza, il concetto di ottimo che porta ancora il suo nome;
cosicché, a ragion veduta si può parlare di sistema walrasianoparetiano. Secondo Pareto esisteva un unico punto di ottimo
definito come quel punto allontanandosi dal quale non può
migliorare la posizione di uno senza peggiorare di posizione di
altri. [V. Pareto Manuale di economia, Studio Tesi]
Ora, anche accettando l'affermazione di Pareto sull'unicità del
punto di ottimo – definito come quel punto dal quale non ci si
può allontanare senza favorire alcuni e sfavorire altri - rimane il
fatto che esisterebbe pur sempre la possibilità della creazione
d'una divergenza fra efficienza economica privata ed efficienza
economica sociale; tra benessere economico e benessere
complessivo [C. Pigou Economia del benessere, Utet]
Ovvero, come scrisse Tjalling Koopmans [T. Koopmansn Tre
saggi sullo stato della scienza economica, Liguori],
Un equilibrio concorrenziale, anche se costituisce un ottimo
paretiano, può comportare una distribuzione del reddito più
diseguale di quanto è ritenuto desiderabile socialmente. Il
concetto di ottimo paretiano è insensibile a questa
considerazione ed a questo proposito il termine ottimo è infelice.
Sulla medesima falsariga, si muoveva l'obiezione di Samuelson il
quale notava che [P. Samuelson Fondamenti di analisi
economica, Il saggiatore]:
La più importante critica all'esposizione di Pareto consiste nel
fatto che un punto di ottimo non è un punto unico
e l'obiezione di Dobb, il quale scrisse che [M. Dobb Economia
del benessere, economia socialista, Editori Runiti]:
Il massimo che [la formulazione di Pareto] definisce è un
massimo condizionale e non definisce una posizione univoca
L'economia del benessere, nata per ovviare questo problema, non
ebbe fortuna. [F. Caffè Saggi sulla moderna economia del
benessere, Boringhieri]. Il motivo è che alla radice del problema
della distribuzione ci sono i rapporti capitalistici di produzione di
cui le leggi della distribuzione sono l'altra faccia. Ciò rende
impossibile la definizione d'una funzione del benessere collettivo
che soddisfi le legittime aspettative di tutti i soggetti sociali. [F.
Caffè Politica economica, Borighieri]
Il marginalismo sovietico. In tempi recenti sulla
scorta della crisi della pianificazione sovietica, si formò in Urss
una scuola che ispirò la propria ricerca ai principi della scuola di
Losanna. Il capo riconosciuto di questa scuola fu Kantorovic, il
quale, fin dagli anni 1930, sviluppò a Leningrado una nuova
teoria matematica che rielaborava i concetti cardine della scuola
di Losanna, a dire, del modello walrasiano-paretiano. Il più
famoso dei suoi allievi fu Valentin Novozilov [C. Boffito
Efficienza economica e rapporti sociali di produzione, Einaudi].
L'applicazione al socialismo del modello walrasiano-paretiano
non funzionò. Come scrisse infatti Little in Una critica della
economia del benessere [I. Little Una critica dell'economia del
benessere, Isedi],
Il modello socialista dei marginalisti costituisce un sistema
formale di deduzioni la cui applicabilità è altamente dubbia
anche in uno stato assolutista
Per il resto vale quello che è stato scritto da Michael Ellman, e
cioè che l'adesione degli economisti sovietici ai principi della
scuola di Losanna, era più una sconfitta delle speranze di
rinnovamento del sistema sovietico che il tentativo d'un suo
ammodernamento [M. Ellman Soviet Planning Today, Cambrdge
University Press]
La critica di Schumpeter. Malgrado l'atteggiamento
critico nei confronti di Marx, Schumpeter è molto più marxista di
quello che egli pensasse. Schumpeter non accetta, infattti, la
rappresentazione dell'economia reale che offerta dall'economia
ortodossa, l'economia, come egli la chiamò, del flusso circolare.
Tale economia non spiega infatti il fenomeno dello sviluppo. Per
Schumpeter occorreva abbandonare il modello del flusso
circolare e occorreva focalizzare invece l'attenzione sul
fenomeno dello sviluppo economico. Tale fenomeno era da
considerarsi come un processo che aveva come elemento
fondamentale l'innovazione, introdotta dall'imprenditore
innovatore. L'innovazione poteva essere di di prodotto, di
processo e con il suo ciclo determinava il ciclo economico. [J.
Schumpeter La teoria dello sviluppo economico, Sansoni]
Altro elemento fondamentale della teoria di Schumpeter è il
credito creato dalle banche, senza le quali il processo di sviluppo
si bloccherebbe. Infine, va sottolineato che l'innovazione
comporta l'introduzione di una nuova curva di produzione; non di
un movimento lungo la curva, perciò si tratta. Schumpeter
sviluppò questa teoria in Cicli economici, un'opera monumentale
pubblicata nel 1939; in essa, Schumpeter notava che
Il nostro sistema economico non è un sistema puro ma in piena
trasformazione verso qualcos'altro, cosicché non è sempre
possibile descriverlo con un modello analitico coerente sotto il
punto di vista logico.
Come Schumpeter scrisse nel 1935 su The Review of Economic
Studies in un artcolo intitolato L'analisi del mutamento
economico,
Con il termine sviluppo indichiamo i cambiamenti nei dati
economici che avvengono continuamente nel senso di un
aumento o di una diminuzione per unità di tempo. Questi
cambiamenti sono irreversibili e sono il prodotto delle
innovazioni, le quai sono cambiamenti della funzione di
produzione di produzione che non possono essere scomposti in
cambiamenti infinitesimi lungo la curva che rappresenta la
funzione di produzione.
Tale concetto venne sviluppato da Schumpeter in Cicli economici
del 1939. Nel libro, Schumpeter notava che il progresso tecnico è
l'essenza dell'impresa capitalistica e non può essere separato da
essa. Esso può essere rallentato dalla monopolizzazione
dell'economia e dalla sua conseguente burocratizzazione che
svigorisce l'impulso ad innovare tipico dell'imprenditore
individuale. [J. Schumpeter Capitalismo, socialismo, democrazia,
Etas Kompas]
Tale figura, che fu al centro del pensiero di Schumpeter, entrò in
scena con Richard Cantillon il quale nel suo Saggio sulla natura
del commercio in generale del 1754 dedicò alla figura
dell'imprenditore alcune famose pagine. [R. Cantilllon Sulla
natura del commercio in generale, Einaudi]
La critica di Paul Mattick. Recently the editors
of Common Sense have once more dealt with the “unscientific
character” of Marxism by pointing out that, scrsse Mattick:
“Ricardo’s labor theory of value, taken over by Marx and
embellished with the theory of surplus value, was abandoned
long ago by all but Marxist economists, and a whole branch of
‘marginal utility’ economics developed, of which Marx could
know nothing ... that even in the Soviet Union (so far as Five
Year Plans go, if not at the Marx-Engels Institute) marginal
utility economics have displaced the useless and misleading
Marxian economics.”
However, what is brought forward here as an argument against
Marxism is in reality only another confirmation of it. Certainly,
the Russian state-capitalism, in which class relations are
continued, cannot employ the Marxian science, for this science
consists of nothing but the critique of those selfsame capitalistic
conditions, which characterize Russia and every other capitalistic
country. For the purpose of justifying the exploitation of the
workers, the inequalities of income, and the accumulation of
capital that exists there, the Marxian economic theories are
certainly useless. What Marx had said [2] of the science of
bourgeois economy — namely, that it reached its limits with
Ricardo because,
“He consciously made the antagonism of class interests, of
wages and profits, of profits and rents, the starting point of his
investigation,”
holds equally true for Russian economic “science.” The
continued class society forces Russian economic theory to
embrace those ideological weapons of bourgeois society which
appears as economic theory, and to attempt to destroy even that
kernel of truth contained in Classical economy, which served
with Marxists as a basis of attack upon the whole capitalistic
society.
The development of marginal utility economics is closely
connected with the difficulty of the proponents of the classical
theory to confute Marxist theories, as both the Classicists and the
Marxists based their argument on the same objective value
concept. The marginal utility school arose in defense of
capitalism, and its apology consisted in the construction of a
value concept which justified the prevailing class and income
differentiations. The existing inequalities based on the
exploitation of labor were explained as an
undefeatable natural law of diminishing utility. This theory, as
was so well stated by C. E. Ayres,
“Only undertakes to demonstrate under any given conditions of
income distribution the automatic achievement of the maximum
total of human satisfaction: the greatest good of all. Even so, this
poor-little-rich-girl notion which proposes to balance the surfeit
of the rich against the precarious existence of the poor is so
extravagantly complacent that most economists have hesitated to
give it clear and unequivocal expression.”
Though single concepts of this theory were adopted by
economists of other schools, nevertheless, as a general theory, it
was slowly abandoned. The Neo-Classicists, for instance, did not
bother themselves any longer with questions as to the desirability
or the justification of the prevailing economic system: they
simply took for granted that it was the best possible one, and
merely tried to find means of making it more efficient, a
condition which forced them to restrict themselves, as far as
market phenomena were concerned, to mere price considerations.
The value concept was displaced by a cost-of-production theory,
which the Neo-Classicists thought sufficient to explain the
existing division of wealth.
However, the question of utility was raised anew in relation to
the problem of the allocation of resources in a socialist
economy and it was pointed out that even with an acceptance of
the labour theory of value, the question of demand must be dealt
with. It is clear that no society can prevail which entirely
disregards the real needs of its people; that production is
impossible unless men are able to eat and work.
“Every child knows, too, that the mass of products
corresponding to the different needs require different and
quantitatively determined masses of the total labor of society.
That this necessity of distributing social labor in definite
proportions cannot be done away with by the particular form of
social production, but can only change the form it assumes, is
self-evident.”
However, the question of the allocation of resources to meet
demand and in the interest of economy as it is raised in modern
economic theory has no connection with the simple and direct
statement of Marx just quoted, but is determined by class
considerations based on a particular form in which the union of
labor and the means of production is accomplished.
In Russia, as elsewhere, the means of production are not
controlled by the workers but are the monopoly of a special
group in society. In the relations of the workers to the means of
production, no difference exists between a private property
society and a state-capitalist system. The position of the Russian
bureaucracy to its workers is exactly the same as that of the
individual entrepreneur to his. The first need of that bureaucracy
is to safeguard its own position in order to develop industry and
agriculture. Whatever else this bureaucracy may do, it has first of
all to “plan” its own security, and then to proceed to “plan” life
for the rest of the population. This is recognized not only by the
present and supposedly “degenerated” Russian bureaucracy, but
was clear also to the “founders” of the Russian state-capitalist
system.
“As a general rule,” Trotsky has said, “man strives to avoid
labor. The problem before the social organization is just to bring
‘laziness’ within a definite framework, to discipline it, and to
pull mankind together ... The only way to attract the labor power
necessary for our economic problems is to introduce compulsory
labor service ... We can have no way to Socialism except by the
authoritative regulation of the economic forces and resources of
the country, and the centralized distribution of labor power in
harmony with the general State plan. The Labor State considers
itself empowered to send every worker to the place where his
work is necessary. And not one serious Socialist will begin to
deny to the Labor State the right to lay its hand upon the worker
who refuses to execute his labor duty.”
After the question of production is thus settled, the question of
distribution is easily solved. “We still retain, and for a long time
will retain, the system of wages,” Trotsky pointed out. However,
“Wages, in the form both of money and of goods, must be
brought into the closest possible touch with the productivity of
individual labor ... Those workers who do more for the general
interest than others receive the right to a greater quantity of the
social product than the lazy, the careless, and the disorganizers.
Finally, when it rewards some, the Labor State cannot but punish
others — those who are clearly infringing labor solidarity,
undermining the common work, and seriously impairing the
Socialist renaissance of the country. Repression for the
attainment of economic ends is a necessary weapon of the
Socialist dictatorship.”
The control of production by a particular group in society carries
with it their control of distribution. The division of society into
rulers and ruled as deemed necessary by Trotsky and as exists in
Russia requires, besides a sufficient number of bayonets, an
ideology which convinces those who are ruled that their status is
natural, unavoidable, and beneficial. Income differentiations and,
with this, the formation of additional group interests, becomes an
increasing necessity, and is accentuated still more by the political
need to preclude a unity of misery against the privileged in
society. Because Marxism could be employed only in opposition
to such a state of affairs, it had to be ignored, or emasculated in
favor of evaluations supposedly based on scarcity, utility,
or demands; for behind such terms, not only real but also
assumed utility, scarcity, and demand can be hidden and justified.
The “utility” of the one or other social function or labor is first of
all the “utility” it has for the safeguarding of existing class
relations and its corresponding mode of production. Not social
needs will determine “utility,” but groups interests. The class
structure of society comes to light precisely in its need for such
evaluations. Just as little as the privileges of the capitalists results
from their “utility” but from the fact that they control the means
of production and are thus able to exploit the workers, so little
does “utility” explain the privileges of the Russian bureaucracy.
Those privileges are also based on the conditions of the control
of the means of production by the bureaucracy. A theory
justifying class rule and exploitation is necessary in Russia, and
its acceptance of the defense theories of capitalism does not, as
the editors of Common Sense believe, indicate the faulty
character of Marxism, but its continued usefulness in the class
struggle of the Russian workers against their present masters.
La rivoluzione keynesiana. Il mattone sul quale
venne costruita la teoria marginalista fu l'idea che l'attività
economica aveva per scopo la soddisfazione dei bisogni degli
individui. Fondamentale, in questo quadro, era il valore d'uso dei
beni che venivano prodotti dalle imprese. La soddisfazione dei
bisogni seguiva la legge della decrescenza dell'utilità dei beni
consumati alla quale era abbinata la legge della decrescenza dei
rendimenti a livello della produzione. Ciò garantiva l'intersecarsi
delle curve di domanda e di offerta.
In condizioni di equilibrio, ciascun consumatore vedeva
realizzata la piena soddisfazione dei propri bisogni e ciascun
venditore vedeva realizzato il proprio obiettivo di massimizzare i
propri profitti sulle vendite, dal momento che, in equilibrio, il
prezzo dei beni prodotti equivaleva al costo marginale degli
stessi. La rappresentazione formale di questa situazione era
affidata ad un imponente apparato matematico.
Vilfredo Pareto, economista italiano emigrato a Losanna, dove
Léon Walras aveva insegnato per lunghi anni, dapprima nel suo
Corso di economia politica, successivamente nel Manuale di
economia politica elaborò ulteriormente il modello walrasiano di
equilibrio economico generale, introdusse il concetto di
ofelimità, introdusse le curve di indifferenza. Fu Pareto a dare la
famosa definizione di ottimo da allora conosciuto come “ottimo
paretiano”.
Caratteristica base di tale modello è il suo meccanicismo ispirato
sia a Walras che a Pareto dalla meccanica classica. Altra
caratteristica base del modello walrasiano-paretiano è la sua
assunzione della cosiddetta Legge di Say per la quale non
possono verificarsi crisi generali perché l'offerta crea la propria
domanda.
Queste due caratteristiche base del modello walrasiano-paretiano
furono al centro della critica keynesiana. Il mondo economico di
Keynes era un mondo di propensioni – propensione al consumo,
propensione al risparmio, propensione all'investimento - e di
preferenze – preferenza per la liquidità - nel quale le decisioni
relative all'economia venivano prese in condizioni di ignoranza e
di incertezza. In un mondo di tal fatta, solo per un caso fortunato
le decisioni relative a investimenti, consumi, risparmi potevano
combinarsi assieme e dare vita ad un equilibrio di piena
occupazione.
Keynes, inoltre, non credeva nella Legge di Say. E, in effetti, la
Legge di Say poteva funzionare in un'economia basata sul
baratto. Essa avrebbe potuto difficilmente funzionare in
un'economia monetaria dove la moneta svolgeva la funzione di
riserva di valore oltre che quella di mezzo di scambio e nella
quale il denaro ricavato dall'attività economica svolta da ciascun
individuo poteva essere investito in titoli azioni, obbligazioni,
titoli di stato, oppure poteva essere trattenuto sotto forma di
riserva.
Negli stessi anni nei quali Keynes lavorava alla Teoria generale
in Inghilterra, nella lontana Polonia un oscuro impiegato tecnico
dell'Istituto per la congiuntura di Varsavia lavorava a dei saggi
sul ciclo economico che erano destinati a fare di lui, grazie al
conseguimento d'una borsa di studio d'una fondazione americana,
uno dei più grandi economisti del '900. L'economista si chiamava
Michal Kalecki e i saggi di cui sopra sono oggi reperibili nel
volume intitolato Michal Kalecki Saggi sulla teoria dei cicli
economici.
Idea base di Kalecki era che i capitalisti guadagnano ciò che
investono, i lavoratori spendono ciò che guadagnano. Altra idea
base di Kalecki era che la “tragedia dell'investimento”, come egli
la definì in un saggio del 1944, è che esso è utile. Ciò significava
che l'investimento creava nuova capacità produttiva la quale
andava ad aggiungersi a quella esistente e in tal modo finiva alla
lunga per disincentivare lo stesso investimento. Altra idea base di
Kalecki era che l'innovazione, la quale rappresenta il motore
dello sviluppo economico capitalistico, poteva essere bloccata
dall'aumento del “grado di monopolio” delle imprese che misura
il grado del controllo da esse esercitato sul settore industriale cui
appartengono. Tale grado è misurato dall'ampiezza esistente nella
differenza fra il prezzo praticato a livello di industria e il prezzo
praticato a livello di impresa.
In particolare, per quello che riguarda il problema relativo al
modo di uscire dalla depressione degli anni '30, Kalecki pensava
come Keynes che esso consistesse nell'immissione di denaro
fresco nell'economia per incentivare la stessa attività economica
in modo non diverso da quello che sarebbe stato prodotto da un
aumento delle esportazioni. Nel 1944, Kalecki partecipò con un
suo saggio famoso intitolato Tre vie alla piena occupazione, alla
pubblicazione del volume L'economia della piena occupazione
che costituisce una delle pietre miliari della nascente teoria
dell'occupazione.
Di natura affatto diversa fu il contributo di John R. Hicks. Autore
di una celebre recensione della Teoria generale di Keynes nella
quale la teoria di Keynes veniva declassata a caso particolare
della teoria ortodossa, nel 1938 Hicks pubblicò Valore e capitale
nel quale egli cercava di reagire alla sfida lanciata da Keynes alla
teoria ortodossa dimostrando che la stessa poteva essere
“dinamizzata” mantenendo l'impianto originale di matrice
walrasiano-paretiana.
In quegli stessi anni, mentre in Inghilterra si sviluppava un
vivace dibattito economico in seno al partito laburista
[L'esperienza laburista tra le due guerre mondiali, La nuova
Italia], in Svezia, patria di quel grande misconosciuto che fu
Knut Wicksell, si dava avvio a quello che nel secondo
dopoguerra diventerà il welfare state, il quale, malgrado il
discredito in cui è oggi tenuto, rappresenta una delle più grandi
conquiste del capitalismo moderno [Sviluppo e ristagno, La
nuova Italia].
Infine, va ricordato che Il nostro welfare state non cadde da cielo;
né fu un'invenzione svedese. Esso, come ricordò Gerard Ritter
nella sua Storia dello stato sociale, nacque in Germania, prima
nelle riflessioni di Lorenz von Stein, poi, dall'intuito politico di
Bismark il quale aveva concepito l'istituzione delle prime forme
di assicurazione sociale come una sorta di misura preventiva e lo
stesso stato sociale, per usare la bell'espressione di Tony Judt,
come “stato preventivo”. [E. Roll Storia del pensiero economico,
Boringhieri. Joseph A. Schumpeter Storia dell'analisi
economica, Boringhieri. H. Denis Storia del pensiero economico,
Il saggiatore. M. Blaug Storia e critica della teoria economica,
Boringhieri. B. Ingrao e Giorgio Israel Il mito della Mano
invisibile. Storia del concetto di equilibrio economico generale.
G. Lunghini Equilibrio in M. D'Antonio e G. Lunghini
Dizionario di economia. T. Koopmans Tre saggi sullo stato della
scienza economica. M. Dobb Storia del pensiero economico. Id.
Economia del benessere ed economia socialista. F. Vicarelli, a
cura di, Attualità di Keynes. C. Napoleoni Equilibrio economico
generale, Boringhieri.]
La grande trasformazione.
All'origine della
crisi degli anni Trenta del secolo scorso vi fu, com'è noto, il
crollo nel 1929 della borsa di Wall Street. Le vicende che
portarono al Great Crash sono state narrate da Galbraith in un
famoso libro intitolato Il grande crollo. Qui, è sufficiente
ricordare che il crollo fu dovuto allo scoppio d'una bolla
speculativa che aveva fatto salire vertiginosamente i corsi dei
titoli durante una fase caratterizzata da quella che Shiller ha
chiamato euforia irrazionale.
In altre parole, per dirla con Galbraith, nessuno può essere
considerato responsabile della crisi; nessuno condusse la
gente al macello. La crisi fu il prodotto della libera scelta di
migliaia di persone spinte dal desiderio di diventare ricche.
In realtà, la crisi scoppiò, come ricordò Gordon in Crescita e
ciclo dell'economia americana, dopo un periodo di grande
espansione sia a livello di produzione industriale che d
formazione del capitale e, come scrisse Overy, le imprese
lucravano cospicui profitti emettendo grandi quantità di
azioni che eccedevano le capacità di assorbimento del
mercato.
Il crollo di Wall Street si ripercosse sulla economia reale
causando la chiusura d'un grande numero di aziende e un
aumento drammatico della disoccupazione. Gli effetti negativi
della crisi vennero aggravati dalla politica del governo
americano, il quale,, invece di porre in essere le necessarie
misure anti-crisi, emanò una serie di provvedimenti che
andavano in direzione affatto opposta. Il crollo Wall Street
ebbe conseguenze negative anche in Europa. Come ricordava
Aldcroft, alla metà del 1930 tutti i paesi europei erano caduti
vittime della crisi. Il peggio, però, doveva ancora arrivare.
Esso arrivò nell'estate del 1931 con il crack del viennese
Credit Anstalt.
Le ripercussioni negative del crollo di Wall Street si fecero
sentire particolarmente in Germania che era ancora alle prese
con le conseguenze economiche negative della Prima guerra
mondiale e con le difficoltà create dal pagamento delle
riparazioni di guerra, come Keynes aveva preveduto in Le
conseguenze economiche della pace. Come scrisse infatti
Keynes, coloro che trattarono con la Germania le condizioni
della pace non erano preoccupati del futuro dell'Europa, ma
erano unicamente interessati a punire la Germania
imponendole una pace cartaginese.
Fuori di polemica, la storia economica della Germania di
Weimar può essere divisa, come ha scritto Weitz, in tre fasi; la
prima 1921-23 fu caratterizzata dall'iperinflazione, la
seconda 1924-29 fu caratterizzata dalla modernizzazione; la
terza 1929-33 fu caratterizzata dalla depressione. In altre
parole, la crisi creata dal crollo di Wall Street colpisce, come
ha scritto Peukert, una “economia malata” e le cause della
malattia erano disoccupazione di massa e debolezza della
crescita.
In sede storica s'è discusso se la crisi degli anni Trenta fosse
evitabile. La conclusione è stata, per usare le parole di
Kindleberger, che la crisi avrebbe potuto essere evitata
qualora fosse esistito un cd prestatore di ultima istanza il
quale si fosse fatto carico dell'onere dell'aggiustamento
mettendo a disposizione degli operatori economici la
liquidità necessaria a frenare la corsa alla vendita di attività
finanziarie.
Fu in questo contesto che Keynes elaborò la sua teoria. Essa si
basava sulla critica radicale della teoria dominante secondo la
quale l'economia di mercato possedeva dei meccanismi
automatici di aggiustamento come accadeva quando, a causa
della elevata disoccupazione, i salari cadevano in modo da
rendere conveniente per le imprese la riassunzione dei
lavoratori che erano stati in precedenza licenziati.
La stessa cosa accadeva sul mercato dei beni di consumo. Un
eccesso di offerta faceva scendere i prezzi. La discesa dei
prezzi rendeva conveniente il loro acquisto. Ciò faceva risalire
i prezzi rendendo così nuovamente conveniente la ripresa
della loro produzione.
Se ciò non accadeva, la causa andava cercata nel fatto che
esistevano delle rigidità, ovvero, andava cercata nel fatto che
le curve di domanda e di offerta non erano abbastanza
elastiche perché i mercati non erano perfettamente.
concorrenziali.
In particolare, per quello che riguardava il mercato del lavoro,
si sosteneva, per bocca del famoso economista britannico,
teorico dell'economia del benessere Cecil Pigou, che se c'era
disoccupazione la causa andava cercata , da un lato, nella
presenza dei sindacati che imponevano salari più elevati di
quello che avrebbero dovuto essere; dall'altro lato, nel rifiuto
dei lavoratori di prestare la loro opera per salari più bassi di
quelli contrattuali. In altre parole, se esisteva disoccupazione,
era per colpa dei lavoratori e delle loro organizzazioni
sindacali. Quindi si trattava di disoccupazione volontaria. Più
in generale, quella che era in gioco era la legge di Say secondo
la quale non erano possibili crisi generali perché l'offerta
creava la propria domanda.
Keynes non credeva nell'azione provvidenzialistica della
mano invisibile della concorrenza e non nutriva alcuna
fiducia nei meccanismi automatici di aggiustamento presenti
in un'economia di mercato. Come egli aveva scritto nel 1926
in La fine del lasciare fare, il mondo non era governato
dall'alto da una mano invisibile che trasformava il
perseguimento dell'interesse individuale in benessere
collettivo.
Inoltre, egli pensava che, come ebbe a scrivere nel 1923 nel
saggio La riforma monetaria, “gli economisti si attribuiscono
un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti
tempestosi, possono dirci soltanto che , quando l'uragano
sarà lontano, l'oceano tornerà tranquillo”
Secondo Keynes, noi agiamo in un mondo che noi non
conosciamo e raramente gli effetti delle nostre azioni, come
egli aveva scritto nel Trattato delle probabilità, risultano
essere quelli voluti. In queste condizioni, soltanto per un caso
fortunato può crearsi una situazione di equilibrio di piena
occupazione.
Per quello che riguardava la crisi in corso, egli contestava
l'affermazione che essa potesse essere superata con una
riduzione dei salari monetari. Secondo Keynes, come egli
aveva sostenuto nel 1933 in I mezzi della prosperità, la via
della ripresa passava attraverso l'investimento autonomo da
parte dello stato di denaro fresco in modo da attivare il
moltiplicatore degli investimenti. Y =kI, dove k è l'inverso
della propensione al consumo.
Ciò significava creare, attraverso una articolata politica di
lavori pubblici, un congruo numero di occupati che avrebbero
speso i loro salari in beni di consumo che erano altrimenti
destinati a restare invenduti. Per Keynes, infatti, il livello di
occupazione dipende, da un lato, dalla propensione al
consumo; dall'altro lato, dalla disposizione a investire. La
prima dipende dal livello di reddito e e dalla sua
distribuzione. La seconda dipende dalla preferenza per la
liquidità, dal tasso di interesse e dall'efficienza marginale del
capitale e da tasso di interesse.. L'efficienza marginale del
capitale dipende dalla quantità di capitale esistente, dallo
stato della fiducia. Il tasso di interesse dipende dalla
preferenza per la liquidità e dalla quantità di moneta.
Per quello che riguarda la legge di Say potremmo dire che
essa è valida in un'economia basata sul baratto dove tutti i
beni vengono prodotti per essere scambiati. Non è valida in
presenza della moneta che ha fra le sue funzioni anche quella
di riserva di valore per cui solo una parte viene spesa
nell'acquisto di beni, mentre una parte, spesso cospicua,
viene trattenuta sotto forma di scorte, oppure può essere
investita nei mercati finanziari.
Per dirla con Joan Robinson che fu allieva di Keynes a
Cambridge, “anzitutto Keynes ha riportato nell'economia
politica la praticità dei classici”; poi, “ha fatto riemergere il
problema morale che la teoria del laissez fare aveva abolito”;
infine, “riportò il tempo entro la teoria economica”.
Soprattutto, potremmo aggiungere noi prese il capitalismo
sul serio, cosa che gli economisti neoclassici s'erano sempre
rifiutati di fare. In tal senso Keynes potrebbe essere definito il
Marx della borghesia la cui teoria, come scrisse Mattick, aveva
uno scopo molto pratico: salvare il capitalismo dal declino.
Verità, ragione, storia. E' verità antica che le cose
non sono mai come appaiono. Ciò dipende dal fatto che le cose
non si riflettono direttamente nella nostra mente come se essa
fosse uno specchio; né si imprimono in essa come se essa fosse
fatta di creta. Ma esse filtrano attraverso un apparato costituito da
un insieme complesso di nozioni scientifiche, di pregiudizi, di
intuizioni da noi possedute circa le cose che stiamo osservando.
[L. Althusser Filosofia e filosofia spontanea egli scienziati, De
Donato]
Lenin ribatterebbe che tutto ciò è ubbia, non senso, come egli
scrisse in Materialismo ed empiriocriticismo in polemica con i
“machisti” russi. Lenin era un realista; egli pensava, come egli
scrisse nei Quaderni filosofici, che le cose si rispecchiassero nel
nostro cervello. Tale rispecchiamento non era da considerarsi
come “morto, astratto, senza movimento e senza contraddizione”,
ma andava considerato “nell'eterno processo del porsi e del
risolversi delle contraddizioni”. Infine, affermava: “La vita
genera il cervello. Nel cervello umano si rispecchia la natura.
L'uomo, controllando e applicando nella sua pratica l'esattezza di
questi rispecchiamenti, perviene alla verità oggettiva”.
Oggi nessuno più sosterrebbe la posizione di Lenin. Oggi noi
sappiamo che la nostra mente partecipa attivamente alla
costruzione della nostra immagine del mondo. Ovvero, come
affermò Heisenberg, sappiamo che lo scienziato non è più un
osservatore neutrale, ma sappiamo che egli partecipa con la sua
attività di ricerca, le sue ipotesi di lavoro, i suoi pregiudizi, come
direbbe Bachelard, alla costruzione della sua immagine del
mondo. In altre parole, per usare un concetto espresso da
Heisenberg in Natura e fisica moderna, penetrando, con le nostre
ricerche, nella nostra conoscenza della natura, noi non facciamo
altro che penetrare in noi stessi. Cosicché, potremmo dire come
scrisse Putnam in Verità ragione e storia, che “l'uomo e il mondo
fanno il mondo e l'uomo”.
Marx rovesciò il problema. Il mondo è la rappresentazione che
noi abbiamo di esso attraverso la nostra prassi. La sua posizione
era, quindi, opposta a quella di Feuerbach. Per Feuerbach,
proiettavamo all'esterno la nostra immagine del mondo; nella
fattispecie, d'un mondo che immaginavamo creato da Dio. Il
mondo, però era altro da noi, era alcunché di estraneo, non era,
per usare le parole di Marx, concepito come attività pratico
sensibile. Da qui, la famosa tesi di Marx per la quale la questione
se all'uomo appartenga una verità oggettiva non è una questione
teoretica ma pratica, è nella pratica che uomo deve provare la
realtà, la verità il potere, il carattere immanente del suo pensiero.
Ad essa si accompagna l'altra tesi per la quale i filosofi hanno
finora interpretato diversamente il mondo; ora si tratta di
cambiarlo. O quell'altra, altrettanto famosa per la quale
l'educatore va educato
Il problema della nostra rappresentazione del mondo diventa
ancora più complesso nelle scienze sociali come l'economia e la
sociologia, nelle quali diventa determinante l'aspetto politico.
Ovvero, nelle quali, manca, per dirla con Bachelard, la possibilità
di effettuare il controllo scientifico degli elementi ideologici sui
quali si basano le nostre ipotesi teoriche. [G. Myrdal Il valore
nella teoria sociale, Einaudi. Id L'obiettività nelle scienze sociali,
Einaudi]. Ne deriva che l'unica soluzione possibile di questo
problema è di esplicitare le proprie posizioni ideologiche. In
questo quadro si colloca il problema delle ipotesi sulle quali si
fonda l'economia politica - ipotesi che, come ha dimostrato Paul
Bairoch [P. Bairoch Miti economici e storia, Garzanti] si basano
su dei miti, come il mito dell'homo oeconomicus, il mito della
mano invisibile, il mito del pareggio di bilancio, il mito del libero
scambio.
Tali miti si fondano su dei presupposti che gli economisti sanno
essere inconsistenti, ma che continuano a essere da essi
considerati le architravi che reggono le sorti delle nostre
economie. La conseguenza, che gli economisti lo ammettano o
no, è che non riusciamo a toglierci dalle pastoie d'una crisi che è
frutto di condotte economiche fondate sui suddetti miti.
Il mito dell'operatore razionale. L'operatore razionale prende le
sue decisioni dopo aver calcolato attentamente la convenienza di
operare una determinata scelta in termini di utilità e di disutilità
calcolate al margine.; ovvero, dopo aver attentamente valutato le
proprie aspettative. Non è così. Nella pratica degli affari – non a
caso un grande economista del novecento, John Hicks, definì
l'economica come la scienza degli affari - le cose avvengono in
modo affatto diverso. Non esistono più, infatti, le condizioni
economico-sociali che motivavano il mito dell'operatore
razionale Non esistono più piccoli imprenditori che portano la
loro merce al mercato, dove un banditore chiama i prezzi
.
La letteratura sulle forme di mercato non concorrenziali è
varissima. Concorrenza imperfetta, concorrenza monopolistica,
concorrenza fra pochi, oligopolio, teoria del grado di monopolio,
teoria della curva ad angolo, teoria del costo pieno e via dicendo.
Inoltre, dobbiamo tener conto di quelli che Keynes chiamava
spiriti animali, cioè delle motivazioni irrazionali delle azioni
umane [G. Ackelrof R. Shiller Spiriti animali, Rizzoli]. In tale
contesto si inserisce l'azione dei cosiddetti persuasori occulti e
delle loro tecniche di condizionamento via spot pubblicitari,
cartelloni stradali, pubblicità nascosta fra le scene dei film [V.
Packard I persuasori occulti, Einaudi] Per poter agire in modo
razionale, dovremmo essere liberi da ogni genere di
condizionamento – condizione che non esiste nella realtà di tutti i
giorni. La realtà di tutti i giorni è composta da ogni sorta di
condizionamenti che limitano la nostra libertà senza che noi ce
ne accorgiamo. [B. Barber Consumati, Einaudi].
Poi c'è il problema della trasparenza del mercato; ovvero della
asimmetria della capacità di accedere alle informazioni di cui ci
avvaliamo per prendere le nostre decisioni; quando non si tratta
di creazione di quelle stesse informazioni – cosa che non possono
fare i piccoli e medi produttori, ma che possono fare le grandi
imprese grazie al controllo da essi esercitato su giornali, emittenti
televisive, agenzie di stampa.
Il mito della mano invisibile. Se esistesse veramente una mano
invisibile che ci guida senza che noi ce ne accorgiamo nella
gestione degli affari quotidiani, come pensava Adam Smith, non
esserebbero le crisi. L'economia funzionerebbe alla perfezione,
non si creerebbero colli di bottiglia, i magazzini si riempirebbero
di merci e si svuoterebbero con regolarità. [A: Roncaglia Il mito
della mano invisibile, Laterza].
Invece, non è così. Le crisi esistono. L'economia capitalistica
procede per cicli. Tali cicli sono di breve, di medio e di lungo
periodo. I loro andamenti sono intrecciati in modo complesso e
ciò rende difficile la messa in atto di efficaci interventi pubblici
anti-ciclici. [R.C.O. Matthews Il ciclo economico, Feltrinelli].
La letteratura su i cicli economici è vastissima. In questa sede è
sufficiente ricordare l'autore che, a mio modo di vedere, meglio
di altri ha tentato la via d'una teoria generale comprendente una
teoria del ciclo economico: Joseph A. Schumpeter [J. Schumpeter
Cicli economici, Boringhieri].
La teoria del ciclo di Schumpeter è legata a doppio filo al ciclo
dell'innovazione. L'innovazione può essere di vario genere: di
prodotto, di processo, può riguardare la scoperta di nuove fonti di
materie prime e energetiche, l'apertura di un nuovo mercato.
L'introduzione d'una innovazione causa una rottura nel flusso
circolare di beni e di servizi e conferisce all'imprenditore che per
primo l'introduce un vantaggio sui concorrenti. Tale vantaggio
verrà a scemare nel corso del tempo perché l'imprenditore che
per primo ha introdotto l'innovazione verrà ben presto imitato dai
suoi colleghi. Questo fatto imprimerà all'economia un classico
andamento ciclico.
Il mito del pareggio del bilancio. Il problema, come Filippo
Cavazzuti dimostrò nel saggio intitolato Il nodo della finanza
pubblica, non consiste nel fatto che il bilancio sia o meno in
pareggio. Il problema consiste nella natura della spesa pubblica e
nella modalità di spesa. Gli economisti lo sanno, almeno quelli di
formazione keynesiana. Gli altri, fingono di non saperlo e fanno
loro il mito del pareggio di bilancio, non tenendo conto che fu
proprio insensatezza di questo mito a trasformare la crisi del '29
nella tragedia che sappiamo.
Il mito del pareggio di bilancio poggia su una concezione statica
del reddito nazionale. In realtà, come il professor Alberto Breglia
spiegò, presentando il Piano del lavoro della Cgil nel 1949 , la
spesa, se è spesa produttiva, se cioè comporta la creazione di
posti lavoro, di nuove imprese, di nuovi ordinativi per l'industria,
di nuova occupazione essa finisce per finanziare stessa.
Il problema nasce con le spese improduttive, a cominciare da
quelle per il mantenimento di quelli che Adam Smith chiamava
alcuni eminenti ordini della società costituiti da quelli che un mio
professare di matematica chiamava “mangia pane a tradimento”.
Fra costoro possiamo collocare a buon diritto i membri della
nostra classe politica.
E' vero. La nostra concezione della democrazia è inscindibile
dall'esistenza dei partiti. Non questo il problema. Il problema è
che le oligarchie di partito hanno preso il sopravvento sulla loro
base. Non abbiamo più a che fare con partiti nel senso della
Costituzione, ma abbiamo a che fare con un uso privatistico della
“sfera pubblica” da parte delle oligarchie di partito.
Liberare l'Italia dai lacci e laccioli, titolava tempo fa il Sole 24
ore. Poi citava Guido Carli, l'inventore, nel 1975, della formula
dei lacci e laccioli, autentico mantra di una classe dirigente
economica che non ha mai amato il rischio d'impresa e ha sempre
preferito le acque torbide ma sicure del capitalismo di stato, dei
finanziamenti a pioggia, dei finanziamenti di settore, delle
irizzazioni, efimizzazioni, gepizzazioni, degli intrallazzi bancari,
la manomorta di Mediobanca, vera cupola del capitalismo
familiare italiano: un capitalismo che ha sempre agito per linee
interne. Poche le eccezioni.
Enrico Mattei, un autentico corsaro di stato che in altri tempi
avrebbe potuto benissimo indossare i panni che furono di sir
Water Raleigh e di sir Francis Drake; Franco Gardini signore
dell'azzardo, la cui morte è ancora avvolta nel mistero. Poche
grandi imprese e quelle esistenti prigioniere d'una logica di
funzionamento tipica della impresa a gestione familiare. Pochi
investimenti in R&D. Poche innovazioni in senso shumpeteriano,
dove innovazione vuol dire rischio, credito bancario, apertura
verso il nuovo, curiosità di andare a vedere cosa c'è dietro
l'angolo, oltre la siepe, al di là della collina. Poche le eccezioni.
Pochi i prodotti innovativi.
L'industrializzazione italiana è avvenuta camminando sul sicuro.
Lavatrici, televisori, frigoriferi, aspirapolvere quando essi erano
prodotti maturi. Bel design e manodopera a basso costo. Le forze
di lavoro italiane sono le più dequalificate del mondo civile. Di
cosa ci lamentiamo se la produttività e bassa. Bassa produttività
vuol dei bassi salari, bassi salari vuol dire mercato interno
ristretto, ragion per cui l'economia deve espandersi all'estero. Ciò
crea distorsione, dualismi, arretratezze che penalizzano la
crescita.
Poi c'è il mezzogiorno. Antonio Gramsci lo definì un'immensa
disgregazione sociale. Sono passati ottant'anni da quando
Gramsci emetteva la sua sentenza. Per sessanta di questi
ottant'anni, il Mezzogiorno è stato irrorato di denaro pubblico che
è finito nelle tasche d'una classe politica corrotta, della mafia e
delle grandi imprese del nord che son andate a produrre al sud e
che invece di produrre occupazione hanno collaborato, via
appalti, a fare la fortuna della mafia.
Erano gli anni in cui le classi dirigenti italiane perdevano le bave
dietro la teoria del poli di sviluppo. Pochi sollevarono dubbi in
materia. Erano gli anni della programmazione. Trent'anni di
discussioni risoltesi in un nulla di fatto. Infine, come dimenticare
il popolo dei mediatori, vere cellule cancerogene del sistema
economico-politico. Tessuto connettivo della corruzione. Ratti
delle fognature mafiose. Un tempo si chiamavano faccendieri.
Organi di collegamento tra mafia, politica e affari.
E' crollata la prima repubblica. E' crollata la seconda repubblica.
Il futuro dell'Italia è ancora nelle loro mani. Nessuno ha mai
avuto il coraggio di fare pulizia, di derattizzare il sistema
economico-politico, anzi è stato addirittura vietato l'uso delle
trappole per topi: poverini, sono anche essi delle creature di Dio.
Perciò, togliamo pure i lacci e laccioli, ma cominciamo ad usare
anche le trappole per topi, e soprattutto smettiamola di gettare
loro del formaggio da mangiare. Come. Semplice. Stop ai
finanziamenti pubblici. Stato minimo. Liberismo puro e duro.
Chi non lavora non mangia. Stop con l'Ave Pater Gloria. Chi
sbaglia va in galera, potrebbe dire qualcuno.
Quando mai. Ma se addirittura il fascismo altro non fu che una
tragica mascherata! Se anche uomini come Dossetti e La Pira,
cattolici autentici, dovettero cedere le armi d fronte ai loro
colleghi di partito! Poi, chi ha detto che per essere liberali
occorre essere liberisti? Croce e Einaudi hanno discusso su
questo tema per tutta la loro vita. Ne è uscito un libro, curato da
Giovanni Malagodi che andrebbe riletto con estrema attenzione.
Come scrisse, infatti, Croce, il liberismo e il liberalismo possono
entrare in conflitto qualora il liberismo diventi norma e
impedisca per questa via la realizzazione dei principi del
liberalismo.
Chi volesse approfondire il tema può leggere il libro di Amartya
Sen, Etica ed economia, il quale offre molti spunti per una
riflessione sulle due tendenze del pensiero economico, due
autentiche anime. L'anima tecnica e l'anima politica. Analisi e
teoria. Perché è questo il problema. Nessuno fa più teoria.
Nessuno si interroga più sul significato della economia politica o,
come oggi si dice, economica.
Conclusioni. Quanto precede ci insegna qualcosa di molto
importante in un momento di crisi come l'attuale. Ci insegna: a)
che l'economia politica ha una sua storia e che tale storia fa parte
della storia generale della nostra civiltà; b) che essa, più che
essere considerata un corpo organico deve essere considerata una
cassetta di strumenti di cui possiamo avvalerci liberamente per
interpretare i fenomeni economici; c) che le leggi economiche
non sono da considerarsi leggi deterministiche, ma che esse
esprimono delle propensioni e delle preferenze; d) che non esiste
alcuna mano invisibile, che il pareggio di bilancio è un mito, che
l'operatore razionale è un mito; e) che rigore non vuol dire
distruggere lo stato sociale; f) che la crescita di un'economia
capitalistica è un processo discontinuo fondato sull'innovazione;
che una politica economica per la crescita deve basarsi sui
seguenti elementi: determinata la distribuzione del reddito
tramite la contrattazione collettiva, le imprese elaborano i loro
piani di crescita, lo stato deve intervenire per determinare le
condizioni favorevoli alla crescita tenendo conto che
l'occupazione dipende dagli investimenti privati e pubblici; gli
investimenti dipendono dai salari e dal tasso di interesse; il tasso
di interesse dipende dalla politica della Banca centrale europea;
che queste relazioni non vanno viste n modo deterministico, ma
che esprimono un insieme di propensioni e di preferenze com'era
nell'impostazione di Keynes [C. Kindleberger Leggi economiche
e storia, Laterza. P. Bairoch Miti economici e storia, Garzanti, F.
Vicarelli Keynes, l'instabilità del capitalismo, Etas Libri]