1 SVILUPPO RELAZIONALE E COMPORTAMENTO

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1 SVILUPPO RELAZIONALE E COMPORTAMENTO
SVILUPPO RELAZIONALE E COMPORTAMENTO SOCIALE
BULLISMO E’ UNA QUESTIONE EDUCATIVA ?
DEI
GIOVANI. Il
di Mario Di Mauro – Università Ca’ Foscari di Venezia
Sono molti gli studi che negli ultimi anni hanno affrontano sotto punti di vista diversi il tema
dell’aggressività come fenomeno sociale, sia quando interessa gli adulti, sia quando coinvolge il mondo
dei giovani. Normalmente se il fenomeno riguarda la giovane età gran parte di questi comportamenti
viene associato al termine usuale di “bullismo” e denomina una sottocategoria del comportamento
aggressivo caratterizzato da alcune specifiche modalità dell’azione, come l’intenzionalità, cioè la
deliberata volontà di recare danno in varie forme, fisica, psicologica o sociale, ad una persona
deliberatamente designata come vittima.
Nel caso di soggetti adulti, il termine che è più frequentemente usato per descrivere un comportamento
aggressivo della stessa natura è quello di “mobbing” ed esprime un comportamento tenuto da un
individuo (o da un gruppo di individui) nei confronti di un altro individuo con l’intento di nuocergli. Il
termine adoperato, dall’inglese “mob”, si riferisce all’azione condotta da un gruppo di persone, in
genere numeroso ed anonimo, che si trova implicato in comportamenti persecutori nei confronti di una
o più persone specifiche (lo stesso termine si usa anche per indicare una persona che, individualmente,
molesta o aggredisce in qualche modo un’altra persona).
Nel caso del bullismo, l’uso della propria forza o del proprio potere viene indirizzato per intimorire o
danneggiare una persona più debole o considerata tale. Possiamo dire che uno studente è oggetto di
azioni di bullismo, cioè è vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle
azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni (Olweus 1986,1991).
Oltre all’intenzionalità, perché si possa parlare di bullismo è importante che l’azione aggressiva abbia,
da una parte, caratteri di sistematicità, cioè di perseveranza e di continuità nel tempo, dall’altra caratteri
di asimmetria nella relazione di potere: il bullo è più forte e la vittime è più debole e incapace di
difendersi.
In questi ultimi anni, il fenomeno viene molto studiato e sotto diverse angolature, da quelle socioculturali a quelle psicologico evolutive . La convinzione che si determinò, a seguito delle ricerche
svolte da Dan Olweus dell’Università di Bergen in Norvegia agli inizi degli anni 70, fu che i fatti di
bullismo fossero addebitabili a degenerazione sociale connessa in qualche modo al rapporto negativo
che un giovane aveva con l’ambiente scolastico.
Olweus, a partire da un terribile fatto di cronaca (il suicidio di tre ragazzi tra i 10 e i 14 anni a causa di
atti di bullismo subiti da coetanei) avviò uno studio sistematico sul fenomeno dando modo di
sensibilizzare gli studiosi ma anche le autorità educative al problema. E così da allora ad oggi la ricerca
si è sviluppata molto e in tanti paesi in Europa e nel mondo, interessando anche gli Stati Uniti, il
Canada e il Giappone. Di recente anche in Italia si è creato interesse nei confronti di questo fenomeno,
che ormai viene analizzato in modo sistematico, sia dal sistema educativo che da quello politico con
provvedimenti, indagini sul campo e studi di ambito.(1)
Una delle ricerche più recenti e sistematiche svolte in Italia è stata quella realizzata alcuni anni fa a
Torino nell’ambito delle iniziative a sostegno delle politiche educative e di accoglienza promosse
dall’URPL e dalla Direzione Regionale della Pubblica Istruzione.
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La ricerca, avente per titolo la Partecipazione e la solitudine nella Scuola: Solidarietà e bullismo, si è
prefissata due obiettivi. Da una parte confrontare con riflessioni di specialisti italiani la situazione
esistente in ambito nazionale ed europeo, dall’altra produrre proposte in grado di affrontare il
fenomeno comprendendo le cause più profonde che lo producono: cioè quantificare l’incidenza del
fenomeno (cosa succede e quanto questo problema è presente nelle nostre scuole), fornire degli
strumenti agli insegnanti in modo da arrivare a capire, a dare significati a questi episodi e, infine,
predisporre dei percorsi di lavoro in direzione della prevenzione.
Uno degli aspetti più problematici che questa ricerca ha messo in evidenza è stato quello di
circoscrivere in modo chiaro e netto i confini di un comportamento “da bullo” in ambito scolastico. Ed
è interessante evidenziare come si sia privilegiato, nel programmare le varie fasi della ricerca, non tanto
i caratteri sociali del comportamento del bullo quanto il punto di vista dei ragazzi, considerando come
criterio di lettura degli episodi di aggressività il vissuto di sofferenza e di umiliazione che li
accompagna, e quindi tutto ciò che fa star male. L’oggetto di indagine sono state tutte le possibili forme
di aggressione, prevaricazione di tipo fisico, psicologico, dirette che indirette, sia quelle finalizzate che
quelle gratuite.
Come ricerca sul comportamento giovanile, ha rappresentato una scelta metodologica importante
perché ciò che normalmente non viene sottolineato è che la violenza nei ragazzi è spesso un linguaggio,
un modo di mandare messaggi, e che quindi le azioni che si considerano obiettivamente riprovevoli da
tutti, sottendono spesso una speranza, nascondono uno straziante richiamo che il bambino o
l’adolescente, attraverso le proprie esplosioni cerca di usare per attirare l’attenzione su di sé e sulla sua
sofferenza.
Un’altra ricerca, interessante per la specificità del target group, è stata quella svolta nel 2001
dall’Associazione Villa Sant’Ignazio di Trento per conto del Servizio Addestramento e Formazione
Professionale della Provincia, che ha condotto uno studio sul fenomeno con lo scopo di comprendere
le dinamiche e per delineare le strategie possibili di contrasto. La specificità della ricerca, che ha
interessato la scuola secondaria superiore, ha permesso di estendere lo spazio di osservazione e di
interesse dalla preadolescenza all’adolescenza avanzata. Nello specifico si è indagato il comportamento
di alunni e docenti con l’obiettivo mirato di analizzare bene la diversa percezione del fenomeno da
ambedue i gruppi di soggetti.
Ciò che emerge da ricerche di questo tipo è che la violenza giovanile comunque manifestata ha sempre
carattere di valore espressivo ed è per questo che il non tenerne conto e il non ascoltarla è rischioso e lo
sarà sempre di più. Ad una domanda posta in uno dei questionari somministrati a giovani di 14 anni la
risposta è stata : “però sono anche gli altri che mi fanno essere così”. E’ da risposte di questo tipo che
scaturisce l’importanza di considerare tutti come egualmente “coinvolti” nelle tante forme in cui il
fenomeno del bullismo si manifesta.
Se il ruolo corrisponde alle aspettative degli altri, allora il problema non è solo di uno ma di molti e
tutti devono essere coinvolti nell’analisi di questa realtà che non ci piace ma che sta caratterizzando
sempre di più la società.
La ricerca di Torino, che ha studiato il fenomeno con diversi strumenti di indagine, ha riguardato un
significativo campione di scuole elementari e medie (rappresentative di realtà diverse) per un totale
complessivo di alcune migliaia tra studenti e genitori e diverse centinaia di insegnanti.
In generale, come anche da altre ricerche è stato più volte evidenziato, anche in questo caso si rileva
come nella situazione di violenza chi è in posizione non solo di aggressore, ma anche di vittima ha
spesso scarsi risultati scolastici. Rispetto a ciò, esistono varie spiegazioni di tipo sociologico, ma si
possono incrociare le variabili e derivare che una situazione come questa, della violenza tra bambini o
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tra adolescenti, fornisce una fondamentale indicazione di tipo psicologico, e cioè che chi soffre non si
può trovare assolutamente in una condizione ordinaria di apprendimento.
I due principali punti di vista che oggi caratterizzano la ricerca sul fenomeno del bullismo sono quelli
che riguardano, da un lato la scuola, dall’altra i comportamenti violenti in quanto tali. Per quanto
riguarda il primo punto di vista, si tratta di un filone che mette al centro dell’attenzione il rapporto
esistente tra scuola e delinquenza giovanile, con particolare riguardo al rapporto tra adattamento del
giovane alla scuola e violenza giovanile. Sono molte le ricerche in questo campo e tutte sono d’accordo
su un dato, e che cioè vi è uno stretto rapporto tra difficoltà scolastiche e violenza giovanile. (2)
E’ interessante evidenziare come risultati significativi siano stati ottenuti attraverso l’uso di particolari
tecniche di indagine come quella del “self record”, che consiste nel richiedere al giovane in modo
anonimo se qualche volta nella sua vita ha compiuto atti in qualche modo ritenuti dalla società come
delinquenziali, cioè se ha fatto del male fisico a qualcuno, o se ha rubato in un negozio, o se ha
partecipato ad atti di vandalismo.
Da una ricerca di questo tipo, realizzata in Italia su più di 1000 studenti di scuole medie di tre città
diverse tra loro (Genova, Messina e Siena), è emerso che il 30% dei ragazzi aveva compiuto almeno un
reato contro la proprietà nella loro vita e che il 16% lo aveva fatto anche nel corso dell’ultimo anno. In
particolare il 14% aveva compiuto nell’ultimo anno dei danneggiamenti mentre il 20% aveva tenuto
comportamenti violenti. Ma ciò che è emerso incrociando i dati, è stato, in particolare, che mentre la
classe sociale non aveva influenza alcuna su questi comportamenti, una differenza significativa
emergeva nel correlare comportamento delinquenziale e riuscita scolastica: i giovani con problemi
scolastici erano gli stessi che avevano un tasso elevato di comportamenti devianti. (3)
Il collegamento rilevato, anche se indica un certo collegamento tra benessere scolastico,
comportamento asociale e riuscita scolastica, non deve tuttavia ritenersi esaustivo rispetto al fenomeno
complessivamente considerato. Infatti si tratta di un risultato importante ma che va interpretato rispetto
al rapporto di causa ed effetto che c’è tra i due elementi, e cioè tra il disagio scolastico e i
comportamenti delinquenziali e violenti.
Ci si domanda, in altre parole, cosa viene prima, il disagio scolastico o il comportamento deviante?
Seppure sia stata riscontrata una stretta correlazione tra precocità e frequenza di delinquenza e risultati
scolastici negativi, non appare completamente chiaro la dipendenza dell’uno o dell’altro di questi due
fattori, anche se appaiono certamente tra loro interdipendenti. Robert Batman, che ha studiato il
fenomeno della violenza sociale, è riuscito a stabilire una correlazione tra senso civico dei cittadini e
delinquenza, evidenziando come sia importante nel comportamento di un individuo la sua abitudine a
relazionarsi con gli altri, intendendo gli altri come universo comune di appartenenza. (4)
Secondo l’autore, il senso civico rappresenta l’opposto dell’individualismo e ambedue si possono
rilevare in un individuo misurandone alcuni parametri di riferimento, come la capacità di collaborare
attraverso forme di partecipazione diretta o indiretta.
In generale, afferma Batman, è forte la relazione tra il senso civico dei cittadini e i reati più gravi, nel
senso che maggiore è il senso civico e minore è, a parità di altre condizioni, il tasso di omicidi, di
rapine e di altri reati più o meno gravi. Si tratta di un punto vista interessante perché se applicato al
bullismo, e più in generale a vari comportamenti devianti dei giovani, può fornire chiavi di lettura
nuove ed originali per studiare il fenomeno e per trarne insegnamenti utili ad individuare fattori di
prevenzione nella scuola.
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Secondo diversi dati in circolazione, i fenomeni di bullismo tendono a divenire meno frequenti
passando dalle elementari alle medie, e generalmente la violenza fisica risulta meno praticata con
l'aumentare dell'età. Secondo la studiosa Ada Fonzi, dell’Università di Firenze che a partire dagli anni
’90 si è occupata di bullismo nelle scuole italiane, svolgendo molte ricerche in ambito regionale, la
percentuale di coloro che dichiarano di aver subito prepotenze è del 41% nelle scuole elementari e del
26% nelle scuole medie. Per la studiosa, le responsabilità sono di carattere socio-educativo e vanno
fatte risalire, sia alla famiglia del bambino aggressivo in cui spesso il modello educativo prevalente è
troppo permissivo o eccessivamente autoritario, sia alla scuola dove spesso le regole di convivenza, o
non vengono condivise ed espresse in modo chiaro, o non vengono sostenute democraticamente
all'interno della comunità. (5)
La ragione per cui recentemente l’attenzione si è appuntata su un fenomeno dilagante come la violenza
nella scuola nelle varie forme note è dovuta al fatto che in gran parte della società occidentale si sta
diffondendo una generale indifferenza verso comportamenti di prevaricazione, di aggressione, di
violenza da parte di chi è più forte nei confronti di chi è più debole.
Non solo nella società si diffondono modelli che mostrano la preferenza per l’individuo forte e sicuro,
sprezzante e aggressivo, ma nella gran parte dei casi anche insegnanti, genitori, e ragazzi tendono a
chiudere un occhio senza intervenire in presenza di situazioni di aggressività e violenza. Questi
atteggiamenti facilitano la determinazione del bullo a comportarsi da bullo anche perché nei suoi
confronti gioca una più immediata simpatia, soprattutto da parte dei coetanei, rispetto ad una vittima
spesso introversa, non accettata e chiusa nella sua sofferenza.
Rispetto a questa situazione, Ada Fonzi, sostiene con forza la necessità di intervenire soprattutto a
scuola perché, dice, la scuola può fare molto per contrastare questo fenomeno agendo sulle famiglie e
soprattutto ricordando all'opinione pubblica che il problema c’è in tutta la sua gravità. Gravità che deve
spingere ad “essere consapevoli che nella scuola ci sono bambini e ragazzi che stanno male a causa di
loro coetanei che si comportano con prepotenza nei loro confronti ". (A. Fonzi, 1997)
Ormai si è tutti concordi nel ritenere che essere bulli o vittime, a scuola, corrisponde all’assunzione di
un ruolo preciso che spesso va oltre gli aspetti di carattere, perché l’aggressività che diventa un modo
di fare diventa rapidamente anche un modo di essere, in quanto l’abitudine la rinforza e la fa diventare
un ruolo di dominanza che ne le tempo si consolida sempre di più.
Rispetto a questa chiave di lettura affrontare il problema solo con azioni di repressione e contenimento
non serve a molto perché è sulla dominanza del ruolo deviante che bisogna andare ad agire disfacendo
sia il ruolo dell’aggressore sia il ruolo della vittima.
Da uno studio recente dell'università di Firenze svolto di recente emerge che ben il 40 per cento degli
alunni delle elementari ha subito qualche atto di prevaricazione da qualche suo compagno, come bene è
rappresentato dall’esempio che segue: (6)
" Johnny, un ragazzo tranquillo di tredici anni, era diventato una specie di gioco umano per alcuni suoi compagni di classe.
Questi lo tormentavano, gli rubavano i soldi, lo costringevano ad ingoiare erbacce ed a bere latte misto a detersivo, lo
picchiavano nel bagno, gli legavano le stringhe intorno al collo e lo portavano in giro come un cagnolino. Quando i
torturatori di Jhonny furono interrogati sulle loro prepotenze, affermarono che perseguitavano la loro vittima perché la cosa,
dissero testualmente, "era divertente" ". (Dan Olweus, 1996)
Alcune nuove piste di ricerca sul fenomeno oggi stanno considerando in modo sistematico altri fattori
incidenti sui comportamenti devianti nei bambini e nei giovani. Non più o non solo aspetti di natura
socio-educativa ma anche indicatori di rischio nel percorso psico-evolutivo del bambino, cioè fattori di
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natura bio-psicologica che possono predisporre al rischio psico-sociale. Esaminata da questo punto di
vista, in effetti, il fenomeno è in grado di mettere in evidenza come siano simmetriche e speculari le
caratteristiche del bullo e della vittima.
Aggressivo e con una positiva opinione di sé, con un atteggiamento positivo verso la violenza e il
bisogno di dominare gli altri, il primo; insicura e con bassa stima di sé e delle proprie competenze,
timida ed isolata, l’altra.
Se nel primo la vittoria ripetuta tende a consolidare l’asimmetria relazionale, nella seconda l’attacco
ripetuto rende più rapido ed intenso, a sua volta, abbassamento dell’autostima con tutte le conseguenze
che ne possono derivare (in un’età in cui tutte le dinamiche affettive sono fondamentali per l’equilibrio
della sviluppo personale).
Secondo queste nuove linee di ricerca, tutte le ipotesi legate alle basse condizioni socio-economiche o
allo scarso rendimento scolastico, o ancora ad una certa povertà socio-educativa dell’ambiente
scolastico, sono da scartare a favore, invece, di ipotesi che privilegiano una visione multifattoriale del
fenomeno considerandolo a tutti gli effetti il risultato di una condizione complessa in cui co-agiscono
variabili a volte determinabili, a volte indeterminabili nella loro natura, nei loro caratteri e nei loro
effetti. Si tratta di variabili che possono appartenere a diverse categorie di tipo genetico, evolutivo o
anche ambientale.
Osservati attraverso l’uso di queste chiavi di lettura, i comportamenti aggressivi di tipo asociale
denunciano spesso non solo aggressività ma anche forte impulsività e scarsa empatia, tali da rendere
difficile il saper riconoscere i segnali emozionali che gli altri esprimono.
Dal punto di vista del processo educativo, alcune ricerche internazionali indicano come solo i bambini
che hanno avuto un’educazione autorevole presentano bassi indici di aggressività perché hanno
imparato a risolvere le difficoltà in altro modo. (7)
Bandura sostiene che un giovane che adopera comportamenti di violenza con altri o che adopera la
prepotenza come modalità di relazione primaria con gli altri è sostenuto da convinzioni certamente
derivate da atteggiamenti adulti, segnate da disvalori profondamente radicati. Secondo lo studioso sono
otto i meccanismi psicologici, meglio noti come stereotipi rinforzanti, attraverso i quali in un individuo
si può verificare un allentamento dei controlli interni, permettendogli di contraddire in qualche modo la
sua stessa natura. Essi sono:
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la giustificazione morale secondo la quale è anche legittimo mentire perché viene considerato un
bene e non un male se fatto a vantaggio di persone affettivamente vicine;
l’etichettamento eufemistico, attraverso cui qualunque comportamento può essere riduttivamente
considerato solo come un gioco più o meno esagerato;
il confronto vantaggioso che permette di considerare meno grave il proprio comportamento se lo si
confronta con altri socialmente più gravi;
la diffusione di responsabilità, per cui nessuna punizione può essere inflitta ad un solo ragazzo se
il comportamento delinquenziale è stato tenuto da un intero gruppo di ragazzi;
il dislocamento della responsabilità, attraverso cui solo i responsabili della cattiva educazione
possono essere considerati responsabili di un comportamento asociale di un giovane e non il
giovane stesso;
la distorsione delle conseguenze, secondo cui un comportamento è accettabile se non produce
direttamente ed esplicitamente danno a nessuno, anche se socialmente riprovevole, come il dire
bugie;
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la deumanizzazione della vittima e l’attribuzione di colpa, entrambe ammesse dal sistema valoriale
personale sulla base dell’assunto che la vittima non possiede un valore umano complessivo
accettabile o ancora peggio che l’atto ostile rappresenta solo l’effetto di una condizione di realtà di
per sé ineluttabile. (8)
A comportamenti di questo tipo il mondo degli adulti, e in particolare la scuola, non ha saputo
rispondere adeguatamente, né d’altra parte sono completamente noti i meccanismi che inducono un
bambino o un giovane ad azioni delle quali spesso manca completamente la consapevolezza delle
conseguenze, o la percezione delle ferite provocate agli altri.
Se si confrontano i dati nazionali con quelli considerati tradizionalmente più elevati dalla letteratura sul
bullismo, in paesi come la Gran Bretagna, si scopre che le percentuali italiane risultano invece molto
più elevate, quasi sempre doppie, talvolta triple, rispetto a quelle delle altre nazioni interessate dal
fenomeno. Un rapido sguardo alle cifre collezionate negli altri paesi lo conferma: 6 per cento di
bullismo nelle scuole in Finlandia, 15 in Norvegia, 12,5 in Giappone, 20 in Canada, l,8 in Irlanda e,
percentuale più alta finora registrata in un paese latino, il 15 per cento in Spagna.
Sembra che il bullismo non sia solo storia da paesi anglosassoni o scandinavi, ma riguarda da vicino
anche i bambini italiani, soprattutto quelli delle elementari. E' che fino a pochi anni fa pochi avevano
mostrato interesse e soprattutto nessuno aveva studiato da vicino il fenomeno. In generale non sempre i
dati italiani sono sempre confrontabili con quelli di altri paesi. Lo stesso termine “bullying”, ad
esempio, è di difficile traduzione, esprimendo la stretta relazione, non separabile, tra aggressore e
vittima e non solo il comportamento aggressivo. Ma è l’insieme dei comportamenti classificabili nel
fenomeno, soprattutto, che può variare da cultura a cultura alterando le percezioni (ad esempio,
l'abitudine alla canzonatura tipica di una certa cultura italiana può non ritrovarsi affatto in quella
nordica).
In Giappone tre ragazze di 15 anni sono state arrestate dalla polizia per aver picchiato a sangue una
compagna che, secondo loro, meritava di "essere punita". La ragazza ha perso un occhio. A Clayton
vicino a Manchester, una banda di ragazzine ha assalito per strada una tredicenne, sequestrandola per
sei ore e picchiandola duramente. In Italia, tre bambine della scuola materna hanno taglieggiato per
settimane un piccolo compagno minacciandolo di "tagliargli il pisello" se non consegnava tutti i giorni
un ampio rifornimento di gomme da masticare. Si tratta di fatti che stanno facendo emergere una realtà
inaspettata: un’elevata frequenza di comportamenti aggressivi e violenti da parte di ragazze o
addirittura di bambine.
Secondo Ada Fonzi, il bullismo femminile si esprime più facilmente con atteggiamenti di ostracismo
che tendono a isolare la vittima, che con la violenza. Secondo lo psicologo inglese Oliver James,
specialista di fenomeni devianti giovanili , se la crescita dei comportamenti violenti da parte di ragazze
continuerà con questi tassi, entro il 2016 il cosiddetto sesso debole colmerà un altro divario: il livello di
violenza raggiungerà quello solitamente espresso dai maschi.
Come arginare una fenomenologia così variegata e complessa ? Sia a livello di scuola che a livello di
classe già dieci anni fa Olweus prefigurava alcune pratiche che riguardano il modo di rapportarsi che
tutti i responsabili dell’educazione dovrebbero tenere (insegnanti, amministrativi, genitori). In
particolare, sostiene lo studioso, strumenti certamente importanti sono le discussioni con gli allievi, sia
sui comportamenti asociali che sull’elaborazione di sistemi di regole utili per arginare le varie forme di
violenza giovanile. Un sistema di regole da decidere in piena armonia con tutti e da accettare e
sottoscrivere da parte di tutti. Regole che insegnino pian piano, se applicate coerentemente, il rispetto
verso gli altri e verso la norma sociale. (9)
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E’ chiaro che trattandosi di regole è necessario provare a codificare i comportamenti asociali più
frequenti tra quelli denominati come bullismo, in modo da poterli facilmente descrivere e classificare.
In generale un comportamento da bullo può riguardare, violenze fisiche (appropriarsi di qualcosa,
prendere a calci qualcuno, distruggere qualcosa a qualcuno, ecc), violenze verbali, come il prendere in
giro o il deridere ripetutamente; o violenze indirette come il diffondere pettegolezzi nei confronti di
altri. Sono in ogni caso comportamenti che rientrano tutti certamente nella categoria della vessazione
violenta quando sono protratti nel tempo ed esplicitano il fine di intimidire e sottomettere un individuo
o un piccolo gruppo di individui.
Di fatto è stato riscontrato che si tratta di una delle cause più diffuse dell’abbandono scolastico a partire
dalla scuole elementari, per raggiungere dimensioni più raffinate e, ad un tempo, più considerevoli
nella scuola media e in quella superiore. Nei confronti di chi subisce un comportamento violento o
prepotente, gli effetti possono essere molto negativi ed influenzare molto la vittima predestinata.
La vittima tende a perdere nel tempo sicurezza ed autostima e questo disagio può influire sulla
concentrazione e sull’apprendimento. Nel corso degli anni gli alunni che sono stati insistentemente
vittime di comportamenti vessatori hanno avuto più probabilità, da adulti, di soffrire di turbe
depressive. Purtroppo non sempre è possibile identificare senza errori un episodio di bullismo a scuola
perché non sempre i segni appaiono chiari ed espliciti. In generale, quando ci si trova di fronte a
ragazzi che manifestano segni di disagio nelle relazioni o nell’ordinario comportamento scolastico
bisogna chiedersi se è accaduto un qualche episodio di violenza o di prevaricazione. Per la maggior
parte degli alunni, gli episodi di bullismo si verificano dentro la scuola o nei dintorni di essa, sia
durante gli intervalli o le pause per il pranzo, sia nei momenti di entrata o di uscita. Potenzialmente tutti
possono essere coinvolti in situazioni di bullismo, come carnefici o come vittime. Se per i ragazzi gli
atteggiamenti da bullo possono coinvolgere sia ragazzi da soli o in gruppo, per le ragazze in generale si
tratta di comportamenti in gruppo e quindi meno facili da individuare.
Le vittime sono quasi sempre costituiti da alunni spesso solitari o introversi o che hanno comunque
difficoltà a dimostrare sicurezza. Allo stesso modo gli alunni che sono percepiti come “ diversi ” dalla
maggioranza possono essere a rischio. A fronte di queste problematiche, è molto importante da un lato
saper cogliere i segnali che possono prefigurare episodi di bullismo, dall’altro, disporre di dati il più
possibile oggettivi.
Ciò che la scuola può fare è superare la logica della prevenzione intesa come criterio di prescrizione o
di sanzione e imparare, invece, a lavorare per sviluppare la capacità di stare con gli altri, che non è un
pre-requisto ma qualcosa che si impara. Si imparano le abilità sociali, così come si impara ad essere
emotivamente intelligenti.
A scuola si deve lavorare sulla promozione della relazione e dell’ascolto: avere le orecchie per
raccogliere tutto quello che succede e preparare i nostri interventi. Lavorare su emozioni e vissuti
perché, una cosa è parlare con la mente, un’altra è parlare con il cuore e con il vissuto personale. E nel
porsi in relazione con l’altro che si determina la cifra di valore, nell’accettare persino lo stato di
conflitto perché il conflitto fa parte dell’esistenza e della vita.
L’insegnante che vuole prestare attenzione ai suoi allievi deve imparare a lavorare con la classe
pensandola e quindi vedendola come un gruppo, con una personalità, un animo e una testa, un gruppo
che è anche un organismo vivente, con una sua personalità, con una sua storia, con pregi e difetti.
La classe é un gruppo che tende a diventare stabile nel tempo, un gruppo dentro il quale i ruoli di
aggressore o di vittima nascono e si fissano. Per questa ragione diventa indispensabile operare sul
gruppo proprio per scardinare questa fissità di schemi di comportamento. E’ importante il lavoro sul
gruppo e quindi sulla classe da parte di tutti gli adulti, a cui è demandata l’azione educativa, nessuno
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escluso. Qui sta la sfida che un insegnante deve saper cogliere sapendo che il suo è anche un mestiere
fatto di delicate responsabilità ma anche di grande ricchezza comunicativa e relazionale.
Note
(1) In Norvegia, il 15% degli studenti è coinvolto in episodi di bullismo, il 9% come vittima, il 7% come aggressore e
l’1,6% come entrambe le categorie (Olweus, 1993). In Inghilterra il fenomeno coinvolge il 27% degli studenti (Sharp e
Smith 1994). In Italia si parla del 41% della popolazione studentesca della scuola primaria (A. Fonzi, 1997).
(2) Disturbi deficitari dell’aggressività possono essere presenti in particolari condizioni di depressione abulica ed in alcuni
stati residuali schizofrenici. (Hales et al.,1999). Nel 1956 Menninger e Mayman hanno introdotto il termine di discontrollo
episodico, suddividendo, successivamente, il disturbi del controllo con aggressività e violenza in tre sottogruppi: 1.
comportamenti aggressivi ripetitivi e cronici, tipici della personalità antisociale e borderline; 2. violenza impulsiva
episodica, frequente nella psicosi traumatica, ma anche nelle sindromi deliranti e nell’ipomania; 3. violenza episodica
disorganizzata, più frequente nei soggetti epilettici e/o con lesioni cerebrali. Applicando il suo modello di “information
processing” per l’aggressività, Huesman (1988) sostiene l’ipotesi dell’esistenza di stili di comportamento aggressivo
(copioni comportamentali) acquisiti nell’infanzia e tendenti a resistere ad ogni cambiamento. La teoria conosciuta come
“information processing” ha ricevuto conferme anche sul piano neuro-fisiologico. (Bolino et al., 1993; 1994; Manna 1994)
Recenti ricerche sullo sviluppo infantile, compiute attraverso i video, da autori quali: Beebe B., Downing G., FivazDepeursinge E., Papousek M., Stern D., Tronick E., ed altri, stanno rivoluzionando le teorie psicologiche dell’età evolutiva
e oggi abbiamo nozioni, un tempo inimmaginabili, sul modo in cui i bambini piccoli si muovono, imparano, esprimono
sentimenti e interagiscono con gli adulti nel loro ambiente. La ricerca ci mostra un bambino sorprendentemente competente,
impegnato dalle primissime ore di vita in interazioni interpersonali molto complesse.
(3) Nell’ambito di una ricerca internazionale che ha coinvolto dieci paesi europei e gli USA si è svolta in Italia un’indagine
curata dal Prof. Umberto Gatti. La ricerca si è basata sulla somministrazione di un questionario presentato ai ragazzi di tutti
questi paesi. In Italia il questionario ha interessato 1006 ragazzi, di cui un terzo a Genova, un terzo a Messina e un terzo a
Siena. Sono state scelte città molto diverse tra loro per poter avere un panorama dell’Italia. A questi 1006 ragazzi di scuole
medie superiori (istituti tecnici, professionali e licei) sono state chieste informazioni sulla famiglia, sulle loro impressioni
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della scuola, sul loro rendimento scolastico, sulla loro situazione familiare e se nel corso della loro vita o dell’ultimo anno
avevano compiuto una serie di reati. E’ emerso che il 30% dei ragazzi aveva compiuto almeno un reato contro la proprietà
nella loro vita e che il 16% nel corso dell’ultimo anno. Non vi erano differenze sostanziali fra Genova, Siena e Messina. Il
25% in tutta la vita e il 14% nell’ultimo anno avevano compiuto dei danneggiamenti, il 20% dei comportamenti violenti, dal
6 all’8 % l’uso di sostanze stupefacenti, e così via.
(4) Robert Batman , 1997
(5) Ada Fonzi insegna psicologia dell’età evolutiva presso l’Università di Firenze ed è autrice di molti studi e ricerche sui
comportamenti aggressivi e devianti nei bambini e nei giovani. A partire dal 1990 si è occupata in modo sistematico del
fenomeno del bullismo con riferimento alla scuola italiana scrivendo molti saggi sull’argomento. Nel 1993 ha coordinato
una ricerca su 1.379 bambini distribuiti tra 17 scuole elementari e medie di Firenze e Cosenza. Nello stesso tempo è riuscita
a raccogliere i risultati di indagini analoghe svolte in altre città. Di qui un’analisi comparata tra i dati provenienti, oltre che
da Firenze anche da Cosenza, Torino e la provincia piemontese, da Bologna, da Napoli, da Palermo e da una cittadina della
provincia di Roma, Genzano. La media che ne risulta è pesantemente negativa: i bambini italiani che dichiarano di subire un
qualche genere di prepotenza a scuola sono il 41 per cento alle elementari e il 26 per cento alle medie.
(6) Università di Firenze in collaborazione con la Provincia di Firenze e la Regione Toscana - 21 Aprile 2006. Convegno
“Bulli, vittime e spettatori: quali complicità ? Conoscenze e modelli di intervento in una prospettiva europea”
(7) Dal notiziario “Tempo Medico–News”(1998) che riporta alcuni tra i più recenti dati riguardanti il fenomeno del
bullismo in Italia: “Guido fa la quarta elementare, è figlio unico di genitori operai, vive in una città della provincia toscana.
ha due grandi passioni: la bicicletta e una coppia di pappagallini, di cui è orgoglioso proprietario, soprattutto da quando
hanno deposto le uova. E' un bambino estroverso e allegro, vivace quanto i suoi coetanei. Improvvisamente, verso la metà di
dicembre Guido cambia atteggiamento. Si fa chiuso, incupito, dal suo astuccio scompaiono matite e gomme, per ben cinque
giorni ritorna a casa spingendo l'amata bicicletta: ha le gomme bucate. Sulla pelle delle braccia si affacciano strani puntini
rossi. La pediatra, interpellata, diagnostica una dermatite atipica. A metà gennaio il bambino ricomincia a bagnare il letto, e
quando lo vengono a trovare alcuni compagni di scuola corre a nascondere i pappagallini. I genitori, sempre più
preoccupati, cercano di farlo parlare, ma il bambino non si sbottona. Questa volta mamma e papà si rivolgono a una
psicologa, che parla genericamente di regressione. Alla fine il dramma si compie: Guido ritorna a casa stravolto, con gli
abiti in disordine e strappati. E' stato palesemente picchiato. E questa volta il bambino cede e racconta tutto. Per mesi tre
compagni di scuola lo hanno perseguitato, insultandolo, costringendolo a ingoiare le gomme, conficcandogli le matite nelle
braccia, forandogli le gomme della bicicletta. Gli insegnanti non si sono accorti di nulla mentre i compagni sapevano ma
tacevano. Lo stesso Guido non ha mai voluto chiedere aiuto ai genitori: "Temevo di deludervi"è la sua spiegazione. Mamma
e papà si rivolgono alla scuola, chiedono che si faccia qualcosa e i tre persecutori vengono sospesi. Gli insegnanti,
spalleggiati dalla maggioranza dei genitori, consigliano comunque di non drammatizzare e disertano una riunione convocata
dai genitori di Guido. A questo punto, per niente soddisfatti, i due sporgono denuncia.”
(8) Superando l’approccio comportamentista, Bandura sottolinea come l'apprendimento non avvenga solo per contatto
diretto con gli elementi che influenzano la condotta, ma anche mediato attraverso l'osservazione di altre persone attraverso
un processo di modellamento. Entro questa prospettiva, l'attenzione è posta sulle strutture cognitive che stanno alla base dei
comportamenti, in termini di aspettative, attribuzioni causali, valutazioni sulle capacità proprie ed altrui. La riflessione di
Bandura sul costrutto indicato con il nome di “autoefficacia percepita” segna il punto di arrivo della teoria
dell’apprendimento sociale . Bandura, A.- Autoefficacia: teoria e applicazioni. Tr. it. Erikson, Trento, 2000.
(9) Non è sempre vero che il prepotente provenga da famiglie disastrate, sul piano socioeconomico o culturale. Così come
non è sempre vero che la vittima sia portatrice di handicap o particolarità fisiche. Spesso la causa va ricercata
nell’indifferenza, o comunque nella mancata percezione, degli adulti. I bulli spesso provengono da famiglie poco
contenitive e fanno un uso distorto dell'aggressività solo perché nessuno ha insegnato loro a trattarla in modo diverso.
Dall’altra parte gli atteggiamenti ansiosi e di scarsa autostima contribuiscono a determinare le condizioni perché un
bambino diventi vittima. Ciò deve indurre a dare molto rilievo alla gestione delle emozioni che spesso accomuna tanto gli
aggressori quanto le vittime. Se nella vittima si riscontra un evidente deficit nel riconoscimento di specifici segnali emotivi,
come quelli relativi alla rabbia, nel bullo, al contrario, è evidente una generale immaturità nel riconoscimento delle
emozioni, soprattutto per quanto riguarda il senso della compassione.
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