sostituire il desiderio per l`altro al bisogno di droghe
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sostituire il desiderio per l`altro al bisogno di droghe
S T U D I SOSTITUIRE IL DESIDERIO PER L’ALTRO AL BISOGNO DI DROGHE Luce Irigaray I ragazzi, le ragazze e le droghe. Alla base di questo rapporto il tentativo talvolta di scappare da un mondo infelice, dove i giochi sembrano già fatti. E la scuola che in molti casi non aiuta, costringendo a diventare dipendenti da conoscenze tossiche nella misura in cui tagliano la mente dal corpo. Forse le premesse della felicità, e di un discorso di vera prevenzione, stanno in una educazione che stimoli a essere in relazione di desiderio con l’altro/a. In fondo essere umani, a ben pensarci, non corrisponde se non a questo. abituale proiettare sull’altro, gli altri, ciò che non vogliamo vedere in noi stessi. Si fa così a livello della malattia come ad altri livelli. E spesso un ragazzo autistico, per fare un esempio, soffre dei sintomi che gli altri membri della famiglia non vogliono riconoscere, esprime il malessere di tutto un gruppo. È lo stesso per un tossicodipendente: svela in un modo indiscreto, direi, una patologia della nostra cultura, della nostra società. Per questo motivo non tolleriamo la sua presenza: ci fa vedere ciò che siamo diventati quasi tutti e tutte. Il tossicodipendente appare dunque come un capro espiatorio privilegiato, qualcuno da escludere dalla comunità affinché questa possa continuare a drogarsi in modo lecito per mezzo della velocità, della competizione, dell’aggressività ambientale, dell’inquinamento, tutte forme di droga a noi imposte. E non ho ancora evocato le medicine chimiche che ci sono prescritte dal medico e che le assicurazioni sociali ci rimborsano tranquillamente, anche se diventiamo così dipendenti da prodotti più o meno tossici. È 12 Febbraio 2000 Come uscire dalla dipendenza Come e quando comincia la tossicodipendenza non è facile da stabilire. Mi ricordo il giorno in cui mi sono resa conto che io lo ero, tossicodipendente. Avevo una sigaretta in mano e ho capito che essa era più potente su di me di quanto non lo fossi io. Facevo la terapista nel momento di questa scoperta, e non mi sono sentita molto orgogliosa di una simile constatazione. Ma, per fortuna, a chi ascolta, qualche verità un giorno o l’altro arriva, non so troppo come… Ho dunque deciso di smettere di fumare per ritrovare la mia libertà. È stata una delle battaglie più dure che ho condotto. Mi ha impiegato cinque anni: cinque anni in cui ho camminato per ore, giorni, mesi in montagna, ho bevuto non so quanti litri di acqua, ho lasciato il caffè — andava troppo bene con la sigaretta!—, ho cessato di ricorrere allo stress per compiere qualsiasi lavoro. In realtà, per vincere la sigaretta, ho dovuto cambiare vita. Animazione Sociale S T U D I Ho dovuto recuperare energia e rovesciare il processo di cui ero prigioniera. Chiedevo alla sigaretta, alla droga, un’energia che essa mi rubava e non mi dava. Ma, per uscire da questo circolo infernale, da questo montaggio sbagliato, era necessario riscoprire fonti di energia, e un gusto della vita che non fosse pervertito. La (ri)scoperta dell’energia che regala la natura. Ho ritrovato risorse di energia grazie alla natura, questa seconda madre in cui veniamo al mondo uscendo dal corpo della madre che ci ha partoriti. La natura, una madre che ci dà la vita grazie all’aria che respiriamo, al sole che ci regala luce e caldo, a tutto ciò che essa ci dà per mangiare, per vestirci, per ripararci. Ho scoperto che la natura ci offre inoltre cose da contemplare e ci fa così a poco a poco passare da una vita semplicemente naturale alla vita spirituale senza imporci un qualsiasi assoggettamento. Basta essere attenti, fermarci un po’, e troviamo nella natura tante possibilità di contemplare, di ascoltare suoni bellissimi, di respirare profumi diversi, di assaggiare frutti che variano a seconda delle stagioni, di toccare e essere toccati dal caldo del sole, dal vento. Possiamo nascere o rinascere nella natura. E questo l’ho dovuto fare per smettere di fumare. Ma anche per superare ferite ricevute da umani, che non sono sempre, o non sono ancora, ciò che nella natura è la realtà più gradevole... Grazie alla natura, ho riscoperto fonti di energia e autonomia, liberata dal bisogno di droga. Ho anche scoperto una felicità che non conoscevo. A questo proposito mi chiedo perché questa cultura della vita, questa educazione dei sensi, non siano insegnate nelle scuole, perlomeno in Occidente. In certe culture dell’Oriente, si insegna che ad ogni senso corrisponde una divinità. Il dio degli dei, quello che crea e ripara la vita è il Signor Vishnu, divinità legata al gusto. Ho sperimentato, io, a qual punto il gusto può salvare la vita: l’ho sperimentato grazie ad un anziano che mi ha fatto scoprire delle cose buone da mangiare. Prima di iniziare il pranzo o la cena, avevo sempre un pensiero per questo anAnimazione Sociale ziano, ormai morto, a cui devo tanto. Avevo anche, e l’ho ancora quando non dimentico, una qualche lode rivolta alla natura. Devo dire che sono diventata anche vegetariana, forse per due motivi. Il primo, conscio, è che non volevo rispondere, attraverso violenza, alla violenza che mi ero fatta a causa del mio lavoro per la liberazione della donna. Il secondo, meno conscio, imposto a me nel tempo in cui camminavo in montagna per recuperare energia e felicità, è probabilmente che la natura era realmente diventata la mia madre. Insegnare ai ragazzi, alle ragazze, a rispettare e coltivare il loro corpo in relazione con la natura sarebbe un cammino che conduce allo sbocciare dell’umano più di quanto non lo faccia la sottomissione a scienze astratte spesso senza grande utilità, più di quanto non lo faccia un’educazione che costringe i ragazzi a diventare dipendenti da conoscenze di fatto tossiche nella misura in cui tagliano la mente dal corpo, e perché sono artificialmente neutrali, senza cura della vita relazionale. Come lo sono peraltro queste pillole di ecstasy, tutte e due, la cultura e la pillola, portatrici di morte più che di vita, rubatrici di energia e di felicità. La condivisione del desiderio con l’altro/a. Ma vorrei tornare un po’ alla mia tossicodipendenza, non per sovraccaricarvi del mio io ma perché considero che, per parlare della malattia degli altri e di una possibilità di aprire per loro un cammino di guarigione, bisogna prima riconoscere i propri sintomi ed essere capaci di curarli. Non possiamo imporre un mezzo di guarigione, tutt’al più possiamo trasmettere un’esperienza in un modo concreto per aprire delle strade verso la guarigione. Penso che la nostra cultura soffra di mentalismo. Non vale la pena di sottoporre qualcuno che non è capace di difendersi all’ultimo frutto del nostro mentalismo, che sia una pillola da sostituire con un’altra, o una tecnica psicologica che farebbe miracoli. A chi è dipendente conviene offrire un mezzo per uscire da ogni dipendenza. E dobbiamo tornare noi stessi alla fonte della nostra autonomia, sia vitale sia spirituale, prima di proporre un qualsiasi rimedio. 2000 Febbraio 13 S T U D I Torno dunque due minuti alla mia tossicodipendenza per aggiungere una cosa che mi sembra decisiva. Avevo superato in gran parte la battaglia, non completamente. Ero stanca e scoraggiata di misurarmi con una sigaretta qualsiasi, della mia marca preferita o di un’altra, forte o leggera, indiana o francese, bionda o bruna, realmente composta con tabacco o con altre foglie. Tutte queste strategie non servivano a un granché. Sono allora andata nel Sud della Francia per incontrare il mio insegnante di yoga, quello che mi aveva fatto scoprire che cosa significa respirare. Lo facevo ogni tanto per cambiare la pratica. Avevo il pacchetto di sigarette in tasca come sempre: ho condotto la battaglia così e solo da poco non ho più sigarette in casa. Non ho parlato al mio insegnante di questa fatica ma, a partire da quell’incontro, non ho mai più toccato una sigaretta. Come capire questo piccolo, o grande, miracolo? Secondo me è dovuto al fatto che tra questo insegnante e me nasceva e circolava molta energia, un’energia fatta da un respiro che si trasforma dal soffio della sopravvivenza in soffio legato al cuore in quanto sentimenti, all’ascolto, alla parola, cioè in soffio disponibile per lo scambio con l’altro, per l’amore, per un desiderare con l’altro in un modo che supera l’istinto da soddisfare per raggiungere un gesto che, secondo me, corrisponde al compimento dell’umanità. Essere umano forse non corrisponde ad altro che a poter passare da istinti solitari da soddisfare a un desiderio condiviso. Ho detto desiderio, e non ho fatto allusione all’amore fra madre o padre e figli spesso dato come modello insuperabile dell’umanità. Di questo amore genealogico, anzitutto legato alla naturalità, sono capaci anche gli animali. Invece non sono capaci di trasformare l’istinto, compreso quello legato alla riproduzione, in desiderio che si sostiene con l’altro, cosa che suppone l’autonomia di tutti e due, e che non vuole né mangiare, né dominare, né possedere l’altro perché ciò distrugge la felicità del desiderio condiviso. Il desiderio così inteso è risveglio e trasformazione dell’energia. L’energia che era de14 Febbraio 2000 dicata alla sopravvivenza, che rimaneva al livello dei bisogni legati alla vitalità elementare, ormai sale fino al cuore, all’ascolto, alla parola, e così aumenta, cresce. Abbiamo allora risorse più grandi, propriamente umane, a condizione di non paralizzarle attraverso ciò che ho chiamato il mentalismo. L’energia inoltre diviene mezzo di comunicazione con l’altro, gli altri, e così cresce ancora di più perché si unisce con l’energia dell’altro, dell’altra. È proprio questo che mi ha permesso di lasciare definitivamente la sigaretta. Di lasciare la droga. Attraverso un tale processo, passiamo di fatto dalla semplice naturalità alla soprannaturalità, e questo passaggio lo possiamo chiamare il diventare umani, l’accedere all’energia umana. Non siamo umani finché non siamo capaci di utilizzare la vita per cose altre che non la sola sopravvivenza, finché non siamo capaci di essere in relazione di desiderio con l’altro e di costruire una cultura basata sul desiderio. Siamo allora passati dal bisogno dell’altro — infantile, istintivo, patologico — al desiderio per l’altro, il che significa un desiderare con l’altro/a. Il desiderio esiste soltanto fra le persone, fra due soggetti. Invece l’istinto, che assomiglia al bisogno di droga, rimane solitario e riduce l’altro/a a un qualcosa da mangiare, da dominare, da possedere. Ma, dopo questo consumo o appropriazione, accade la diminuzione dell’energia, la depressione, una sorta di morte. Così Freud, ma anche Sartre, hanno descritto ciò che provano gli amanti, anzitutto l’uomo, dopo l’atto carnale. Ma parlano di quest’ultimo come possesso dell’uno, anzitutto dell’una, da parte dell’altro, e non come scambio fra due esseri umani. Non abbiamo considerato abbastanza il desiderio come una fonte di energia indispensabile per il divenire e lo sbocciare dell’umanità. Abbiamo pensato che il desiderio è una cosa secondaria, che esso corrisponde a un sogno di bambino o di adolescente, a meno che non sia il cammino indispensabile verso la riproduzione. Abbiamo fatto una confusione fra istinto e desiderio: solo il secondo è realmente umano, legato al corpo e alAnimazione Sociale S T U D I l’anima. Svalutando il desiderio, abbiamo svalutato la stessa umanità. È questa la colpa dell’Occidente, ed è prima di tutto contro la stessa umanità. È possibile d’altronde interpretare così il mito del paradiso terrestre, un mito fondatore nella nostra tradizione: perché voler rubare a Dio il suo sapere al posto di coltivare la relazione fra di noi, uomini e donne. Non era questa forse la richiesta divina? Ma torniamo a noi, pensando che se un qualsiasi Dio esiste, Lui non può volere la nostra decadenza, il nostro ricadere dal desiderio nell’istinto, dall’umanità all’animalità. Non lo può volere perché non avremmo allora l’energia disponibile per solo immaginare che Lui possa esistere. Come educare il desiderio Vorrei dunque tornare a noi bambini/e per interrogare il fatto che il desiderio ci dà così poco di energia che non possiamo portare avanti il divenire dell’umanità, che regrediamo al bisogno, fra l’altro di droghe. La nostra memoria è una grande fabbricatrice di eventi più o meno finti. Ho dunque preferito andare a scuola per ascoltare come i ragazzi e le ragazze parlano di loro e fra di loro. Il bisogno non richiede la parola, il desiderio sì. Per ciò, se ho organizzato molti incontri in Emilia Romagna o altrove attorno alla differenza di genere e al desiderio fra i sessi, la mediazione o il medium dell’incontro è sempre stato la parola. Era inoltre necessario fare così per non violentare nessuno e rispettare le regole elementari dell’istruzione. Dopo aver chiesto a ragazzi di diverse età che cosa sapevano sull’identità sessuata, dopo aver ascoltato da parte loro le cose imparate a scuola sugli organi genitali della riproduzione, e qualche discorso sui capelli più lunghi o più corti, sul romanticismo della ragazza rispetto alla violenza del ragazzo, ho proposto loro di vedere se non esistano altre specificità proprie del ragazzo da una parte e della ragazza da un’altra. Animazione Sociale Ho fatto comporre a loro frasi a partire da parole che implicavano tutte una relazione-fra. Per esempio: componete una frase — bella, creativa, personale — a partire dalla parola «io», «tu», «con», «insieme», «amare», «desiderare», «condividere», ma anche a partire dalle parole «io…tu», «io…lui», «io…lei», «io dico a lui», «io dico a lei», «lei…lui», ecc. Le frasi erano scritte una per una su un foglio senza nessuna indicazione di nome o cognome per non violentare l’intimità di nessuno. Dopo un certo tempo di un simile esercizio mandavo alla lavagna, due per due, tre ragazzi e tre ragazze che scrivevano la loro frase composta a partire da una parola indicata. Facevo allora riflettere il gruppo sulle differenze fra le frasi dei ragazzi e quelle delle ragazze. E devo dire che spesso i ragazzi sono molto più bravi degli adulti per trovare le differenze perché si vogliono bene e vogliono imparare a vivere insieme, perché non soffrono troppo di mentalismo o di ideologia, per lo meno i più piccoli. A Parma, ragazze e ragazzi di una quarta elementare. Vi comunico alcune frasi composte da ragazzi e ragazze di circa otto anni tratte dal Rapporto al Progetto di formazione alla cittadinanza per ragazze e ragazzi, per donne e uomini. Se prendo le prime risposte ottenute a diverse consegne da parte di ragazze e ragazzi di una quarta elementare trovo le contrapposizioni seguenti: «io»: la ragazza: Io amo Dilan; il ragazzo: Io amo il baseball. «tu»: la ragazza: Tu ami Gian Michele; il ragazzo: Tu odi le femmine. «io…te»: la ragazza: Io e te abbiamo gli stessi gusti; il ragazzo: Io odio te. «io…lui»: la ragazza: Io e lui ci amiamo; il ragazzo: Io e lui giochiamo con il Game Far. «io…lei»: la ragazza: Io e lei amiamo lo stesso ragazzo; il ragazzo: Io e lei ci odiamo. «con»: la ragazza: Con Marco io parlo; 2000 Febbraio 15 S T U D I il ragazzo: Con la mazza batto la palla, o: Con lui gioco a basketball. «insieme»: la ragazza: Insieme a Marco facciamo un figlio; il ragazzo: Insieme a loro gioco sempre. «amare»: la ragazza: Io amo Dilan alla follia; il ragazzo: Io amo il basketball. «condividere»: la ragazza: Io condivido con Dilan anche se non l’ho mai conosciuto veramente; il ragazzo: Io condivido il computer con mia mamma. Come si vede, il dialogo non sarà facile tra ragazza/e e ragazzo/i! Senza una presa di coscienza della diversità nel modo di parlare e una ricerca delle vie per condividere la parola, il soggetto femminile e il soggetto maschile resteranno a livello del mangiare insieme, dell’andare a letto, fare l’amore o un figlio insieme. Ma, questo, gli animali lo fanno come noi, talvolta meglio! Per la condivisione della parola, gesto che segnerebbe l’accesso all’identità umana, mancano tuttora i mezzi per scambiare soggettivamente fra noi, donne e uomini, senza fermarci a livello dei bisogni e necessità della vitalità elementare. L’istruzione per secoli ha provato a negare e annullare il problema con un insegnamento che neutralizza il desiderio, cioè la soggettività umana in quanto tale. Capirlo e modificare i modi di educare dovrebbe essere un compito della nostra epoca. Questo compito è tanto più utile in quanto, come ormai sappiamo, la cultura non è realmente neutra ma adatta a una soggettività maschile, anche se in modo incompiuto. Così le strategie educative favoriscono il molteplice a scapito del due, lasciato fuori dalla cultura, talvolta censurato per motivi sessuali. Il «due» significherà ormai per i/le ragazzi/e il desiderio e l’amore dei quali non si parla in classe, che corrispondono solo all’istinto, talvolta aggressivo, alla vita privata che deve nascondere una rimanente istintività. Non è considerato il «due» come la base dell’ordine sociale, della comunità civile; esso non è coltivato in quanto tale. Non è rispettato neanche come dimensione privilegiata della soggettività femminile. I metodi usati nell’istruzione privilegiano 16 Febbraio 2000 anche i rapporti con l’oggetto, materiale o mentale, la relazione fra simili, la verticalità a scapito dell’orizzontalità. Queste scelte sono appropriate a una soggettività maschile ma non a una soggettività femminile, che preferisce i rapporti fra soggetti, le relazioni nella diversità, l’orizzontalità. Il ragazzo riceve dunque a scuola un’educazione che rinforza i suoi stereotipi soggettivi, in parte fondati su una difficoltà ad entrare in relazione con l’altro, anzitutto con l’altra. La ragazza invece non trova nell’istruzione, come si esercita tuttora, mezzi per sviluppare le proprie qualità. Le è piuttosto proposto come cammino di cultura di diventare un maschio. A Casalmaggiore, ragazze e ragazzi dalla terza elementare al liceo classico e all’ITIS. Ho dato anche compiti diversi a ragazze e ragazzi appartenenti a un’altra campionatura: le diverse scuole di Casalmaggiore. Per esempio: – inventare un dialogo fra lui e lei; – inventare una storia, indicando prima quale sarebbe l’eroe principale; – scrivere un biglietto a lui o a lei, incrociando i sessi, per invitarlo/a a fare qualcosa insieme che potrebbe piacere a tutti e due; – dopo aver chiesto di fare un disegno «libero», ho talvolta chiesto di fare un disegno da regalare a lui o a lei, incrociando anche qui i sessi. Ecc. A partire dal materiale raccolto ho composto il libro Chi sono io? Chi sei tu? (1). In questo libro, si possono seguire i ragazzi e le ragazze dalla terza elementare al liceo classico (quarta ginnasio) e all’ITIS (seconda), cioè dall’età di 7-8 anni all’età di 17 anni. Si può constatare che i ragazzi più piccoli sono i più vivaci, i più desti, i più felici. Parlano semplicemente del loro desiderio. Ma siccome nessuno ascolta con serietà le loro parole, che la maggior parte considera che non sanno cosa dicono, questo discorso, decisivo per il loro divenire, non è colto, è di fatto represso, perché non si propongono a loro mediazioni per esprimersi e dire all’altro/a ciò che provano. (1) Chi sono io? Chi sei tu?, Biblioteca di Casalmaggiore, marzo 1999. Le storie che seguono sono tratte da questo libro. Animazione Sociale S T U D I Si verifica allora che il fascino vivo e reale, eppure ingenuo e direi verginale, dei più piccoli si trasforma in sofferenza, aggressività, violenza, mutismo o riso di derisione nei più grandi. Parole di ragazzi È vero soprattutto per i ragazzi, che provano maggiore difficoltà per entrare nella vita relazionale. Per scusarli si pretende che siano più timidi. Sono anzitutto nudi, senza parola — né per loro stessi né per l’altro, anzitutto l’altra — rispetto a un sesso sopravalutato di cui non sanno che fare. Sono soli con questo problema, soli e infelici. Vivono incubi solitari, come si legge nelle storie che ho chiesto di inventare a ragazzi di una prima media. relazionale. Se non c’è solo la solitudine, in compagnia di fantasmi, talvolta di animali. Ma questo non sembra portare felicità ai ragazzi. Quando si chiede ai ragazzi di 11 anni di immaginare un dialogo fra un uomo e una donna che sarebbero i soli abitanti della terra, all’inizio del nostro mondo o di un mondo nuovo, scrivono le parole seguenti: Il dialogo fra l’uomo e la donna è ancora lontano e io penso che si parleranno gesticolando. Il dialogo non può iniziare subito ma in seguito. Il dialogo fra loro non potrà iniziare finché tutti e due sappiano parlare. Inizierà appunto così il dialogo fra lui e lei: questa prima parola la dirà a Eva perché lei era l’unica persona a cui lui si poteva confidare. Il dialogo è anche immaginato come il fatto di mangiare insieme: Mangiamo insieme qualche banana o qualche pera. Il personaggio principale è Antonino Quaccio Mele. «Allora, c’era una volta Quaccio Mele che voleva raccogliere mele, ma mentre le raccoglieva un ragno velenoso lo morse e lui si ammalò, andò all’ospedale e l’operarono. Quando uscì dall’ospedale, manda il fratellino Sbirulino a raccogliere mele, ma lui non se ne accorse e si mangia anche il verme velenoso che c’era dentro. La mamma lo porta all’ospedale, ma era troppo tardi. Poveretto, morì. Così finisce la storia». Il personaggio principale è Billy. «Billy appena tornato da scuola andò verso casa. Doveva attraversare un campo; vide una casa grande e bianca, che ieri non c’era. Si avvicinò, entrò e vide un grande atrio con degli affreschi sul soffitto, delle grandi scale di marmo. Le salì e vide quattro porte. Aprì la terza ed era una stanza vuota. Allora decise di uscire, ma i muri oscillarono». Le storie scritte dai ragazzi di una prima media — ma è vero anche per i ragazzi di una terza media — testimoniano del fatto che il ragazzo vive solo, in un mondo di fantasmi in cui prevalgono la malattia, la morte, la magia a cui si aggiungono, per i più grandi, la competizione, la gara, la guerra. Che nel mondo di questi ragazzi non c’è posto per la ragazza, la donna. Talvolta uno dei più piccoli allude alla madre o a una strega, uno dei più grandi alla dea Era, la nemica dell’eroe, che cerca di ucciderlo tramite la moglie. Per il resto non c’è traccia di donna, del mondo femminile. L’universo dei ragazzi appare omo-sessuale, nel senso che si svolge fra maschi quando esiste un po’ di vita Animazione Sociale Nei biglietti che scrivono i maschi, da 11 fino a 17 anni, per invitare una ragazza a fare qualcosa insieme, si tratta il più delle volte di andare a mangiare insieme… la pizza, e questo appare come una certa regressione rispetto al discorso dei più piccoli. Ecco, dunque alcuni caratteri del mondo relazionale del ragazzo. Potrei sottolineare anche il loro modo di usare il «tu», la loro incapacità di dare del «tu», almeno a livello simbolico, a una ragazza o a una donna, e la sopravalutazione da parte loro dell’«io» a scapito del «tu». Potrei dire tante cose che potreste scoprire leggendo il libro Chi sono io? Chi sei tu?. Parole di ragazze Per ora vediamo un po’ com’è l’universo relazionale della ragazza. È molto diverso. C’è poco ripiegamento su di sé, perlomeno a questa età. Non c’è sopravvalutazione dell’«io» ma piuttosto del «tu». C’è una ricchezza linguistica e artistica straordinaria. Ci sono prove irrefutabili di capacità creative legate a una vita relazionale più sviluppata. C’è gioia, felicità, amore e un’aspettativa molto forte nei confronti del ragazzo, di cui lui rimane del tutto inconscio. 2000 Febbraio 17 S T U D I Ne ho fatto la prova in una terza media. Ho voluto stimolare la creatività dei maschi sottolineando loro la bellezza dei disegni delle ragazze realizzati per un amico. La loro risposta è stata che l’affetto o l’amore che ha ispirato questi disegni non è rivolto a loro! Non sono stati capaci di una simile ispirazione ma non vogliono o non possono nemmeno riconoscere e accogliere l’amore di cui testimoniano i disegni delle ragazze. Vediamo in quali termini una ragazza scrive a un ragazzo per invitarlo a fare qualcosa insieme. Caro Daniele, da quando ti ho rivisto, i miei occhi si illuminarono di gioia come il sole e la luna illuminano la terra. Sulla terra, le piante sono assetate di acqua mentre io sono assetata del tuo amore. E questo penso che basti a farti capire quanto è grande il mio amore per te, e ti dico che questo basta per fare nascere una anima folle: la mia. Nel mio mondo c’è posto per solo due stelle: noi due. Amami Daniele, non te ne pentirai. A presto (nome) Ciao Alessandro, questa volta, sono io che ti propongo di andare a fare una passeggiata. Quando sto con te mi sento sicura. È così piacevole sentire la tua mano che sfiora la mia, ascoltarti quando sussurri quelle dolci e profonde parole che per qualcuno possono sembrare sciocchezze. Ma a me non importa perché basta soltanto ascoltare la tua voce. Accetta, perché potremo stare insieme, ad ascoltare il vento che ci accarezza il viso, e il rumore dell’acqua che scivola via. Ti voglio bene. Potete già paragonare mentalmente queste lettere con i racconti riprodotti prima. E loro, i maschi, che cosa scrivono alla ragazza? Cara X, ti chiedo gentilmente di venire con me al cinema, dopo di che andremo a mangiare la pizza. Se non volessi è lo stesso, per me è solo un modo per conoscerti meglio. Cara Tizia, vuoi venire in pizzeria con me e poi venire al cinema fino all’una? Con affetto. (nome e cognome) Ciao! Perché non andiamo al cinema questa sera? Danno un bel film su una storia paurosa. Vuoi venire? per di più con il suo aiuto, la sua complicità. Questa creatività e questa aspirazione relazionale rivolta a un «tu», si manifesta anche negli enunciati scritti dalle ragazze a partire dalla parola «tu» data come consegna per comporre una frase: Tu sei l’unica persona che riesce a farmi capire che cosa vorrebbe dire provare sentimenti per un’altra persona a cui si vuole bene. Mi ricordo che una volta ho avuto il coraggio di dire in faccia al ragazzo che amavo «Tu mi piaci molto». Da quel giorno non ho avuto il coraggio di guardarlo fino a quando ho capito che l’amore non aveva limiti. Tu per me sei una persona di cui mi posso fidare, per questo quando ho un problema mi rivolgo a te. Tu splendido come la luna che illumina la notte. Le frasi scritte dai ragazzi sono invece: Tu sei molto simpatico e gentile, ma le femmine ti odiano perché sei brutto. Tu mi piaci molto. Tu ti credi di essere chissà chi… Tu sei più bravo di noi. Mentre lei dà molto, troppo direi, al «tu», lui si prende tutto per lui. Un ragazzo dice molto raramente: ti amo, amo te, cioè amo un «tu». Lui dirà piuttosto: mi piace. Ciò significa che il «tu» diviene occasione o oggetto di un piacere per l’«io» piuttosto che soggetto rispettato come un «tu», come un altro, a cui si dà amore. Fra l’altro si constata che se il ragazzo può dare del «tu» a un simile, lui prova difficoltà a dare del «tu» a un diverso salvo per farlo, anzitutto farla, ricadere nella naturalità del suo primo rapporto con la madre, cioè in una relazione di dipendenza, di assoggettamento, di inferiorità, che suppone qualche rovesciamento. Cara… voglio proporti di uscire con me stasera. Ci vediamo alla pizzeria «Mongolfiera» alle ore 8,30. Vedrai ci «divertiremo». Le droghe, ricorso contro un desiderio deluso Non si può sostenere ancora più a lungo che la differenza sessuale non esiste, nemmeno che essa si riduce a stereotipi che si devono superare per dare la libertà alle ragazze, alle donne. Perché questo incorre nel rischio di togliere alla ragazza la fonte della sua creatività, Che ne risulta per la relazione fra maschio e femmina? La ragazza molto più portata alla relazione con un altro soggetto, più portata a dire «tu» che «io», ad amare e desiderare l’altro, proietta tutto il suo desiderio sul ragazzo, che non può corrispondere a ciò che lei aspet- 18 Febbraio 2000 Animazione Sociale S T U D I ta da lui. Ne risulta delusione, ripiegamento su di sé, trasformazione del desiderio per lui in sentimenti materni o generosità sociale di tipo matriarcale, ne risulta anche l’amarezza, la critica dell’altro, la disperazione, e il ricorrere a qualche pillola. Per le donne, neurolettici e psicotropi sono più usati che droghe proibite. Ma talvolta consumano droghe dure in un modo più distruttivo ancora di quanto non facciano i maschi. Ora il ragazzo era incapace di rendere alla ragazza l’amore dedicato a lui, a cui d’altronde lui non crede. Più centrato sull’«io», anche in modo difensivo, cioè incarcerato in un proprio mondo perché la relazione con l’altro, anzitutto con l’altra, è più difficile da realizzare per lui, il ragazzo, più bambino di quanto non lo sia lei, aspetta gesti materni da parte di lei, li aspetta e li rigetta, insieme. Aspetta da lei aiuto per poter crescere nella vita relazionale. Non sa come fare ma non lo può confessare nemmeno riconoscere perché a lui è stato detto: tu sei il re, tu sei un uomo, a te va il desiderio dell’umanità. Ma lui sta sopra un vuoto e, più si dà a lui di potenza o di potere, più si sente di fatto impotente. Lui si prende una pillola piuttosto di genere viagra, o le droghe più o meno dure, fra l’altro per superare la paura di entrare in relazione con gli altri, anzitutto con qualche «lei». Il malinteso rimane totale o quasi. E lo resterà fino al momento in cui non esisterà una presa di coscienza di un’identità di genere, che non si riduca a una realtà biologica né a uno statuto sociale, e un’educazione a dialogare nella differenza. In mancanza di un simile progresso nel compimento dell’umanità, donne e uomini faranno ricorso a droghe, lecite o proibite, per sopportare la perdita di energia e la depressione che risultano da un desiderio deluso. Del resto, il modo in cui funziona l’attrazione sessuale nella nostra cultura assomiglia a una droga. Quelli che ne fanno commercio lo sanno! Ma non si tratta più di desiderare con l’altro/a… Non siamo stati abbastanza attenti al fatto che il desiderio nasce nella differenza e che la Animazione Sociale differenza deve essere mantenuta per mantenere il desiderio: non una differenza solamente di corpo ma di soggettività. Di fatto la differenza fra i generi è prima di tutto relazionale e l’attrazione, il fascino fra i sessi si origina in questa differenza relazionale. Se essa è trascurata, ricadiamo nell’istinto, nell’animalità e ci sfugge la felicità perché non lavoriamo a uno sbocciare dell’energia legata alla relazione fra umani. Come ci ha insegnato una cultura tuttora nostra, il linguaggio serve a comunicare fra simili, di fatto fra maschi di una certa tradizione. Per condividere nella differenza, ci manca ancora la parola, il discorso. Senza rimediare a questa carenza, rimarremo per sempre sessisti, razzisti, nazionalisti. Rimarremo legati alla convivenza naturale e a un conformismo piuttosto superficiale fra medesimi, come si osserva spesso nei rapporti fra maschi. C’è la gara, la competizione o un formalismo alquanto freddo senza grande contenuto. Rimarremo allora anche infelici, un po’ animali e un po’ umani, lacerati fra queste due condizioni senza raggiungere la condivisione dell’amore e del desiderio fra differenti che corrisponde, mi pare, al compimento e alla gioia più decisivi per l’umanità, fonte di energia che rende inutile e irrisorio il ricorso ad ogni sorta di droga. In attesa di questa scoperta o riscoperta, siamo quasi tutti e tutte drogati in un modo o in un altro. E sembra che poco a poco nella nostra società il senso della realtà ormai stia sfumando, si perda. Siamo allo stesso tempo elettrizzati e depressi, mai al giusto livello, cioè in noi stessi, dinamici ma tranquilli, pacati. Abbiamo perso quasi tutti e tutte il controllo su noi stessi, peggio non abbiamo più nessun «noi stessi», viviamo fuori da noi, fuori di noi. Siamo ormai in una sorta di follia collettiva in cui quasi nessuno risponde di sé, della sua parola, di una certa continuità fra ieri, oggi e domani in cui si può affidare, su cui un altro si può appoggiare. Questo è peggiorato dal fatto che c’è ormai una confusione fra comunicare informazioni e comunicare fra noi. Mai si è così tanto par2000 Febbraio 19 S T U D I lato di comunicazione, mai abbiamo così poco comunicato fra di noi. Parliamo delle ultime informazioni ascoltate alla radio, guardate in televisione, lette sul giornale senza parlare di noi, anzitutto fra noi, o così poco… È un altro modo di stare fuori da sé e non in sé. Sempre più spesso si incontrano per strada delle persone che parlano da sole. Forse rispondono ad un giornalista che hanno ascoltato e a cui non hanno avuto l’occasione di dire il loro parere. Dialogano — se si può dire… — a distanza, al massimo con un telefonino, il più delle volte senza. Di fatto parlano a se stesse perché manca loro la possibilità di dialogare. Alcuni anni fa, chi si comportava così era condotto all’ospedale in psichiatria. Ormai sembra diventato quasi una norma. Quelli che così parlano da soli per strada sono sia giovani che quadri dinamici che corrono verso il loro convegno, o anche qualche anziano, ma questi non rappresentano la maggior parte. Talvolta aggiungono i gesti alla parola, così come fossero in conversazione con qualcuno che non c’è, che non esiste forse, con passione, convinzione. Ma se vedete, d’altra parte, due o tre persone che stanno insieme parlando, si può constatare che non si ascoltano fra loro, che si tagliano la parola, che ciascuno/a si serve dell’altro per dire le sue cose, senza ascoltare, senza iniziare e soprattutto proseguire un dialogo. Ciascuno/a rimane nella sua solitudine, un po’ triste, diffidente e aggressivo. Nella solitudine, si usano droghe, e si consumano anche per superare la solitudine. Ma esse non procurano né energia né felicità, che nascono anzitutto dalla condivisione con l’altro/a: condivisione di desiderio che necessita un linguaggio appropriato. Abbiamo imparato a utilizzare la parola come uno strumento per procurarci delle cose: naturali o spirituali, e persino per fare ricadere un partner sessuale dal desiderio nell’istinto. Siamo quasi ancora al livello della scimmia che si serve di un bastone per acchiappare una banana, talvolta a un livello inferiore. Non abbiamo raggiunto la capacità di comunicare fra noi, cioè di usare il linguaggio per scambiare in un modo che non sia direttamente sottoposto a bisogni. 20 Febbraio 2000 Per prevenire il ricorrere alle droghe o per curarlo, è necessario scoprire o riscoprire il nostro desiderio e la via per scambiarlo, sostenerlo, farlo crescere e sbocciare. Ma oggi sembra che l’umanità sia in qualche modo già al passato. A chi tenta di aprire un futuro più vivibile, più felice, subito si dà dell’utopista. Chi si preoccupa ancora di un divenire migliore per l’umano è rimandato alla realtà descritta da sociologi, agli ultimi sondaggi trasmessi dai media. È ormai in qualche modo vietato di immaginare e costruire un futuro: dobbiamo soltanto sottoporci a un presente interpretato da alcune persone attraverso la loro ideologia, conscia o inconscia. Dobbiamo pure rimuginare il passato, anzitutto quello drammatico, ma non ideare né lavorare all’elaborazione di un avvenire che si sottrae a nuove tragedie prevedibili. Non è più permesso sognare nemmeno pensare, cosa che corrisponde al fatto di rinunciare ad essere umani. È normale allora che i ragazzi, gli adolescenti vogliano sfuggire a questo mondo rinchiuso in una disperazione passiva ma repressiva. È un segno di salute da parte loro voler scappare all’universo infelice che è offerto loro come solo futuro possibile. Diventano così nomadi, o viaggiano in loro stessi grazie a droghe. Affermano, in una maniera o in un’altra, che il sogno fa parte dell’umano. Come rimproverare questo a loro? Se il divenire dell’umanità è ormai assimilato a un’utopia, si capisce che i ragazzi e gli adolescenti non abbiano più voglia né coraggio per crescere. Ma la responsabilità incombe su chi limita l’essere umano a un racconto del passato o una descrizione del presente, vietando così ai giovani di inventarsi un avvenire più desiderabile di quanto non sia stato il nostro. Relazione tenuta al convegno La differenza di genere nell’approccio alle dipendenze patologiche: quali prospettive? (Modena, 3-4 dicembre ’99), organizzato dal CEIS di Modena e dalla cooperativa sociale «Il Sorriso» di Fontanelice (Bologna). Luce Irigaray - direttrice di ricerca in filosofia al CNRS di Parigi. Recapito: 15, rue Lakanal 75015 Paris - tel. (0033) 1-48425620. Animazione Sociale